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lunedì 4 maggio 2009

focus: I rapporti tra negozi a titolo gratuito e liberalità


Approfondimento

Il rapporto fra negozi a titolo gratuito e liberalità.
Caratteri, struttura e requisiti della donazione

La donazione in senso stretto: definizione
Ai sensi dell’art. 769 la donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio (art. 771), o assumendo verso la stessa un’obbligazione.
I requisiti della donazioneAlla luce di tale definizione codicistica è possibile affermare che due sono gli elementi qualificatori della figura in esame: lo spirito di liberalità e l’arricchimento del donatario.
L’animus donandi: la differenza fra volontarietà e spontaneità
Il primo parametro (detto anche animus donandi) presenta carattere soggettivo, concretandosi nell’intenzione del donante di attribuire al donatario un’attività patrimoniale non dovuta, con la consapevolezza di tale indebenza e, dunque, in modo volontario (1).Non sarebbe sufficiente, allora, per integrare tale requisito, la presenza di un’intenzione di arricchire senza corrispettivo.È necessario, invece, che il soggetto abbia la volontà di attribuire un quid senza esservi tenuto e con la consapevolezza di tale stato di non coercizione.La “volontarietà”, che contraddistingue l’atto donativo, non deve, inoltre, essere confusa con la “spontaneità”, cui il legislatore fa espresso riferimento in tema di adempimento delle obbligazioni naturali (art. 2034).Quest’ultimo concetto, difatti, descrive semplicemente la necessità che l’atto adempitivo non sia frutto d’una costrizione esogena, essendo, invece, irrilevante la credenza che l’obbligato abbia di essere tenuto, “secondo diritto”, a soddisfare il creditore.Viceversa, come detto, la “volontarietà” descrive lo stato di piena contezza del donante circa l’assenza di qualsivoglia vincolo, non solo giuridico ma anche morale o sociale, al compimento dell’attribuzione patrimoniale:
Giurisprudenza
Il negozio di liberalità – che costituisce una categoria generale nella quale rientrano varie figure negoziali, tra cui la donazione, che è tipizzata distintamente dal legislatore perché sottoposta ad una particolare disciplina – è quello con il quale un soggetto, consapevole di non esservi tenuto in virtù di un vincolo giuridico o di un vincolo extragiuridico rilevante per la legge, opera liberamente e spontaneamente un’attribuzione patrimoniale gratuita a favore di un altro soggetto allo scopo di arricchirlo. Conseguentemente, la causa di tale negozio è costituita dall’effettuazione di una attribuzione patrimoniale gratuita, che comporti un arricchimento del destinatario, qualificata soggettivamente dalla consapevolezza, nell’autore di essa, che la medesima è operata in assenza di un qualsiasi dovere, giuridico oppure soltanto morale o sociale, e, perciò, in definitiva, per quello spirito di liberalità, che è legislativamente riferito al contratto di donazione (art. 769 c.c.) (Cass. 3 giugno 1980, n. 3621, rv. 407474).
L’ondivaga nozione di arricchimento: l’accezione economica e quella giuridica
Il secondo elemento ha, viceversa, un consistenza oggettiva, sostanziandosi nel meccanismo di mutamento diretto delle poste patrimoniali pertinenti alle sfere giuridiche dei contraenti.Perché si versi in materia di donazione, allora, sarà necessario che il contratto attributivo sia costruito in modo tale da comportare un depauperamento del patrimonio del donante cui corrisponda un diretto ed equivalente arricchimento di quello del donatario.Più precisamente è necessario che gli elementi patrimoniali, di cui il donante risulta impoverito, confluiscano nella sfera del donatario, incrementandone la consistenza patrimoniale.Come è desumibile dall’art. 769, tale effetto attributivo può consistere sia nel trasferimento/costituzione di un diritto reale o nel trasferimento di diritto di credito (c.d. donazione a effetti reali), sia nella costituzione di un diritto di credito a carico del donante e favore del donatario (c.d. donazione ad effetti obbligatori):
Giurisprudenza
Per aversi donazione non basta l’elemento soggettivo o spirito di liberalità, consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, ma occorre anche l’elemento oggettivo costituito dall’incremento del patrimonio altrui (l’arricchimento del donatario) ed il depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto l’obbligo (l’impoverimento del donante), mentre non assumono rilievo i motivi interni psicologici che inducono a compiere la donazione (Cass. 26 maggio 2000, n. 6994 rv. 536971 - conforme Cass. 28 agosto 2008, n. 2178, rv. 604650).
In realtà la rappresentazione di tale elemento costituisce oggetto di un’annosa diatriba dottrinaria, che tuttora non ha trovato sicuro esito.Una prima tesi, infatti, (detta dell’arricchimento in senso economico) assevera che di donazione (e più in generale di liberalità) si possa parlare solo quando la donazione importi un plusvalore patrimoniale nella sfera del donatario. Ne discenderebbe che non donazione, ma negozio a titolo gratuito sarebbe quello ove il vantaggio patrimoniale non vi sia (come nel caso in cui esso sia totalmente assorbito dall’imposizione di un modus) o via sia addirittura una riduzione dello spessore economico del patrimonio del donatario (come nel caso di donazione d’eredità dannosa).Altra parte della dottrina (2) (tesi dell’arricchimento in senso giuridico), viceversa, sostiene che l’arricchimento ex art. 769 debba intendersi come semplice addizione di un nuovo diritto alla sfera giuridica del donatario, ancorché esso non determini incrementi economici. Tale impostazione muove, infatti, dallo stesso testo dell’art. 769, norma che pare chiarire il concetto di arricchimento proprio indicandone le due modalità alternative di realizzazione: disponendo di un diritto o assumendo un obbligo verso il donatario. Ne discende che l’incremento economico è effetto normale, ma non necessario, della donazione.
I problematici rapporti fra i negozi a titolo gratuito ed i negozi liberali:Dubbi sono i rapporti intercorrenti fra i negozi a titolo gratuito e quelli liberali.
Tale ultima figura rappresenta un genus compendiantesi nelle categorie della liberalità donativa (art. 769) e non donativa (fondamentalmente composta dalle donazioni indirette e dalle liberalità d’uso).Di tale genus la donazione ex art. 769 costituisce certamente paradigma, dacché potremo limitarci ad analizzare i profili ad essa pertinenti, rinviando ad un momento successivo per l’esame delle liberalità non donative.
a) La teoria del rapporto di genus ad speciem e la soluzione “oggettiva”Una parte della dottrina ritiene che fra gratuità e liberalità intercorra un rapporto di genus ad speciem. Non ogni atto gratuito (ad es: comodato) sarebbe liberale, ma certamente ogni liberalità sarebbe a titolo gratuito. Peculiarità della gratuità sarebbe data, infatti, dalla presenza di un’attribuzione senza corrispettivo, caratteristica certamente presente nelle donazioni.Tuttavia queste ultime presenterebbero un elemento ultroneo, non riscontrabile in ogni atto gratuito ma solo, appunto, in quelli qualificabili come liberali: il depauperamento di un contraente per l’arricchimento dell’altro.Nei generici negozi a titolo gratuito, infatti, il vantaggio conferito consisterebbe nella semplice “non richiesta” di una contropartita per il beneficio procurato (es: godimento di un bene nel comodato, disponibilità di beni fungibili nel mutuo senza interessi, ecc.).I negozi gratuiti generici, allora, darebbero luogo ad uno svantaggio e ad un vantaggio patrimoniale qualitativamente diversi da quelli tipici della donazione.Lo svantaggio, difatti, si compendierebbe in una semplice omissio adquirendi e non in un depauperamento patrimoniale strictu sensu.Il vantaggio patrimoniale, parimenti, si sostanzierebbe in una “mancata spesa”, correlata a quel beneficio, e non in un incremento del patrimonio (3).
b) la teoria dell’alterità e la soluzione soggettiva Altra parte della dottrina, viceversa, sostiene che il distinguo fra le due categorie debba essere letto non in senso di specialità ma d’eterogenesi (4).Mentre, infatti, i negozi gratuiti sarebbero peculiarizzati dalla destinazione a realizzare un interesse patrimoniale del contraente, le liberalità sarebbero caratterizzate dalla presenza di un interesse non patrimoniale, causa giuridica dell’atto donativo.Il discrimen fra le due categorie negoziali sarebbe, allora, ontologico e non semplicemente dato da un elemento specializzante (tesi dell’inconfigurabilità di un rapporto di genus ad speciem).

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria del rapporto di genus ad speciem
La problematica, com’è evidente, è strettamente correlata alla soluzione della questione inerente la sussunzione della causa del contratto di donazione, paradigma causale degli atti liberali.Secondo i fautori della prima corrente esposta (teoria del rapporto di genus ad speciem), infatti, la causa della donazione dovrebbe rintracciarsi esattamente nell’elemento oggettivo (depauperamento/arricchimento) (5). Tale arricchimento, poi, dovrebbe essere letto, secondo tale tesi, in senso giuridico e non economico, nel senso surriferito. Sotto il profilo causale, allora, la donazione ed i negozi gratuiti sarebbero davvero parzialmente sovrapponibili. Anche in questa prima, infatti, come negli ultimi, il proprium causale sarebbe rintracciabile in un vantaggio patrimoniale non corrisposto, correlato ad un certo svantaggio d’identica natura. L’unica differenza sarebbe identificabile nel “tipo” di vantaggio/svantaggio cui il negozio darebbe luogo. Nei generici atti a titolo gratuito, infatti, le poste patrimoniali del contraente che conferisce il vantaggio e quella del beneficiario che lo percepisce resterebbero immutate. L’una, infatti, non patirebbe alcuna decurtazione, l’altra, ovviamente, non subirebbe alcun aumento.Lo svantaggio, come detto, si concreterebbe in una mera omissio adquirendi, cioè nel non pretendere alcunché per il vantaggio reso. Il vantaggio, come accennato, s’atteggerebbe non nella percezione d’alcunché, ma in una mancata spesa.Nella donazione, viceversa, lo svantaggio si concreterebbe in una contrazione patrimoniale, che convoglierebbe nella sfera del beneficiario, determinandone un incremento. La distinzione causale fra negozi genericamente gratuiti e donativi sarebbe riferibile, allora, solo alla sostanza del sacrificio/beneficio delle parti, pur presente in ambedue.Tale impostazione, a ben vedere, incide anche sulla questione relativa all’oggetto della donazione.Affermare, infatti, che il distinguo fra donazione e atti gratuiti riposa unicamente nel carattere addittivo/decurtativo, vuol dire dover identificare dei negozi attributivi (cioè non di mero accertamento) non aventi tale qualità, onde riconoscergli il nomen atti gratuiti, pena l’abrogatio ermeneutica dell’intera categoria.In altri termini la tesi del distinguo oggettivo e della specialità impone di identificare un vantaggio patrimoniale, attribuito per contratto, che non incrementi la sfera del percipiente e non impoverisca quella del conferente (perciò proprio di un negozio gtatuito non liberale).La corrente in esame (6), allora, ritiene di poter risolvere il problema asseverando la manchevolezza di tale qualità presso i negozi (non sinallagmatici) aventi ad oggetto l’obbligo d’un facere (o di un non facere), quali il comodato, il mutuo non feneratizio, ecc.L’assunzione di un tale obbligo infatti, si dice, non decurterebbe il patrimonio di chi si impegna, come non arricchirebbe quello di chi ne beneficia.Ne avremo che ogni negozio (non corrispettivo o solutorio), non importa se tipico o meno, che abbia ad oggetto l’assunzione d’un obbligo di tal fatta, sarà catalogabile come atto a titolo gratuito.Ne discenderà che la donazione ad effetti obbligatori non potrà mai avere ad oggetto un facere (o un non facere), ma solo un dare, qualificandosi altrimenti come negozio a titolo gratuito. Secondo questa tesi, dunque, l’assunzione di un obbligo di fare (o non fare), non impoverisce il patrimonio del conferente come non arricchisce quella del percipiente.Questa soluzione, tuttavia, non convince.Non pare dubbio, infatti, che l’assunzione di un obbligo di fare, non diversamente da quella d’un obbligo di dare, importa una decurtazione patrimoniale di chi si impegna (per aumento delle poste patrimoniali passive) e un arricchimento per chi riceve l’impegno (per aumento delle poste patrimoniali attive) (7). Non a caso l’art. 769, nel prevedere che la donazione può avere ad oggetto anche l’assunzione di un obbligo, non distingue tra obblighi di dare e di fare. Pare, allora, scorretta la ripartizione fra negozi gratuiti e donazioni in ragione del rapporto di specialità nel profilo oggettivo, avendo ambedue le figure carattere incrementativo/decurtativo, estensibile ad ogni forma di attribuzione, reale o obbligatoria.Parimenti scorretta ci pare, di conseguenza, l’individuazione della causa della donazione nel momento oggettivo e la riduzione della donazione obbligatoria alla specie delle liberalità di dare.

