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mercoledì 26 maggio 2010

L'estorsione nei rapporti familiari

Estorsione nei confronti di coniuge separato (Cass. pen., n. 15111/2010)


G. Dingeo (Nota a sentenza 25/5/2010)



Cass. pen., sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111

Con questa sentenza la Corte si occupa di un problema particolare. Ci si domanda infatti se può essere accusato del reato di estorsione il coniuge, proprietario della casa coniugale che in sede di separazione e divorzio venga affidata all'altro coniuge, che, con minacce di morte, lo costringa a trasferirsi altrove.

I fatti sono i seguenti. Tizio veniva condannato dal GUP per il reato di estorsione, per aver costretto, con minacce di morte e altre violenze, la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale e a trasferirsi altrove.

Detta casa era di proprietà dei familiari di Tizio.

Tizio ricorreva alla Corte d'appello che confermava la sentenza.

Pertanto, insoddisfatto, adiva il giudice di legittimità con tre distinti motivi di censura.

Col primo, lamentava la mancanza dell'elemento dell'ingiusto profitto, elemento qualificante del reato ascrittogli, perché l'abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l'intenzione di trasferirsi altrove.

Col secondo, sosteneva che le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.

Con l'ultimo, affermava che, tutt' al più, era ravvisabile, nella sua condotta, il reato di cui all'art. 393 c.p. ( ovvero esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) in quanto egli avrebbe potuto adire il giudice per ottenere l'immobile che era, in pratica, di sua proprietà.

Pertanto chiedeva l'annullamento della sentenza d'appello.

In questa sentenza vengono in considerazione i seguenti articoli. Innanzitutto l'art. 393 (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone): Chiunque, al fine indicato nell'articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell'offeso, con la reclusione fino a un anno.

Se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a euro 206.
La pena è aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi.
Viene poi in considerazione l'articolo 629 ( Estorsione): Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad ammettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.

La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.

Il Gup aveva riconosciuto la sussistenza del reato a causa dell'ingiusto profitto tratto dall'imputato Tizio che, con l'uso di violenze e minacce di morte, aveva costretto la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale che il giudice divorzile le aveva affidato, pur essendo, in pratica, di lui la proprietà dell'immobile.

I giudici della corte territoriale, in secondo grado di giudizio, decretavano l'irricevibilità della richiesta di ribaltare la sentenza, confermandola pienamente.

La cassazione respinge il ricorso, qualificandolo manifestamente infondato.

Anzitutto, i giudici di legittimità sgombrano il campo dal primo dubbio sollevato dall'odierno ricorrente, affermando che la sua ex moglie non aveva alcuna intenzione di abbandonare la casa coniugale a lei affidata in sede di separazione e divorzio. Ma vi era stata costretta dalle violenze e minacce di morte di Tizio, come chiaramente emerso anche grazie a diverse prove testimoniali acquisite in primo grado di giudizio.

Né l'odierno ricorrente adduce elementi a suffragio della tesi dell'abbandono volontario dell'immobile da parte della sua ex moglie, limitandosi ad una generica affermazione.

In relazione all'elemento del giusto profitto, esso chiaramente sussiste.

La casa era stata affidata a sua moglie, per quanto di proprietà dei familiari di lui, e dunque non era nella disponibilità dell'uomo.

Tizio, come risultato finale della sua condotta criminosa, cioè estorsiva, ha tratto ingiusto profitto, cagionando, aggiungiamo noi, un grave danno alla sua ex moglie, che, evidentemente, ha dovuto cercare un'altra casa con tutti i costi a ciò connessi (trasloco, locazione di altro immobile), magari aumentati dalla fretta con cui ha dovuto agire per sottrarsi alle violenze dell'ex marito.

Quanto all'ultima doglianza circa l'applicabilità dell'art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l'imputato poteva, in astratto, adire il giudice, ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate. E che, peraltro, possiamo aggiungere, nemmeno ci sono, poiché Tizio non poteva esercitare arbitrariamente le proprie ragioni, in quanto, giuridicamente, egli non ne aveva.

La casa era stata affidata dal giudice del divorzio a sua moglie.

La pretesa del marito di ritornarvi in possesso era del tutto giuridicamente infondata.

Dunque, non aveva ragione alcuna da esercitare, sia pur arbitrariamente (art. 393 c.p.).
Pertanto, correttamente, la sez. II penale della Corte di Cassazione respinge il ricorso, confermando la sentenza impugnata e condannando, altresì, Tizio al pagamento, a favore della Cassa delle ammende, della somma di mille Euro, equitativamente fissata in ragione di chiari profili di colpa del ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
Dott.ssa Giacomina Dingeo


L'estorsione nei rapporti familiari

Estorsione nei confronti di coniuge separato (Cass. pen., n. 15111/2010)

G. Dingeo (Nota a sentenza 25/5/2010)

Cass. pen., sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111
Con questa sentenza la Corte si occupa di un problema particolare. Ci si domanda infatti se può essere accusato del reato di estorsione il coniuge, proprietario della casa coniugale che in sede di separazione e divorzio venga affidata all'altro coniuge, che, con minacce di morte, lo costringa a trasferirsi altrove.
I fatti sono i seguenti. Tizio veniva condannato dal GUP per il reato di estorsione, per aver costretto, con minacce di morte e altre violenze, la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale e a trasferirsi altrove.
Detta casa era di proprietà dei familiari di Tizio.
Tizio ricorreva alla Corte d'appello che confermava la sentenza.
Pertanto, insoddisfatto, adiva il giudice di legittimità con tre distinti motivi di censura.
Col primo, lamentava la mancanza dell'elemento dell'ingiusto profitto, elemento qualificante del reato ascrittogli, perché l'abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l'intenzione di trasferirsi altrove.
Col secondo, sosteneva che le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.
Con l'ultimo, affermava che, tutt' al più, era ravvisabile, nella sua condotta, il reato di cui all'art. 393 c.p. ( ovvero esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) in quanto egli avrebbe potuto adire il giudice per ottenere l'immobile che era, in pratica, di sua proprietà.
Pertanto chiedeva l'annullamento della sentenza d'appello.
In questa sentenza vengono in considerazione i seguenti articoli. Innanzitutto l'art. 393 (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone): Chiunque, al fine indicato nell'articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell'offeso, con la reclusione fino a un anno.
Se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a euro 206.
La pena è aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi.
Viene poi in considerazione l'articolo 629 ( Estorsione): Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad ammettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.
La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.
Il Gup aveva riconosciuto la sussistenza del reato a causa dell'ingiusto profitto tratto dall'imputato Tizio che, con l'uso di violenze e minacce di morte, aveva costretto la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale che il giudice divorzile le aveva affidato, pur essendo, in pratica, di lui la proprietà dell'immobile.
I giudici della corte territoriale, in secondo grado di giudizio, decretavano l'irricevibilità della richiesta di ribaltare la sentenza, confermandola pienamente.
La cassazione respinge il ricorso, qualificandolo manifestamente infondato.
Anzitutto, i giudici di legittimità sgombrano il campo dal primo dubbio sollevato dall'odierno ricorrente, affermando che la sua ex moglie non aveva alcuna intenzione di abbandonare la casa coniugale a lei affidata in sede di separazione e divorzio. Ma vi era stata costretta dalle violenze e minacce di morte di Tizio, come chiaramente emerso anche grazie a diverse prove testimoniali acquisite in primo grado di giudizio.
Né l'odierno ricorrente adduce elementi a suffragio della tesi dell'abbandono volontario dell'immobile da parte della sua ex moglie, limitandosi ad una generica affermazione.
In relazione all'elemento del giusto profitto, esso chiaramente sussiste.
La casa era stata affidata a sua moglie, per quanto di proprietà dei familiari di lui, e dunque non era nella disponibilità dell'uomo.
Tizio, come risultato finale della sua condotta criminosa, cioè estorsiva, ha tratto ingiusto profitto, cagionando, aggiungiamo noi, un grave danno alla sua ex moglie, che, evidentemente, ha dovuto cercare un'altra casa con tutti i costi a ciò connessi (trasloco, locazione di altro immobile), magari aumentati dalla fretta con cui ha dovuto agire per sottrarsi alle violenze dell'ex marito.
Quanto all'ultima doglianza circa l'applicabilità dell'art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l'imputato poteva, in astratto, adire il giudice, ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate. E che, peraltro, possiamo aggiungere, nemmeno ci sono, poiché Tizio non poteva esercitare arbitrariamente le proprie ragioni, in quanto, giuridicamente, egli non ne aveva.
La casa era stata affidata dal giudice del divorzio a sua moglie.
La pretesa del marito di ritornarvi in possesso era del tutto giuridicamente infondata.
Dunque, non aveva ragione alcuna da esercitare, sia pur arbitrariamente (art. 393 c.p.).
Pertanto, correttamente, la sez. II penale della Corte di Cassazione respinge il ricorso, confermando la sentenza impugnata e condannando, altresì, Tizio al pagamento, a favore della Cassa delle ammende, della somma di mille Euro, equitativamente fissata in ragione di chiari profili di colpa del ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
Dott.ssa Giacomina Dingeo

