martedì 9 settembre 2008

IL silenzio amministrativo sopravvenuto in corso di causa

04.09.2008
Pregiudiziale amministrativa e giudizio sul silenzio
La regola della pregiudizialità dell'annullamento del provvedimento lesivo opera in vario modo anche nel processo amministrativo avente ad oggetto l'inerzia della pubblica amministrazione e il provvedimento amministrativo sopravvenuto in corso di causa.
Consiglio di Stato Sentenza, Sez. VI, 17/07/2008, n. 3592

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato torna a pronunciarsi sui rapporti tra azione di annullamento e azione di risarcimento avanti al giudice amministrativo, con specifico riferimento al caso di inerzia della pubblica amministrazione.
L'orientamento maggioritario nella giurisprudenza amministrativa sostiene il principio del necessario previo annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo. La pronuncia sulla domanda risarcitoria è subordinata al previo annullamento del provvedimento impugnato, o all'accertamento della illegittimità del silenzio dell'amministrazione.
Il Consiglio di Stato, in armonia con la pronuncia della Ad. Pl. n. 12/07, ribadisce che, in forza di tale principio, deve escludersi l'accoglibilità davanti al giudice amministrativo, di una domanda risarcitoria che non sia collegata alla domanda demolitoria di un provvedimento, anche silenzioso, dal momento che lart. 7 della legge n. 205 del 2000 qualifica le questioni relative al risarcimento del danno come eventuali e consequenziali a quelle rientranti nell’ambito della sua giurisdizione.
Nella fattispecie oggetto della sentenza in esame, il principio della pregiudiziale amministrativa è ribadito anche nell'ipotesi in cui l'accertamento della illegittimità risulti impedito dalla dichiarazione giudiziale di improcedibilità del ricorso.
In tali casi, infatti, la parte ricorrente propone in primis una domanda che, anche se successivamente è riconosciuta improcedibile, tende all'annullamento del provvedimento illegittimo.
La regola della pregiudiziale è dunque, confermata e non oggetto di eccezione. In particolare, non può essere accolta, secondo il Consiglio di Stato, la tesi che spinge la pregiudizialità fino a farle assumere effetti impeditivi della pronuncia del giudice, al quale, pur nell'ambito della propria giurisdizione, sarebbe preclusa la pronuncia sulla parte risarcitoria laddove riconosca l'improcedibilità della domanda principale per effetto di un provvedimento sopravvenuto in corso di causa.
Tale interpretazione priverebbe di significato la regola della pregiudizialità e la tutela stessa degli interessi dedotti in giudizio, tutte le volte in cui sia in discussione il danno derivante dal silenzio dell’amministrazione.
Il Consiglio di Stato, infine, sottolinea come in tali casi sarebbe sufficiente un provvedimento espresso per determinare, con l’improcedibilità della domanda impugnatoria, l'impossibilità dell'esame di quella risarcitoria.
Inoltre, posto che nel campo degli interessi legittimi non può darsi la tutela del giudice ordinario, neppure con riguardo al risarcimento del danno, un'intera categoria di posizioni soggettive ritenute dal legislatore degne di tutela rimarrebbe sguarnita.
La sentenza in esame esclude però nella fattispecie sottoposta al proprio esame la sussistenza degli estremi per riconoscere il risarcimento del danno, per la mancata dimostrazione e quantificazione dello stesso.
La sentenza di primo grado aveva, infatti, genericamente riconosciuto il risarcimento alla ricorrente in relazione alle perdite economiche subite in conseguenza della illegittimità e più in generale della scorrettezza dell'inerzia mantenuta dall'amministrazione, a prescindere dalla spettanza del bene della vita.
Al riguardo, occorre, infatti, distinguere, se il ricorrente aspiri ad ottenere il risarcimento del mero danno da ritardo, connesso alla violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, o il risarcimento per il mancato conseguimento del bene della vita.
Quanto al risarcimento del danno da ritardo, il Consiglio di Stato ribadisce l'orientamento prevalente, imposto già dall'Ad. Pl. n.5/07, secondo cui non è possibile attribuire autonomo rilievo risarcitorio alla mera violazione dell’obbligo di comportamento imposto all'amministrazione.
La tutela dell'interesse pretensivo nel nostro ordinamento è infatti subordinata all'accertamento della spettanza del bene della vita, in assenza del quale non risulta risarcibile il mero danno da ritardo.
La sentenza in esame si richiama, inoltre, a quanto statuito dalla IV sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n.248/08.
Tale pronuncia ha, infatti, chiarito che, nel caso in cui residuino in capo all’amministrazione significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, deve escludersi che il giudice possa indagare sulla spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che l'Amministrazione, riesercitato il proprio potere, abbia riconosciuto all’istante il bene stesso: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento di quel bene.
Nel caso, invece, in cui il ricorrente agisca per il risarcimento per il mancato conseguimento del bene della vita, la sentenza, richiamata dalla odierna pronuncia del Consiglio di Stato, ha chiarito l'impossibilità di risarcire la posizione giuridica del ricorrente che risulti lesa non solo dall'inerzia dell'amministrazione, ma anche dall'adozione di un provvedimento amministrativo di rigetto, che non sia stato tempestivamente impugnato.
La regola della pregiudiziale amministrativa torna, dunque, ad escludere il risarcimento danno in tutti quei casi in cui il ricorrente aspiri ad ottenere il ristoro dei danni subiti per il mancato conseguimento del bene della vita e risulti omessa l'impugnazione del provvedimento sopravvenuto, lesivo della situazione giuridica azionata.
Nella fattispecie oggetto della sentenza, il Consiglio di Stato, nonostante la mancata impugnazione del provvedimento che ha escluso definitivamente l'accoglibilità della domanda della ricorrente, riconosce l'erroneità della sentenza di primo grado per la mancata dimostrazione e quantificazione dell'esistenza di un danno causato dall'inerzia.
Valeria De Carlo, Avvocato in MilanoTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

