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martedì 13 luglio 2010

Stalking: profili di incostituzionalità sub art. 25 Cost. (sufficiente determinatrezza della fattispecie penale)

Notiziario OUA


Stalking, ossia molestia assillante:la fattispecie penale è sufficientemente determinata?
di Maurizio de Tilla - Presidente dell'OUA


Il decreto legge n. 11 del 2009, convertito nella legge 23 aprile 2009 n. 38, ha introdotto nel nostro ordinamento, con notevole ritardo rispetto agli altri ordinamenti europei, una «nuova» fattispecie di reato denominata «stalking», finalizzata a far venire meno la pericolosa condotta «persecutoria» nei confronti soprattutto delle donne. La nuova norma, l’articolo 612 bis del Codice penale, prevede che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni».


Ci si è posto il problema della costituzionalità della nuova normativa. Si è rilevato che il citato decreto legge potrebbe essere in contrasto con il principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, implicitamente contenuto nell’articolo 25 della Costituzione. Innanzitutto alcune precisazioni. Il bene giuridico tutelato dal legislatore si ravvisa nella libertà morale, ovvero nella libertà di autodeterminazione dell’individuo. Tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, che può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata. L’illecito in esame è contraddistinto dalla sussistenza di tre elementi costitutivi: la condotta tipica del reo; la reiterazione di tale condotta; l’insorgere di un particolare stato d’animo nella vittima.


La condotta del reo deve essere connotata dal dolo generico, cioè dalla volontà e consapevolezza di porre in essere le condotte persecutorie cagionando alla vittima uno degli eventi lesivi previsti dalla norma stessa. Infatti il dolo dell’agente è contraddistinto dalla rappresentazione specifica che, in seguito alla reiterazione seriale delle azioni delittuose predette, si verificherà nella vittima uno degli accadimenti dannosi considerati. L’illecito in esame è punito, salva l’applicazione di aggravanti, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.


Sono previste alcune aggravanti speciali: se il fatto è commesso da persona già condannata per lo specifico delitto la pena è aumentata fino a due terzi; se è commesso nei confronti di un minore o se ricorre una delle condizioni previste dall’articolo 339 del Codice penale, fino alla metà e si procede d’ufficio; in generale, il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di persona diversamente abile, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.


La persona che si ritiene offesa da una condotta simile, sino a quando non presenta formale querela, può avanzare richiesta di ammonimento nei confronti del molestatore. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore che, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, se ritiene fondata l’istanza ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Se il soggetto ammonito continua a molestare la sua vittima, si procede d’ufficio contro di lui e la pena è aggravata di almeno un terzo. Quando sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di reiterazione di tale reato, l’autorità di pubblica sicurezza, su autorizzazione del pubblico ministero che procede, diffida formalmente l’indagato dal compiere ulteriori atti persecutori.


L’introduzione del reato di «stalking» porta ad analizzare i rapporti con i reati che con esso possono concorrere. L’attenzione va innanzitutto al reato di minaccia di cui all’articolo 612 del Codice penale, che deve considerarsi assorbito in quello di atti persecutori, venendo a configurare una delle condotte incriminate. In relazione a quello di violenza privata di cui all’articolo 610, il concorso va risolto in base al criterio di specialità, posto che l’alterazione delle abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata.


Discorso più complesso si può fare con riferimento alla contravvenzione di cui all’articolo 660 del Codice penale in quanto, esclusa la configurabilità del reato complesso, le molestie individuate nell’articolo 612 bis costituiscono il genus rispetto a quelle del 660, per l’integrazione del quale sono richiesti ulteriori requisiti che vengono a restringerne l’ambito applicativo. Deve tuttavia precisarsi che, affinché sia integrato il «delitto di atti persecutori», è necessaria una reiterazione delle condotte tale da produrre effetti perduranti nel tempo.


Questo porta a ritenere che le incriminazioni di minaccia, molestia e violenza privata continueranno a sussistere quali ipotesi autonome nel caso di singolo episodio oppure di più episodi che non diano luogo ad effetti che si protraggono nel tempo, essendo proprio il carattere della serialità l’elemento fondamentale del reato di stalking.


Relativamente al problema della costituzionalità della nuova normativa sul punto della sua sufficiente determinatezza, si è risposto affermando che, per soddisfare tale requisito, si deve specificare che la normativa in esame intende riferirsi a forme patologiche caratterizzate dallo stress e specificamente riconoscibili proprio come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati, forme che, sebbene non compiutamente codificate, trovano riscontro nella letteratura medica.


Sul piano dell’individuazione del soggetto autore dello stalking si è osservato che lo «stalker» o «molestatore assillante» è colui che mette in atto quell’insieme di condotte che possono essere sintetizzate, a titolo d’esempio, nel seguire la vittima nei suoi movimenti per controllarla, o meglio «appostarsi» alla sua vita. Può essere un conoscente, un collega, un estraneo, un ex-partner. In genere gli stalker agiscono, in quest’ultimo contesto, per recuperare il rapporto precedente o per vendicarsi per essere stati lasciati.


Alcuni hanno semplicemente l’intento di stabilire una relazione sentimentale perché mostrano gravi difficoltà nell’instaurare un rapporto affettivo significativo. Altri, invece, possono soffrire di disturbi mentali che li inducono a credere con convinzione nell’esistenza di una relazione, che in realtà non c’è, o comunque nella possibilità di stabilirne una. Altri ancora molestano persone conosciute superficialmente o addirittura sconosciuti allo scopo di vendicarsi per qualche torto reale o presunto.


Il confine fra corteggiamento e stalking all’inizio può essere impercettibile, ma diventa significativo quando limita la «libertà morale» della vittima ponendola in una condizione di allerta per la paura di un pericolo imminente. Il comportamento persecutorio non si realizza solo nell’alveo delle relazioni affettive e sentimentali, ma può riscontrarsi anche in altri contesti relazionali come gli ambiti lavorativi e quelli scolastici.


Sotto il profilo psicologico sono stati individuati nella prassi alcuni tipi di persecutori. Il «risentito» rappresenta una tipologia di stalker presente in letteratura. Si tratta di solito di un ex-partner che desidera vendicarsi per la rottura della relazione sentimentale causata, a suo avviso, da motivi ingiusti. Forte di questo risentimento, si sente spinto a ledere sia l’immagine della persona - per esempio pubblicando sul web foto o immagini osé oppure stampando volantini con frasi oscene per farli girare nell’ambiente di lavoro della vittima -, sia la persona stessa aspettandola fuori casa per farle delle scenate, sia danneggiando cose di proprietà, rigando per esempio la macchina o forandone le gomme.