domenica 20 dicembre 2009

Mancata corresponsione dell'assegno e inadempimento obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.)

Assistenza familiare, mancato versamento dell’assegno, accertamento







Cassazione penale , sez. VI, sentenza 09.11.2009 n° 42631













Il mancato versamento dell’assegno stabilito in sede di separazione personale dei coniugi, da parte dell’obbligato, di per sé solo non determina la configurabilità del reato previsto dall'art. 570, comma 2, c.p., in quanto è necessario che sia accertato se, in conseguenza di tale condotta, siano venuti a mancare in concreto al beneficiario i mezzi di sussistenza e se l’obbligato abbia una concreta capacità economica a fornire gli stessi. (1-2)













(*) Riferimenti normativi: art. 570, comma 2, c.p..





(1) In tema di mancato versamento dell’assegno per impossibilità economica dell’obbligato, si veda Cassazione penale, sez. VI, sentenza 31.10.2007 n° 40341.





(2) Per una visione generale del reato previsto dall’art. 570 c.p., si veda il Focus di Salemi: La violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.).













(Fonte: Altalex Massimario 43/2009)

































assistenza familiare

assegno

giudice penale

























SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE













SEZIONE VI PENALE













Sentenza 28 ottobre - 9 novembre 2009, n. 42631













Svolgimento del processo













Con sentenza in data 4-7-2003 il Tribunale di Torre Annunziata, Sezione Distaccata di Sorrento, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di M.S. in ordine al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti della moglie e del figlio minore V., perchè estinto per prescrizione.













Con sentenza in data 13-3-2007 la Corte di Appello di Napoli, in riforma di tale sentenza, ha dichiarato l'imputato colpevole del reato ascrittogli, limitatamente alla condotta in danno del coniuge separato L.R., e lo ha condannato alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 750,00 di multa, confermando nel resto la decisione di primo grado.













Il M., anche a mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, riproponendo con un primo motivo l'eccezione di inammissibilità dell'appello proposto dal Procuratore Generale. Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, la pronuncia di proscioglimento di primo grado era stata emessa prima della formale apertura del dibattimento e che, pertanto, la stessa, a norma dell'art. 469 c.p.p., era inappellabile.













Con un secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 580 c.p.p., art. 585 c.p.p., comma 4, artt. 591 e 603 c.p.p., in relazione all'ammissione della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale formulata dal P.G. Sostiene che, poichè le censure mosse dall'appellante erano circoscritte alla violazione di legge in cui era incorso il giudice di primo grado nel dichiarare una causa estintiva del reato in presenza di un reato contestato a condotta perdurante, la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria, non essendo collegata ad alcun motivo di impugnazione o censura nel merito, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile.













Con un terzo motivo il ricorrente denuncia l'erronea applicazione dell'art. 570 c.p., avendo la Corte di Appello correlato l'affermazione di responsabilità dell'imputato alla mera violazione degli obblighi posti a carico di quest'ultimo in favore della moglie nel giudizio civile, senza tener conto del fatto che la L. godeva di ulteriori mezzi di sussistenza e senza considerare che il M., dopo il suo licenziamento, non era in condizioni di adempiere ai propri obblighi.













Motivi della decisione













1) Il primo motivo di ricorso è infondato.













L'assunto del ricorrente, secondo cui in primo grado sarebbe stata emessa una sentenza predibattimentale, come tale non appellabile, ai sensi dell'art. 469 c.p.p., risulta smentito dalla lettura della sentenza emessa in pubblica udienza dal Tribunale di Torre Annunziata, Sezione Distaccata di Sorrento, nella quale si da atto che la decisione in questione - con la quale è stata rilevata, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 1, l'intervenuta prescrizione del reato -, è stata adottata "costituite le parti".













Orbene, come è stato puntualizzato da questa Corte, la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, pronunciata - sia pure su conforme richiesta del Pubblico Ministero e della difesa - in udienza pubblica dopo il controllo della costituzione delle parti, deve essere considerata come dibattimentale e, quindi, è soggetta ad appello (Cass. Sez. 4^, 28-11-2008 n. 48310; v. anche Cass. Sez. 2^, 17-11-2004 n. 48340).













2) Anche il secondo motivo è privo di fondamento, essendo evidente che le censure mosse con i motivi di appello in ordine alla declaratoria di prescrizione non erano fine a se stesse, ma miravano ad ottenere una pronuncia di merito sul reato ascritto all'imputato. E infatti il P.G., nel dedurre che, in considerazione della condotta perdurante ascritta al prevenuto, il Tribunale non poteva dichiarare il reato estinto per prescrizione, ha concluso espressamente per l'affermazione di responsabilità del M., previa "rinnovazione del dibattimento per l'esame dei testi di lista del P.M.”.













La Corte di Appello, pertanto, nell'accogliere l'istanza di rinnovazione del dibattimento, non è affatto incorsa nelle violazioni di legge denunziate dal ricorrente, ma ha fatto, anzi, corretta applicazione del disposto dell'art. 604 c.p.p., n. 6, il quale prevede espressamente che, "quando il giudice di primo grado ha dichiarato che il reato è estinto o che l'azione penale non poteva essere iniziata o proseguita, il giudice di appello, se riconosce erronea tale dichiarazione, ordina, occorrendo, la rinnovazione del dibattimento e decide nel merito". Questa Corte, d'altro canto, ha già avuto modo di rilevare che nel caso in cui il giudice di primo grado, in pubblica udienza e senza procedere ad istruttoria dibattimentale, abbia dichiarato, a norma dell'art. 129 c.p.p., non doversi procedere contro l'imputato, ed il pubblico ministero abbia proposto appello, chiedendo la condanna dell'imputato, previa - se del caso - l'assunzione delle prove ritualmente dedotte e non assunte dal giudice di prime cure, non merita censura l'ordinanza della Corte d'Appello che disponga la rinnovazione del dibattimento per l'assunzione delle prove richieste (Cass. Sez. 3^, 4-6-1993 n. 9726).













3) Appare invece meritevole di accoglimento, nei limiti di seguito precisati, il terzo motivo di ricorso.