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria dell’alterità
Meglio articolata pare, invece, la prospettazione formulata dai fautori della tesi avversa (del rapporto di non specificazione fra gratuità e liberalità) che, in punto di causa, sottolinea l’importanza dell’elemento soggettivo.Tale corrente ritiene che ciò che qualifica la donazione sotto il profilo causale (e in tal senso la distingue dai negozi gratuiti) sia proprio l’elemento soggettivo.Tale elemento, tuttavia, non deve essere apprezzato (a tal fine) nella sua accezione negativa (cioè come spirito di liberalità o animus donandi), essendo questi i profili che non concorrono a descriverne la finalità concreta.Esso, invece, deve essere inteso in chiave positiva, ovvero come motivo che spinge il soggetto ad attribuire un bene ad un altro soggetto.Tale motivo assume le vesti d’un “interesse non patrimoniale”, che viene soddisfatto per tramite dell’attribuzione e che della stessa è causa (8).Lo spirito di liberalità, allora, (inteso come consapevolezza della non debenza dell’attribuzione) non è rilevante in sé (descrivendo un profilo non qualificante in termini causali) se non legato ad un elemento peculiarizzante di natura positiva.Tale elemento, allora, è dato dall’interesse non patrimoniale (morale, religioso, ecc.) che il donante, tramite l’operazione negoziale, mira a soddisfare.Il distinguo ripetto ai negozi gratuiti, allora, sarebbe rinvenibile non nel carattere attributivo/decurtativo, presente in ambedue, ma nell’interesse sottostante (e dunque nella causa), avente carattere non patrimoniale nella donazione e patrimoniale negli atti gratuiti.Ne discenderebbe l’assoluta eterogeneità (ovvero la non specialità) delle due figure. Secondo tale tesi, allora, non risiedendo la distinzione fra negozi gratuiti e donazioni nel requisito oggettivo (incremento/decurtazione), essi potranno ben avere identico contenuto (reale o obbligatorio, relativo ad un dare, facere, non facere), con piena ammissibilità delle donazioni di fare.
La donazione come negozio acausale
Vi è poi da aggiungere come, secondo una parte dei fautori della ricostruzione qui sostenuta (9), l’interesse non patrimoniale resti normalmente al di fuori della struttura del contratto donativo, relegato a mero motivo.Ne discende che tale contratto avrebbe normalmente carattere “acausale”.Questo tratto, com’è noto, costituirebbe un’eccezione in un sistema giuridico qual è il nostro, che non ammette attribuzioni non giustificate e, dunque, negozi “sostanzialmente astratti”.Ciò farebbe della donazione un negozio doppiamente “debole”:1) perché avrebbe indole (e non contenuto) non patrimoniale, contravvenendo alla normale natura del contratto (art. 1321);2) perché difetterebbe normalmente di causa.Tale debolezza verrebbe compensata dalla forma forte (atto pubblico con due testimoni) che la legge impone ad substantiam.
________(1) A. TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU e F. MESSINEO, Milano, 1956, pp. 25 e ss. (2) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol. III, parte I, pp. 5 e ss. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 765.(4) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss.; G. BALBI, La donazione, in Trattato di diritto civile, diretto da G. GROSSO e F. SANTORO PASSARELLI, Milano, 1964, pp. 19 e ss. (5) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol.III, parte I, pp. 5 e ss. (6) A. TORRENTE, op. ult. cit., pp. 219 e ss.(7) B. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. VASSALLI, Torino, 1961, pp. 380 e ss. (8) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss. (9) F. GAZZONI, op. et loc. ult. cit.
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Tratto daSUCCESSIONI E DONAZIONI di Francesco Lupia
Maggioli Editore, 2009

focus: I rapporti tra negozi a titolo gratuito e liberalità


Approfondimento

Il rapporto fra negozi a titolo gratuito e liberalità.
Caratteri, struttura e requisiti della donazione

La donazione in senso stretto: definizione
Ai sensi dell’art. 769 la donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio (art. 771), o assumendo verso la stessa un’obbligazione.
I requisiti della donazioneAlla luce di tale definizione codicistica è possibile affermare che due sono gli elementi qualificatori della figura in esame: lo spirito di liberalità e l’arricchimento del donatario.
L’animus donandi: la differenza fra volontarietà e spontaneità
Il primo parametro (detto anche animus donandi) presenta carattere soggettivo, concretandosi nell’intenzione del donante di attribuire al donatario un’attività patrimoniale non dovuta, con la consapevolezza di tale indebenza e, dunque, in modo volontario (1).Non sarebbe sufficiente, allora, per integrare tale requisito, la presenza di un’intenzione di arricchire senza corrispettivo.È necessario, invece, che il soggetto abbia la volontà di attribuire un quid senza esservi tenuto e con la consapevolezza di tale stato di non coercizione.La “volontarietà”, che contraddistingue l’atto donativo, non deve, inoltre, essere confusa con la “spontaneità”, cui il legislatore fa espresso riferimento in tema di adempimento delle obbligazioni naturali (art. 2034).Quest’ultimo concetto, difatti, descrive semplicemente la necessità che l’atto adempitivo non sia frutto d’una costrizione esogena, essendo, invece, irrilevante la credenza che l’obbligato abbia di essere tenuto, “secondo diritto”, a soddisfare il creditore.Viceversa, come detto, la “volontarietà” descrive lo stato di piena contezza del donante circa l’assenza di qualsivoglia vincolo, non solo giuridico ma anche morale o sociale, al compimento dell’attribuzione patrimoniale:
Giurisprudenza
Il negozio di liberalità – che costituisce una categoria generale nella quale rientrano varie figure negoziali, tra cui la donazione, che è tipizzata distintamente dal legislatore perché sottoposta ad una particolare disciplina – è quello con il quale un soggetto, consapevole di non esservi tenuto in virtù di un vincolo giuridico o di un vincolo extragiuridico rilevante per la legge, opera liberamente e spontaneamente un’attribuzione patrimoniale gratuita a favore di un altro soggetto allo scopo di arricchirlo. Conseguentemente, la causa di tale negozio è costituita dall’effettuazione di una attribuzione patrimoniale gratuita, che comporti un arricchimento del destinatario, qualificata soggettivamente dalla consapevolezza, nell’autore di essa, che la medesima è operata in assenza di un qualsiasi dovere, giuridico oppure soltanto morale o sociale, e, perciò, in definitiva, per quello spirito di liberalità, che è legislativamente riferito al contratto di donazione (art. 769 c.c.) (Cass. 3 giugno 1980, n. 3621, rv. 407474).
L’ondivaga nozione di arricchimento: l’accezione economica e quella giuridica
Il secondo elemento ha, viceversa, un consistenza oggettiva, sostanziandosi nel meccanismo di mutamento diretto delle poste patrimoniali pertinenti alle sfere giuridiche dei contraenti.Perché si versi in materia di donazione, allora, sarà necessario che il contratto attributivo sia costruito in modo tale da comportare un depauperamento del patrimonio del donante cui corrisponda un diretto ed equivalente arricchimento di quello del donatario.Più precisamente è necessario che gli elementi patrimoniali, di cui il donante risulta impoverito, confluiscano nella sfera del donatario, incrementandone la consistenza patrimoniale.Come è desumibile dall’art. 769, tale effetto attributivo può consistere sia nel trasferimento/costituzione di un diritto reale o nel trasferimento di diritto di credito (c.d. donazione a effetti reali), sia nella costituzione di un diritto di credito a carico del donante e favore del donatario (c.d. donazione ad effetti obbligatori):
Giurisprudenza
Per aversi donazione non basta l’elemento soggettivo o spirito di liberalità, consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, ma occorre anche l’elemento oggettivo costituito dall’incremento del patrimonio altrui (l’arricchimento del donatario) ed il depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto l’obbligo (l’impoverimento del donante), mentre non assumono rilievo i motivi interni psicologici che inducono a compiere la donazione (Cass. 26 maggio 2000, n. 6994 rv. 536971 - conforme Cass. 28 agosto 2008, n. 2178, rv. 604650).
In realtà la rappresentazione di tale elemento costituisce oggetto di un’annosa diatriba dottrinaria, che tuttora non ha trovato sicuro esito.Una prima tesi, infatti, (detta dell’arricchimento in senso economico) assevera che di donazione (e più in generale di liberalità) si possa parlare solo quando la donazione importi un plusvalore patrimoniale nella sfera del donatario. Ne discenderebbe che non donazione, ma negozio a titolo gratuito sarebbe quello ove il vantaggio patrimoniale non vi sia (come nel caso in cui esso sia totalmente assorbito dall’imposizione di un modus) o via sia addirittura una riduzione dello spessore economico del patrimonio del donatario (come nel caso di donazione d’eredità dannosa).Altra parte della dottrina (2) (tesi dell’arricchimento in senso giuridico), viceversa, sostiene che l’arricchimento ex art. 769 debba intendersi come semplice addizione di un nuovo diritto alla sfera giuridica del donatario, ancorché esso non determini incrementi economici. Tale impostazione muove, infatti, dallo stesso testo dell’art. 769, norma che pare chiarire il concetto di arricchimento proprio indicandone le due modalità alternative di realizzazione: disponendo di un diritto o assumendo un obbligo verso il donatario. Ne discende che l’incremento economico è effetto normale, ma non necessario, della donazione.
I problematici rapporti fra i negozi a titolo gratuito ed i negozi liberali:Dubbi sono i rapporti intercorrenti fra i negozi a titolo gratuito e quelli liberali.
Tale ultima figura rappresenta un genus compendiantesi nelle categorie della liberalità donativa (art. 769) e non donativa (fondamentalmente composta dalle donazioni indirette e dalle liberalità d’uso).Di tale genus la donazione ex art. 769 costituisce certamente paradigma, dacché potremo limitarci ad analizzare i profili ad essa pertinenti, rinviando ad un momento successivo per l’esame delle liberalità non donative.
a) La teoria del rapporto di genus ad speciem e la soluzione “oggettiva”Una parte della dottrina ritiene che fra gratuità e liberalità intercorra un rapporto di genus ad speciem. Non ogni atto gratuito (ad es: comodato) sarebbe liberale, ma certamente ogni liberalità sarebbe a titolo gratuito. Peculiarità della gratuità sarebbe data, infatti, dalla presenza di un’attribuzione senza corrispettivo, caratteristica certamente presente nelle donazioni.Tuttavia queste ultime presenterebbero un elemento ultroneo, non riscontrabile in ogni atto gratuito ma solo, appunto, in quelli qualificabili come liberali: il depauperamento di un contraente per l’arricchimento dell’altro.Nei generici negozi a titolo gratuito, infatti, il vantaggio conferito consisterebbe nella semplice “non richiesta” di una contropartita per il beneficio procurato (es: godimento di un bene nel comodato, disponibilità di beni fungibili nel mutuo senza interessi, ecc.).I negozi gratuiti generici, allora, darebbero luogo ad uno svantaggio e ad un vantaggio patrimoniale qualitativamente diversi da quelli tipici della donazione.Lo svantaggio, difatti, si compendierebbe in una semplice omissio adquirendi e non in un depauperamento patrimoniale strictu sensu.Il vantaggio patrimoniale, parimenti, si sostanzierebbe in una “mancata spesa”, correlata a quel beneficio, e non in un incremento del patrimonio (3).
b) la teoria dell’alterità e la soluzione soggettiva Altra parte della dottrina, viceversa, sostiene che il distinguo fra le due categorie debba essere letto non in senso di specialità ma d’eterogenesi (4).Mentre, infatti, i negozi gratuiti sarebbero peculiarizzati dalla destinazione a realizzare un interesse patrimoniale del contraente, le liberalità sarebbero caratterizzate dalla presenza di un interesse non patrimoniale, causa giuridica dell’atto donativo.Il discrimen fra le due categorie negoziali sarebbe, allora, ontologico e non semplicemente dato da un elemento specializzante (tesi dell’inconfigurabilità di un rapporto di genus ad speciem).

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria del rapporto di genus ad speciem
La problematica, com’è evidente, è strettamente correlata alla soluzione della questione inerente la sussunzione della causa del contratto di donazione, paradigma causale degli atti liberali.Secondo i fautori della prima corrente esposta (teoria del rapporto di genus ad speciem), infatti, la causa della donazione dovrebbe rintracciarsi esattamente nell’elemento oggettivo (depauperamento/arricchimento) (5). Tale arricchimento, poi, dovrebbe essere letto, secondo tale tesi, in senso giuridico e non economico, nel senso surriferito. Sotto il profilo causale, allora, la donazione ed i negozi gratuiti sarebbero davvero parzialmente sovrapponibili. Anche in questa prima, infatti, come negli ultimi, il proprium causale sarebbe rintracciabile in un vantaggio patrimoniale non corrisposto, correlato ad un certo svantaggio d’identica natura. L’unica differenza sarebbe identificabile nel “tipo” di vantaggio/svantaggio cui il negozio darebbe luogo. Nei generici atti a titolo gratuito, infatti, le poste patrimoniali del contraente che conferisce il vantaggio e quella del beneficiario che lo percepisce resterebbero immutate. L’una, infatti, non patirebbe alcuna decurtazione, l’altra, ovviamente, non subirebbe alcun aumento.Lo svantaggio, come detto, si concreterebbe in una mera omissio adquirendi, cioè nel non pretendere alcunché per il vantaggio reso. Il vantaggio, come accennato, s’atteggerebbe non nella percezione d’alcunché, ma in una mancata spesa.Nella donazione, viceversa, lo svantaggio si concreterebbe in una contrazione patrimoniale, che convoglierebbe nella sfera del beneficiario, determinandone un incremento. La distinzione causale fra negozi genericamente gratuiti e donativi sarebbe riferibile, allora, solo alla sostanza del sacrificio/beneficio delle parti, pur presente in ambedue.Tale impostazione, a ben vedere, incide anche sulla questione relativa all’oggetto della donazione.Affermare, infatti, che il distinguo fra donazione e atti gratuiti riposa unicamente nel carattere addittivo/decurtativo, vuol dire dover identificare dei negozi attributivi (cioè non di mero accertamento) non aventi tale qualità, onde riconoscergli il nomen atti gratuiti, pena l’abrogatio ermeneutica dell’intera categoria.In altri termini la tesi del distinguo oggettivo e della specialità impone di identificare un vantaggio patrimoniale, attribuito per contratto, che non incrementi la sfera del percipiente e non impoverisca quella del conferente (perciò proprio di un negozio gtatuito non liberale).La corrente in esame (6), allora, ritiene di poter risolvere il problema asseverando la manchevolezza di tale qualità presso i negozi (non sinallagmatici) aventi ad oggetto l’obbligo d’un facere (o di un non facere), quali il comodato, il mutuo non feneratizio, ecc.L’assunzione di un tale obbligo infatti, si dice, non decurterebbe il patrimonio di chi si impegna, come non arricchirebbe quello di chi ne beneficia.Ne avremo che ogni negozio (non corrispettivo o solutorio), non importa se tipico o meno, che abbia ad oggetto l’assunzione d’un obbligo di tal fatta, sarà catalogabile come atto a titolo gratuito.Ne discenderà che la donazione ad effetti obbligatori non potrà mai avere ad oggetto un facere (o un non facere), ma solo un dare, qualificandosi altrimenti come negozio a titolo gratuito. Secondo questa tesi, dunque, l’assunzione di un obbligo di fare (o non fare), non impoverisce il patrimonio del conferente come non arricchisce quella del percipiente.Questa soluzione, tuttavia, non convince.Non pare dubbio, infatti, che l’assunzione di un obbligo di fare, non diversamente da quella d’un obbligo di dare, importa una decurtazione patrimoniale di chi si impegna (per aumento delle poste patrimoniali passive) e un arricchimento per chi riceve l’impegno (per aumento delle poste patrimoniali attive) (7). Non a caso l’art. 769, nel prevedere che la donazione può avere ad oggetto anche l’assunzione di un obbligo, non distingue tra obblighi di dare e di fare. Pare, allora, scorretta la ripartizione fra negozi gratuiti e donazioni in ragione del rapporto di specialità nel profilo oggettivo, avendo ambedue le figure carattere incrementativo/decurtativo, estensibile ad ogni forma di attribuzione, reale o obbligatoria.Parimenti scorretta ci pare, di conseguenza, l’individuazione della causa della donazione nel momento oggettivo e la riduzione della donazione obbligatoria alla specie delle liberalità di dare.