Motivato dalla ricerca di una relazione e di attenzioni che possono riguardare l’amicizia o l’amore è, invece, il «bisognoso d’affetto». Questo tipo di stalker agisce soprattutto nell’ambito di rapporti professionali particolarmente stretti come quello tra il paziente e lo psicoterapeuta. In questi casi i molestatori fraintendono l’empatia e l’offerta di aiuto co-me segno di un interesse sentimentale. Spesso il rifiuto dell’altro viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che egli abbia bisogno di superare qualche difficoltà psicologica o concreta e che prima o poi riconoscerà l’inevitabilità del rapporto amoroso proposto.


Più impulsivo ma meno resistente nel tempo è il «corteggiatore incompetente», che manifesta una condotta basata su una scarsa abilità relazionale e si traduce in comportamenti opprimenti ed esplicitamente invadenti. Gli stalker di questo gruppo presentano una condotta persecutoria di solito di breve durata, desiderano corteggiare ma non sanno farlo e finiscono per adottare atteggiamenti che possono risultare fastidiosi.


Nella categoria degli ex-partner rientra anche il «respinto», che manifesta comportamenti persecutori in reazione a un rifiuto. Questo tipo di stalker è ambivalente perché oscilla tra due desideri contrapposti: da una parte desidera ristabilire la relazione, mentre dall’altra vuole solo vendicarsi per l’abbandono subito.


Infine il «predatore» è uno stalker che ambisce avere rapporti sessuali con una vittima che può essere pedinata, inseguita e spaventata. La paura, infatti, eccita questo tipo di molestatore che prova un senso di potere nel pianificare la caccia alla «preda». Questo genere di stalking può colpire anche bambini e può essere posto in essere anche da persone con disturbi psicopatologici di tipo sessuale come pedofili o feticisti.


Data: 09/07/2010


Fonte: SPECCHIO ECONOMICO










Stalking: profili di incostituzionalità sub art. 25 Cost. (sufficiente determinatrezza della fattispecie penale)

Notiziario OUA

Stalking, ossia molestia assillante:la fattispecie penale è sufficientemente determinata?
di Maurizio de Tilla - Presidente dell'OUA

Il decreto legge n. 11 del 2009, convertito nella legge 23 aprile 2009 n. 38, ha introdotto nel nostro ordinamento, con notevole ritardo rispetto agli altri ordinamenti europei, una «nuova» fattispecie di reato denominata «stalking», finalizzata a far venire meno la pericolosa condotta «persecutoria» nei confronti soprattutto delle donne. La nuova norma, l’articolo 612 bis del Codice penale, prevede che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni».

Ci si è posto il problema della costituzionalità della nuova normativa. Si è rilevato che il citato decreto legge potrebbe essere in contrasto con il principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, implicitamente contenuto nell’articolo 25 della Costituzione. Innanzitutto alcune precisazioni. Il bene giuridico tutelato dal legislatore si ravvisa nella libertà morale, ovvero nella libertà di autodeterminazione dell’individuo. Tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, che può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata. L’illecito in esame è contraddistinto dalla sussistenza di tre elementi costitutivi: la condotta tipica del reo; la reiterazione di tale condotta; l’insorgere di un particolare stato d’animo nella vittima.

La condotta del reo deve essere connotata dal dolo generico, cioè dalla volontà e consapevolezza di porre in essere le condotte persecutorie cagionando alla vittima uno degli eventi lesivi previsti dalla norma stessa. Infatti il dolo dell’agente è contraddistinto dalla rappresentazione specifica che, in seguito alla reiterazione seriale delle azioni delittuose predette, si verificherà nella vittima uno degli accadimenti dannosi considerati. L’illecito in esame è punito, salva l’applicazione di aggravanti, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Sono previste alcune aggravanti speciali: se il fatto è commesso da persona già condannata per lo specifico delitto la pena è aumentata fino a due terzi; se è commesso nei confronti di un minore o se ricorre una delle condizioni previste dall’articolo 339 del Codice penale, fino alla metà e si procede d’ufficio; in generale, il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di persona diversamente abile, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

La persona che si ritiene offesa da una condotta simile, sino a quando non presenta formale querela, può avanzare richiesta di ammonimento nei confronti del molestatore. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore che, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, se ritiene fondata l’istanza ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Se il soggetto ammonito continua a molestare la sua vittima, si procede d’ufficio contro di lui e la pena è aggravata di almeno un terzo. Quando sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di reiterazione di tale reato, l’autorità di pubblica sicurezza, su autorizzazione del pubblico ministero che procede, diffida formalmente l’indagato dal compiere ulteriori atti persecutori.

L’introduzione del reato di «stalking» porta ad analizzare i rapporti con i reati che con esso possono concorrere. L’attenzione va innanzitutto al reato di minaccia di cui all’articolo 612 del Codice penale, che deve considerarsi assorbito in quello di atti persecutori, venendo a configurare una delle condotte incriminate. In relazione a quello di violenza privata di cui all’articolo 610, il concorso va risolto in base al criterio di specialità, posto che l’alterazione delle abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata.

Discorso più complesso si può fare con riferimento alla contravvenzione di cui all’articolo 660 del Codice penale in quanto, esclusa la configurabilità del reato complesso, le molestie individuate nell’articolo 612 bis costituiscono il genus rispetto a quelle del 660, per l’integrazione del quale sono richiesti ulteriori requisiti che vengono a restringerne l’ambito applicativo. Deve tuttavia precisarsi che, affinché sia integrato il «delitto di atti persecutori», è necessaria una reiterazione delle condotte tale da produrre effetti perduranti nel tempo.

Questo porta a ritenere che le incriminazioni di minaccia, molestia e violenza privata continueranno a sussistere quali ipotesi autonome nel caso di singolo episodio oppure di più episodi che non diano luogo ad effetti che si protraggono nel tempo, essendo proprio il carattere della serialità l’elemento fondamentale del reato di stalking.

Relativamente al problema della costituzionalità della nuova normativa sul punto della sua sufficiente determinatezza, si è risposto affermando che, per soddisfare tale requisito, si deve specificare che la normativa in esame intende riferirsi a forme patologiche caratterizzate dallo stress e specificamente riconoscibili proprio come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati, forme che, sebbene non compiutamente codificate, trovano riscontro nella letteratura medica.

Sul piano dell’individuazione del soggetto autore dello stalking si è osservato che lo «stalker» o «molestatore assillante» è colui che mette in atto quell’insieme di condotte che possono essere sintetizzate, a titolo d’esempio, nel seguire la vittima nei suoi movimenti per controllarla, o meglio «appostarsi» alla sua vita. Può essere un conoscente, un collega, un estraneo, un ex-partner. In genere gli stalker agiscono, in quest’ultimo contesto, per recuperare il rapporto precedente o per vendicarsi per essere stati lasciati.