Secondo il costante orientamento di questa Corte, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 570 c.p., comma 2, nell'ipotesi di mancata corresponsione da parte del coniuge obbligato al versamento dell'assegno stabilito in sede di separazione coniugale, il giudice penale deve accertare se, per effetto di tale condotta, siano venuti a mancare in concreto al beneficiario i mezzi di sussistenza; accertamento che è diverso e indipendente da quello compiuto dal giudice civile per la determinazione dell'assegno (Cass. Sez. 6^, 2/-10-2006 n. 40708). In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, infatti, non vi è interdipendenza tra il reato previsto dal citato art. 570 c.p., comma 2, e l'assegno liquidato dal giudice civile, in quanto l'illecito penale non ha carattere sanzionatorio dell'inadempimento del provvedimento del giudice civile che fissa l'entità dell'obbligazione, ma è rapportato unicamente alla sussistenza dello stato di bisogno dell'avente diritto alla somministrazione dei mezzi indispensabili per vivere e al mancato apprestamento di tali mezzi da parte di chi, per legge, vi è obbligato (Cass. Sez. 6^, 5-2-1998 n. 3450).













Ne consegue che, ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa in esame, è necessario l'accertamento, da parte del giudice penale, dell'effettivo stato di bisogno dell'avente diritto alla somministrazione dei mezzi di sussistenza, oltre che della concreta capacità economica dell'obbligato a fornirglieli.













Nel caso di specie, la Corte di Appello, nell'affermare la responsabilità penale del M. in ordine alla mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza alla moglie separata, ha rilevato che lo stato di bisogno della L. emerge dalla stessa entità dell'assegno di mantenimento, "stabilito dal giudice civile in misura appena sufficiente per le più elementari esigenze vitali, non soddisfabili attraverso fonti di reddito o patrimoniali diverse". Trattasi, all'evidenza, di motivazione non conforme agli enunciati principi di diritto, avendo la Corte distrettuale basato il suo giudizio sulla sola misura dell'assegno fissato dal giudice della separazione, senza prendere in alcuna considerazione le reali capacità economiche della donna. Ed è chiara la rilevanza del dato trascurato, non potendosi prescindere, ai fini di un rigoroso accertamento dell'effettivo stato di bisogno del beneficiario dell'assegno, dalla valutazione dell'eventuale esistenza, in capo a quest'ultimo, di ulteriori fonti di reddito e mezzi di sostentamento.













S'impone, di conseguenza, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, per un nuovo giudizio.













P.Q.M.













Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli.













Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2009.













Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2009.

Mancata corresponsione dell'assegno e inadempimento obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.)

Assistenza familiare, mancato versamento dell’assegno, accertamento



Cassazione penale , sez. VI, sentenza 09.11.2009 n° 42631






Il mancato versamento dell’assegno stabilito in sede di separazione personale dei coniugi, da parte dell’obbligato, di per sé solo non determina la configurabilità del reato previsto dall'art. 570, comma 2, c.p., in quanto è necessario che sia accertato se, in conseguenza di tale condotta, siano venuti a mancare in concreto al beneficiario i mezzi di sussistenza e se l’obbligato abbia una concreta capacità economica a fornire gli stessi. (1-2)






(*) Riferimenti normativi: art. 570, comma 2, c.p..


(1) In tema di mancato versamento dell’assegno per impossibilità economica dell’obbligato, si veda Cassazione penale, sez. VI, sentenza 31.10.2007 n° 40341.


(2) Per una visione generale del reato previsto dall’art. 570 c.p., si veda il Focus di Salemi: La violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.).






(Fonte: Altalex Massimario 43/2009)
















assistenza familiare
assegno
giudice penale












SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE






SEZIONE VI PENALE






Sentenza 28 ottobre - 9 novembre 2009, n. 42631






Svolgimento del processo






Con sentenza in data 4-7-2003 il Tribunale di Torre Annunziata, Sezione Distaccata di Sorrento, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di M.S. in ordine al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti della moglie e del figlio minore V., perchè estinto per prescrizione.






Con sentenza in data 13-3-2007 la Corte di Appello di Napoli, in riforma di tale sentenza, ha dichiarato l'imputato colpevole del reato ascrittogli, limitatamente alla condotta in danno del coniuge separato L.R., e lo ha condannato alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 750,00 di multa, confermando nel resto la decisione di primo grado.






Il M., anche a mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, riproponendo con un primo motivo l'eccezione di inammissibilità dell'appello proposto dal Procuratore Generale. Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, la pronuncia di proscioglimento di primo grado era stata emessa prima della formale apertura del dibattimento e che, pertanto, la stessa, a norma dell'art. 469 c.p.p., era inappellabile.






Con un secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 580 c.p.p., art. 585 c.p.p., comma 4, artt. 591 e 603 c.p.p., in relazione all'ammissione della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale formulata dal P.G. Sostiene che, poichè le censure mosse dall'appellante erano circoscritte alla violazione di legge in cui era incorso il giudice di primo grado nel dichiarare una causa estintiva del reato in presenza di un reato contestato a condotta perdurante, la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria, non essendo collegata ad alcun motivo di impugnazione o censura nel merito, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile.






Con un terzo motivo il ricorrente denuncia l'erronea applicazione dell'art. 570 c.p., avendo la Corte di Appello correlato l'affermazione di responsabilità dell'imputato alla mera violazione degli obblighi posti a carico di quest'ultimo in favore della moglie nel giudizio civile, senza tener conto del fatto che la L. godeva di ulteriori mezzi di sussistenza e senza considerare che il M., dopo il suo licenziamento, non era in condizioni di adempiere ai propri obblighi.






Motivi della decisione






1) Il primo motivo di ricorso è infondato.






L'assunto del ricorrente, secondo cui in primo grado sarebbe stata emessa una sentenza predibattimentale, come tale non appellabile, ai sensi dell'art. 469 c.p.p., risulta smentito dalla lettura della sentenza emessa in pubblica udienza dal Tribunale di Torre Annunziata, Sezione Distaccata di Sorrento, nella quale si da atto che la decisione in questione - con la quale è stata rilevata, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 1, l'intervenuta prescrizione del reato -, è stata adottata "costituite le parti".






Orbene, come è stato puntualizzato da questa Corte, la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, pronunciata - sia pure su conforme richiesta del Pubblico Ministero e della difesa - in udienza pubblica dopo il controllo della costituzione delle parti, deve essere considerata come dibattimentale e, quindi, è soggetta ad appello (Cass. Sez. 4^, 28-11-2008 n. 48310; v. anche Cass. Sez. 2^, 17-11-2004 n. 48340).






2) Anche il secondo motivo è privo di fondamento, essendo evidente che le censure mosse con i motivi di appello in ordine alla declaratoria di prescrizione non erano fine a se stesse, ma miravano ad ottenere una pronuncia di merito sul reato ascritto all'imputato. E infatti il P.G., nel dedurre che, in considerazione della condotta perdurante ascritta al prevenuto, il Tribunale non poteva dichiarare il reato estinto per prescrizione, ha concluso espressamente per l'affermazione di responsabilità del M., previa "rinnovazione del dibattimento per l'esame dei testi di lista del P.M.”.






La Corte di Appello, pertanto, nell'accogliere l'istanza di rinnovazione del dibattimento, non è affatto incorsa nelle violazioni di legge denunziate dal ricorrente, ma ha fatto, anzi, corretta applicazione del disposto dell'art. 604 c.p.p., n. 6, il quale prevede espressamente che, "quando il giudice di primo grado ha dichiarato che il reato è estinto o che l'azione penale non poteva essere iniziata o proseguita, il giudice di appello, se riconosce erronea tale dichiarazione, ordina, occorrendo, la rinnovazione del dibattimento e decide nel merito". Questa Corte, d'altro canto, ha già avuto modo di rilevare che nel caso in cui il giudice di primo grado, in pubblica udienza e senza procedere ad istruttoria dibattimentale, abbia dichiarato, a norma dell'art. 129 c.p.p., non doversi procedere contro l'imputato, ed il pubblico ministero abbia proposto appello, chiedendo la condanna dell'imputato, previa - se del caso - l'assunzione delle prove ritualmente dedotte e non assunte dal giudice di prime cure, non merita censura l'ordinanza della Corte d'Appello che disponga la rinnovazione del dibattimento per l'assunzione delle prove richieste (Cass. Sez. 3^, 4-6-1993 n. 9726).