IL silenzio amministrativo sopravvenuto in corso di causa

04.09.2008
Pregiudiziale amministrativa e giudizio sul silenzio
La regola della pregiudizialità dell'annullamento del provvedimento lesivo opera in vario modo anche nel processo amministrativo avente ad oggetto l'inerzia della pubblica amministrazione e il provvedimento amministrativo sopravvenuto in corso di causa.
Consiglio di Stato Sentenza, Sez. VI, 17/07/2008, n. 3592

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato torna a pronunciarsi sui rapporti tra azione di annullamento e azione di risarcimento avanti al giudice amministrativo, con specifico riferimento al caso di inerzia della pubblica amministrazione.
L'orientamento maggioritario nella giurisprudenza amministrativa sostiene il principio del necessario previo annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo. La pronuncia sulla domanda risarcitoria è subordinata al previo annullamento del provvedimento impugnato, o all'accertamento della illegittimità del silenzio dell'amministrazione.
Il Consiglio di Stato, in armonia con la pronuncia della Ad. Pl. n. 12/07, ribadisce che, in forza di tale principio, deve escludersi l'accoglibilità davanti al giudice amministrativo, di una domanda risarcitoria che non sia collegata alla domanda demolitoria di un provvedimento, anche silenzioso, dal momento che lart. 7 della legge n. 205 del 2000 qualifica le questioni relative al risarcimento del danno come eventuali e consequenziali a quelle rientranti nell’ambito della sua giurisdizione.
Nella fattispecie oggetto della sentenza in esame, il principio della pregiudiziale amministrativa è ribadito anche nell'ipotesi in cui l'accertamento della illegittimità risulti impedito dalla dichiarazione giudiziale di improcedibilità del ricorso.
In tali casi, infatti, la parte ricorrente propone in primis una domanda che, anche se successivamente è riconosciuta improcedibile, tende all'annullamento del provvedimento illegittimo.
La regola della pregiudiziale è dunque, confermata e non oggetto di eccezione. In particolare, non può essere accolta, secondo il Consiglio di Stato, la tesi che spinge la pregiudizialità fino a farle assumere effetti impeditivi della pronuncia del giudice, al quale, pur nell'ambito della propria giurisdizione, sarebbe preclusa la pronuncia sulla parte risarcitoria laddove riconosca l'improcedibilità della domanda principale per effetto di un provvedimento sopravvenuto in corso di causa.
Tale interpretazione priverebbe di significato la regola della pregiudizialità e la tutela stessa degli interessi dedotti in giudizio, tutte le volte in cui sia in discussione il danno derivante dal silenzio dell’amministrazione.
Il Consiglio di Stato, infine, sottolinea come in tali casi sarebbe sufficiente un provvedimento espresso per determinare, con l’improcedibilità della domanda impugnatoria, l'impossibilità dell'esame di quella risarcitoria.
Inoltre, posto che nel campo degli interessi legittimi non può darsi la tutela del giudice ordinario, neppure con riguardo al risarcimento del danno, un'intera categoria di posizioni soggettive ritenute dal legislatore degne di tutela rimarrebbe sguarnita.
La sentenza in esame esclude però nella fattispecie sottoposta al proprio esame la sussistenza degli estremi per riconoscere il risarcimento del danno, per la mancata dimostrazione e quantificazione dello stesso.
La sentenza di primo grado aveva, infatti, genericamente riconosciuto il risarcimento alla ricorrente in relazione alle perdite economiche subite in conseguenza della illegittimità e più in generale della scorrettezza dell'inerzia mantenuta dall'amministrazione, a prescindere dalla spettanza del bene della vita.