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria dell’alterità
Meglio articolata pare, invece, la prospettazione formulata dai fautori della tesi avversa (del rapporto di non specificazione fra gratuità e liberalità) che, in punto di causa, sottolinea l’importanza dell’elemento soggettivo.Tale corrente ritiene che ciò che qualifica la donazione sotto il profilo causale (e in tal senso la distingue dai negozi gratuiti) sia proprio l’elemento soggettivo.Tale elemento, tuttavia, non deve essere apprezzato (a tal fine) nella sua accezione negativa (cioè come spirito di liberalità o animus donandi), essendo questi i profili che non concorrono a descriverne la finalità concreta.Esso, invece, deve essere inteso in chiave positiva, ovvero come motivo che spinge il soggetto ad attribuire un bene ad un altro soggetto.Tale motivo assume le vesti d’un “interesse non patrimoniale”, che viene soddisfatto per tramite dell’attribuzione e che della stessa è causa (8).Lo spirito di liberalità, allora, (inteso come consapevolezza della non debenza dell’attribuzione) non è rilevante in sé (descrivendo un profilo non qualificante in termini causali) se non legato ad un elemento peculiarizzante di natura positiva.Tale elemento, allora, è dato dall’interesse non patrimoniale (morale, religioso, ecc.) che il donante, tramite l’operazione negoziale, mira a soddisfare.Il distinguo ripetto ai negozi gratuiti, allora, sarebbe rinvenibile non nel carattere attributivo/decurtativo, presente in ambedue, ma nell’interesse sottostante (e dunque nella causa), avente carattere non patrimoniale nella donazione e patrimoniale negli atti gratuiti.Ne discenderebbe l’assoluta eterogeneità (ovvero la non specialità) delle due figure. Secondo tale tesi, allora, non risiedendo la distinzione fra negozi gratuiti e donazioni nel requisito oggettivo (incremento/decurtazione), essi potranno ben avere identico contenuto (reale o obbligatorio, relativo ad un dare, facere, non facere), con piena ammissibilità delle donazioni di fare.
La donazione come negozio acausale
Vi è poi da aggiungere come, secondo una parte dei fautori della ricostruzione qui sostenuta (9), l’interesse non patrimoniale resti normalmente al di fuori della struttura del contratto donativo, relegato a mero motivo.Ne discende che tale contratto avrebbe normalmente carattere “acausale”.Questo tratto, com’è noto, costituirebbe un’eccezione in un sistema giuridico qual è il nostro, che non ammette attribuzioni non giustificate e, dunque, negozi “sostanzialmente astratti”.Ciò farebbe della donazione un negozio doppiamente “debole”:1) perché avrebbe indole (e non contenuto) non patrimoniale, contravvenendo alla normale natura del contratto (art. 1321);2) perché difetterebbe normalmente di causa.Tale debolezza verrebbe compensata dalla forma forte (atto pubblico con due testimoni) che la legge impone ad substantiam.
________(1) A. TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU e F. MESSINEO, Milano, 1956, pp. 25 e ss. (2) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol. III, parte I, pp. 5 e ss. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 765.(4) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss.; G. BALBI, La donazione, in Trattato di diritto civile, diretto da G. GROSSO e F. SANTORO PASSARELLI, Milano, 1964, pp. 19 e ss. (5) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol.III, parte I, pp. 5 e ss. (6) A. TORRENTE, op. ult. cit., pp. 219 e ss.(7) B. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. VASSALLI, Torino, 1961, pp. 380 e ss. (8) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss. (9) F. GAZZONI, op. et loc. ult. cit.
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Tratto daSUCCESSIONI E DONAZIONI di Francesco Lupia
Maggioli Editore, 2009

giovedì 13 novembre 2008

Estinzione del reato e confisca "obbligatoria"

06.11.2008
Sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato e possibilità di disporre la misura
Le Sezioni Unite precisano i rapporti fra primo e secondo comma dell'art. 240 c. p. ai fini della confiscabilità della res in assenza di una sentenza di condanna.
Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 15/10/2008, n. 38834

Le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della confiscabilità o meno delle cose costituenti il prezzo del reato anche nel caso in cui vi sia una pronuncia di estinzione del reato. Infatti nella giurisprudenza di legittimità era discusso se, in base al combinato disposto degli artt. 210 e 236, comma 2, c.p., la confisca obbligatoria prevista dal secondo comma dell'art. 240 C.P. potesse essere disposta in ipotesi diverse da quelle previste dal n. 2 del secondo comma dell'art. 240 c.p., ed in particolare se possa riguardare anche le cose costituenti il "prezzo" del reato pur in assenza di condanna.
Alcune decisioni si erano infatti poste sulla scia della affermazione delle Sezioni Unite 25 marzo 1993 n. 5, Carlea, che aveva evidenziato che se e vero che 1'estinzione del reato non impedisce 1'applicazione della misura di sicurezza patrimoniale, e pure vero che la applicazione deve essere resa possibile dalle norme che regolano specificamente la misura, e che se invece questa applicazione non e possibile non lo può diventare solo perché essa in via generale non e esclusa (in questo senso Cass. n. 1502 del 1990, in Ced cass 184292 e più di recente Cass. sez. VI, 19 febbraio 2008, Console).
Di contrario avviso si è mostrata altra giurisprudenza che ha valorizzato la non estensibilità alle misure di sicurezza patrimoniali della esclusione delle stesse in caso di estinzione del reato o della pena (e tra queste la decisione n. 5262 del 2000, Todesco, in Ced Cass 220007 e quella n. 6160 del 2005 della sezione quinta, ivi, 231173).
Le Sezioni Unite hanno ripercorso la motivazione della sentenza Carlea, condividendone il nucleo centrale e soffermandosi in particolare sull’avverbio “sempre” contenuto nel testo dell’art. 240 c.p., interpretato come preclusivo per una valutazione discrezionale del giudice nel potere di disporre la confisca, e sottolineando come l’espressione “è sempre ordinata” inserita nel secondo comma dell’art. 240 c.p. si contrapponga a quella “può ordinare” posta al primo comma, ma fatto salvo il presupposto che ciò possa avvenire solo “nel caso di condanna”, come fissato dallo stesso primo comma, con la sola deroga per le cose di cui al n. 2 del secondo comma.
La Corte ha inoltre osservando che l’art. 236 c.p., utilizzato dai sostenitori di una diversa soluzione, formuli un principio di carattere generale, che lascia, poi, libero il legislatore di stabilire i casi in cui tale effetto impeditivo si produce anche con riferimento alla confisca, giungendo pertanto ad affermare che la confisca delle cose costituenti il prezzo del reato, prevista obbligatoriamente dall’art. 240, comma 2, n. 1, c.p., non può essere disposta nel caso di estinzione del reato.

Alfredo Montagna, sost. proc. gen. Corte di Cassazione
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

Estinzione del reato e confisca "obbligatoria"

06.11.2008
Sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato e possibilità di disporre la misura
Le Sezioni Unite precisano i rapporti fra primo e secondo comma dell'art. 240 c. p. ai fini della confiscabilità della res in assenza di una sentenza di condanna.
Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 15/10/2008, n. 38834

Le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della confiscabilità o meno delle cose costituenti il prezzo del reato anche nel caso in cui vi sia una pronuncia di estinzione del reato. Infatti nella giurisprudenza di legittimità era discusso se, in base al combinato disposto degli artt. 210 e 236, comma 2, c.p., la confisca obbligatoria prevista dal secondo comma dell'art. 240 C.P. potesse essere disposta in ipotesi diverse da quelle previste dal n. 2 del secondo comma dell'art. 240 c.p., ed in particolare se possa riguardare anche le cose costituenti il "prezzo" del reato pur in assenza di condanna.
Alcune decisioni si erano infatti poste sulla scia della affermazione delle Sezioni Unite 25 marzo 1993 n. 5, Carlea, che aveva evidenziato che se e vero che 1'estinzione del reato non impedisce 1'applicazione della misura di sicurezza patrimoniale, e pure vero che la applicazione deve essere resa possibile dalle norme che regolano specificamente la misura, e che se invece questa applicazione non e possibile non lo può diventare solo perché essa in via generale non e esclusa (in questo senso Cass. n. 1502 del 1990, in Ced cass 184292 e più di recente Cass. sez. VI, 19 febbraio 2008, Console).
Di contrario avviso si è mostrata altra giurisprudenza che ha valorizzato la non estensibilità alle misure di sicurezza patrimoniali della esclusione delle stesse in caso di estinzione del reato o della pena (e tra queste la decisione n. 5262 del 2000, Todesco, in Ced Cass 220007 e quella n. 6160 del 2005 della sezione quinta, ivi, 231173).
Le Sezioni Unite hanno ripercorso la motivazione della sentenza Carlea, condividendone il nucleo centrale e soffermandosi in particolare sull’avverbio “sempre” contenuto nel testo dell’art. 240 c.p., interpretato come preclusivo per una valutazione discrezionale del giudice nel potere di disporre la confisca, e sottolineando come l’espressione “è sempre ordinata” inserita nel secondo comma dell’art. 240 c.p. si contrapponga a quella “può ordinare” posta al primo comma, ma fatto salvo il presupposto che ciò possa avvenire solo “nel caso di condanna”, come fissato dallo stesso primo comma, con la sola deroga per le cose di cui al n. 2 del secondo comma.
La Corte ha inoltre osservando che l’art. 236 c.p., utilizzato dai sostenitori di una diversa soluzione, formuli un principio di carattere generale, che lascia, poi, libero il legislatore di stabilire i casi in cui tale effetto impeditivo si produce anche con riferimento alla confisca, giungendo pertanto ad affermare che la confisca delle cose costituenti il prezzo del reato, prevista obbligatoriamente dall’art. 240, comma 2, n. 1, c.p., non può essere disposta nel caso di estinzione del reato.