3) Appare invece meritevole di accoglimento, nei limiti di seguito precisati, il terzo motivo di ricorso.






Secondo il costante orientamento di questa Corte, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 570 c.p., comma 2, nell'ipotesi di mancata corresponsione da parte del coniuge obbligato al versamento dell'assegno stabilito in sede di separazione coniugale, il giudice penale deve accertare se, per effetto di tale condotta, siano venuti a mancare in concreto al beneficiario i mezzi di sussistenza; accertamento che è diverso e indipendente da quello compiuto dal giudice civile per la determinazione dell'assegno (Cass. Sez. 6^, 2/-10-2006 n. 40708). In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, infatti, non vi è interdipendenza tra il reato previsto dal citato art. 570 c.p., comma 2, e l'assegno liquidato dal giudice civile, in quanto l'illecito penale non ha carattere sanzionatorio dell'inadempimento del provvedimento del giudice civile che fissa l'entità dell'obbligazione, ma è rapportato unicamente alla sussistenza dello stato di bisogno dell'avente diritto alla somministrazione dei mezzi indispensabili per vivere e al mancato apprestamento di tali mezzi da parte di chi, per legge, vi è obbligato (Cass. Sez. 6^, 5-2-1998 n. 3450).






Ne consegue che, ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa in esame, è necessario l'accertamento, da parte del giudice penale, dell'effettivo stato di bisogno dell'avente diritto alla somministrazione dei mezzi di sussistenza, oltre che della concreta capacità economica dell'obbligato a fornirglieli.






Nel caso di specie, la Corte di Appello, nell'affermare la responsabilità penale del M. in ordine alla mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza alla moglie separata, ha rilevato che lo stato di bisogno della L. emerge dalla stessa entità dell'assegno di mantenimento, "stabilito dal giudice civile in misura appena sufficiente per le più elementari esigenze vitali, non soddisfabili attraverso fonti di reddito o patrimoniali diverse". Trattasi, all'evidenza, di motivazione non conforme agli enunciati principi di diritto, avendo la Corte distrettuale basato il suo giudizio sulla sola misura dell'assegno fissato dal giudice della separazione, senza prendere in alcuna considerazione le reali capacità economiche della donna. Ed è chiara la rilevanza del dato trascurato, non potendosi prescindere, ai fini di un rigoroso accertamento dell'effettivo stato di bisogno del beneficiario dell'assegno, dalla valutazione dell'eventuale esistenza, in capo a quest'ultimo, di ulteriori fonti di reddito e mezzi di sostentamento.






S'impone, di conseguenza, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, per un nuovo giudizio.






P.Q.M.






Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli.






Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2009.






Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2009.

sabato 21 marzo 2009

19.03.2009
Gli effetti della “nuova” cornice edittale

L’accorpamento, sotto il profilo sanzionatorio, di droghe “leggere” e droghe “pesanti” esclude la sussistenza del reato continuato nel caso di spaccio di sostanze diversa natura.

Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 04/03/2009, n. 9874

Tra gli elementi di novità introdotti dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, che ha inciso sull’apparato repressivo previsto contro il traffico di sostanze stupefacenti, vi è l’abolizione della distinzione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”.
A differenza della disciplina previgente, non solo le sostanze classificate come stupefacenti sono indistintamente raggruppate nell’art. 14 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ma è stata cancellata la differenziazione in precedenza prevista dall’art. 73, che prevedeva cornici edittali distinte, rispettivamente considerate al comma 1 e al comma 4, a seconda che le condotte ivi considerate avessero ad oggetto, appunto, droghe “pesanti” (reclusione da otto a venti anni e multa da 25.822 a 258.228 euro) ovvero droghe “leggere” (reclusione da due a sei anni e multa da 5.164 77.468 euro).
Tale differenziazione si rispecchiava anche nella previsione della circostanza attenuante considerata dal comma 5, che puniva i fatti di “lieve entità”: reclusione da uno sei anni e multa da 2.582 a 25.822 euro per le droghe “pesanti”; reclusione da sei mesi a quattro anni e multa da 1.032 a 10.329 per le droghe “leggere”.
A seguito della modiche introdotte dalla L. n. 29 del 2006, la cornice edittale fissata dal comma 1 dell’art. 73 è ora unica: il massimo previsto per la pena detentiva rimane invariato (venti anni), mentre il minimo scende da otto a sei anni; la pena pecuniaria rimane invece sostanzialmente inalterata.
Parimenti, il comma 5 – che continua a prevedere una circostanza ad effetto speciale per i casi di “lieve entità” – scolpisce un’unica cornice edittale (reclusione da uno a sei anni e multa da 3.000 a 26.000 euro). In precedenza, pertanto, nel caso di cui il soggetto detenesse a fine di spaccio sostanze sia “pesanti”, sia “leggere”, la giurisprudenza prevalente applicava la disciplina del reato continuato, proprio in considerazione della diversa pena prevista per le due ipotesi.
Venuta meno, sul piano normativo, la distinzione tra i due tipi di droga, oggi tale disciplina non è più applicabile, essendo configurabile un solo reato.
Quid iuris nel caso di condanne inflitte per la detenzione a fine di spaccio di più sostanze, ai sensi della pregressa normativa? E’ proprio il caso affrontato e risolto dalla sentenza in esame.
La Cassazione ha dato atto che la riforma del 2006, sopprimendo la distinzione gabellare tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, «ha necessariamente mutato il trattamento sanzionatorio da riservarsi a chi illegalmente detiene sostanze stupefacenti di tipo e natura diversi»; in particolare, con riguardo al caso di detenzione di sostanze diverse, «l’avvenuta assimilazione delle sostanze impone, dunque, di ritenere che nel caso anzidetto il reato sia ora unico, con la possibilità che il concreto trattamento sanzionatorio sia più favorevole rispetto al passato».
E tuttavia, si affretta precisare la Cassazione, non è affatto automatico che l’avvenuta modifica in melius, prevista in astratto, si traduca, in concreto, in una pena più mite: «non è da escludere che il giudice di appello - nel nuovo giudizio e con adeguata valutazione della vicenda - possa ritenere equamente commisurata, rispetto al caso concreto, la pena irrogata dal giudice di primo grado, ritenendo che l’imputato, avuto riguardo alla sua personalità e alla gravità del fatto (sulla quale incide necessariamente il tipo di sostanza oggetto del medesimo) non sia meritevole di un più mite trattamento sanzionatorio».
Del resto, nonostante l’avvenuta parificazione, a livello sanzionatorio, nella medesima cornice edittale, la distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti” continua ad assumere un peso decisivo in sede di determinazione, in concreto, del trattamento punitivo, come peraltro imposto dall’art. 133, comma 1, n. 1 c.p. che, tra gli elementi da considerare in sede di commisurazione della pena, dà rilievo anche all’oggetto dell’azione.
Lo sottolinea la stessa Corte: «non può, invero, trascurarsi che il mutamento della cornice edittale è correlato anche all'avvenuto accorpamento, quale oggetto materiale delle attività penalmente sanzionate dalla disposizione in esame, di sostanze di tipo diverso, rispetto alle quali era in precedenza prevista - come sopra si è visto - non solo la riconducibilità a diverse tabelle di appartenenza (unica è ora la tabella in cui sono elencate le sostanze vietate), ma anche un trattamento sanzionatorio sensibilmente diverso, sintomatico della loro profonda incidenza sul disvalore penale del fatto».
Se, quindi, rispetto alla disciplina previgente, non è più ravvisabile la continuazione interna, tuttavia la detenzione di più sostanze incide sulla determinazione della pena, ai sensi dell’art. 133 c.p.; il “risparmio” di pena, derivante dall’aumento a titolo di continuazione, viene perciò “vanificato” in sede di commisurazione della pena.