Alcuni hanno semplicemente l’intento di stabilire una relazione sentimentale perché mostrano gravi difficoltà nell’instaurare un rapporto affettivo significativo. Altri, invece, possono soffrire di disturbi mentali che li inducono a credere con convinzione nell’esistenza di una relazione, che in realtà non c’è, o comunque nella possibilità di stabilirne una. Altri ancora molestano persone conosciute superficialmente o addirittura sconosciuti allo scopo di vendicarsi per qualche torto reale o presunto.

Il confine fra corteggiamento e stalking all’inizio può essere impercettibile, ma diventa significativo quando limita la «libertà morale» della vittima ponendola in una condizione di allerta per la paura di un pericolo imminente. Il comportamento persecutorio non si realizza solo nell’alveo delle relazioni affettive e sentimentali, ma può riscontrarsi anche in altri contesti relazionali come gli ambiti lavorativi e quelli scolastici.

Sotto il profilo psicologico sono stati individuati nella prassi alcuni tipi di persecutori. Il «risentito» rappresenta una tipologia di stalker presente in letteratura. Si tratta di solito di un ex-partner che desidera vendicarsi per la rottura della relazione sentimentale causata, a suo avviso, da motivi ingiusti. Forte di questo risentimento, si sente spinto a ledere sia l’immagine della persona - per esempio pubblicando sul web foto o immagini osé oppure stampando volantini con frasi oscene per farli girare nell’ambiente di lavoro della vittima -, sia la persona stessa aspettandola fuori casa per farle delle scenate, sia danneggiando cose di proprietà, rigando per esempio la macchina o forandone le gomme.

Motivato dalla ricerca di una relazione e di attenzioni che possono riguardare l’amicizia o l’amore è, invece, il «bisognoso d’affetto». Questo tipo di stalker agisce soprattutto nell’ambito di rapporti professionali particolarmente stretti come quello tra il paziente e lo psicoterapeuta. In questi casi i molestatori fraintendono l’empatia e l’offerta di aiuto co-me segno di un interesse sentimentale. Spesso il rifiuto dell’altro viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che egli abbia bisogno di superare qualche difficoltà psicologica o concreta e che prima o poi riconoscerà l’inevitabilità del rapporto amoroso proposto.

Più impulsivo ma meno resistente nel tempo è il «corteggiatore incompetente», che manifesta una condotta basata su una scarsa abilità relazionale e si traduce in comportamenti opprimenti ed esplicitamente invadenti. Gli stalker di questo gruppo presentano una condotta persecutoria di solito di breve durata, desiderano corteggiare ma non sanno farlo e finiscono per adottare atteggiamenti che possono risultare fastidiosi.

Nella categoria degli ex-partner rientra anche il «respinto», che manifesta comportamenti persecutori in reazione a un rifiuto. Questo tipo di stalker è ambivalente perché oscilla tra due desideri contrapposti: da una parte desidera ristabilire la relazione, mentre dall’altra vuole solo vendicarsi per l’abbandono subito.

Infine il «predatore» è uno stalker che ambisce avere rapporti sessuali con una vittima che può essere pedinata, inseguita e spaventata. La paura, infatti, eccita questo tipo di molestatore che prova un senso di potere nel pianificare la caccia alla «preda». Questo genere di stalking può colpire anche bambini e può essere posto in essere anche da persone con disturbi psicopatologici di tipo sessuale come pedofili o feticisti.

Data: 09/07/2010

Fonte: SPECCHIO ECONOMICO





mercoledì 26 maggio 2010

Pensione di reversibilità: E ... Se ci si risposa solo con rito religioso ???

Diritto alla pensione di reversibilità: cessazione per sopravvenuto matrimonio (Cass. civ., n. 9464/2010)


M. Rinaldi (Nota a sentenza 17/5/2010)



Corte di Cassazione, Sez. Lav., 21 aprile 2010, n. 9464 - Pres. Sciarelli - Rel. D'Agostino



Massima


Nella ipotesi di trascrizione tardiva del matrimonio religioso, il diritto del coniuge superstite e beneficiario della pensione di reversibilità non viene riconosciuto.
Neppure in caso di cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, poiché il sopra citato diritto viene a mancare a causa del sopravvenuto matrimonio.
Pertanto, la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva è che l'eventuale stato vedovile del coniuge viene meno dal momento della celebrazione del matrimonio religioso, di conseguenza la "perdita dello status di vedovo" fa venir meno anche il diritto alla pensione di reversibilità dal momento della celebrazione del matrimonio.



DIRITTO ALLA PENSIONE DI REVERSIBILITA': CESSAZIONE PER SOPRAVVENUTO MATRIMONIO

1. Premessa

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte ha provveduto ad esaminare uno degli argomenti spinosi del diritto del lavoro, in materia previdenziale e assistenziale, "intrecciato" con il diritto di famiglia nei rapporti tra coniugi.

Nella sentenza de quo i giudici di legittimità hanno precisato che la pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile del beneficiario.

Deve, pertanto, restituire quanto percepito la titolare della pensione di reversibilità INPS in seguito a matrimonio trascritto tardivamente (inizialmente non trascritto nei registri dello stato civile), e deve farlo a partire dalla data di celebrazione del matrimonio stesso.

In pratica, come hanno precisato i giudici di legittimità "la trascrizione tardiva del matrimonio religioso e la cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, comporta il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto".

La norma richiamata dai giudici era l'articolo 8, comma 5, della legge n. 121/1985 il quale dispone che "…………La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, …………….".

In base alla sopra citata norma, quindi, è possibile evincere che il matrimonio religioso (a seguito di trascrizione) ha effetti civili a partire dalla data della celebrazione: e un simile principio non può essere certo derogato nella ipotesi di una trascrizione tardiva.

La pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile e, pertanto, appena perduto tale stato, si perde automaticamente anche il diritto alla prestazione stessa a partire dalla data di celebrazione del nuovo matrimonio (non essendo più dovuta da tale momento la pensione).



2. La pensione di reversibilità: i presupposti

Le prestazioni pensionistiche si inseriscono nel quadro generale della previdenza sociale e sono costituite da quattro erogazioni fondamentali:

- la pensione di vecchiaia per i lavoratori autonomi;

- la pensione di vecchiaia per i lavoratori dipendenti;

- la pensione di anzianità;

- la pensione ai superstiti.

La pensione ai superstiti è quella che a noi interessa per l'oggetto della pronuncia in commento.

La pensione ai superstiti può rivestire due forme: indiretta e di reversibilità.

Quest'ultima spetta al defunto il quale fosse già titolare di pensione diretta (vecchiaia, inabilità, anzianità). Essa spetta, altresì, al coniuge separato e divorziato che ha diritto a tale pensione purché ricorrano le seguenti condizioni:

a) sia titolare di assegno di divorzio;

b) non si sia risposato;

c) l'ex coniuge abbia iniziato l'assicurazione presso l'INPS prima della sentenza di scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.

