Visualizzazione post con etichetta Lex mercatoria. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Lex mercatoria. Mostra tutti i post

giovedì 27 agosto 2009

Focus: IL MARCHIO - CENNI GENERALI

Il marchio: aspetti operativi e contabili


SOMMARIO: Il marchio è al tempo stesso un’immobilizzazione immateriale e il segno distintivo dell’azienda o dei suoi prodotti. Esso può consistere in un segno, in un emblema o in una denominazione. Deve possedere una serie di requisiti quali: la novità, l’originalità e la leicità. La sua regolamentazione, nel codice civile, è contenuta nell’art. 2569.
Aspetti generali
Il marchio è un bene immateriale, che contraddistingue l’azienda o i suoi prodotti. Può essere rappresentato da un emblema, una denominazione,un segno. La tutela di tale bene immateriale avviene attraverso la sua registrazione presso l’Ufficio Brevetti, aspetto del tutto privo di significato per quanto attiene alla sua rilevazione contabile, ma che incide profondamente sulla stima del suo valore economico e sul successivo diritto di sfruttamento in esclusiva.
Il marchio consente di differenziare i prodotti o servizi dell’imprenditore da quelli dei suoi concorrenti. Rappresenta, inoltre, uno strumento di rafforzamento della clientela abituale e, al tempo stesso, contribuisce a promuovere l’acquisizione di nuova clientela. Può essere anche l’elemento che distingue una società, un ramo di società o un gruppo di società.
Il trasferimento del marchio è regolato dall’art. 2573 del codice civile, che stabilisce che in caso di diritto esclusivo allo sfruttamento, il marchio può essere trasferito unicamente con il trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa.
Nella prassi, il marchio deve produrre un effetto di identificazione per la clientela o essere indicato quale riferimento per la qualità dei prodotti o servizi aziendali. Solitamente, tali aspetti coesistono con una preminenza dell’uno o dell’altro in relazione al settore in cui opera l’azienda cui il marchio si riferisce. Così, se si considera il settore della moda, è indubbio che siamo di fronte ad uno strumento che svolge una funzione di richiamo; mentrese consideriamo un settore in cui nei prodotti prevale la componente tecnologica, è fuori di dubbio che prevarrà l’aspetto qualitativo del marchio, inteso che veicolo del know-how aziendale.
Salvo che il marchio venga acquisito da terzi, la sua produzione interna richiede il sostenimento di costi specifici, in particolare trattasi di costi relativi a:
grafica e studi correlati;
• valorizzazione e divulgazione sul mercato. Si tratterà quindi principalmente di investimenti commerciali a sostegno del marchio (altrimenti detto brand marketing actions).
Aspetti gestionali
Innanzitutto, possiamo identificare tre aree principali interessate dagli aspetti gestionali del marchio:
a) l’area commerciale, per gli aspetti legati al marketing;
b) l’area finanziaria per gli aspetti legati alle scelte di investimento;
c) l’area amministrativa per le problematiche di contabilità e bilancio.
Il marketing è l’insieme delle azioni volte a promuovere e a valorizzare un’impresa e/o i suoi prodotti. I costi per le azioni di brand marketing quali pubblicità, altri costi promozionali sono fondamentali per accrescere visibilità, originalità e captatività del marchio.