Alfredo Montagna, sost. proc. gen. Corte di Cassazione
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

lunedì 3 novembre 2008

Principio di Offensività e misure cautelari: Prime applicazioni alla luce della sentenza della Consulta 225/08

Offensività e misure cautelari: interpretazione adeguatrice dell’art. 276, ter, c.p.p.
Tribunale Catanzaro, sez. I penale, ordinanza 17.10.2008

Ai sensi dell’art. 276 comma I-ter c.p.p. (aggiunto dall'art. 16, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4), in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, “il giudice dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere”.
La norma impugnata - lungi dall'assolvere a finalità sanzionatorie estranee alle misure di custodia preventiva, le quali non possono soddisfare altro che esigenze di carattere cautelare o comunque strettamente inerenti al processo (Corte cost. sentenze n. 1 del 1980 e n. 64 del 1970) - integra un caso di “presunzione di inadeguatezza di ogni misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere una volta che la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione al suo contenuto essenziale”.
Circa la materia regolamentata dalla disposizione de qua, la Consulta ha in diverse occasione (seppur non con riguardo allo specifico articolo in esame) che “non appare irragionevole ritenere che il volontario allontanamento dalla propria abitazione costituisca l'indice di una radicale insofferenza alle prescrizioni da parte della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, tale da incidere sulla valutazione circa l'adeguatezza di questa specifica misura cautelare, cui è connaturato un maggior grado di affidamento nel comportamento di chi vi è assoggettato, rispetto a ogni altra misura” (cfr. corte costituzionale, sentenza n. 406 del 1997; ordinanza n. 332 del 1995).
Conclusivamente: se l’imputato che si trova agli arresti domiciliari viola la misura cautelare allontanandosi dal domicilio, il giudice deve sostituire la misura in atto con la custodia cautelare in carcere. Un regime, in verità, particolarmente rigido che sembrerebbe quantomeno “eccessivo” in talune ipotesi del tutto peculiari.
Un esempio è quello affrontato dal tribunale catanzarese nell’ordinanza in commento.
I fatti
Un diciottenne agli arresti domiciliari si trovava solo in casa con la madre, immobilizzata per una frattura del piede. Il cane della suddetta, per una disattenzione, riusciva a fuggire davanti alla abitazione. Il ragazzo ristretto dalla misura in casa, non curante degli obblighi su di lui gravanti, usciva da casa per recuperare l’animale appena davanti alla abitazione. Sorpreso dalle autorità di polizia veniva arrestato e condotto dinnanzi al Giudice per la convalida dell’arresto. Avendo formalmente violato la misura cautelare, il P.M. chiedeva l’automatica applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p.: custodia i carcere.
Il Tribunale di Catanzaro, pur convalidando l’arresto, boccia la richiesta.
L’interpretazione “adeguatrice” dell’art. 276, comma 1-ter c.p.p.
Il giudice catanzarese si trova dinnanzi ad una norma che, pur non scritta in termini di obbligo imposto, è interpretata dalla giurisprudenza di legittimità come “automatica” nella ipotesi fattuale descritta dal comma 1-ter dell’art. 276 cit. E, tuttavia, siffatto “automatismo”, nel caso di specie, secondo il giudicante, condurrebbe quantomeno a conseguenze apparentemente incompatibili col dettato costituzionale il che porta a dover sperimentare un tentativo salvifico in punto di interpretazione ortopedica adeguatrice e, in caso di fallimento, a dover rimettere gli atti alla Consulta. Trai i diversi significati giuridici astrattamente possibili, infatti, il Giudice deve selezionare quello che sia conforme alla Costituzione; il sospetto di illegittimità costituzionale, cioè, è legittimo solo allorquando nessuno dei significati, che è possibile estrapolare dalla disposizione normativa, si sottragga alle censure di incostituzionalità (Corte cost., 12/03/1999, n. 65 in Cons. Stato, 1999, II, 366).
Il giudice, per siffatta via, reputa che la disposizione normativa sia suscettibile di interpretazione adeguatrice: ma da quale parametro costituzionale attingere? In modo innovativo, il Tribunale calabrese decide di attingere direttamente dal principio di offensività, richiamando, all’uopo, la recentissima giurisprudenza costituzionale che, invero, ha definitivamente inscritto il principio de quo nella volta dei principi costituzionali.
Il Tribunale, in primis, richiama proprio “il principio di necessaria offensività del reato” che è desumibile dall'art. 25, secondo comma, Cost., “in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignità umana»” (Corte costituzionale, sentenza 20 giugno 2008 n. 225).
Il principio in parola è richiamato per far presente che, in tanto la previsione ex art. 276 comma I-ter c.p.p. si può giustificare in quanto il “fatto” di reato posto in essere dal trasgressore (l’evasione) sia dotato di una componente offensiva rilevante al punto da giustificare la ratio della previsione legislativa. Altrimenti detto: non ogni trasgressione alla misura degli arresti domiciliari può ritenersi utile a determinare il meccanismo automatico di sostituzione con la custodia in carcere. Il giudice, di volta in volta, deve verificare la portata lesiva della violazione posta in essere.
L’ermeneutica sposata dal tribunale catanzarese trova conforto in un autorevole precedente della Corte Costituzionale. Questa, adita proprio sospettando della legittimità costituzionale dell’art. 276 comma I-ter c.p.p., ha avuto modo di precisare che – ai fini della previsione – se è vero che il meccanismo di sostituzione è autonomo (e non irragionevole) è anche vero che il Giudice conserva il potere di sindacare in concreto la “lesività del fatto” e, dunque, la sua offensività.
Secondo la corte delle Leggi “una volta che alla nozione di allontanamento dalla propria abitazione si riconosca una valenza rivelatrice in ordine alla sopravvenuta inadeguatezza degli arresti domiciliari”, non è escluso che “il fatto idoneo a giustificare la sostituzione della misura, tipizzato dal legislatore nella anzidetta formula normativa, possa essere apprezzato dal giudice in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche, per verificare se la condotta di trasgressione in concreto realizzata presenti quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la "violazione" che la norma impugnata assume a presupposto della sostituzione” (Corte costituzionale, 06 marzo 2002, n. 40 in Giur. cost. 2002, 550 ed in Cass. pen. 2002, 2086).
Osservazioni: art. 276 comma I-ter c.p.p. e infraventunenni
L’indirizzo sposato dal Tribunale catanzarese risulta minoritario. Il prevalente insegnamento della cassazione penale, infatti, è nel senso di affermare che “in caso di trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari precedentemente disposti, l'art. 276 c.p.p. comma I-ter rende obbligatoria la revoca degli arresti domiciliari ed il ripristino della custodia cautelare in carcere, senza che al giudice possa essere riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari” (Cass. pen., Sez. VI, 13/11/2003, n. 942; per lo specifico caso dell’evasione: Cass. pen., Sez. V, 17/11/2004, n. 47643). Secondo siffatta lettura, in particolare, l'art. 276, comma 1 ter, c.p.p., “non lascia al giudice alcun margine di valutazione in ordine alla gravità della trasgressione, la cui accertata sussistenza, quindi, comporta automaticamente la conseguenza prevista dalla norma” (Cass. pen., Sez. VI, 17/01/2005, n.9245).
L’indirizzo maggioritario, però, appare senz’altro censurabile se non altro in casi analoghi a quelli trattati dal Tribunale catanzarese. Si pensi, infatti, alle conseguenze irragionevoli che discendono, in ipotesi analoghe, dalla rigida applicazione della norma: viene applicata in itinere un provvedimento restrittivo poi sicuramente non confermato con la decisione finale. Si vuol dire: se il reato è stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto ma inferiore agli anni ventuno, la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni e sei mesi (art. 163, comma III c.p.). Bene, ai sensi dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., “non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”.
Altrimenti detto: l’imputato sconterà il carcere fino alla condanna per poi, a seguito della sospensione, uscire dalle mura detentive.
Ed, allora, almeno per il caso di cui si tratta è auspicabile una rimeditazione della questione cogliendo, opportunamente, il valido suggerimento della Consulta.
(Altalex, 28 ottobre 2008. Nota di Maria Grazia Travaglia Cicirello e Stefania Buffone)

Tribunale di Catanzaro
Sezione I Penale
Ordinanza 17 ottobre 2008
Il TRIBUNALE DI CATANZARO
Sezione Prima Penale
Il Giudice dott. Antonio Saraco, alla pubblica udienza del 17 ottobre 2008,
ha pronunciato e pubblicato mediante lettura la seguente

ORDINANZA
(omissis)
Rileva quanto segue
Il provvedimento dell’autorità è stato posto in essere sussistendo i presupposti legittimanti, avendo il B. trasgredito agli obblighi discendenti dalla misura cautelare. Ne consegue la convalida dell’arresto con le conseguenti statuizioni di legge. Il caso di specie sembrerebbe condurre alla applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p., giusta il quale la trasgressione della misura cautelare degli arresti domiciliari comporta la sostituzione della misura in atto con la custodia cautelare in carcere.
Il disposto normativo richiamato non può trovare applicazione – secondo questo Tribunale - nel caso di specie. Una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, infatti, comporta che la norma ex art. 276 cit. vada interpretata alla luce dei principi costituzionali che governano la materia dei provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Orbene, in primo luogo, il disposto in esame, dal punto di vista letterale, non impone quale atto dovuto la sostituzione della misura come pure avviene in altre disposizioni di rito: ciò vuol dire che resta integra e salva la discrezionalità del giudice di verificare l’”adeguatezza” della prescrizione de qua al caso di specie. E nel caso dell’arrestato B. la misura è del tutto inadeguata.
In primis, sono ostative ragioni sottese alla peculiarità del caso di specie. Il fatto astrattamente configurabile come reato di evasione è, in concreto, minimamente offensivo per le modalità concrete attraverso le quali si è perfezionato: il B., solo, in casa con la madre impossibilitata a muoversi (per un piede rotto), ha superato la soglia del domicilio per ragioni estranee all’intento di violare apertamente la misura e, infatti, ciò è avvenuto per recuperare un animale domestico fuggito da casa.
Il principio di offensività, come ha affermato la Consulta di recente, garanzia “dei valori della dignità umana” in uno Stato democratico, impone di tenere conto della concreta portata lesiva del fatto di reato e, nella specie, conduce a ritenere, per tale aspetto, inoperativo il disposto ex art. 276, comma 1-ter c.p.p..
Ulteriori elementi significativi sono: 1) l’età dell’arrestato, appena diciottenne; 2) il fatto che l’udienza cui strumentale la misura cautelare violata sia fissata a meno di un mese dalla commissione della trasgressione; 3) la condotta del B. assunta in sede di ascolto durante la fase della convalida.
E’ di ostacolo, infine, all’applicazione della misura cautelare richiesta, la prevedibile concessione, al caso di specie, della sospensione condizionale della pena che, in concreto, data l’età del B., conosce un limite pari a due anni e mezzo (art. 163, comma III, c.p.).
P.Q.M.
Convalida l’arresto;
rigetta la richiesta di custodia cautelare in carcere;
(omissis)
17 ottobre 2008
Il Giudice
Dott. Antonio Saraco

Principio di Offensività e misure cautelari: Prime applicazioni alla luce della sentenza della Consulta 225/08

Offensività e misure cautelari: interpretazione adeguatrice dell’art. 276, ter, c.p.p.
Tribunale Catanzaro, sez. I penale, ordinanza 17.10.2008

Ai sensi dell’art. 276 comma I-ter c.p.p. (aggiunto dall'art. 16, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4), in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, “il giudice dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere”.
La norma impugnata - lungi dall'assolvere a finalità sanzionatorie estranee alle misure di custodia preventiva, le quali non possono soddisfare altro che esigenze di carattere cautelare o comunque strettamente inerenti al processo (Corte cost. sentenze n. 1 del 1980 e n. 64 del 1970) - integra un caso di “presunzione di inadeguatezza di ogni misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere una volta che la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione al suo contenuto essenziale”.
Circa la materia regolamentata dalla disposizione de qua, la Consulta ha in diverse occasione (seppur non con riguardo allo specifico articolo in esame) che “non appare irragionevole ritenere che il volontario allontanamento dalla propria abitazione costituisca l'indice di una radicale insofferenza alle prescrizioni da parte della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, tale da incidere sulla valutazione circa l'adeguatezza di questa specifica misura cautelare, cui è connaturato un maggior grado di affidamento nel comportamento di chi vi è assoggettato, rispetto a ogni altra misura” (cfr. corte costituzionale, sentenza n. 406 del 1997; ordinanza n. 332 del 1995).
Conclusivamente: se l’imputato che si trova agli arresti domiciliari viola la misura cautelare allontanandosi dal domicilio, il giudice deve sostituire la misura in atto con la custodia cautelare in carcere. Un regime, in verità, particolarmente rigido che sembrerebbe quantomeno “eccessivo” in talune ipotesi del tutto peculiari.
Un esempio è quello affrontato dal tribunale catanzarese nell’ordinanza in commento.
I fatti
Un diciottenne agli arresti domiciliari si trovava solo in casa con la madre, immobilizzata per una frattura del piede. Il cane della suddetta, per una disattenzione, riusciva a fuggire davanti alla abitazione. Il ragazzo ristretto dalla misura in casa, non curante degli obblighi su di lui gravanti, usciva da casa per recuperare l’animale appena davanti alla abitazione. Sorpreso dalle autorità di polizia veniva arrestato e condotto dinnanzi al Giudice per la convalida dell’arresto. Avendo formalmente violato la misura cautelare, il P.M. chiedeva l’automatica applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p.: custodia i carcere.
Il Tribunale di Catanzaro, pur convalidando l’arresto, boccia la richiesta.
L’interpretazione “adeguatrice” dell’art. 276, comma 1-ter c.p.p.
Il giudice catanzarese si trova dinnanzi ad una norma che, pur non scritta in termini di obbligo imposto, è interpretata dalla giurisprudenza di legittimità come “automatica” nella ipotesi fattuale descritta dal comma 1-ter dell’art. 276 cit. E, tuttavia, siffatto “automatismo”, nel caso di specie, secondo il giudicante, condurrebbe quantomeno a conseguenze apparentemente incompatibili col dettato costituzionale il che porta a dover sperimentare un tentativo salvifico in punto di interpretazione ortopedica adeguatrice e, in caso di fallimento, a dover rimettere gli atti alla Consulta. Trai i diversi significati giuridici astrattamente possibili, infatti, il Giudice deve selezionare quello che sia conforme alla Costituzione; il sospetto di illegittimità costituzionale, cioè, è legittimo solo allorquando nessuno dei significati, che è possibile estrapolare dalla disposizione normativa, si sottragga alle censure di incostituzionalità (Corte cost., 12/03/1999, n. 65 in Cons. Stato, 1999, II, 366).
Il giudice, per siffatta via, reputa che la disposizione normativa sia suscettibile di interpretazione adeguatrice: ma da quale parametro costituzionale attingere? In modo innovativo, il Tribunale calabrese decide di attingere direttamente dal principio di offensività, richiamando, all’uopo, la recentissima giurisprudenza costituzionale che, invero, ha definitivamente inscritto il principio de quo nella volta dei principi costituzionali.
Il Tribunale, in primis, richiama proprio “il principio di necessaria offensività del reato” che è desumibile dall'art. 25, secondo comma, Cost., “in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignità umana»” (Corte costituzionale, sentenza 20 giugno 2008 n. 225).
Il principio in parola è richiamato per far presente che, in tanto la previsione ex art. 276 comma I-ter c.p.p. si può giustificare in quanto il “fatto” di reato posto in essere dal trasgressore (l’evasione) sia dotato di una componente offensiva rilevante al punto da giustificare la ratio della previsione legislativa. Altrimenti detto: non ogni trasgressione alla misura degli arresti domiciliari può ritenersi utile a determinare il meccanismo automatico di sostituzione con la custodia in carcere. Il giudice, di volta in volta, deve verificare la portata lesiva della violazione posta in essere.
L’ermeneutica sposata dal tribunale catanzarese trova conforto in un autorevole precedente della Corte Costituzionale. Questa, adita proprio sospettando della legittimità costituzionale dell’art. 276 comma I-ter c.p.p., ha avuto modo di precisare che – ai fini della previsione – se è vero che il meccanismo di sostituzione è autonomo (e non irragionevole) è anche vero che il Giudice conserva il potere di sindacare in concreto la “lesività del fatto” e, dunque, la sua offensività.
Secondo la corte delle Leggi “una volta che alla nozione di allontanamento dalla propria abitazione si riconosca una valenza rivelatrice in ordine alla sopravvenuta inadeguatezza degli arresti domiciliari”, non è escluso che “il fatto idoneo a giustificare la sostituzione della misura, tipizzato dal legislatore nella anzidetta formula normativa, possa essere apprezzato dal giudice in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche, per verificare se la condotta di trasgressione in concreto realizzata presenti quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la "violazione" che la norma impugnata assume a presupposto della sostituzione” (Corte costituzionale, 06 marzo 2002, n. 40 in Giur. cost. 2002, 550 ed in Cass. pen. 2002, 2086).
Osservazioni: art. 276 comma I-ter c.p.p. e infraventunenni
L’indirizzo sposato dal Tribunale catanzarese risulta minoritario. Il prevalente insegnamento della cassazione penale, infatti, è nel senso di affermare che “in caso di trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari precedentemente disposti, l'art. 276 c.p.p. comma I-ter rende obbligatoria la revoca degli arresti domiciliari ed il ripristino della custodia cautelare in carcere, senza che al giudice possa essere riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari” (Cass. pen., Sez. VI, 13/11/2003, n. 942; per lo specifico caso dell’evasione: Cass. pen., Sez. V, 17/11/2004, n. 47643). Secondo siffatta lettura, in particolare, l'art. 276, comma 1 ter, c.p.p., “non lascia al giudice alcun margine di valutazione in ordine alla gravità della trasgressione, la cui accertata sussistenza, quindi, comporta automaticamente la conseguenza prevista dalla norma” (Cass. pen., Sez. VI, 17/01/2005, n.9245).
L’indirizzo maggioritario, però, appare senz’altro censurabile se non altro in casi analoghi a quelli trattati dal Tribunale catanzarese. Si pensi, infatti, alle conseguenze irragionevoli che discendono, in ipotesi analoghe, dalla rigida applicazione della norma: viene applicata in itinere un provvedimento restrittivo poi sicuramente non confermato con la decisione finale. Si vuol dire: se il reato è stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto ma inferiore agli anni ventuno, la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni e sei mesi (art. 163, comma III c.p.). Bene, ai sensi dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., “non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”.
Altrimenti detto: l’imputato sconterà il carcere fino alla condanna per poi, a seguito della sospensione, uscire dalle mura detentive.
Ed, allora, almeno per il caso di cui si tratta è auspicabile una rimeditazione della questione cogliendo, opportunamente, il valido suggerimento della Consulta.
(Altalex, 28 ottobre 2008. Nota di Maria Grazia Travaglia Cicirello e Stefania Buffone)