La L. 74/87 prevede, inoltre, che il coniuge divorziato abbia diritto alla pensione anche se il defunto si sia risposato e sia in vita il nuovo coniuge. In questo caso, però, l'INPS non paga automaticamente la pensione ma deve attendere una specifica sentenza del tribunale che divida la pensione tra i due interessati (coniuge ed ex coniuge) in proporzione alla durata del matrimonio di ciascuno (1).



2.1. La normativa di riferimento
Per quanto di interesse nella nostra trattazione, appare opportuno precisare che la questione è disciplinata dal secondo e terzo comma dell'art. 9, L. 898/70, come riformato dalla L. 74/87.

Il secondo comma dell'art. 9 della sopra citata legge dispone che il coniuge divorziato "in caso di morte dell'ex coniuge ed in assenza di un coniuge superstite, avente i requisiti per la pensione di reversibilità, ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza". Il terzo comma dispone, invece, che "qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5........".

I presupposti fondamentali a cui è subordinata la pensione di reversibilità del coniuge divorziato:

a) L'autonomia e la pari concorrenzialità con l'altro coniuge sottraggono alla discrezionalità del giudice la determinazione dell'attribuzione della pensione di reversibilità;

b) La norma non prevede la subordinazione del trattamento allo stato di bisogno del coniuge divorziato. Infatti, pur prevedendo quale requisito fondamentale per il riconoscimento al trattamento la titolarità dell'assegno di cui all'art. 5 (assegno divorzile), svincola la concreta attribuzione ai parametri che fondano il riconoscimento di quell'assegno (appunto lo stato di bisogno); analogo discorso vale per la determinazione del "quantum", attribuito qualunque sia l'ammontare dell'assegno divorzile, anche se minimo o meramente simbolico;

c) Ulteriore requisito consta nell'anteriorità della sentenza di divorzio al rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico (2).

In tema di trascrizione, l'articolo 8, comma 5 della legge n. 121/1985 dispone: il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l'ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto.

Il successivo comma 6 della legge stabilisce: la trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l'opposizione dell'altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente Io stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi"

In conseguenza di ciò si evince che il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione.

Tale principio non "può soffrire" deroga in caso di trascrizione tardiva (oltre i cinque giorni previsti dal terzo comma) restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi.

La retroattività degli effetti civili opera, sia nei confronti dei coniugi che dei terzi, a tutti gli effetti, ma comunque senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquistati dai terzi.


 
3. La vicenda
La vicenda può essere riassunta come segue:

la Cassazione accoglie il ricorso dell'Istituto previdenziale (INPS) proposto nei confronti di una donna che, vedova dal 1967, era passata a nuove nozze con solo rito religioso, nel 1983, usufruendo della pensione di reversibilità del primo marito anche in seguito al "nuovo matrimonio".

Nell'anno 1998 i "nuovi coniugi" provvedono alla trascrizione del matrimonio presso i registri di stato civile.

A questo punto interviene l'INPS che provvede a comunicare alla donna di aver indebitamente percepito le rate della pensione di reversibilità per 15 anni, e manifestando, ovviamente, la propria intenzione di recuperare il credito vantato.

Si passa al giudice del lavoro al quale la donna ricorre chiedendo che venisse accettata l'illegittimità del recupero del credito dall'INPS; il tribunale accoglie la domanda e la decisione viene confermata anche dai giudici di secondo grado.

I giudici di secondo grado avevano preso la loro decisione basandosi sul fatto che …."la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva del matrimonio canonico, prevista dalla legge di ratifica dell'Accordo tra l'Italia e la Santa sede, riguardava esclusivamente i rapporti dei coniugi tra loro e non aveva alcuna incidenza nei confronti dei terzi, quale doveva ritenersi l'INPS".

La questione a questo punto viene spostata dinanzi all'attenzione della Suprema Corte che accoglie le doglianze dell'INPS affermando nello specifico che "il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione".

Continua ancora il collegio che tale principio "non soffre deroga in caso di trascrizione tardiva, restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi".



4. Conclusioni
Nella pronuncia commentata la Suprema Corte ha avuto modo di mettere un punto fermo su una delle questioni processuali più spinose del nostro ordinamento, precisando una volte per tutte che la conseguenza della trascrizione tardiva del matrimonio religioso e della cessazione dello stato vedovile al momento della celebrazione del matrimonio religioso, è il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto poiché, ai sensi dell'art. 3 del decreto luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 il diritto alla pensione di reversibilità cessa per sopravvenuto matrimonio.

In seguito a quanto pronunciato dai giudici di legittimità, quindi, perde il diritto alla reversibilità il coniuge superstite che contrae nuovo matrimonio (religioso).

Questo accade anche nella ipotesi in cui la trascrizione dello stesso nei registri dello stato civile sia avvenuta in ritardo poiché gli effetti della trascrizione retroagiscono fino dalla data della celebrazione.

Risulta, di conseguenza, illegittima l'eventuale percezione della pensione di reversibilità da parte del coniuge superstite risposatosi il cui nuovo matrimonio sia stato trascritto tardivamente.


 
5. Precedenti giurisprudenziali
In materia si possono segnalare svariati precedenti sui quali la giurisprudenza ha posto la propria attenzione; tra questi meritano di essere segnalate alcune sentenze in particolare, ovvero la Cassazione (sez. I civ. 19.06.2001, n. 8312), che intervenendo in ambito ha tenuto a precisare che "la norma di cui all'articolo 8 Conc. 11.02.1929, con la Santa Sede, comporta l'inefficacia civile del matrimonio concordatario e la conseguente inefficacia riflessa delle eventuali convenzioni patrimoniali tra coniugi inserite nell'atto di matrimonio canonico…. La dichiarazione dei coniugi in ordine alla scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni, che può essere inserita nell'atto di matrimonio canonico, è collegata al matrimonio canonico, nell'ambito del quale essa viene effettuata da un rapporto di accessorietà. Una volta che la dichiarazione venga resa dai coniugi, essa rientrerà negli effetti civili del matrimonio canonico che sono riconosciuti a condizione che l'atto di matrimonio sia trascritto nei registri dello stato civile. Ma, se la trascrizione non può aver luogo, non possono essere riconosciuti effetti civili né al matrimonio né alla dichiarazione in ordine alla separazione dei beni effettuata all'atto della celebrazione dello stesso".

Sempre la Suprema Corte in tema di trascrizione tardiva (cfr. Cass. 4359 del 26 marzo 2001, sez. II), ha stabilito che "La trascrizione "post mortem" del matrimonio canonico non pregiudica i diritti successori personali e patrimoniali anteriormente acquisiti dagli eredi del coniuge defunto, avendo la trascrizione effetto retroattivo soltanto nei confronti dei coniugi, come risulta dalla chiara lettera del terzo comma dell'art. 14 della legge 27 maggio 1929, n. 847".