Stefano Corbetta
Tratto da Quotidiano Ipsoa 2009
19.03.2009
Gli effetti della “nuova” cornice edittale

L’accorpamento, sotto il profilo sanzionatorio, di droghe “leggere” e droghe “pesanti” esclude la sussistenza del reato continuato nel caso di spaccio di sostanze diversa natura.

Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 04/03/2009, n. 9874

Tra gli elementi di novità introdotti dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, che ha inciso sull’apparato repressivo previsto contro il traffico di sostanze stupefacenti, vi è l’abolizione della distinzione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”.
A differenza della disciplina previgente, non solo le sostanze classificate come stupefacenti sono indistintamente raggruppate nell’art. 14 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ma è stata cancellata la differenziazione in precedenza prevista dall’art. 73, che prevedeva cornici edittali distinte, rispettivamente considerate al comma 1 e al comma 4, a seconda che le condotte ivi considerate avessero ad oggetto, appunto, droghe “pesanti” (reclusione da otto a venti anni e multa da 25.822 a 258.228 euro) ovvero droghe “leggere” (reclusione da due a sei anni e multa da 5.164 77.468 euro).
Tale differenziazione si rispecchiava anche nella previsione della circostanza attenuante considerata dal comma 5, che puniva i fatti di “lieve entità”: reclusione da uno sei anni e multa da 2.582 a 25.822 euro per le droghe “pesanti”; reclusione da sei mesi a quattro anni e multa da 1.032 a 10.329 per le droghe “leggere”.
A seguito della modiche introdotte dalla L. n. 29 del 2006, la cornice edittale fissata dal comma 1 dell’art. 73 è ora unica: il massimo previsto per la pena detentiva rimane invariato (venti anni), mentre il minimo scende da otto a sei anni; la pena pecuniaria rimane invece sostanzialmente inalterata.
Parimenti, il comma 5 – che continua a prevedere una circostanza ad effetto speciale per i casi di “lieve entità” – scolpisce un’unica cornice edittale (reclusione da uno a sei anni e multa da 3.000 a 26.000 euro). In precedenza, pertanto, nel caso di cui il soggetto detenesse a fine di spaccio sostanze sia “pesanti”, sia “leggere”, la giurisprudenza prevalente applicava la disciplina del reato continuato, proprio in considerazione della diversa pena prevista per le due ipotesi.
Venuta meno, sul piano normativo, la distinzione tra i due tipi di droga, oggi tale disciplina non è più applicabile, essendo configurabile un solo reato.
Quid iuris nel caso di condanne inflitte per la detenzione a fine di spaccio di più sostanze, ai sensi della pregressa normativa? E’ proprio il caso affrontato e risolto dalla sentenza in esame.
La Cassazione ha dato atto che la riforma del 2006, sopprimendo la distinzione gabellare tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, «ha necessariamente mutato il trattamento sanzionatorio da riservarsi a chi illegalmente detiene sostanze stupefacenti di tipo e natura diversi»; in particolare, con riguardo al caso di detenzione di sostanze diverse, «l’avvenuta assimilazione delle sostanze impone, dunque, di ritenere che nel caso anzidetto il reato sia ora unico, con la possibilità che il concreto trattamento sanzionatorio sia più favorevole rispetto al passato».
E tuttavia, si affretta precisare la Cassazione, non è affatto automatico che l’avvenuta modifica in melius, prevista in astratto, si traduca, in concreto, in una pena più mite: «non è da escludere che il giudice di appello - nel nuovo giudizio e con adeguata valutazione della vicenda - possa ritenere equamente commisurata, rispetto al caso concreto, la pena irrogata dal giudice di primo grado, ritenendo che l’imputato, avuto riguardo alla sua personalità e alla gravità del fatto (sulla quale incide necessariamente il tipo di sostanza oggetto del medesimo) non sia meritevole di un più mite trattamento sanzionatorio».
Del resto, nonostante l’avvenuta parificazione, a livello sanzionatorio, nella medesima cornice edittale, la distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti” continua ad assumere un peso decisivo in sede di determinazione, in concreto, del trattamento punitivo, come peraltro imposto dall’art. 133, comma 1, n. 1 c.p. che, tra gli elementi da considerare in sede di commisurazione della pena, dà rilievo anche all’oggetto dell’azione.
Lo sottolinea la stessa Corte: «non può, invero, trascurarsi che il mutamento della cornice edittale è correlato anche all'avvenuto accorpamento, quale oggetto materiale delle attività penalmente sanzionate dalla disposizione in esame, di sostanze di tipo diverso, rispetto alle quali era in precedenza prevista - come sopra si è visto - non solo la riconducibilità a diverse tabelle di appartenenza (unica è ora la tabella in cui sono elencate le sostanze vietate), ma anche un trattamento sanzionatorio sensibilmente diverso, sintomatico della loro profonda incidenza sul disvalore penale del fatto».
Se, quindi, rispetto alla disciplina previgente, non è più ravvisabile la continuazione interna, tuttavia la detenzione di più sostanze incide sulla determinazione della pena, ai sensi dell’art. 133 c.p.; il “risparmio” di pena, derivante dall’aumento a titolo di continuazione, viene perciò “vanificato” in sede di commisurazione della pena.

Stefano Corbetta
Tratto da Quotidiano Ipsoa 2009

il reato continuato è fictio iuris: le circostanze si applicano solo ai reati cui si riferiscono e non al reato continuato unitariamente considerato

19.03.2009
Applicazione delle circostanze nel caso di reato continuato

Accogliendo la concezione del reato continuato come fictio iuris, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui le circostanze si applicano solamente ai reati cui si riferiscono, e non al reato continuato unitariamente considerato.

Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 23/01/2009, n. 3286

Nel caso di reato continuato, le circostanze attenuanti della speciale tenuità e della integrale riparazione del danno, rispettivamente considerate al n. 4 e al n. 6 dell’art. 62 c.p., si applicano solo ai reati cui si riferiscono.
Il principio è stato affermato dalle Sezioni Unite penali, chiamate a comporre un contrasto che, da tempo, si trascinava nella giurisprudenza di legittimità, divisa circa l’applicazione delle attenuanti in esame – e, correlativamente, dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p. - al reato più grave, ovvero a tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione.
Al fondo di questa diatriba, vi è la querelle, mai sopita, circa la considerazione unitaria del reato continuato ovvero l’autonomia giuridica delle singole violazione commesse in esecuzione del medesimo disegno criminoso.
E difatti le Sezioni Unite, per risolvere il contrasto, hanno proprio preso le mosse dalla natura giuridica dell’istituto in esame, riprendendo le argomentazioni espresse in un precedente del 1995; in quell’occasione, seppure in tema di computo dei termini di durata massima della custodia cautelare, le Sezioni Unite sottolinearono che «l'unificazione legislativa dei reati deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato» (Sez. un., 26 febbraio 1997 n. 1, Mammoliti).
Il dato che emerge dal sistema, dunque, è il seguente: l’autonomia dei singoli reati è la regola, l’eccezione è la considerazione unitaria del reato continuato, la quale «deve essere espressamente prevista da “apposita disposizione” e, comunque deve garantire un risultato favorevole al reo». Un’interpretazione, questa, avallata dalla Corte costituzionale, che ha più volte rimarcato la fictio alla base del reato continuato.
Emblematica, al proposito, la disciplina della prescrizione. Nella versione originaria dell’art. 158 c.p. la prescrizione decorreva dalla data di cessazione del reato continuato – ossia dalla data di commissione dell’ultimo reato realizzato in esecuzione del medesimo disegno criminoso. A seguito della novella apportata dalla l. n. 251 del 2005 all’art.158 c.p., il termine di prescrizione decorrere, in maniera autonoma, dalla data di commissione di ciascun reato.
Pertanto, hanno evidenziato le Sezioni Unite, «attualmente ciò che connotata e distingue il reato continuato è solo la valutazione quod poenam». Breve: «il reato continuato si configura quale particolare ipotesi di concorso di reati che va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quelli relativi alla determinazione della pena, mentre, per tutti gli altri effetti non espressamente previsti, la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo». Il corollario da questa premessa vien da sé: «i reati uniti dal vincolo della continuazione, con riferimento alle circostanze attenuanti e aggravanti, conservano la loro autonomia e si considerano come reati distinti».
Si tratta di un’interpretazione a nostro avviso esatta, in quanto sposa la tesi dell’unità fittizia del reato continuato, che, a seguito della riforma del 1974 - che cancellò dal testo dell’art. 81, comma 2, c.p. la formula “le diverse violazioni si considerano come un solo reato” - è stata recepita dal legislatore.
Del resto, come affermò la Corte costituzionale nello scrutinare la previgente disciplina prevista dall’art. 158 c.p. in tema di prescrizione, che contrastava con il carattere del favor rei caratterizzate l’istituto della continuazione, il «legislatore resta libero di considerare il reato continuato ora come un tutto unitario ora come una pluralità scomponibile di reati, salvo il solo limite di non addivenire a scelte viziate da irrazionalità» (così Corte cost. n. 254 del 1985, nonché n. 5 del 2009 con riferimento alla vigente disciplina, quale risultate dalle modifiche apportate dalla l. n. 251 del 2005).
Quali le ricadute applicative di questa soluzione? In primo luogo, ciò rileva ai fini dell’individuazione del reato di più grave. Si pensi al caso in cui l’imputato, chiamato a rispondere di lesioni gravi (art. 583 c.p.) e di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), abbia risarcito il danno provocato alla vittima; in tal caso, ancorché il delitto di lesioni gravi astrattamente sia punito più severamente (reclusione da 3 a 7 anni) rispetto al delitto di resistenza (da 6 mesi a cinque anni), in concreto, per effetto dell’applicazione dell’attenuante ex art. 62 n. 6 c.p., magari con giudizio di prevalenza, il delitto più grave, in relazione a cui determinare la pena base, è quello di cui all’art. 337 c.p.
In secondo luogo, gli effetti si colgono anche in relazione all’aumento della pena a titolo di continuazione; ove la circostanza attenuante accede al solo reato satellite, ciò comporterà un aumento più contenuto, rispetto a quello che il giudice avrebbe operato in assenza dell’attenuante.

Stefano Corbetta, Giudice Penale presso il Tribunale di Milano
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2009

il reato continuato è fictio iuris: le circostanze si applicano solo ai reati cui si riferiscono e non al reato continuato unitariamente considerato

19.03.2009
Applicazione delle circostanze nel caso di reato continuato

Accogliendo la concezione del reato continuato come fictio iuris, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui le circostanze si applicano solamente ai reati cui si riferiscono, e non al reato continuato unitariamente considerato.

Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 23/01/2009, n. 3286

Nel caso di reato continuato, le circostanze attenuanti della speciale tenuità e della integrale riparazione del danno, rispettivamente considerate al n. 4 e al n. 6 dell’art. 62 c.p., si applicano solo ai reati cui si riferiscono.
Il principio è stato affermato dalle Sezioni Unite penali, chiamate a comporre un contrasto che, da tempo, si trascinava nella giurisprudenza di legittimità, divisa circa l’applicazione delle attenuanti in esame – e, correlativamente, dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p. - al reato più grave, ovvero a tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione.
Al fondo di questa diatriba, vi è la querelle, mai sopita, circa la considerazione unitaria del reato continuato ovvero l’autonomia giuridica delle singole violazione commesse in esecuzione del medesimo disegno criminoso.
E difatti le Sezioni Unite, per risolvere il contrasto, hanno proprio preso le mosse dalla natura giuridica dell’istituto in esame, riprendendo le argomentazioni espresse in un precedente del 1995; in quell’occasione, seppure in tema di computo dei termini di durata massima della custodia cautelare, le Sezioni Unite sottolinearono che «l'unificazione legislativa dei reati deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato» (Sez. un., 26 febbraio 1997 n. 1, Mammoliti).
Il dato che emerge dal sistema, dunque, è il seguente: l’autonomia dei singoli reati è la regola, l’eccezione è la considerazione unitaria del reato continuato, la quale «deve essere espressamente prevista da “apposita disposizione” e, comunque deve garantire un risultato favorevole al reo». Un’interpretazione, questa, avallata dalla Corte costituzionale, che ha più volte rimarcato la fictio alla base del reato continuato.
Emblematica, al proposito, la disciplina della prescrizione. Nella versione originaria dell’art. 158 c.p. la prescrizione decorreva dalla data di cessazione del reato continuato – ossia dalla data di commissione dell’ultimo reato realizzato in esecuzione del medesimo disegno criminoso. A seguito della novella apportata dalla l. n. 251 del 2005 all’art.158 c.p., il termine di prescrizione decorrere, in maniera autonoma, dalla data di commissione di ciascun reato.
Pertanto, hanno evidenziato le Sezioni Unite, «attualmente ciò che connotata e distingue il reato continuato è solo la valutazione quod poenam». Breve: «il reato continuato si configura quale particolare ipotesi di concorso di reati che va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quelli relativi alla determinazione della pena, mentre, per tutti gli altri effetti non espressamente previsti, la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo». Il corollario da questa premessa vien da sé: «i reati uniti dal vincolo della continuazione, con riferimento alle circostanze attenuanti e aggravanti, conservano la loro autonomia e si considerano come reati distinti».
Si tratta di un’interpretazione a nostro avviso esatta, in quanto sposa la tesi dell’unità fittizia del reato continuato, che, a seguito della riforma del 1974 - che cancellò dal testo dell’art. 81, comma 2, c.p. la formula “le diverse violazioni si considerano come un solo reato” - è stata recepita dal legislatore.
Del resto, come affermò la Corte costituzionale nello scrutinare la previgente disciplina prevista dall’art. 158 c.p. in tema di prescrizione, che contrastava con il carattere del favor rei caratterizzate l’istituto della continuazione, il «legislatore resta libero di considerare il reato continuato ora come un tutto unitario ora come una pluralità scomponibile di reati, salvo il solo limite di non addivenire a scelte viziate da irrazionalità» (così Corte cost. n. 254 del 1985, nonché n. 5 del 2009 con riferimento alla vigente disciplina, quale risultate dalle modifiche apportate dalla l. n. 251 del 2005).
Quali le ricadute applicative di questa soluzione? In primo luogo, ciò rileva ai fini dell’individuazione del reato di più grave. Si pensi al caso in cui l’imputato, chiamato a rispondere di lesioni gravi (art. 583 c.p.) e di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), abbia risarcito il danno provocato alla vittima; in tal caso, ancorché il delitto di lesioni gravi astrattamente sia punito più severamente (reclusione da 3 a 7 anni) rispetto al delitto di resistenza (da 6 mesi a cinque anni), in concreto, per effetto dell’applicazione dell’attenuante ex art. 62 n. 6 c.p., magari con giudizio di prevalenza, il delitto più grave, in relazione a cui determinare la pena base, è quello di cui all’art. 337 c.p.
In secondo luogo, gli effetti si colgono anche in relazione all’aumento della pena a titolo di continuazione; ove la circostanza attenuante accede al solo reato satellite, ciò comporterà un aumento più contenuto, rispetto a quello che il giudice avrebbe operato in assenza dell’attenuante.