Al riguardo, occorre, infatti, distinguere, se il ricorrente aspiri ad ottenere il risarcimento del mero danno da ritardo, connesso alla violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, o il risarcimento per il mancato conseguimento del bene della vita.
Quanto al risarcimento del danno da ritardo, il Consiglio di Stato ribadisce l'orientamento prevalente, imposto già dall'Ad. Pl. n.5/07, secondo cui non è possibile attribuire autonomo rilievo risarcitorio alla mera violazione dell’obbligo di comportamento imposto all'amministrazione.
La tutela dell'interesse pretensivo nel nostro ordinamento è infatti subordinata all'accertamento della spettanza del bene della vita, in assenza del quale non risulta risarcibile il mero danno da ritardo.
La sentenza in esame si richiama, inoltre, a quanto statuito dalla IV sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n.248/08.
Tale pronuncia ha, infatti, chiarito che, nel caso in cui residuino in capo all’amministrazione significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, deve escludersi che il giudice possa indagare sulla spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che l'Amministrazione, riesercitato il proprio potere, abbia riconosciuto all’istante il bene stesso: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento di quel bene.
Nel caso, invece, in cui il ricorrente agisca per il risarcimento per il mancato conseguimento del bene della vita, la sentenza, richiamata dalla odierna pronuncia del Consiglio di Stato, ha chiarito l'impossibilità di risarcire la posizione giuridica del ricorrente che risulti lesa non solo dall'inerzia dell'amministrazione, ma anche dall'adozione di un provvedimento amministrativo di rigetto, che non sia stato tempestivamente impugnato.
La regola della pregiudiziale amministrativa torna, dunque, ad escludere il risarcimento danno in tutti quei casi in cui il ricorrente aspiri ad ottenere il ristoro dei danni subiti per il mancato conseguimento del bene della vita e risulti omessa l'impugnazione del provvedimento sopravvenuto, lesivo della situazione giuridica azionata.
Nella fattispecie oggetto della sentenza, il Consiglio di Stato, nonostante la mancata impugnazione del provvedimento che ha escluso definitivamente l'accoglibilità della domanda della ricorrente, riconosce l'erroneità della sentenza di primo grado per la mancata dimostrazione e quantificazione dell'esistenza di un danno causato dall'inerzia.
Valeria De Carlo, Avvocato in MilanoTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

lunedì 8 settembre 2008

Il caso "Le Iene": L'intervento della Suprema Corte


Privacy – tutela – test droga a parlamentari – condanna degli autori – sussistenza – legittimità
Fare test sull’uso di droghe a parlamentari, pur senza l’individuazione del singolo, implica il rilievo che taluno, entro una circoscritta e determinabile cerchia di persone, faccia indebito uso di droghe.In tale situazione, tutti i Parlamentari possono essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera dei Deputati, nonché la istituzione parlamentare, ha subito un nocumento alla sua immagine pubblica ed onorabilità. (1)(2)
(1) Per il provvedimento che bloccò la messa in onda dei dati raccolti attraverso i test sull’utilizzo di droga, si veda Garante per la Privacy, 10 ottobre 2006 con nota di Tognetti.(2) Cfr. l'articolo "Caso “Le iene”: chi tutela chi?" di Laura Vasselli.
Fonte: Altalex Massimario 22/2008.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 24 aprile - 10 giugno 2008, n. 23086
(Presidente Vitalone - Relatore Squassoni)