Manuela Rinaldi


Avvocato - Prof. Diritto del lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, sede dist. Avezzano

________


(1) Così GALLI L., La pensione di reversibilità: il concorso tra coniuge superstite e coniuge divorziato, in www.diritto.it


(2) GALLI, op. cit.


Pensione di reversibilità: E ... Se ci si risposa solo con rito religioso ???

Diritto alla pensione di reversibilità: cessazione per sopravvenuto matrimonio (Cass. civ., n. 9464/2010)

M. Rinaldi (Nota a sentenza 17/5/2010)

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 21 aprile 2010, n. 9464 - Pres. Sciarelli - Rel. D'Agostino

Massima

Nella ipotesi di trascrizione tardiva del matrimonio religioso, il diritto del coniuge superstite e beneficiario della pensione di reversibilità non viene riconosciuto.
Neppure in caso di cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, poiché il sopra citato diritto viene a mancare a causa del sopravvenuto matrimonio.
Pertanto, la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva è che l'eventuale stato vedovile del coniuge viene meno dal momento della celebrazione del matrimonio religioso, di conseguenza la "perdita dello status di vedovo" fa venir meno anche il diritto alla pensione di reversibilità dal momento della celebrazione del matrimonio.

DIRITTO ALLA PENSIONE DI REVERSIBILITA': CESSAZIONE PER SOPRAVVENUTO MATRIMONIO
1. Premessa
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte ha provveduto ad esaminare uno degli argomenti spinosi del diritto del lavoro, in materia previdenziale e assistenziale, "intrecciato" con il diritto di famiglia nei rapporti tra coniugi.
Nella sentenza de quo i giudici di legittimità hanno precisato che la pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile del beneficiario.
Deve, pertanto, restituire quanto percepito la titolare della pensione di reversibilità INPS in seguito a matrimonio trascritto tardivamente (inizialmente non trascritto nei registri dello stato civile), e deve farlo a partire dalla data di celebrazione del matrimonio stesso.
In pratica, come hanno precisato i giudici di legittimità "la trascrizione tardiva del matrimonio religioso e la cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, comporta il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto".
La norma richiamata dai giudici era l'articolo 8, comma 5, della legge n. 121/1985 il quale dispone che "…………La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, …………….".
In base alla sopra citata norma, quindi, è possibile evincere che il matrimonio religioso (a seguito di trascrizione) ha effetti civili a partire dalla data della celebrazione: e un simile principio non può essere certo derogato nella ipotesi di una trascrizione tardiva.
La pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile e, pertanto, appena perduto tale stato, si perde automaticamente anche il diritto alla prestazione stessa a partire dalla data di celebrazione del nuovo matrimonio (non essendo più dovuta da tale momento la pensione).

2. La pensione di reversibilità: i presupposti
Le prestazioni pensionistiche si inseriscono nel quadro generale della previdenza sociale e sono costituite da quattro erogazioni fondamentali:
- la pensione di vecchiaia per i lavoratori autonomi;
- la pensione di vecchiaia per i lavoratori dipendenti;
- la pensione di anzianità;
- la pensione ai superstiti.
La pensione ai superstiti è quella che a noi interessa per l'oggetto della pronuncia in commento.
La pensione ai superstiti può rivestire due forme: indiretta e di reversibilità.
Quest'ultima spetta al defunto il quale fosse già titolare di pensione diretta (vecchiaia, inabilità, anzianità). Essa spetta, altresì, al coniuge separato e divorziato che ha diritto a tale pensione purché ricorrano le seguenti condizioni:
a) sia titolare di assegno di divorzio;
b) non si sia risposato;
c) l'ex coniuge abbia iniziato l'assicurazione presso l'INPS prima della sentenza di scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La L. 74/87 prevede, inoltre, che il coniuge divorziato abbia diritto alla pensione anche se il defunto si sia risposato e sia in vita il nuovo coniuge. In questo caso, però, l'INPS non paga automaticamente la pensione ma deve attendere una specifica sentenza del tribunale che divida la pensione tra i due interessati (coniuge ed ex coniuge) in proporzione alla durata del matrimonio di ciascuno (1).

2.1. La normativa di riferimento
Per quanto di interesse nella nostra trattazione, appare opportuno precisare che la questione è disciplinata dal secondo e terzo comma dell'art. 9, L. 898/70, come riformato dalla L. 74/87.
Il secondo comma dell'art. 9 della sopra citata legge dispone che il coniuge divorziato "in caso di morte dell'ex coniuge ed in assenza di un coniuge superstite, avente i requisiti per la pensione di reversibilità, ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza". Il terzo comma dispone, invece, che "qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5........".
I presupposti fondamentali a cui è subordinata la pensione di reversibilità del coniuge divorziato:
a) L'autonomia e la pari concorrenzialità con l'altro coniuge sottraggono alla discrezionalità del giudice la determinazione dell'attribuzione della pensione di reversibilità;
b) La norma non prevede la subordinazione del trattamento allo stato di bisogno del coniuge divorziato. Infatti, pur prevedendo quale requisito fondamentale per il riconoscimento al trattamento la titolarità dell'assegno di cui all'art. 5 (assegno divorzile), svincola la concreta attribuzione ai parametri che fondano il riconoscimento di quell'assegno (appunto lo stato di bisogno); analogo discorso vale per la determinazione del "quantum", attribuito qualunque sia l'ammontare dell'assegno divorzile, anche se minimo o meramente simbolico;
c) Ulteriore requisito consta nell'anteriorità della sentenza di divorzio al rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico (2).
In tema di trascrizione, l'articolo 8, comma 5 della legge n. 121/1985 dispone: il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l'ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto.
Il successivo comma 6 della legge stabilisce: la trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l'opposizione dell'altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente Io stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi"
In conseguenza di ciò si evince che il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione.
Tale principio non "può soffrire" deroga in caso di trascrizione tardiva (oltre i cinque giorni previsti dal terzo comma) restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi.
La retroattività degli effetti civili opera, sia nei confronti dei coniugi che dei terzi, a tutti gli effetti, ma comunque senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquistati dai terzi.

 
3. La vicenda
La vicenda può essere riassunta come segue:
la Cassazione accoglie il ricorso dell'Istituto previdenziale (INPS) proposto nei confronti di una donna che, vedova dal 1967, era passata a nuove nozze con solo rito religioso, nel 1983, usufruendo della pensione di reversibilità del primo marito anche in seguito al "nuovo matrimonio".
Nell'anno 1998 i "nuovi coniugi" provvedono alla trascrizione del matrimonio presso i registri di stato civile.
A questo punto interviene l'INPS che provvede a comunicare alla donna di aver indebitamente percepito le rate della pensione di reversibilità per 15 anni, e manifestando, ovviamente, la propria intenzione di recuperare il credito vantato.
Si passa al giudice del lavoro al quale la donna ricorre chiedendo che venisse accettata l'illegittimità del recupero del credito dall'INPS; il tribunale accoglie la domanda e la decisione viene confermata anche dai giudici di secondo grado.
I giudici di secondo grado avevano preso la loro decisione basandosi sul fatto che …."la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva del matrimonio canonico, prevista dalla legge di ratifica dell'Accordo tra l'Italia e la Santa sede, riguardava esclusivamente i rapporti dei coniugi tra loro e non aveva alcuna incidenza nei confronti dei terzi, quale doveva ritenersi l'INPS".
La questione a questo punto viene spostata dinanzi all'attenzione della Suprema Corte che accoglie le doglianze dell'INPS affermando nello specifico che "il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione".
Continua ancora il collegio che tale principio "non soffre deroga in caso di trascrizione tardiva, restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi".