Stefano Corbetta, Giudice Penale presso il Tribunale di Milano
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2009

improcedibilità per particolare tenuità del fatto, opera anche quando la persona offesa è assente


19.03.2009
Particolare tenuità: "evoluzione" sugli effetti dell'assenza in udienza della persona offesa

Il meccanismo di improcedibilità per particolare tenuità del fatto opera anche quando la persona offesa è assente.

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 03/03/2009, n. 9700

La Sezione quarta della S.C. ha confermato la sentenza del giudice di pace di Bolzano il quale aveva ritenuto la particolare tenuità del fatto in ordine ad un reato di lesioni e, dunque, aveva dichiarato l’improcedibilità nonostante l’assenza della persona offesa dall’udienza.

Con ciò la S.C.ha ritenuto che la mancata presenza in dibattimento lasci presumere nella vittima una piena volontà di non opporsi alla declaratoria di improcedibilità.

Con questa storica sentenza, sebbene estremamente succinta, la S.C.ha del tutto ribaltato il precedente orientamento, bene espresso dalla sentenza n. 16689 del 2004, in C.E.D. Cass., n. 229860, secondo il quale, essendo l'operatività dell'istituto dell'esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto subordinata, nel giudizio, alla non opposizione di imputato e vittima del reato, non costituisce univoca manifestazione della non opposizione la mancata comparizione della persona offesa in udienza, posto che detta assenza rappresenta semplicemente la scelta di non coltivare l'azione civile nel processo penale in quanto l'azione può essere, pur sempre, esercitata in sede civile.

Fulvio Baldi, magistrato del Massimario della Suprema Corte di Cassazione
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2009




improcedibilità per particolare tenuità del fatto, opera anche quando la persona offesa è assente


19.03.2009
Particolare tenuità: "evoluzione" sugli effetti dell'assenza in udienza della persona offesa

Il meccanismo di improcedibilità per particolare tenuità del fatto opera anche quando la persona offesa è assente.

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 03/03/2009, n. 9700

La Sezione quarta della S.C. ha confermato la sentenza del giudice di pace di Bolzano il quale aveva ritenuto la particolare tenuità del fatto in ordine ad un reato di lesioni e, dunque, aveva dichiarato l’improcedibilità nonostante l’assenza della persona offesa dall’udienza.

Con ciò la S.C.ha ritenuto che la mancata presenza in dibattimento lasci presumere nella vittima una piena volontà di non opporsi alla declaratoria di improcedibilità.

Con questa storica sentenza, sebbene estremamente succinta, la S.C.ha del tutto ribaltato il precedente orientamento, bene espresso dalla sentenza n. 16689 del 2004, in C.E.D. Cass., n. 229860, secondo il quale, essendo l'operatività dell'istituto dell'esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto subordinata, nel giudizio, alla non opposizione di imputato e vittima del reato, non costituisce univoca manifestazione della non opposizione la mancata comparizione della persona offesa in udienza, posto che detta assenza rappresenta semplicemente la scelta di non coltivare l'azione civile nel processo penale in quanto l'azione può essere, pur sempre, esercitata in sede civile.

Fulvio Baldi, magistrato del Massimario della Suprema Corte di Cassazione
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2009




mercoledì 15 ottobre 2008

09.10.2008
Falso innocuo: ovverossia, per la Cassazione quasi mai

La Cassazione consolida la sua giurisprudenza in ordine al falso c.d. "innocuo", affermando che la lesività del falso va valutata con riferimento all'interesse protetto, che è la fede pubblica, e non all'interesse economico o di altra natura "materiale", eventualmente collegato all'utilizzo dell'atto falso.

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 19/09/2008, n. 36000

L’imputato, utilizzando la carta intestata ed i timbri di un istituto di istruzione, falsifica la firma del direttore e forma un falso attestato che produce in un pubblico concorso. Condannato per i reati di cui agli artt. 477, 482 e 61 n. 2 c.p. (falsità materiale commessa dal privato in certificati od autorizzazioni amministrative, aggravata dal nesso teleologico), ricorre per cassazione rilevando, fra l’altro, che il maggior punteggio attribuitigli da tale falsa attestazione non aveva influito sulla sua posizione di primarietà nella graduatoria del concorso in oggetto, in quanto, anche togliendo tale aggiuntivo punteggio, egli comunque, dato il divario rispetto a quello del successivo candidato, sarebbe risultato vincitore: donde l’irrilevanza dell’uso di tale documento falso e, pertanto, l’innocuità del falso stesso, con la conseguente richiesta di proscioglimento.
La Cassazione, invece, sul tema del falso c.d. "innocuo" è di diverso avviso. Richiamando la sua giurisprudenza sul tema, sostiene che la lesività o meno del falso va rapportata all’interesse protetto, id est la fede pubblica, a nulla rilevando l’interesse, di tipo economico o materiale, collegato all’utilizzo del falso stesso. Nella fattispecie il documento prodotto possedeva tale idoneità ingannatoria, tant’è che aveva comportato l’indebita assegnazione di un ulteriore punteggio al soggetto. Pertanto, conclude il Supremo Collegio, deve considerarsi del tutto irrilevante la circostanza, emersa solo a posteriori, che gli altri concorrenti non avrebbero superato l’imputato anche se questi non avesse ottenuto quel punteggio aggiuntivo, che nulla veniva a togliere alla potenzialità della falsificazione ad ingannare l’affidamento sulla genuinità del documento.
Premessa la distinzione (non sempre rilevata o ben chiara) fra il falso "grossolano", ossia quello macroscopicamente rilevabile e, quindi, non in grado di ingannare nessuno, e quello "innocuo", ossia esistente, ma non lesivo del bene protetto, appare opportuno insistere su tale ultima definizione,
Certo, non pare revocabile in dubbio che l’oggetto giuridico del reato di falso sia la pubblica fede, ma è anche vero che il falso non è quasi mai fine a se stesso, in quanto "non si falsifica per falsificare, ma per conseguire un risultato che sta al di là della falsificazione" (Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. II, 15a ed. a cura di Grosso, Milano, 2008, p. 69): donde la natura plurioffensiva di tali fattispecie. D’altra parte, anche chi nega tale specifica connotazione giuridica (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, 4 a ed., Bologna, 2007, p. 543 s.) denuncia l’estremo rigore repressivo nel campo della "falsità di atti", ove "la giurisprudenza è arrivata persino a sostenere che la lesione della pubblica fede è implicata in qualsivoglia falsificazione di atto pubblico". E, d’altra parte, senza scomodare lo storico precedente del codice Zanardelli, che puniva il falso solo ove ne potesse "derivare pubblico o privato nocumento" (art. 275), la stessa Relazione ministeriale veniva ad escludere, più che la punibilità, l’essenza stessa della falsitas "quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere": in definitiva, le ipotesi del falso grossolano, di quello innocuo o di quello inutile.
In tema di falso innocuo la giurisprudenza lo ha ricondotto al caso in cui esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere: in altri termini, la innocuità deve correlarsi alla funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere e non all’uso che dell’atto falso venga fatto (Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2007, D. e altro, Ced n. 238876; nello stesso senso: Cass. pen., sez. V, 30 settembre 1997, Brasola, in Giust. pen., 1998, II, c. 504). Nel solco di tale impostazione, dal negare l’innocuità del falso documentale di per sé (Cass. pen., sez. V, 19 maggio 2004, B. e altro, in Cass. pen., 2006, p. 118; Cass. pen., sez. V, 9 febbraio 2001, Stipa, Ced. n. 218393, Cass. pen., sez. V, 4 novembre 1993, Buraccini, in Giust. pen., 1997, II, c. 274) è breve il passo dall’affermare che la lesione della fede pubblica e, quindi, il concreto pregiudizio del bene giuridico tutelato nei reati di falso, è insita indefettibilmente nelle falsità in documenti pubblici, sicché in ordine a questi non è mai concepibile un falso innocuo, se non nel caso in cui incida su un documento inesistente o assolutamente nullo (Cass. pen., sez. V, 3 novembre 1988, Valicenti, in Giur. it., 1990, II, c. 100), ovvero, in ultima istanza, che il falso c.d. innocuo è irrilevante (Cass. pen., sez. un., 10 ottobre 1981, Di Carlo, in Arch. giur. circ., 1982, p. 387).
Unica eccezione, una criticata pronuncia, secondo la quale, pur ammettendo che il registro di classe costituisce atto pubblico e perciò le false attestazioni in esso contenute integrano gli estremi del falso ideologico, tuttavia nel caso in cui il registro di classe sia stato sottoscritto dall’insegnante incaricato dell’insegnamento mentre questo in effetti sia stato svolto da altro docente in possesso dei requisiti richiesti, il falso deve ritenersi innocuo ed escludersi la responsabilità penale (Cass. pen., sez. V, 20 novembre 1996, Scaricabarozzi, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 594, con nota di Monteverde, Insegnanti di scuole pareggiate: attestazioni infedeli nei registri).
La decisione della Suprema Corte in oggetto, in ogni caso, appare condivisibile, specie laddove sottolinea la necessità di rilevare la potenzialità ingannatoria del falso una sorta di giudizio ex ante, ossia indipendentemente dell’efficacia o meno che esso abbia avuto nell’uso poi fattone: se, dunque, falsitas non nocuit, ciononostante apta nocere erat.