Tribunale di Catanzaro
Sezione I Penale
Ordinanza 17 ottobre 2008
Il TRIBUNALE DI CATANZARO
Sezione Prima Penale
Il Giudice dott. Antonio Saraco, alla pubblica udienza del 17 ottobre 2008,
ha pronunciato e pubblicato mediante lettura la seguente

ORDINANZA
(omissis)
Rileva quanto segue
Il provvedimento dell’autorità è stato posto in essere sussistendo i presupposti legittimanti, avendo il B. trasgredito agli obblighi discendenti dalla misura cautelare. Ne consegue la convalida dell’arresto con le conseguenti statuizioni di legge. Il caso di specie sembrerebbe condurre alla applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p., giusta il quale la trasgressione della misura cautelare degli arresti domiciliari comporta la sostituzione della misura in atto con la custodia cautelare in carcere.
Il disposto normativo richiamato non può trovare applicazione – secondo questo Tribunale - nel caso di specie. Una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, infatti, comporta che la norma ex art. 276 cit. vada interpretata alla luce dei principi costituzionali che governano la materia dei provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Orbene, in primo luogo, il disposto in esame, dal punto di vista letterale, non impone quale atto dovuto la sostituzione della misura come pure avviene in altre disposizioni di rito: ciò vuol dire che resta integra e salva la discrezionalità del giudice di verificare l’”adeguatezza” della prescrizione de qua al caso di specie. E nel caso dell’arrestato B. la misura è del tutto inadeguata.
In primis, sono ostative ragioni sottese alla peculiarità del caso di specie. Il fatto astrattamente configurabile come reato di evasione è, in concreto, minimamente offensivo per le modalità concrete attraverso le quali si è perfezionato: il B., solo, in casa con la madre impossibilitata a muoversi (per un piede rotto), ha superato la soglia del domicilio per ragioni estranee all’intento di violare apertamente la misura e, infatti, ciò è avvenuto per recuperare un animale domestico fuggito da casa.
Il principio di offensività, come ha affermato la Consulta di recente, garanzia “dei valori della dignità umana” in uno Stato democratico, impone di tenere conto della concreta portata lesiva del fatto di reato e, nella specie, conduce a ritenere, per tale aspetto, inoperativo il disposto ex art. 276, comma 1-ter c.p.p..
Ulteriori elementi significativi sono: 1) l’età dell’arrestato, appena diciottenne; 2) il fatto che l’udienza cui strumentale la misura cautelare violata sia fissata a meno di un mese dalla commissione della trasgressione; 3) la condotta del B. assunta in sede di ascolto durante la fase della convalida.
E’ di ostacolo, infine, all’applicazione della misura cautelare richiesta, la prevedibile concessione, al caso di specie, della sospensione condizionale della pena che, in concreto, data l’età del B., conosce un limite pari a due anni e mezzo (art. 163, comma III, c.p.).
P.Q.M.
Convalida l’arresto;
rigetta la richiesta di custodia cautelare in carcere;
(omissis)
17 ottobre 2008
Il Giudice
Dott. Antonio Saraco

mercoledì 29 ottobre 2008

Le Comunità Europee ed il diritto d'Autore


Corte di Giustizia Europea 8/11/2007 n. C-20/05
Direttiva 98/34/CE - Procedura d'informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche - Legge nazionale che impone l'obbligo di apporre il contrassegno dell'ente nazionale incaricato della riscossione dei diritti d'autore su dischi compatti commercializzati

Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 1998, 98/34/CE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (GU L 204, pag. 37), come modificata con la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 luglio 1998 (GU L 217, pag. 18; in prosieguo: la «direttiva 98/34»), della direttiva del Consiglio 19 novembre 1992, 92/100/CEE, concernente il diritto di noleggio, il diritto di prestito e taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale (GU L 346, pag. 61), nonché della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001, 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (GU L 167, pag. 10).
2 La domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale promosso in Italia a carico del sig. Schwibbert per detenzione di compact disc (in prosieguo: i «CD») che non recavano il contrassegno dell’ente nazionale incaricato della riscossione dei diritti d’autore.
Contesto normativo
La normativa comunitaria
3 La direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE (GU L 109, pag. 8) ha istituito in diritto comunitario una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche.
4 L’art. 12 della direttiva 83/189 recita:
«1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro dodici mesi a decorrere dalla sua notifica e ne informano immediatamente la Commissione.
2. Gli Stati membri provvedono a comunicare alla Commissione il testo delle disposizioni essenziali di diritto interno adottate nel settore disciplinato dalla presente direttiva».
5 La direttiva 83/189 ha subito varie modifiche sostanziali. La direttiva 98/34 ne ha effettuato la codificazione.
6 L’art. 1 della direttiva 98/34 dispone quanto segue:
«Ai sensi della presente direttiva si intende per:
1) “prodotto”: i prodotti di fabbricazione industriale e i prodotti agricoli, compresi i prodotti della pesca;
(…)
3) “specificazione tecnica”: una specificazione che figura in un documento che definisce le caratteristiche richieste di un prodotto, quali i livelli di qualità o di proprietà di utilizzazione, la sicurezza, le dimensioni, comprese le prescrizioni applicabili al prodotto per quanto riguarda la denominazione di vendita, la terminologia, i simboli, le prove ed i metodi di prova, l’imballaggio, la marcatura e l’etichettatura, nonché le procedure di valutazione della conformità.
(…)
4) “altro requisito”: un requisito diverso da una specificazione tecnica, prescritto per un prodotto per motivi di tutela, in particolare dei consumatori o dell’ambiente, e concernente il suo ciclo di vita dopo la commercializzazione, quali le sue condizioni di utilizzazione, di riciclaggio, di reimpiego o di eliminazione qualora tali condizioni possano influenzare in modo significativo la composizione o la natura del prodotto o la sua commercializzazione;
(…)
11) “regola tecnica”: una specificazione tecnica o altro requisito o una regola relativa ai servizi, comprese le disposizioni amministrative che ad esse si applicano, la cui osservanza è obbligatoria, de jure o de facto, per la commercializzazione, la prestazione di servizi, lo stabilimento di un fornitore di servizi o l’utilizzo degli stessi in uno Stato membro o in una parte importante di esso, nonché, fatte salve quelle di cui all’articolo 10, le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che vietano la fabbricazione, l’importazione, la commercializzazione o l’utilizzo di un prodotto oppure la prestazione o l’utilizzo di un servizio o lo stabilimento come fornitore di servizi.
(…)»
7 Gli artt. 8 e 9 della direttiva 98/34 impongono agli Stati membri, da un lato, di comunicare alla Commissione delle Comunità europee i progetti di regole tecniche che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva in parola, salvo che si tratti del semplice recepimento integrale di una norma internazionale o europea, nel qual caso è sufficiente una semplice informazione sulla norma stessa, e, dall’altro, di rinviare di vari mesi l’adozione di tali progetti al fine di consentire alla Commissione di verificare se sono compatibili con il diritto comunitario, segnatamente con la libera circolazione delle merci, o di proporre, nel settore di cui trattasi, une direttiva, un regolamento o una decisione.
8 La direttiva 92/100 ha per oggetto l’armonizzazione della protezione giuridica delle opere protette dal diritto d’autore e delle realizzazioni protette dai diritti connessi. Essa è diretta a garantire agli autori e artisti interpreti o esecutori un reddito adeguato. A tal fine, la direttiva 92/100 stabilisce che gli Stati membri prevedono il diritto di autorizzare o proibire il noleggio ed il prestito di originali, di copie di opere protette dal diritto d’autore e di altre realizzazioni indicate all’art. 2, n. 1, della direttiva in parola. Nell’ambito del capo II della direttiva 92/100, relativo ai diritti connessi al diritto di autore, l’art. 9 stabilisce che gli Stati membri prevedono un diritto esclusivo di messa a disposizione del pubblico, per la vendita o altro, delle realizzazioni elencate al detto articolo.
La normativa nazionale
9 Ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di diritto d’autore (GURI 16 luglio 1941, n. 166; in prosieguo: la «legge del 1941»), l’obbligo di apposizione del contrassegno su qualunque supporto contenente opere protette è uno strumento di autenticazione e di garanzia che permette di distinguere il prodotto legittimo da quello pirata. La Società Italiana Autori ed Editori, ente pubblico ad hoc, svolge funzioni di protezione, intermediazione e certificazione. Il contrassegno così previsto dalla legge reca le iniziali «SIAE».
10 La legge 27 marzo 1987, n. 121 (GURI 28 marzo 1987, n. 73), ha esteso l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» ad altri supporti contenenti opere dell’ingegno.
11 Nell’ambito del recepimento della direttiva 92/100, il legislatore italiano, in forza del decreto legislativo 16 novembre 1994, n. 685 (GURI 16 dicembre 1994, n. 293), che ha abrogato la legge n. 121/87, ha inserito in particolare nella legge del 1941 una disposizione, l’art. 171 ter, n. 1, lett. c), che commina sanzioni penali specifiche e dispone quanto segue:
«1. È punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire cinquecentomila a lire sei milioni chiunque:
(...)
c) vende o noleggia videocassette, musicassette od altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, non contrassegnati dalla società italiana degli autori ed editori (S.I.A.E.) ai sensi della presente legge e del regolamento di esecuzione.
(…)».
Causa principale e questione pregiudiziale
12 Il 12 febbraio 2000 la Procura della Repubblica presso il Tribunale civile e penale di Forlì ha avviato un’indagine preliminare nei confronti del sig. Schwibbert, residente in Italia, legale rappresentante della società K.J.W.S. Srl, e ha confermato che, il 9 e il 10 febbraio 2000, quest’ultimo deteneva per la vendita presso i magazzini di tale società un certo numero di CD contenenti riproduzioni di opere dei pittori Giorgio De Chirico e Mario Schifano. I CD, importati dalla Germania per conto di altre società in vista della loro commercializzazione nell’ambito di iniziative culturali, erano privi del contrassegno «SIAE».
13 Nel corso di indagini effettuate il 9 e il 10 febbraio 2000 da agenti della Guardia di Finanza – Comando Tenenza di Cesena, veniva redatto un verbale di sequestro dei CD di cui è causa, conformemente al codice di procedura penale, nel quale veniva indicato che, ad un primo esame, tale merce appariva contraffatta.
14 Il 23 maggio 2001 la Procura della Repubblica presso il Tribunale civile e penale di Forlì ha rinviato a giudizio il sig. Schwibbert, imputato del delitto di cui all’art. 171 ter, n. 1, lett. c), della legge del 1941, dinanzi al medesimo Tribunale.
15 L’udienza dinanzi al Tribunale civile e penale di Forlì si è svolta il 14 dicembre 2004. Nel verbale d’udienza il giudice del rinvio sottolinea che è posto a carico del sig. Schwibbert non già il fatto di avere riprodotto abusivamente le opere, dato che quest’ultimo era in possesso delle necessarie autorizzazioni, bensì esclusivamente la circostanza che i CD fossero privi del contrassegno «SIAE».
16 Nel corso di tale udienza, il difensore del sig. Schwibbert ha chiesto al giudice a quo di sottoporre una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte. Il Tribunale civile e penale di Forlì ha accolto tale istanza, ma, nell’ordinanza di rinvio, ha semplicemente incluso in allegato la memoria dell’avvocato, senza formulare quesiti precisi.
17 Conformemente all’art. 104, n. 5, del regolamento di procedura, il 17 luglio 2006 la Corte ha chiesto chiarimenti al giudice del rinvio. La risposta del giudice in parola è pervenuta alla Corte il 31 ottobre 2006.
18 Da tale risposta risulta che la questione formulata dal Tribunale civile e penale di Forlì è la seguente:
«Se le norme nazionali in tema di contrassegno SIAE siano compatibili con gli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE, 1, 8, 10 e 11 della direttiva 22 giugno 1998, 98/34/CE, e con le direttive 92/100 e 2001/29».
Sulla questione pregiudiziale
Sulla ricevibilità
19 Il governo italiano, sia nell’ambito delle osservazioni scritte sia in udienza, fa valere che la domanda di pronuncia pregiudiziale dovrebbe essere dichiarata irricevibile. Secondo detto governo, infatti, la domanda di cui trattasi non contiene tutte le informazioni necessarie per consentire alla Corte di risolvere utilmente la questione sottoposta. A tale proposito, il governo italiano sostiene che, contrariamente a quanto richiesto dall’art. 20 dello Statuto della Corte di giustizia, la domanda in parola non precisa i motivi per cui l’interpretazione delle norme di diritto comunitario sarebbe necessaria e non evidenzia chiaramente le disposizioni nazionali che si applicano effettivamente alla causa principale. In ogni caso, detta domanda sarebbe irrilevante rispetto alla soluzione del giudizio di cui trattasi.
20 Quanto alla Commissione, nelle sue osservazioni scritte essa rileva che la questione pregiudiziale, laddove concerne l’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e la direttiva 92/100, va dichiarata irricevibile poiché l’ordinanza di rinvio non contiene sufficienti indicazioni.
21 Va rammentato che le informazioni fornite nelle decisioni di rinvio pregiudiziale devono non solo consentire alla Corte di fornire risposte utili, ma altresì dare ai governi degli Stati membri nonché alle altre parti interessate la possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’art. 20 dello Statuto della Corte di giustizia (ordinanza 2 marzo 1999, causa C-422/98, Colonia Versicherung e a., Racc. pag. I-1279, punto 5). Compete alla Corte vigilare affinché tale possibilità sia salvaguardata, tenuto conto del fatto che, a norma della disposizione citata, alle parti interessate vengono notificate solo le decisioni di rinvio (sentenza 1° aprile 1982, cause riunite 141/81-143/81, Holdijk e a., Racc pag. 1299, punto 6; ordinanza 13 marzo 1996, causa C-326/95, Banco de Fomento e Exterior, Racc. pag. I-1385, punto 7, nonché sentenza 13 aprile 2000, causa C-176/96, Lehtonen e Castors Braine, Racc. pag. I-2681, punto 23). Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, è indispensabile che il giudice nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle norme comunitarie di cui chiede l’interpretazione e sul rapporto che egli ritiene esista fra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia (v., in particolare, ordinanza 28 giugno 2000, causa C-116/00, Laguillaumie, Racc. pag. I-4979, punto 16, nonché sentenza 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 38).
22 Nel caso di specie, come risulta dal punto 17 della presente sentenza, il giudice del rinvio, su richiesta della Corte, ha fornito chiarimenti relativamente ai fatti oggetto della causa principale così come in merito al contesto giuridico nazionale e comunitario. Inoltre, la Società Italiana degli Autori ed Editori, il governo italiano e la Commissione hanno ritenuto possibile, sulla base delle informazioni fornite da tale giudice, presentare osservazioni alla Corte.
23 Per quanto riguarda la direttiva 98/34, la posizione delle parti interessate è divergente relativamente al punto se l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» valga anche per i CD in questione nella causa principale e, eventualmente, in che momento tale obbligo sia stato esteso a detti supporti, e cioè se anteriormente o successivamente all’introduzione nel diritto comunitario dell’obbligo di comunicazione dei progetti di regole tecniche. Nel caso di specie, non è in discussione che fosse stato promosso un procedimento penale a carico del sig. Schwibbert per non aver apposto il contrassegno «SIAE» in parola. Tuttavia, stabilire il momento in cui l’obbligo di apposizione è stato effettivamente introdotto nella normativa italiana concerne l’interpretazione del diritto nazionale, per la quale la Corte non è competente. In ogni caso, l’incertezza su tale punto non è tale da privare di utilità la soluzione chiesta alla Corte relativamente alla questione sottoposta così come precisata dal giudice del rinvio nella sua risposta alla richiesta di chiarimenti.
24 La Corte ritiene pertanto di essere stata sufficientemente informata per poter risolvere la questione relativamente alla direttiva 98/34.
25 Per quanto riguarda, invece, l’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e della direttiva 92/100, è giocoforza constatare che l’ordinanza di rinvio non fornisce le informazioni necessarie per consentire alla Corte di fornire al giudice a quo una risposta utile.
26 Si deve infatti ricordare che le disposizioni del Trattato CE vietano, fra gli Stati membri, i dazi doganali all’importazione e all’esportazione e tutte le altre misure di effetto equivalente. Quanto alla direttiva 92/100, essa armonizza le norme sul diritto di noleggio e di prestito, nonché su taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale.
27 Orbene, le indicazioni relative alla ricostruzione dei fatti della causa principale fornite dal giudice a quo non consentono di stabilire con certezza il luogo di fabbricazione dei CD né che siano stati effettivamente importati in Italia. Quanto alle informazioni relative al contesto normativo nazionale, esse non consentono alla Corte di conoscere sufficientemente le caratteristiche del corrispettivo economico per la concessione del contrassegno «SIAE» al fine di stabilire se si tratti di un dazio doganale o di una tassa di effetto equivalente ai sensi dei menzionati articoli del Trattato CE. Infine, le indicazioni di cui trattasi non consentono nemmeno di valutare se la direttiva 92/100 osti a tali disposizioni nazionali.
28 Alla luce di quanto precede, non è possibile pronunciarsi sul punto se se gli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e la direttiva 92/100 ostino ad un obbligo come quello in discussione nella causa principale.
29 Occorre inoltre precisare che la questione pregiudiziale riguarda altresì l’interpretazione della direttiva 2001/29. Questa direttiva è fondata sui principi e le norme già fissati, in particolare, dalla direttiva 92/100, da essa modificata. La direttiva 2001/29 è stata adottata il 22 maggio 2001 e il suo art. 13 prevede che gli Stati membri devono conformarvisi anteriormente al 22 dicembre 2002. Orbene, i fatti all’origine della causa principale si sono svolti nel corso del febbraio 2000, data in cui la direttiva di cui trattasi non era ancora stata adottata. Pertanto, la questione pregiudiziale, laddove concerne l’interpretazione della direttiva 2001/29, è irricevibile.
30 Di conseguenza, la domanda di pronuncia pregiudiziale va considerata ricevibile solamente nella parte in cui riguarda l’interpretazione della direttiva 98/34.
Nel merito
31 Con la sua questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se gli artt. 1, 8, 10 e 11 della direttiva 98/34 ostino a disposizioni nazionali come quelle della causa principale, laddove esse prevedano, in occasione della riproduzione di opere dell’ingegno, l’apposizione sul supporto in cui queste ultime sono contenute della sigla della Società Italiana degli Autori ed Editori.
32 A tale riguardo, dagli atti depositati dinanzi alla Corte emerge che, nella causa principale, è stato promosso un procedimento penale a carico del sig. Schwibbert per non aver apposto il contrassegno in parola su CD contenenti opere d’arte figurativa. Occorre pertanto accertare se le norme di diritto comunitario richiamate dal giudice del rinvio ostino a disposizioni nazionali che prevedono tale obbligo.
33 In primo luogo, si deve verificare se l’obbligo di apporre detta sigla possa essere qualificato come «regola tecnica» ai sensi dell’art. 1 della direttiva 98/34. In caso di soluzione affermativa, andrà accertato se il progetto di regola tecnica sia stato notificato alla Commissione dalle autorità italiane, dato che in mancanza di tale notifica esso sarebbe inoppobinile al sig. Schwibbert (v., in particolare, sentenze 30 aprile 1996, causa C-194/94, CIA Security International, Racc. pag. I-2201, punti 48 e 54; 16 giugno 1998, causa C-226/97, Lemmens, Racc. pag. I-3711, punto 33, nonché 6 giugno 2002, causa C-159/00, Sapod Audic, Racc. pag. I-5031, punto 49).
34 Dall’art. 1, punto 11, della direttiva 98/34 discende che la nozione di «regola tecnica» è scomponibile in tre categorie, vale a dire, in primo luogo, la «specificazione tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 3, della detta direttiva, in secondo luogo, «altri requisiti » come definiti all’art. 1, punto 4, della direttiva in parola e, in terzo luogo, il divieto di fabbricazione, importazione, commercializzazione o utilizzo di un prodotto di cui all’art. 1, punto 11, della medesima direttiva (v., in particolare, sentenza 21 aprile 2005, causa C-267/03, Lindberg, Racc. pag. I-3247, punto 54).
35 Come già affermato dalla Corte, la nozione di «specificazione tecnica» presuppone che la misura nazionale si riferisca necessariamente al prodotto o al suo imballaggio in quanto tali, e che definisca quindi una delle caratteristiche richieste di un prodotto (v., in tal senso, sentenze 8 marzo 2001, causa C-278/99, Van der Burg, Racc. pag. I-2015, punto 20; 22 gennaio 2002, causa C-390/99, Canal Satélite Digital, Racc. pag. I-607, punto 45, nonché Sapod Audic, punto 30, e Lindberg, punto 57, già citate).
36 Nel caso di specie, è giocoforza constatare, come osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 46 e 48 delle sue conclusioni, che l’apposizione del contrassegno «SIAE», diretta ad informare i consumatori e le autorità nazionali che le copie sono legali, si effettua sul supporto stesso che contiene l’opera dell’ingegno, quindi sul prodotto stesso. Non è pertanto esatto sostenere, come asserito dalla Società Italiana degli Autori ed Editori e dal governo italiano, che tale contrassegno riguarderebbe solamente l’opera dell’ingegno.
37 Orbene, tale contrassegno costituisce una «specificazione tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 3, della direttiva 98/34, poiché rientra nelle prescrizioni applicabili ai prodotti considerati per quanto riguarda la marcatura e l’etichettatura. Pertanto, dal momento che l’osservanza di detta specificazione è obbligatoria de iure per la commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, la specificazione in parola costituisce una «regola tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 11, primo comma, della direttiva in questione (v., in questo senso, sentenza 20 marzo 1997, causa C-13/96, Bic Benelux, Racc. pag. I-1753, punto 23).
38 Conformemente all’art. 8 della direttiva 98/34, «gli Stati membri comunicano immediatamente alla Commissione ogni progetto di regola tecnica». Se tale obbligo non è stato rispettato, la regola tecnica non può essere opposta ai singoli, come ricordato al punto 33 della presente sentenza. Va dunque verificato se, nel caso di specie, lo Stato membro abbia rispettato gli obblighi che discendono dall’art. 8 della direttiva 98/34. In caso negativo, la regola tecnica in discussione sarebbe inopponibile al sig. Schwibbert.
39 La Società Italiana degli Autori ed Editori ed il governo italiano fanno valere che l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» ai supporti contenenti opere dell’ingegno era già previsto, ben prima dell’entrata in vigore delle pertinenti direttive comunitarie, nella legge del 1941 per i supporti cartacei, e che le modifiche legislative apportate, successivamente all’entrata in vigore delle direttive menzionate, rispettivamente, nel 1987 e nel 1994, hanno costituito semplicemente adeguamenti ai progressi tecnologici che hanno unicamente incluso nuovi supporti nell’ambito d’applicazione dell’obbligo di cui trattasi. Di conseguenza, non risultava necessario notificare alla Commissione le modifiche in parola.
40 Nel caso in esame, dal fascicolo presentato alla Corte sembra evincersi che, per quanto riguarda i supporti oggetto della causa principale, vale a dire i CD contenenti opere d’arte figurativa, l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» è stato reso ad essi applicabile nel 1994 in forza del decreto legislativo n. 685. In tale contesto, l’obbligo di cui trattasi avrebbe dovuto essere comunicato alla Commissione dalla Repubblica italiana, dal momento che esso è stato stabilito successivamente all’istituzione, ad opera della direttiva 83/189, della procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche. Tuttavia, come ricordato al punto 23 della presente sentenza, spetta al giudice del rinvio accertare se l’obbligo di cui trattasi sia stato effettivamente introdotto nel diritto italiano in tale momento.
41 In quanto l’obbligo di apposizione del contrassegno distintivo «SIAE» sia stato esteso ai prodotti, come quelli che costituiscono oggetto della causa principale, successivamente all’entrata in vigore della direttiva 83/189, si deve ricordare che, per giurisprudenza costante, la finalità perseguita con l’art. 8, n. 1, primo comma, seconda frase, della direttiva 98/34 è quella di consentire alla Commissione di disporre di informazioni quanto più possibile complete su tutto il progetto di regola tecnica quanto al suo contenuto, alla sua portata e al suo contesto generale onde consentirle di esercitare, nel modo più efficace possibile, i poteri che le sono conferiti dalla direttiva (v., in particolare, le sentenze CIA Security International, cit., punto 50; 16 settembre 1997, causa C-279/94, Commissione/Italia, Racc. pag. I-4743, punto 40, e 7 maggio 1998, causa C-145/97, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-2643, punto 12).
42 Analogamente, conformemente al n. 1, terzo comma, del menzionato art. 8, gli «Stati membri procedono ad una nuova comunicazione (…) qualora essi apportino al progetto di regola tecnica modifiche importanti che ne alterino il campo di applicazione (…)». Orbene, l’inclusione di nuovi supporti, quali i CD, nell’ambito dell’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» dev’essere considerata come una modifica di tal genere (v., in questo senso, sentenze 1º giugno 1994, causa C-317/92, Commissione/Germania, Racc. pag. I-2039, punto 25, e Lindberg, cit., punti 84 e 85).
43 Nelle sue osservazioni scritte ed in udienza, la Commissione ha affermato, senza essere contraddetta in proposito dallo Stato membro, che la Repubblica italiana non le aveva comunicato la modifica in parola.
44 Orbene, conformemente alla giurisprudenza della Corte, l’inadempimento dell’obbligo di comunicazione costituisce un vizio procedurale nell’adozione delle regole tecniche di cui è causa e comporta l’inapplicabilità delle regole tecniche considerate, di modo che esse non possono essere opposte ai privati (v., in particolare, le citate sentenze CIA Security International, punto 54, e Lemmens, punto 33). I privati possono avvalersene dinanzi al giudice nazionale, cui compete la disapplicazione di una regola tecnica nazionale che non sia stata notificata conformemente alla direttiva 98/34 (v., in particolare, le citate sentenze CIA Security International, punto 55, e Sapod Audic, punto 50).
45 Alla luce di tali elementi, occorre dichiarare che la direttiva 98/34 dev’essere interpretata nel senso che disposizioni nazionali come quelle in discussione nella causa principale, in quanto abbiano stabilito, successivamente all’entrata in vigore della direttiva 83/189, l’obbligo di apporre su CD contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno «SIAE» in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, costituiscono una regola tecnica che, qualora non sia stata notificata alla Commissione, non può essere fatta valere nei confronti di un privato.
Sulle spese
46 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 1998, 98/34/CE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, come modificata con direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 luglio 1998, 98/48/CE, dev’essere interpretata nel senso che disposizioni nazionali come quelle di cui trattasi nella causa principale, in quanto abbiano stabilito, successivamente all’entrata in vigore della direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche, l’obbligo di apporre sui dischi compatti contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno «SIAE» in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, costituiscono una regola tecnica che, qualora non sia stata notificata alla Commissione, non può essere fatta valere nei confronti di un privato.