4. Conclusioni
Nella pronuncia commentata la Suprema Corte ha avuto modo di mettere un punto fermo su una delle questioni processuali più spinose del nostro ordinamento, precisando una volte per tutte che la conseguenza della trascrizione tardiva del matrimonio religioso e della cessazione dello stato vedovile al momento della celebrazione del matrimonio religioso, è il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto poiché, ai sensi dell'art. 3 del decreto luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 il diritto alla pensione di reversibilità cessa per sopravvenuto matrimonio.
In seguito a quanto pronunciato dai giudici di legittimità, quindi, perde il diritto alla reversibilità il coniuge superstite che contrae nuovo matrimonio (religioso).
Questo accade anche nella ipotesi in cui la trascrizione dello stesso nei registri dello stato civile sia avvenuta in ritardo poiché gli effetti della trascrizione retroagiscono fino dalla data della celebrazione.
Risulta, di conseguenza, illegittima l'eventuale percezione della pensione di reversibilità da parte del coniuge superstite risposatosi il cui nuovo matrimonio sia stato trascritto tardivamente.

 
5. Precedenti giurisprudenziali
In materia si possono segnalare svariati precedenti sui quali la giurisprudenza ha posto la propria attenzione; tra questi meritano di essere segnalate alcune sentenze in particolare, ovvero la Cassazione (sez. I civ. 19.06.2001, n. 8312), che intervenendo in ambito ha tenuto a precisare che "la norma di cui all'articolo 8 Conc. 11.02.1929, con la Santa Sede, comporta l'inefficacia civile del matrimonio concordatario e la conseguente inefficacia riflessa delle eventuali convenzioni patrimoniali tra coniugi inserite nell'atto di matrimonio canonico…. La dichiarazione dei coniugi in ordine alla scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni, che può essere inserita nell'atto di matrimonio canonico, è collegata al matrimonio canonico, nell'ambito del quale essa viene effettuata da un rapporto di accessorietà. Una volta che la dichiarazione venga resa dai coniugi, essa rientrerà negli effetti civili del matrimonio canonico che sono riconosciuti a condizione che l'atto di matrimonio sia trascritto nei registri dello stato civile. Ma, se la trascrizione non può aver luogo, non possono essere riconosciuti effetti civili né al matrimonio né alla dichiarazione in ordine alla separazione dei beni effettuata all'atto della celebrazione dello stesso".
Sempre la Suprema Corte in tema di trascrizione tardiva (cfr. Cass. 4359 del 26 marzo 2001, sez. II), ha stabilito che "La trascrizione "post mortem" del matrimonio canonico non pregiudica i diritti successori personali e patrimoniali anteriormente acquisiti dagli eredi del coniuge defunto, avendo la trascrizione effetto retroattivo soltanto nei confronti dei coniugi, come risulta dalla chiara lettera del terzo comma dell'art. 14 della legge 27 maggio 1929, n. 847".

Manuela Rinaldi

Avvocato - Prof. Diritto del lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, sede dist. Avezzano
________

(1) Così GALLI L., La pensione di reversibilità: il concorso tra coniuge superstite e coniuge divorziato, in www.diritto.it

(2) GALLI, op. cit.

sabato 24 aprile 2010

Condominio e violazioni del decoro architettonico dell'edificio

Come contestare la violazione del decoro architettonico. La lesione a seguita di deliberazione assembleare e quella conseguente all’uso individuale ex art. 1102 c.c.: i rimedi.


Il codice civile non definisce il concetto di decoro architettonico.
L’art. 1120 c.c. si limita ad affermare che sono vietate le innovazioni deliberate dall’assemblea dei condomini che alterano il decoro architettonico dello stabile condominiale.


Per comprendere che cosa debba intendersi per decoro, quindi, è necessario fare riferimento alla definizione elaborata dalla giurisprudenza.
Secondo la Corte di Cassazione per decoro " deve intendersi l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità" (Cass. 851 del 2007). Si tratta di un bene comune rintracciabile non solamente negli edifici di particolare importanza storico artistica ma in tutte le costruzioni nella quali sia riconoscibile “ una linea armonica, sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia” (così, ex multis Cass. 4 aprile 2008, n. 8830).


In sostanza tanto il “palazzo rinascimentale”, tanto “l’edificio popolare” possono avere una linea architettonica caratterizzante.
La valutazione di ciò è questione rimessa alla valutazione del giudice chiamato a pronunciarsi sull’avvenuta alterazione, che deve sostanziarsi “ in un pregiudizio economico che comporti un deprezzamento sia dell’intero fabbricato che delle porzioni in esso comprese, per cui, sotto tale profilo, è necessario tener conto dello stato estetico del fabbricato al momento in cui l’innovazione viene posta in essere”(così Cass. 25 gennaio 2010 n. 1286).


L’intervento lesivo del decoro architettonico non è solamente quello deliberato dall’assemblea, ben potendo lo stesso essere il frutto dell’opera compiuta dal singolo condomino ai sensi dell’art. 1102 c.c.
In relazione ad una fattispecie relativa all’utilizzo individuale della cosa comune, ad esempio, la giurisprudenza ha affermato che “ l'installazione da parte di un condomino di una canna fumaria in appoggio nel muro perimetrale di un edificio, è attività lecita rientrante nell'uso della cosa comune, previsto dall'art. 1102 c.c. e, come tale non richiede né interpello né consenso degli altri condomini; non vi è dubbio, tuttavia, che detta collocazione comporti una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, purché non impedisca l'altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell'edificio, non ne alteri il decoro architettonico” (così Trib. Bari 1 ottobre 2007 n. 2219, in senso conf. Cass. 22 luglio 2005 n. 15379).
Chiarito ciò è utile comprendere come il comproprietario, che ritiene alterato il decoro dell’edificio, possa agire per la tutela dei propri diritti.


Al riguardo è necessario distinguere le due ipotesi sopradescritte.