Focus: IL MARCHIO - CENNI GENERALI

Il marchio: aspetti operativi e contabili


SOMMARIO: Il marchio è al tempo stesso un’immobilizzazione immateriale e il segno distintivo dell’azienda o dei suoi prodotti. Esso può consistere in un segno, in un emblema o in una denominazione. Deve possedere una serie di requisiti quali: la novità, l’originalità e la leicità. La sua regolamentazione, nel codice civile, è contenuta nell’art. 2569.
Aspetti generali
Il marchio è un bene immateriale, che contraddistingue l’azienda o i suoi prodotti. Può essere rappresentato da un emblema, una denominazione,un segno. La tutela di tale bene immateriale avviene attraverso la sua registrazione presso l’Ufficio Brevetti, aspetto del tutto privo di significato per quanto attiene alla sua rilevazione contabile, ma che incide profondamente sulla stima del suo valore economico e sul successivo diritto di sfruttamento in esclusiva.
Il marchio consente di differenziare i prodotti o servizi dell’imprenditore da quelli dei suoi concorrenti. Rappresenta, inoltre, uno strumento di rafforzamento della clientela abituale e, al tempo stesso, contribuisce a promuovere l’acquisizione di nuova clientela. Può essere anche l’elemento che distingue una società, un ramo di società o un gruppo di società.
Il trasferimento del marchio è regolato dall’art. 2573 del codice civile, che stabilisce che in caso di diritto esclusivo allo sfruttamento, il marchio può essere trasferito unicamente con il trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa.
Nella prassi, il marchio deve produrre un effetto di identificazione per la clientela o essere indicato quale riferimento per la qualità dei prodotti o servizi aziendali. Solitamente, tali aspetti coesistono con una preminenza dell’uno o dell’altro in relazione al settore in cui opera l’azienda cui il marchio si riferisce. Così, se si considera il settore della moda, è indubbio che siamo di fronte ad uno strumento che svolge una funzione di richiamo; mentrese consideriamo un settore in cui nei prodotti prevale la componente tecnologica, è fuori di dubbio che prevarrà l’aspetto qualitativo del marchio, inteso che veicolo del know-how aziendale.
Salvo che il marchio venga acquisito da terzi, la sua produzione interna richiede il sostenimento di costi specifici, in particolare trattasi di costi relativi a:
grafica e studi correlati;
• valorizzazione e divulgazione sul mercato. Si tratterà quindi principalmente di investimenti commerciali a sostegno del marchio (altrimenti detto brand marketing actions).
Aspetti gestionali
Innanzitutto, possiamo identificare tre aree principali interessate dagli aspetti gestionali del marchio:
a) l’area commerciale, per gli aspetti legati al marketing;
b) l’area finanziaria per gli aspetti legati alle scelte di investimento;
c) l’area amministrativa per le problematiche di contabilità e bilancio.
Il marketing è l’insieme delle azioni volte a promuovere e a valorizzare un’impresa e/o i suoi prodotti. I costi per le azioni di brand marketing quali pubblicità, altri costi promozionali sono fondamentali per accrescere visibilità, originalità e captatività del marchio.

giovedì 16 aprile 2009

LIbertà di concorrenza ed apertura domenicale degli esercizi: D.lgs 114/98 e norme regionali difformi

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo ....

15.04.09 - TAR Lecce: libera apertura domenicale degli esercizi

E' illegittima, perchè contraria alle norme sulla libera concorrenza, l'ordinanza sindacale con cui viene autorizzata l'apertura domenicale dei soli esercizi di vicinato. E' questo il principio con cui la I sezione del TAR Lecce ha accolto il ricorso proposto da una media struttura di vendita avverso l'ordinaza del sindaco che limitava l'apertura ai soli esercizi di vicinato.Il TAR Lecce ha evidenziato preliminarmente il contrasto esistente tra la legge regionale pugliese in materia - la quale pone il principio della chiusura domenicale, con possibilità di derogarvi previa autorizzazione comunale - e la normativa statale (decreto legislativo n. 114 del 1998), che in tema di città d'arte come quella di specie fissa invece l'opposto principio della libera apertura domenicale per tutte le tipologie di esercizio, senza distinzioni legate alla diversa dimensione aziendale.Ha poi proseguito il TAR adito, rilevando che il decreto legislativo 114/1998 ha principalmente inteso favorire l'apertura del mercato alla concorrenza (Corte cost., sent. n. 64 del 2007) al fine di rimuovere vincoli e privilegi, realizzando una maggiore eguaglianza di opportunità, in chiave di libera esplicazione della capacità imprenditoriale, per tutti gli operatori economici.Pertanto, per il TAR Lecce tale programmazione della apertura degli esercizi commerciali costituisce:- da un lato, una barriera, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, all'accesso al mercato ed al suo libero funzionamento (cfr. Corte cost., sent. n. 430 del 2007);- e, dall'atro, viola i principi comunitari in tema di libera concorrenza. Ed ancora, per il Giudicante:- la liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura favorisce, in termini pro-concorenziali, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all'ingresso di nuovi operatori; - le nuove dinamiche competitive sembrano altresì caratterizzate, sul piano della domanda, da una maggiore e significativa disponibilità alla mobilità per l'acquisto, soprattutto se domenicale (cfr. Segnalazione Antitrust 24 ottobre 2008);- la disposizione regionale citata, ad una sommaria delibazione, sembra introdurre altresì una ingiustificata discriminazione tra esercizi di diverse tipologie dimensionali.
(Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - Lecce - Sezione Prima,
Ordinanza 25 marzo 2009, n.287).

LIbertà di concorrenza ed apertura domenicale degli esercizi: D.lgs 114/98 e norme regionali difformi

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo ....