Motivi della decisione
Con sentenza 16 ottobre 2007, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha applicato a P. D. e V. M. la pena concordata per il reato previsto dall'art. 167 c. 2 DLvo 196/2003 (per avere, in qualità di ideatori di un servizio televisivo avente ad oggetto il consumo di stupefacenti, proceduto, senza il consenso degli interessati e l'autorizzazione del Garante, alla raccolta di dati personali sensibili - campioni organici di cinquanta Deputati e sedici Senatori - ed alla successiva analisi per accertare la eventuale traccia di sostanze stupefacenti).Per l'annullamento della sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e sostenendo che la fattispecie materiale non era inquadrabile nella ipotesi di reato contestata.Tanto premesso, deve precisarsi come gli imputati, che hanno concordato la pena con l'organo della accusa, non possono mettere in discussione le coordinate del patto che loro stessi hanno sollecitato e che il Giudice, all'esito del sindacato che la normativa gli demanda, ha ritenuto conforme a giustizia; di conseguenza, il ricorso per Cassazione è limitato al solo caso in cui il patto si pone in violazione di legge.Tale è l'ipotesi prospettata dagli imputati i quali hanno sostenuto che i fatti per cui è processo non hanno rilevanza penale sia perché la violazione di norme del codice deontologico dei giornalisti è sanzionata in via amministrativa sia per la mancanza di uno degli elementi della fattispecie (nocumento alle parti lese). Le prospettazioni non sono fondate.L'attuale normativa ha dedicato al trattamento dei dati effettuati dai giornalisti e dai soggetti ad essi equiparati gli artt. 136, 137, 138, 139 DLvo 196 /2003. Queste disposizioni, nell'alveo della precedente disciplina (art.25 L.675/1996 novellato dall'art. 12 DLvo 171/1998), esonerano, anche in relazione ai dati sensibili, il giornalista che persegue il fine della sua professione dal consenso dello interessato e dalla autorizzazione del Garante a precise, indefettibili condizioni per la liceità del trattamento.A sensi dell'art. 137 uc citato, il giornalista deve rispettare i limiti del diritto di cronaca, in particolare, quello della essenzialità della informazione riguardo a fatti di interesse pubblico; inoltre, può trattare i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso un loro comportamento pubblico.Questa ultima condizione non è stata rispettata nel caso in esame nel quale i campioni biologici sono stati carpiti con un comportamento ingannevole e fraudolento. Consegue che gli imputati hanno disatteso una previsione contenuta non nel codice deontologico, ma nella normativa in materia di protezione dei dati personali; consegue, ancora, che gli imputati non possono invocare la previsione derogatoria dell'art. 137 del DLvo 196/2003.Per quanto concerne il nocumento alle parti lese, è esatta la deduzione difensiva secondo la quale il trattamento illecito dei dati senza il consenso dell'avente diritto è penalmente irrilevante se dal fatto tipico non deriva danno alla persona offesa; i ricorrenti hanno sostenuto che non vi è stato un vulnus per alcuno dal momento che i lori accertamenti non permettevano di associare l'esito del test a persone note.Sul punto, deve precisarsi come la circostanza che il capo di imputazione non facesse riferimento a specifici soggetti trovati positivi all'esame non è decisiva.Gli imputati hanno diffuso la notizia che alcuni Senatori e Deputati, pur rimasti anonimi, erano positivi alla analisi per la individuazione di sostanze stupefacenti; l'informazione evidenziava che taluno, entro una circoscritta e determinabile cerchia di persone, faceva indebito uso di droghe.In tale situazione, tutti i Parlamentari potevano essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera dei Deputati, nonché la istituzione parlamentare, ha subito un nocumento alla sua immagine pubblica ed onorabilità.Per le esposte considerazioni la Corte dichiara inammissibile il ricorso con condanna dei proponenti in solido al pagamento delle spese processuali e singolarmente al versamento della somma- che ritiene equo fissare in euro millecinquecento- alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di euro millecinquecento alla Cassa della Ammende.