Deliberazione assembleare cui segue un’alterazione del decoro architettonico


In questo caso il condomino potrà agire in due modi:


a)preventivamente, impugnando le decisione dell’assise condominiale cercando di ottenerne la sospensione per evitare che l’intervento sia effettivamente apprestato. Poiché l’alterazione del decoro è vietata dalla legge, la deliberazione dovrebbe essere considerata nulla e quindi impugnabile in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, anche dal condomino inizialmente favorevole (su quest’ultimo punto si veda Cass. 19 marzo 2010 n. 6714);


b)successivamente, impugnando la delibera (nulla) e chiedendo contestualmente la rimozione dell’opera eseguita.
Lesione del decoro a seguito di intervento ex art. 1102 c.c.
In questo caso sarà il singolo condominio, o anche l’amministratore, che ai sensi dell’art. 1130, primo comma n. 2, c.c. “ deve disciplinare l'uso delle cose comuni”, a poter agire in giudizio per chiedere l’accertamento dell’alterazione del decoro e la conseguente rimozione dell’opera.
Poiché, come si è detto innanzi, l’intervento del singolo ex art. 1102 c.c. , salvo diversa disposizione regolamentare, non necessita di preventiva autorizzazione assembleare si tratterà quasi sempre di un’azione successiva e non, come nel caso d’impugnazione della deliberazione, di tutela preventiva.
Avv. Azzeccagabugli










Condominio e violazioni del decoro architettonico dell'edificio

Come contestare la violazione del decoro architettonico. La lesione a seguita di deliberazione assembleare e quella conseguente all’uso individuale ex art. 1102 c.c.: i rimedi.

Il codice civile non definisce il concetto di decoro architettonico.
L’art. 1120 c.c. si limita ad affermare che sono vietate le innovazioni deliberate dall’assemblea dei condomini che alterano il decoro architettonico dello stabile condominiale.

Per comprendere che cosa debba intendersi per decoro, quindi, è necessario fare riferimento alla definizione elaborata dalla giurisprudenza.
Secondo la Corte di Cassazione per decoro " deve intendersi l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità" (Cass. 851 del 2007). Si tratta di un bene comune rintracciabile non solamente negli edifici di particolare importanza storico artistica ma in tutte le costruzioni nella quali sia riconoscibile “ una linea armonica, sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia” (così, ex multis Cass. 4 aprile 2008, n. 8830).

In sostanza tanto il “palazzo rinascimentale”, tanto “l’edificio popolare” possono avere una linea architettonica caratterizzante.
La valutazione di ciò è questione rimessa alla valutazione del giudice chiamato a pronunciarsi sull’avvenuta alterazione, che deve sostanziarsi “ in un pregiudizio economico che comporti un deprezzamento sia dell’intero fabbricato che delle porzioni in esso comprese, per cui, sotto tale profilo, è necessario tener conto dello stato estetico del fabbricato al momento in cui l’innovazione viene posta in essere”(così Cass. 25 gennaio 2010 n. 1286).

L’intervento lesivo del decoro architettonico non è solamente quello deliberato dall’assemblea, ben potendo lo stesso essere il frutto dell’opera compiuta dal singolo condomino ai sensi dell’art. 1102 c.c.
In relazione ad una fattispecie relativa all’utilizzo individuale della cosa comune, ad esempio, la giurisprudenza ha affermato che “ l'installazione da parte di un condomino di una canna fumaria in appoggio nel muro perimetrale di un edificio, è attività lecita rientrante nell'uso della cosa comune, previsto dall'art. 1102 c.c. e, come tale non richiede né interpello né consenso degli altri condomini; non vi è dubbio, tuttavia, che detta collocazione comporti una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, purché non impedisca l'altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell'edificio, non ne alteri il decoro architettonico” (così Trib. Bari 1 ottobre 2007 n. 2219, in senso conf. Cass. 22 luglio 2005 n. 15379).
Chiarito ciò è utile comprendere come il comproprietario, che ritiene alterato il decoro dell’edificio, possa agire per la tutela dei propri diritti.

Al riguardo è necessario distinguere le due ipotesi sopradescritte.

Deliberazione assembleare cui segue un’alterazione del decoro architettonico

In questo caso il condomino potrà agire in due modi:

a)preventivamente, impugnando le decisione dell’assise condominiale cercando di ottenerne la sospensione per evitare che l’intervento sia effettivamente apprestato. Poiché l’alterazione del decoro è vietata dalla legge, la deliberazione dovrebbe essere considerata nulla e quindi impugnabile in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, anche dal condomino inizialmente favorevole (su quest’ultimo punto si veda Cass. 19 marzo 2010 n. 6714);

b)successivamente, impugnando la delibera (nulla) e chiedendo contestualmente la rimozione dell’opera eseguita.
Lesione del decoro a seguito di intervento ex art. 1102 c.c.
In questo caso sarà il singolo condominio, o anche l’amministratore, che ai sensi dell’art. 1130, primo comma n. 2, c.c. “ deve disciplinare l'uso delle cose comuni”, a poter agire in giudizio per chiedere l’accertamento dell’alterazione del decoro e la conseguente rimozione dell’opera.
Poiché, come si è detto innanzi, l’intervento del singolo ex art. 1102 c.c. , salvo diversa disposizione regolamentare, non necessita di preventiva autorizzazione assembleare si tratterà quasi sempre di un’azione successiva e non, come nel caso d’impugnazione della deliberazione, di tutela preventiva.
Avv. Azzeccagabugli





giovedì 18 febbraio 2010

I CONTRATTI DI VIAGGIO PREVISTI DALLA C.C.V.:


INTERMEDIARIO ED ORGANIZZAIZONE E RELATIVO REGIME DI RESPONSABILITA’








Tra i cc.dd. contratti di viaggio si annovera, in primo luogo, quello cd. d’intermediario di viaggio previsto dall’art. 1, n. 3., della Convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio firmata a Bruxelles il 23 aprile 1970 (di seguito, C.c.v.), resa esecutiva in Italia con la legge 27 dicembre 1977 n. 1084, che così lo definisce:


“Qualunque contratto tramite il quale una persona si impegna a procurare ad un'altra, per mezzo di un prezzo, sia un contratto di organizzazione di viaggio, sia uno dei servizi separati che permettono di effettuare un viaggio o un soggiorno qualsiasi”.


Accanto al citato contratto d’intermediario, la C.C.V. prevede, nell’ambito dei contratti di viaggio (art. 1, n.1), il contratto di organizzazione di viaggio, così definito dall’art. 1, n. 1.:


“Qualunque contratto tramite il quale una persona si impegna a suo nome a procurare ad un'altra per mezzo di un prezzo globale, un insieme di prestazioni comprendenti il trasporto, il soggiorno separato dal trasporto o qualunque altro servizio che, ad essi si riferisca”.