15.04.09 - TAR Lecce: libera apertura domenicale degli esercizi

E' illegittima, perchè contraria alle norme sulla libera concorrenza, l'ordinanza sindacale con cui viene autorizzata l'apertura domenicale dei soli esercizi di vicinato. E' questo il principio con cui la I sezione del TAR Lecce ha accolto il ricorso proposto da una media struttura di vendita avverso l'ordinaza del sindaco che limitava l'apertura ai soli esercizi di vicinato.Il TAR Lecce ha evidenziato preliminarmente il contrasto esistente tra la legge regionale pugliese in materia - la quale pone il principio della chiusura domenicale, con possibilità di derogarvi previa autorizzazione comunale - e la normativa statale (decreto legislativo n. 114 del 1998), che in tema di città d'arte come quella di specie fissa invece l'opposto principio della libera apertura domenicale per tutte le tipologie di esercizio, senza distinzioni legate alla diversa dimensione aziendale.Ha poi proseguito il TAR adito, rilevando che il decreto legislativo 114/1998 ha principalmente inteso favorire l'apertura del mercato alla concorrenza (Corte cost., sent. n. 64 del 2007) al fine di rimuovere vincoli e privilegi, realizzando una maggiore eguaglianza di opportunità, in chiave di libera esplicazione della capacità imprenditoriale, per tutti gli operatori economici.Pertanto, per il TAR Lecce tale programmazione della apertura degli esercizi commerciali costituisce:- da un lato, una barriera, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, all'accesso al mercato ed al suo libero funzionamento (cfr. Corte cost., sent. n. 430 del 2007);- e, dall'atro, viola i principi comunitari in tema di libera concorrenza. Ed ancora, per il Giudicante:- la liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura favorisce, in termini pro-concorenziali, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all'ingresso di nuovi operatori; - le nuove dinamiche competitive sembrano altresì caratterizzate, sul piano della domanda, da una maggiore e significativa disponibilità alla mobilità per l'acquisto, soprattutto se domenicale (cfr. Segnalazione Antitrust 24 ottobre 2008);- la disposizione regionale citata, ad una sommaria delibazione, sembra introdurre altresì una ingiustificata discriminazione tra esercizi di diverse tipologie dimensionali.
(Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - Lecce - Sezione Prima,
Ordinanza 25 marzo 2009, n.287).

lunedì 14 luglio 2008

Consulenze aziendali fiscali e commerciali, commercialisti, competenza esclusiva
Cassazione civile , sez. II, sentenza 11.06.2008 n° 15530