Le Comunità Europee ed il diritto d'Autore


Corte di Giustizia Europea 8/11/2007 n. C-20/05
Direttiva 98/34/CE - Procedura d'informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche - Legge nazionale che impone l'obbligo di apporre il contrassegno dell'ente nazionale incaricato della riscossione dei diritti d'autore su dischi compatti commercializzati

Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 1998, 98/34/CE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (GU L 204, pag. 37), come modificata con la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 luglio 1998 (GU L 217, pag. 18; in prosieguo: la «direttiva 98/34»), della direttiva del Consiglio 19 novembre 1992, 92/100/CEE, concernente il diritto di noleggio, il diritto di prestito e taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale (GU L 346, pag. 61), nonché della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001, 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (GU L 167, pag. 10).
2 La domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale promosso in Italia a carico del sig. Schwibbert per detenzione di compact disc (in prosieguo: i «CD») che non recavano il contrassegno dell’ente nazionale incaricato della riscossione dei diritti d’autore.
Contesto normativo
La normativa comunitaria
3 La direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE (GU L 109, pag. 8) ha istituito in diritto comunitario una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche.
4 L’art. 12 della direttiva 83/189 recita:
«1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro dodici mesi a decorrere dalla sua notifica e ne informano immediatamente la Commissione.
2. Gli Stati membri provvedono a comunicare alla Commissione il testo delle disposizioni essenziali di diritto interno adottate nel settore disciplinato dalla presente direttiva».
5 La direttiva 83/189 ha subito varie modifiche sostanziali. La direttiva 98/34 ne ha effettuato la codificazione.
6 L’art. 1 della direttiva 98/34 dispone quanto segue:
«Ai sensi della presente direttiva si intende per:
1) “prodotto”: i prodotti di fabbricazione industriale e i prodotti agricoli, compresi i prodotti della pesca;
(…)
3) “specificazione tecnica”: una specificazione che figura in un documento che definisce le caratteristiche richieste di un prodotto, quali i livelli di qualità o di proprietà di utilizzazione, la sicurezza, le dimensioni, comprese le prescrizioni applicabili al prodotto per quanto riguarda la denominazione di vendita, la terminologia, i simboli, le prove ed i metodi di prova, l’imballaggio, la marcatura e l’etichettatura, nonché le procedure di valutazione della conformità.
(…)
4) “altro requisito”: un requisito diverso da una specificazione tecnica, prescritto per un prodotto per motivi di tutela, in particolare dei consumatori o dell’ambiente, e concernente il suo ciclo di vita dopo la commercializzazione, quali le sue condizioni di utilizzazione, di riciclaggio, di reimpiego o di eliminazione qualora tali condizioni possano influenzare in modo significativo la composizione o la natura del prodotto o la sua commercializzazione;
(…)
11) “regola tecnica”: una specificazione tecnica o altro requisito o una regola relativa ai servizi, comprese le disposizioni amministrative che ad esse si applicano, la cui osservanza è obbligatoria, de jure o de facto, per la commercializzazione, la prestazione di servizi, lo stabilimento di un fornitore di servizi o l’utilizzo degli stessi in uno Stato membro o in una parte importante di esso, nonché, fatte salve quelle di cui all’articolo 10, le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che vietano la fabbricazione, l’importazione, la commercializzazione o l’utilizzo di un prodotto oppure la prestazione o l’utilizzo di un servizio o lo stabilimento come fornitore di servizi.
(…)»
7 Gli artt. 8 e 9 della direttiva 98/34 impongono agli Stati membri, da un lato, di comunicare alla Commissione delle Comunità europee i progetti di regole tecniche che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva in parola, salvo che si tratti del semplice recepimento integrale di una norma internazionale o europea, nel qual caso è sufficiente una semplice informazione sulla norma stessa, e, dall’altro, di rinviare di vari mesi l’adozione di tali progetti al fine di consentire alla Commissione di verificare se sono compatibili con il diritto comunitario, segnatamente con la libera circolazione delle merci, o di proporre, nel settore di cui trattasi, une direttiva, un regolamento o una decisione.
8 La direttiva 92/100 ha per oggetto l’armonizzazione della protezione giuridica delle opere protette dal diritto d’autore e delle realizzazioni protette dai diritti connessi. Essa è diretta a garantire agli autori e artisti interpreti o esecutori un reddito adeguato. A tal fine, la direttiva 92/100 stabilisce che gli Stati membri prevedono il diritto di autorizzare o proibire il noleggio ed il prestito di originali, di copie di opere protette dal diritto d’autore e di altre realizzazioni indicate all’art. 2, n. 1, della direttiva in parola. Nell’ambito del capo II della direttiva 92/100, relativo ai diritti connessi al diritto di autore, l’art. 9 stabilisce che gli Stati membri prevedono un diritto esclusivo di messa a disposizione del pubblico, per la vendita o altro, delle realizzazioni elencate al detto articolo.
La normativa nazionale
9 Ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di diritto d’autore (GURI 16 luglio 1941, n. 166; in prosieguo: la «legge del 1941»), l’obbligo di apposizione del contrassegno su qualunque supporto contenente opere protette è uno strumento di autenticazione e di garanzia che permette di distinguere il prodotto legittimo da quello pirata. La Società Italiana Autori ed Editori, ente pubblico ad hoc, svolge funzioni di protezione, intermediazione e certificazione. Il contrassegno così previsto dalla legge reca le iniziali «SIAE».
10 La legge 27 marzo 1987, n. 121 (GURI 28 marzo 1987, n. 73), ha esteso l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» ad altri supporti contenenti opere dell’ingegno.
11 Nell’ambito del recepimento della direttiva 92/100, il legislatore italiano, in forza del decreto legislativo 16 novembre 1994, n. 685 (GURI 16 dicembre 1994, n. 293), che ha abrogato la legge n. 121/87, ha inserito in particolare nella legge del 1941 una disposizione, l’art. 171 ter, n. 1, lett. c), che commina sanzioni penali specifiche e dispone quanto segue:
«1. È punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire cinquecentomila a lire sei milioni chiunque:
(...)
c) vende o noleggia videocassette, musicassette od altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, non contrassegnati dalla società italiana degli autori ed editori (S.I.A.E.) ai sensi della presente legge e del regolamento di esecuzione.
(…)».
Causa principale e questione pregiudiziale
12 Il 12 febbraio 2000 la Procura della Repubblica presso il Tribunale civile e penale di Forlì ha avviato un’indagine preliminare nei confronti del sig. Schwibbert, residente in Italia, legale rappresentante della società K.J.W.S. Srl, e ha confermato che, il 9 e il 10 febbraio 2000, quest’ultimo deteneva per la vendita presso i magazzini di tale società un certo numero di CD contenenti riproduzioni di opere dei pittori Giorgio De Chirico e Mario Schifano. I CD, importati dalla Germania per conto di altre società in vista della loro commercializzazione nell’ambito di iniziative culturali, erano privi del contrassegno «SIAE».
13 Nel corso di indagini effettuate il 9 e il 10 febbraio 2000 da agenti della Guardia di Finanza – Comando Tenenza di Cesena, veniva redatto un verbale di sequestro dei CD di cui è causa, conformemente al codice di procedura penale, nel quale veniva indicato che, ad un primo esame, tale merce appariva contraffatta.
14 Il 23 maggio 2001 la Procura della Repubblica presso il Tribunale civile e penale di Forlì ha rinviato a giudizio il sig. Schwibbert, imputato del delitto di cui all’art. 171 ter, n. 1, lett. c), della legge del 1941, dinanzi al medesimo Tribunale.
15 L’udienza dinanzi al Tribunale civile e penale di Forlì si è svolta il 14 dicembre 2004. Nel verbale d’udienza il giudice del rinvio sottolinea che è posto a carico del sig. Schwibbert non già il fatto di avere riprodotto abusivamente le opere, dato che quest’ultimo era in possesso delle necessarie autorizzazioni, bensì esclusivamente la circostanza che i CD fossero privi del contrassegno «SIAE».
16 Nel corso di tale udienza, il difensore del sig. Schwibbert ha chiesto al giudice a quo di sottoporre una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte. Il Tribunale civile e penale di Forlì ha accolto tale istanza, ma, nell’ordinanza di rinvio, ha semplicemente incluso in allegato la memoria dell’avvocato, senza formulare quesiti precisi.
17 Conformemente all’art. 104, n. 5, del regolamento di procedura, il 17 luglio 2006 la Corte ha chiesto chiarimenti al giudice del rinvio. La risposta del giudice in parola è pervenuta alla Corte il 31 ottobre 2006.
18 Da tale risposta risulta che la questione formulata dal Tribunale civile e penale di Forlì è la seguente:
«Se le norme nazionali in tema di contrassegno SIAE siano compatibili con gli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE, 1, 8, 10 e 11 della direttiva 22 giugno 1998, 98/34/CE, e con le direttive 92/100 e 2001/29».
Sulla questione pregiudiziale
Sulla ricevibilità
19 Il governo italiano, sia nell’ambito delle osservazioni scritte sia in udienza, fa valere che la domanda di pronuncia pregiudiziale dovrebbe essere dichiarata irricevibile. Secondo detto governo, infatti, la domanda di cui trattasi non contiene tutte le informazioni necessarie per consentire alla Corte di risolvere utilmente la questione sottoposta. A tale proposito, il governo italiano sostiene che, contrariamente a quanto richiesto dall’art. 20 dello Statuto della Corte di giustizia, la domanda in parola non precisa i motivi per cui l’interpretazione delle norme di diritto comunitario sarebbe necessaria e non evidenzia chiaramente le disposizioni nazionali che si applicano effettivamente alla causa principale. In ogni caso, detta domanda sarebbe irrilevante rispetto alla soluzione del giudizio di cui trattasi.
20 Quanto alla Commissione, nelle sue osservazioni scritte essa rileva che la questione pregiudiziale, laddove concerne l’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e la direttiva 92/100, va dichiarata irricevibile poiché l’ordinanza di rinvio non contiene sufficienti indicazioni.
21 Va rammentato che le informazioni fornite nelle decisioni di rinvio pregiudiziale devono non solo consentire alla Corte di fornire risposte utili, ma altresì dare ai governi degli Stati membri nonché alle altre parti interessate la possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’art. 20 dello Statuto della Corte di giustizia (ordinanza 2 marzo 1999, causa C-422/98, Colonia Versicherung e a., Racc. pag. I-1279, punto 5). Compete alla Corte vigilare affinché tale possibilità sia salvaguardata, tenuto conto del fatto che, a norma della disposizione citata, alle parti interessate vengono notificate solo le decisioni di rinvio (sentenza 1° aprile 1982, cause riunite 141/81-143/81, Holdijk e a., Racc pag. 1299, punto 6; ordinanza 13 marzo 1996, causa C-326/95, Banco de Fomento e Exterior, Racc. pag. I-1385, punto 7, nonché sentenza 13 aprile 2000, causa C-176/96, Lehtonen e Castors Braine, Racc. pag. I-2681, punto 23). Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, è indispensabile che il giudice nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle norme comunitarie di cui chiede l’interpretazione e sul rapporto che egli ritiene esista fra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia (v., in particolare, ordinanza 28 giugno 2000, causa C-116/00, Laguillaumie, Racc. pag. I-4979, punto 16, nonché sentenza 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 38).
22 Nel caso di specie, come risulta dal punto 17 della presente sentenza, il giudice del rinvio, su richiesta della Corte, ha fornito chiarimenti relativamente ai fatti oggetto della causa principale così come in merito al contesto giuridico nazionale e comunitario. Inoltre, la Società Italiana degli Autori ed Editori, il governo italiano e la Commissione hanno ritenuto possibile, sulla base delle informazioni fornite da tale giudice, presentare osservazioni alla Corte.