Deriva da quanto detto che:


a) nel contratto di intermediazione un soggetto si obbliga a procurare ad altro, sempre verso corrispettivo e presso terzi erogatori, un contratto di organizzazione di viaggio, oppure un servizio turistico separato funzionale ad un viaggio o ad un soggiorno, spendendo nei confronti dei detti terzi il nome del cliente;


b) nel contratto di organizzazione, invece, un soggetto si obbliga verso corrispettivo a procurare ad altro soggetto, presso terzi erogatori, un insieme di prestazioni turistiche, spendendo nei confronti dei detti terzi il nome proprio,


Per quel che riguarda il regime risarcitorio del contratto d’intermediazione, l’art. 17 della C.c.v. esonera da responsabilità l’intermediario per danni che derivassero dal contratto che egli stipula con l’organizzatore di viaggi, ovvero con i fornitori dei servizi separati:


«Qualunque contratto – dispone il citato art. 17 –, stipulato dall’intermediario di viaggi con un organizzatore di viaggi o con persone che gli forniscono dei servizi separati, è come se fosse stato concluso dal viaggiatore».


A tale norma, fa eco l’art. 22, comma 3, che così dispone:


«L’intermediario di viaggi non risponde dell’inadempimento totale o parziale di viaggi o soggiorni o altri servizi che siano oggetto del contratto».


In tal modo, il rapporto tra consumatore ed intermediario viene assimilato al mandato con rappresentanza, ed ogni rischio d’inadempimento legato al servizio turistico viene sopportato soltanto dal fornitore, e non già dall’intermediario.


Cfr., sul punto, Trib. Reggio Emilia, 21 febbraio 2004 (in Foro It., 2004, I, 2555):


“La riconducibilità del rapporto tra turista e venditore od intermediario al contratto di mandato, cui generalmente si accompagna il potere di rappresentanza, è stata costantemente affermata in giurisprudenza e trova significative conferme normative (cfr. art. 17 C.c.v., secondo il quale qualunque contratto stipulato dall’intermediario di viaggi con un organizzatore di viaggi o con persone che gli forniscono servizi separati è come se fosse stato concluso dal viaggiatore);


In base all’art. 22., comma 3, C.c.v, a seguito dell’inadempimento totale o parziale di viaggi o soggiorni o altri servizi che siano oggetto del contratto, il viaggiatore danneggiato potrà avanzare le proprie pretese risarcitorie direttamente nei confronti dell’organizzatore o del prestatore del singolo servizio».


Conf., Trib. Palermo 5 ottobre 2006:


«Il contratto di intermediazione di viaggio, in base al quale il venditore si obbliga a procurare al viaggiatore, per un determinato prezzo, sia un contratto di organizzazione del viaggio sia uno dei servizi separati che permettono di effettuare un viaggio, va configurato come mandato con rappresentanza conferito dal viaggiatore, con la conseguenza che il venditore non sarà responsabile della mancata o difettosa esecuzione delle prestazioni in cui si concreta il viaggio bensì unicamente della violazione di siffatto mandato».


Nell’intermediazione di viaggio, quindi, il viaggiatore che lamenti l’inadempimento dei servizi turistici non potrà giammai agire nei confronti dell’intermediario, responsabile soltanto per l’inadempimento al contratto interno di mandato, ma solo ed esclusivamente nei confronti del fornitore (Giud. pace Acireale 21 agosto 2006), ovvero extracontrattuale per il caso in cui i disguidi forieri di danno ingiusto siano imputabili a dolo o colpa di un dato soggetto (Trib. Torino, 21 novembre 2003).


Ad ogni buon conto, questo il regime di responsabilità da illecito legato al contratto d’ organizzazione di viaggio (art. 1, n. 2, C.c.v.), regolato dall’art. 13 della C.c.v.:


«L’organizzatore di viaggi risponde di qualunque pregiudizio causato al viaggiatore a motivo dell’inadempimento totale e parziale dei suoi obblighi di organizzazione quali risultano dal contratto o dalla presente Convenzione, salvo che egli non provi di essersi comportato da organizzatore di viaggi diligente».


Su tale ultimo punto, si consideri che l’unanime giurisprudenza, perché l’organizzatore vada esente da responsabilità nella scelta del terzo fornitore del servizio al turista, ritiene necessario e sufficiente che il primo si avvalga di una struttura idonea ad assicurare al turista il servizio promesso, nel che si esaurisce il suo compito (cfr. ex plurr., Cass. 6 novembre 1996 n. 9643).


In particolare, Trib. Milano 11 dicembre 2003 ha esentato da colpa l’organizzatore per inadempienze del vettore, considerato che il compito del primo si era esaurito con l’aver esso provveduto, per un viaggio a Cuba, alla scelta di un vettore radicato sul territorio quale la compagnia di linea cubana.


In termini, Cass., 24 maggio 1997 n. 4636:


«La normativa ex artt. 14, e 15 l. 1084/1977 non configura, certamente, una responsabilità oggettiva dell’organizzatore del viaggio turistico,, dato che egli non assume un’obbligazione di garanzia circa il risarcimento dei danni subiti dal passeggero, ma di esecuzione della prestazione secondo diligenza» (nella specie, è stato negato il risarcimento dei danni nei confronti dell’operatore turistico per danni al turista in un sinistro su taxi, non potendo configurarsi il conducente di quest’ultimo né dipendente né commesso dell’operatore turistico).


Ancora, atteso che la responsabilità ex artt. 13 C.c.v. è una responsabilità per colpa, e non già oggettiva, la giurisprudenza ritiene che, secondo i principi generali, spetterebbe all’attore provare l’operato negligente, imprudente e/o imperito del terzo fornitore:


Cfr., sul punto, Cass. 27 giugno 2007 n. 14837:


«In tema di contratto di viaggio turistico - disciplinato dalla legge 27 dicembre 1977 n. 1084, di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sui contratti di viaggio (CCV) sottoscritta a Bruxelles il 23 aprile 1970 -, la legge non prevede una ipotesi di responsabilità oggettiva in capo all'organizzatore del viaggio che affidi a terzi l'esecuzione di servizi, ma una responsabilità per colpa anche lieve, rispetto alla quale la prova liberatoria che l'organizzatore deve fornire consiste nel dimostrare di essersi comportato con diligenza nella scelta del soggetto cui ha affidato l'esecuzione del servizio. Ne consegue che va esclusa la responsabilità dell'organizzatore per i danni subiti nel corso del viaggio dai propri clienti, qualora i fatti si siano svolti in modo tale da doversi ritenere che, se la scelta fosse ricaduta su un diverso esecutore del servizio, il danno si sarebbe verificato ugualmente. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza che aveva escluso la responsabilità dell'organizzatore di un viaggio per i danni subiti da un gruppo di turisti, trasportati sull'autobus messo a disposizione dall'organizzazione, condotto dall'autista da questa prescelto, a causa dell'incidente stradale provocato dalla colpa esclusiva del conducente dell'autovettura dalla quale essi erano stati violentemente investiti».




Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...