Il caso "Le Iene": L'intervento della Suprema Corte


Privacy – tutela – test droga a parlamentari – condanna degli autori – sussistenza – legittimità
Fare test sull’uso di droghe a parlamentari, pur senza l’individuazione del singolo, implica il rilievo che taluno, entro una circoscritta e determinabile cerchia di persone, faccia indebito uso di droghe.In tale situazione, tutti i Parlamentari possono essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera dei Deputati, nonché la istituzione parlamentare, ha subito un nocumento alla sua immagine pubblica ed onorabilità. (1)(2)
(1) Per il provvedimento che bloccò la messa in onda dei dati raccolti attraverso i test sull’utilizzo di droga, si veda Garante per la Privacy, 10 ottobre 2006 con nota di Tognetti.(2) Cfr. l'articolo "Caso “Le iene”: chi tutela chi?" di Laura Vasselli.
Fonte: Altalex Massimario 22/2008.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 24 aprile - 10 giugno 2008, n. 23086
(Presidente Vitalone - Relatore Squassoni)

Motivi della decisione
Con sentenza 16 ottobre 2007, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha applicato a P. D. e V. M. la pena concordata per il reato previsto dall'art. 167 c. 2 DLvo 196/2003 (per avere, in qualità di ideatori di un servizio televisivo avente ad oggetto il consumo di stupefacenti, proceduto, senza il consenso degli interessati e l'autorizzazione del Garante, alla raccolta di dati personali sensibili - campioni organici di cinquanta Deputati e sedici Senatori - ed alla successiva analisi per accertare la eventuale traccia di sostanze stupefacenti).Per l'annullamento della sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e sostenendo che la fattispecie materiale non era inquadrabile nella ipotesi di reato contestata.Tanto premesso, deve precisarsi come gli imputati, che hanno concordato la pena con l'organo della accusa, non possono mettere in discussione le coordinate del patto che loro stessi hanno sollecitato e che il Giudice, all'esito del sindacato che la normativa gli demanda, ha ritenuto conforme a giustizia; di conseguenza, il ricorso per Cassazione è limitato al solo caso in cui il patto si pone in violazione di legge.Tale è l'ipotesi prospettata dagli imputati i quali hanno sostenuto che i fatti per cui è processo non hanno rilevanza penale sia perché la violazione di norme del codice deontologico dei giornalisti è sanzionata in via amministrativa sia per la mancanza di uno degli elementi della fattispecie (nocumento alle parti lese). Le prospettazioni non sono fondate.L'attuale normativa ha dedicato al trattamento dei dati effettuati dai giornalisti e dai soggetti ad essi equiparati gli artt. 136, 137, 138, 139 DLvo 196 /2003. Queste disposizioni, nell'alveo della precedente disciplina (art.25 L.675/1996 novellato dall'art. 12 DLvo 171/1998), esonerano, anche in relazione ai dati sensibili, il giornalista che persegue il fine della sua professione dal consenso dello interessato e dalla autorizzazione del Garante a precise, indefettibili condizioni per la liceità del trattamento.A sensi dell'art. 137 uc citato, il giornalista deve rispettare i limiti del diritto di cronaca, in particolare, quello della essenzialità della informazione riguardo a fatti di interesse pubblico; inoltre, può trattare i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso un loro comportamento pubblico.Questa ultima condizione non è stata rispettata nel caso in esame nel quale i campioni biologici sono stati carpiti con un comportamento ingannevole e fraudolento. Consegue che gli imputati hanno disatteso una previsione contenuta non nel codice deontologico, ma nella normativa in materia di protezione dei dati personali; consegue, ancora, che gli imputati non possono invocare la previsione derogatoria dell'art. 137 del DLvo 196/2003.Per quanto concerne il nocumento alle parti lese, è esatta la deduzione difensiva secondo la quale il trattamento illecito dei dati senza il consenso dell'avente diritto è penalmente irrilevante se dal fatto tipico non deriva danno alla persona offesa; i ricorrenti hanno sostenuto che non vi è stato un vulnus per alcuno dal momento che i lori accertamenti non permettevano di associare l'esito del test a persone note.Sul punto, deve precisarsi come la circostanza che il capo di imputazione non facesse riferimento a specifici soggetti trovati positivi all'esame non è decisiva.Gli imputati hanno diffuso la notizia che alcuni Senatori e Deputati, pur rimasti anonimi, erano positivi alla analisi per la individuazione di sostanze stupefacenti; l'informazione evidenziava che taluno, entro una circoscritta e determinabile cerchia di persone, faceva indebito uso di droghe.In tale situazione, tutti i Parlamentari potevano essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera dei Deputati, nonché la istituzione parlamentare, ha subito un nocumento alla sua immagine pubblica ed onorabilità.Per le esposte considerazioni la Corte dichiara inammissibile il ricorso con condanna dei proponenti in solido al pagamento delle spese processuali e singolarmente al versamento della somma- che ritiene equo fissare in euro millecinquecento- alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di euro millecinquecento alla Cassa della Ammende.

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

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