23 Per quanto riguarda la direttiva 98/34, la posizione delle parti interessate è divergente relativamente al punto se l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» valga anche per i CD in questione nella causa principale e, eventualmente, in che momento tale obbligo sia stato esteso a detti supporti, e cioè se anteriormente o successivamente all’introduzione nel diritto comunitario dell’obbligo di comunicazione dei progetti di regole tecniche. Nel caso di specie, non è in discussione che fosse stato promosso un procedimento penale a carico del sig. Schwibbert per non aver apposto il contrassegno «SIAE» in parola. Tuttavia, stabilire il momento in cui l’obbligo di apposizione è stato effettivamente introdotto nella normativa italiana concerne l’interpretazione del diritto nazionale, per la quale la Corte non è competente. In ogni caso, l’incertezza su tale punto non è tale da privare di utilità la soluzione chiesta alla Corte relativamente alla questione sottoposta così come precisata dal giudice del rinvio nella sua risposta alla richiesta di chiarimenti.
24 La Corte ritiene pertanto di essere stata sufficientemente informata per poter risolvere la questione relativamente alla direttiva 98/34.
25 Per quanto riguarda, invece, l’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e della direttiva 92/100, è giocoforza constatare che l’ordinanza di rinvio non fornisce le informazioni necessarie per consentire alla Corte di fornire al giudice a quo una risposta utile.
26 Si deve infatti ricordare che le disposizioni del Trattato CE vietano, fra gli Stati membri, i dazi doganali all’importazione e all’esportazione e tutte le altre misure di effetto equivalente. Quanto alla direttiva 92/100, essa armonizza le norme sul diritto di noleggio e di prestito, nonché su taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale.
27 Orbene, le indicazioni relative alla ricostruzione dei fatti della causa principale fornite dal giudice a quo non consentono di stabilire con certezza il luogo di fabbricazione dei CD né che siano stati effettivamente importati in Italia. Quanto alle informazioni relative al contesto normativo nazionale, esse non consentono alla Corte di conoscere sufficientemente le caratteristiche del corrispettivo economico per la concessione del contrassegno «SIAE» al fine di stabilire se si tratti di un dazio doganale o di una tassa di effetto equivalente ai sensi dei menzionati articoli del Trattato CE. Infine, le indicazioni di cui trattasi non consentono nemmeno di valutare se la direttiva 92/100 osti a tali disposizioni nazionali.
28 Alla luce di quanto precede, non è possibile pronunciarsi sul punto se se gli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e la direttiva 92/100 ostino ad un obbligo come quello in discussione nella causa principale.
29 Occorre inoltre precisare che la questione pregiudiziale riguarda altresì l’interpretazione della direttiva 2001/29. Questa direttiva è fondata sui principi e le norme già fissati, in particolare, dalla direttiva 92/100, da essa modificata. La direttiva 2001/29 è stata adottata il 22 maggio 2001 e il suo art. 13 prevede che gli Stati membri devono conformarvisi anteriormente al 22 dicembre 2002. Orbene, i fatti all’origine della causa principale si sono svolti nel corso del febbraio 2000, data in cui la direttiva di cui trattasi non era ancora stata adottata. Pertanto, la questione pregiudiziale, laddove concerne l’interpretazione della direttiva 2001/29, è irricevibile.
30 Di conseguenza, la domanda di pronuncia pregiudiziale va considerata ricevibile solamente nella parte in cui riguarda l’interpretazione della direttiva 98/34.
Nel merito
31 Con la sua questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se gli artt. 1, 8, 10 e 11 della direttiva 98/34 ostino a disposizioni nazionali come quelle della causa principale, laddove esse prevedano, in occasione della riproduzione di opere dell’ingegno, l’apposizione sul supporto in cui queste ultime sono contenute della sigla della Società Italiana degli Autori ed Editori.
32 A tale riguardo, dagli atti depositati dinanzi alla Corte emerge che, nella causa principale, è stato promosso un procedimento penale a carico del sig. Schwibbert per non aver apposto il contrassegno in parola su CD contenenti opere d’arte figurativa. Occorre pertanto accertare se le norme di diritto comunitario richiamate dal giudice del rinvio ostino a disposizioni nazionali che prevedono tale obbligo.
33 In primo luogo, si deve verificare se l’obbligo di apporre detta sigla possa essere qualificato come «regola tecnica» ai sensi dell’art. 1 della direttiva 98/34. In caso di soluzione affermativa, andrà accertato se il progetto di regola tecnica sia stato notificato alla Commissione dalle autorità italiane, dato che in mancanza di tale notifica esso sarebbe inoppobinile al sig. Schwibbert (v., in particolare, sentenze 30 aprile 1996, causa C-194/94, CIA Security International, Racc. pag. I-2201, punti 48 e 54; 16 giugno 1998, causa C-226/97, Lemmens, Racc. pag. I-3711, punto 33, nonché 6 giugno 2002, causa C-159/00, Sapod Audic, Racc. pag. I-5031, punto 49).
34 Dall’art. 1, punto 11, della direttiva 98/34 discende che la nozione di «regola tecnica» è scomponibile in tre categorie, vale a dire, in primo luogo, la «specificazione tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 3, della detta direttiva, in secondo luogo, «altri requisiti » come definiti all’art. 1, punto 4, della direttiva in parola e, in terzo luogo, il divieto di fabbricazione, importazione, commercializzazione o utilizzo di un prodotto di cui all’art. 1, punto 11, della medesima direttiva (v., in particolare, sentenza 21 aprile 2005, causa C-267/03, Lindberg, Racc. pag. I-3247, punto 54).
35 Come già affermato dalla Corte, la nozione di «specificazione tecnica» presuppone che la misura nazionale si riferisca necessariamente al prodotto o al suo imballaggio in quanto tali, e che definisca quindi una delle caratteristiche richieste di un prodotto (v., in tal senso, sentenze 8 marzo 2001, causa C-278/99, Van der Burg, Racc. pag. I-2015, punto 20; 22 gennaio 2002, causa C-390/99, Canal Satélite Digital, Racc. pag. I-607, punto 45, nonché Sapod Audic, punto 30, e Lindberg, punto 57, già citate).
36 Nel caso di specie, è giocoforza constatare, come osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 46 e 48 delle sue conclusioni, che l’apposizione del contrassegno «SIAE», diretta ad informare i consumatori e le autorità nazionali che le copie sono legali, si effettua sul supporto stesso che contiene l’opera dell’ingegno, quindi sul prodotto stesso. Non è pertanto esatto sostenere, come asserito dalla Società Italiana degli Autori ed Editori e dal governo italiano, che tale contrassegno riguarderebbe solamente l’opera dell’ingegno.
37 Orbene, tale contrassegno costituisce una «specificazione tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 3, della direttiva 98/34, poiché rientra nelle prescrizioni applicabili ai prodotti considerati per quanto riguarda la marcatura e l’etichettatura. Pertanto, dal momento che l’osservanza di detta specificazione è obbligatoria de iure per la commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, la specificazione in parola costituisce una «regola tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 11, primo comma, della direttiva in questione (v., in questo senso, sentenza 20 marzo 1997, causa C-13/96, Bic Benelux, Racc. pag. I-1753, punto 23).
38 Conformemente all’art. 8 della direttiva 98/34, «gli Stati membri comunicano immediatamente alla Commissione ogni progetto di regola tecnica». Se tale obbligo non è stato rispettato, la regola tecnica non può essere opposta ai singoli, come ricordato al punto 33 della presente sentenza. Va dunque verificato se, nel caso di specie, lo Stato membro abbia rispettato gli obblighi che discendono dall’art. 8 della direttiva 98/34. In caso negativo, la regola tecnica in discussione sarebbe inopponibile al sig. Schwibbert.
39 La Società Italiana degli Autori ed Editori ed il governo italiano fanno valere che l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» ai supporti contenenti opere dell’ingegno era già previsto, ben prima dell’entrata in vigore delle pertinenti direttive comunitarie, nella legge del 1941 per i supporti cartacei, e che le modifiche legislative apportate, successivamente all’entrata in vigore delle direttive menzionate, rispettivamente, nel 1987 e nel 1994, hanno costituito semplicemente adeguamenti ai progressi tecnologici che hanno unicamente incluso nuovi supporti nell’ambito d’applicazione dell’obbligo di cui trattasi. Di conseguenza, non risultava necessario notificare alla Commissione le modifiche in parola.
40 Nel caso in esame, dal fascicolo presentato alla Corte sembra evincersi che, per quanto riguarda i supporti oggetto della causa principale, vale a dire i CD contenenti opere d’arte figurativa, l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» è stato reso ad essi applicabile nel 1994 in forza del decreto legislativo n. 685. In tale contesto, l’obbligo di cui trattasi avrebbe dovuto essere comunicato alla Commissione dalla Repubblica italiana, dal momento che esso è stato stabilito successivamente all’istituzione, ad opera della direttiva 83/189, della procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche. Tuttavia, come ricordato al punto 23 della presente sentenza, spetta al giudice del rinvio accertare se l’obbligo di cui trattasi sia stato effettivamente introdotto nel diritto italiano in tale momento.
41 In quanto l’obbligo di apposizione del contrassegno distintivo «SIAE» sia stato esteso ai prodotti, come quelli che costituiscono oggetto della causa principale, successivamente all’entrata in vigore della direttiva 83/189, si deve ricordare che, per giurisprudenza costante, la finalità perseguita con l’art. 8, n. 1, primo comma, seconda frase, della direttiva 98/34 è quella di consentire alla Commissione di disporre di informazioni quanto più possibile complete su tutto il progetto di regola tecnica quanto al suo contenuto, alla sua portata e al suo contesto generale onde consentirle di esercitare, nel modo più efficace possibile, i poteri che le sono conferiti dalla direttiva (v., in particolare, le sentenze CIA Security International, cit., punto 50; 16 settembre 1997, causa C-279/94, Commissione/Italia, Racc. pag. I-4743, punto 40, e 7 maggio 1998, causa C-145/97, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-2643, punto 12).
42 Analogamente, conformemente al n. 1, terzo comma, del menzionato art. 8, gli «Stati membri procedono ad una nuova comunicazione (…) qualora essi apportino al progetto di regola tecnica modifiche importanti che ne alterino il campo di applicazione (…)». Orbene, l’inclusione di nuovi supporti, quali i CD, nell’ambito dell’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» dev’essere considerata come una modifica di tal genere (v., in questo senso, sentenze 1º giugno 1994, causa C-317/92, Commissione/Germania, Racc. pag. I-2039, punto 25, e Lindberg, cit., punti 84 e 85).
43 Nelle sue osservazioni scritte ed in udienza, la Commissione ha affermato, senza essere contraddetta in proposito dallo Stato membro, che la Repubblica italiana non le aveva comunicato la modifica in parola.
44 Orbene, conformemente alla giurisprudenza della Corte, l’inadempimento dell’obbligo di comunicazione costituisce un vizio procedurale nell’adozione delle regole tecniche di cui è causa e comporta l’inapplicabilità delle regole tecniche considerate, di modo che esse non possono essere opposte ai privati (v., in particolare, le citate sentenze CIA Security International, punto 54, e Lemmens, punto 33). I privati possono avvalersene dinanzi al giudice nazionale, cui compete la disapplicazione di una regola tecnica nazionale che non sia stata notificata conformemente alla direttiva 98/34 (v., in particolare, le citate sentenze CIA Security International, punto 55, e Sapod Audic, punto 50).
45 Alla luce di tali elementi, occorre dichiarare che la direttiva 98/34 dev’essere interpretata nel senso che disposizioni nazionali come quelle in discussione nella causa principale, in quanto abbiano stabilito, successivamente all’entrata in vigore della direttiva 83/189, l’obbligo di apporre su CD contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno «SIAE» in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, costituiscono una regola tecnica che, qualora non sia stata notificata alla Commissione, non può essere fatta valere nei confronti di un privato.
Sulle spese
46 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 1998, 98/34/CE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, come modificata con direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 luglio 1998, 98/48/CE, dev’essere interpretata nel senso che disposizioni nazionali come quelle di cui trattasi nella causa principale, in quanto abbiano stabilito, successivamente all’entrata in vigore della direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche, l’obbligo di apporre sui dischi compatti contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno «SIAE» in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, costituiscono una regola tecnica che, qualora non sia stata notificata alla Commissione, non può essere fatta valere nei confronti di un privato.


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