Paolo Pittaro, Professore associato di Diritto penale nell'Università di TriesteTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008
09.10.2008
Falso innocuo: ovverossia, per la Cassazione quasi mai

La Cassazione consolida la sua giurisprudenza in ordine al falso c.d. "innocuo", affermando che la lesività del falso va valutata con riferimento all'interesse protetto, che è la fede pubblica, e non all'interesse economico o di altra natura "materiale", eventualmente collegato all'utilizzo dell'atto falso.

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 19/09/2008, n. 36000

L’imputato, utilizzando la carta intestata ed i timbri di un istituto di istruzione, falsifica la firma del direttore e forma un falso attestato che produce in un pubblico concorso. Condannato per i reati di cui agli artt. 477, 482 e 61 n. 2 c.p. (falsità materiale commessa dal privato in certificati od autorizzazioni amministrative, aggravata dal nesso teleologico), ricorre per cassazione rilevando, fra l’altro, che il maggior punteggio attribuitigli da tale falsa attestazione non aveva influito sulla sua posizione di primarietà nella graduatoria del concorso in oggetto, in quanto, anche togliendo tale aggiuntivo punteggio, egli comunque, dato il divario rispetto a quello del successivo candidato, sarebbe risultato vincitore: donde l’irrilevanza dell’uso di tale documento falso e, pertanto, l’innocuità del falso stesso, con la conseguente richiesta di proscioglimento.
La Cassazione, invece, sul tema del falso c.d. "innocuo" è di diverso avviso. Richiamando la sua giurisprudenza sul tema, sostiene che la lesività o meno del falso va rapportata all’interesse protetto, id est la fede pubblica, a nulla rilevando l’interesse, di tipo economico o materiale, collegato all’utilizzo del falso stesso. Nella fattispecie il documento prodotto possedeva tale idoneità ingannatoria, tant’è che aveva comportato l’indebita assegnazione di un ulteriore punteggio al soggetto. Pertanto, conclude il Supremo Collegio, deve considerarsi del tutto irrilevante la circostanza, emersa solo a posteriori, che gli altri concorrenti non avrebbero superato l’imputato anche se questi non avesse ottenuto quel punteggio aggiuntivo, che nulla veniva a togliere alla potenzialità della falsificazione ad ingannare l’affidamento sulla genuinità del documento.
Premessa la distinzione (non sempre rilevata o ben chiara) fra il falso "grossolano", ossia quello macroscopicamente rilevabile e, quindi, non in grado di ingannare nessuno, e quello "innocuo", ossia esistente, ma non lesivo del bene protetto, appare opportuno insistere su tale ultima definizione,
Certo, non pare revocabile in dubbio che l’oggetto giuridico del reato di falso sia la pubblica fede, ma è anche vero che il falso non è quasi mai fine a se stesso, in quanto "non si falsifica per falsificare, ma per conseguire un risultato che sta al di là della falsificazione" (Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. II, 15a ed. a cura di Grosso, Milano, 2008, p. 69): donde la natura plurioffensiva di tali fattispecie. D’altra parte, anche chi nega tale specifica connotazione giuridica (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, 4 a ed., Bologna, 2007, p. 543 s.) denuncia l’estremo rigore repressivo nel campo della "falsità di atti", ove "la giurisprudenza è arrivata persino a sostenere che la lesione della pubblica fede è implicata in qualsivoglia falsificazione di atto pubblico". E, d’altra parte, senza scomodare lo storico precedente del codice Zanardelli, che puniva il falso solo ove ne potesse "derivare pubblico o privato nocumento" (art. 275), la stessa Relazione ministeriale veniva ad escludere, più che la punibilità, l’essenza stessa della falsitas "quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere": in definitiva, le ipotesi del falso grossolano, di quello innocuo o di quello inutile.
In tema di falso innocuo la giurisprudenza lo ha ricondotto al caso in cui esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere: in altri termini, la innocuità deve correlarsi alla funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere e non all’uso che dell’atto falso venga fatto (Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2007, D. e altro, Ced n. 238876; nello stesso senso: Cass. pen., sez. V, 30 settembre 1997, Brasola, in Giust. pen., 1998, II, c. 504). Nel solco di tale impostazione, dal negare l’innocuità del falso documentale di per sé (Cass. pen., sez. V, 19 maggio 2004, B. e altro, in Cass. pen., 2006, p. 118; Cass. pen., sez. V, 9 febbraio 2001, Stipa, Ced. n. 218393, Cass. pen., sez. V, 4 novembre 1993, Buraccini, in Giust. pen., 1997, II, c. 274) è breve il passo dall’affermare che la lesione della fede pubblica e, quindi, il concreto pregiudizio del bene giuridico tutelato nei reati di falso, è insita indefettibilmente nelle falsità in documenti pubblici, sicché in ordine a questi non è mai concepibile un falso innocuo, se non nel caso in cui incida su un documento inesistente o assolutamente nullo (Cass. pen., sez. V, 3 novembre 1988, Valicenti, in Giur. it., 1990, II, c. 100), ovvero, in ultima istanza, che il falso c.d. innocuo è irrilevante (Cass. pen., sez. un., 10 ottobre 1981, Di Carlo, in Arch. giur. circ., 1982, p. 387).
Unica eccezione, una criticata pronuncia, secondo la quale, pur ammettendo che il registro di classe costituisce atto pubblico e perciò le false attestazioni in esso contenute integrano gli estremi del falso ideologico, tuttavia nel caso in cui il registro di classe sia stato sottoscritto dall’insegnante incaricato dell’insegnamento mentre questo in effetti sia stato svolto da altro docente in possesso dei requisiti richiesti, il falso deve ritenersi innocuo ed escludersi la responsabilità penale (Cass. pen., sez. V, 20 novembre 1996, Scaricabarozzi, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 594, con nota di Monteverde, Insegnanti di scuole pareggiate: attestazioni infedeli nei registri).
La decisione della Suprema Corte in oggetto, in ogni caso, appare condivisibile, specie laddove sottolinea la necessità di rilevare la potenzialità ingannatoria del falso una sorta di giudizio ex ante, ossia indipendentemente dell’efficacia o meno che esso abbia avuto nell’uso poi fattone: se, dunque, falsitas non nocuit, ciononostante apta nocere erat.

Paolo Pittaro, Professore associato di Diritto penale nell'Università di TriesteTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

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