Consulenze aziendali fiscali e commerciali – commercialisti – competenza esclusiva – esclusione [art. 2231 c.c.]
La prestazione di consulenza aziendale fiscale e commerciale non rientra nelle attività che sono riservate in via esclusiva ad una determinata categoria professionale. Il loro esercizio, infatti, non è subordinato all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione.
(Fonte: Altalex Massimario 24/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 1 aprile - 11 giugno 2008, n. 15530
(Presidente Mensitieri – Relatore Migliucci)
Svolgimento del processo
E. N. proponeva appello avverso la sentenza del Pretore di Padova n. 1017/98, depositata il 30.12.98 con cui, revocato il decreto ingiuntivo chiesto e ottenuto per pagamento, di prestazioni professionali, era stato anche condannato alla restituzione di L.850.000 in favore di F. C..
Sosteneva che il pretore aveva errato nel ritenere inesigibile la sua richiesta di consulente del lavoro per aver svolto attività riservata ai commercialisti; che aveva errato nel valutare le prove documentali e testimoniali assunte in I grado.
Si costituiva il convenuto chiedendo la conferma dell'impugnata sentenza. Con sentenza dep. il 6 febbraio 2003 la Corte di appello di Venezia respingeva l'impugnazione, ritenendo che le attività professionali in relazione alle quali era stato chiesto il compenso non rientravano fra quelle attribuite dall'art. 2 della L. 11.1.79 n. 12 ai consulenti del lavoro, che svolgono tutti gli adempimenti previsti per l’amministrazione del personale dipendente nonché ogni altra funzione che sia affine, connessa e conseguente. Nella specie,non rientravano nelle competenze del consulente del lavoro l'attività relativa alla cessione di azienda e la correlativa valutazione patrimoniale della panetteria, né lo studio di fattibilità dell'apertura nel Comune di Salvezzano di un negozio di erboristeria né la redazione dell'atto di transazione stipulato dal N. per porre fine alla controversia sfociata in una denuncia penale da parte di colui il quale doveva acquistare la panetteria, e che aveva contestato al C. di aver abusivamente asportato dal negozio derrate alimentari già inventariate, facenti ormai parte dell'oggetto del contratto di cessione d'azienda. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il N. sulla base di un unico motivo.
Resiste con controricorso il C..
Motivi della decisione
Con l'unico articolato motivo il ricorrente,lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 12 del 1979, in relazione all'art. 2231 cod. civ., censura la sentenza che: a) erroneamente aveva limitato le attribuzioni dei consulenti del lavoro, senza tenere conto dell' ampliamento della competenza in materia fiscale e tributaria conferita con una serie di provvedimenti legislativi introdotti in epoca successiva alla legge n. 12 del 1979; b) fra le attività proprie dei consulenti del lavoro devono essere annoverate anche quelle operazioni che, pur essendo di competenza di altre categorie professionali, non sono a queste riservate in via esclusiva, secondo quanto al riguardo statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 418 del 1996,che ha ritenuto conforme ai principi dettati dalla legge delega i decreti n. 1067 e 1068 del 1953. b) in ogni caso, gli atti compiuti dal N. non rientravano fra quelli tipici di cui ai menzionati decreti.
Il motivo è fondato.
La sentenza, nel ritenere non dovuto il compenso chiesto dal ricorrente per attività professionali che non rientravano nelle competenze professionali attribuite al consulente del lavoro,ha confermato la decisione di primo grado che aveva considerato le stesse riservate ai dottori commercialisti.
Orbene, l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, sicché il professionista non iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della necessaria qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa. Peraltro, al fine di stabilire se ricorra la nullità prevista dall'art. 2231 cod. civ., occorre verificare se la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione.
Nella specie, tale indagine non è stata affatto compiuta dai giudici di appello, che si sono limitati ad escludere che l'attività espletata dal ricorrente rientrasse nelle attribuzioni dei consulenti del lavoro secondo quanto al riguardo previsto dalla legge n. 12 del 1979.
Vanno qui richiamati i principi elaborati dalla Corte Costituzionale,secondo cui il sistema degli ordinamenti professionali di cui all'art. 33, quinto comma, della Costituzione, deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, avendo la funzione di tutelare non l'interesse corporativo di una categoria professionale ma quello degli interessi di un società che si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessità :il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica (Corte Cost. 345 del 1995).
Ed alla luce di tali principi ancora la Consulta (sentenza n. 418 del 1996), nel ritenere manifestamente infondata la questione di illegittimità dell'art. 1 , primo e ultimo comma del D.P.R n. 1067 DEL 1953 e dell'art. 1 , primo e ultimo comma, del D.P.R n. 1068 del 1953 in relazione all'art. 76 Cost.,ne ha rilevato la conformità alla precisa prescrizione contenuta nell'articolo unico, lettera a), della legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (Delega al Governo della facoltà di provvedere alla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere), secondo cui "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva".
Nelle norme delegate - hanno sottolineato i giudici delle leggi - non si rinviene alcuna attribuzione in via esclusiva di competenze, ma viene riaffermato che l'elencazione delle attività, oggetto della professione disciplinata, non pregiudica ne' "l'esercizio di ogni altra attività professionale dei professionisti considerati ne' quanto può formare oggetto dell'attività professionale di altre categorie a norma di leggi e regolamenti". In altri termini la disposizione comporta, da un canto, la non tassatività della elencazione delle attività e, dall'altro, la non limitazione dell'ambito delle attribuzioni e attività in genere professionale di altre categorie di liberi professionisti.
L'espressione "a norma di leggi e regolamenti", di cui all'ultimo comma di entrambe le disposizioni impugnate, dei D.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, deve doverosamente essere intesa non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche, con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi. Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio,cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oneri amministrativi o tributari).
Pertanto, erroneamente la Corte di appello ha escluso il diritto al compenso, non rientrando le attività professionali svolte dal N. (consulenza e valutazione in materia aziendale; redazione di un atto di transazione) in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista dalla legge come condizione di esercizio della professione).
Il ricorso va pertanto accolto;
la sentenza va cassata,con rinvio,anche per le spese della presente fase,ad altra sezione della Corte di appello di Venezia. Il giudice di rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "Nelle materie commerciali, economiche finanziarie e di ragioneria, le prestazioni di assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali, non rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione ".

P.Q.M.

Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia,anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia
Consulenze aziendali fiscali e commerciali, commercialisti, competenza esclusiva
Cassazione civile , sez. II, sentenza 11.06.2008 n° 15530

Consulenze aziendali fiscali e commerciali – commercialisti – competenza esclusiva – esclusione [art. 2231 c.c.]
La prestazione di consulenza aziendale fiscale e commerciale non rientra nelle attività che sono riservate in via esclusiva ad una determinata categoria professionale. Il loro esercizio, infatti, non è subordinato all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione.
(Fonte: Altalex Massimario 24/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 1 aprile - 11 giugno 2008, n. 15530
(Presidente Mensitieri – Relatore Migliucci)
Svolgimento del processo
E. N. proponeva appello avverso la sentenza del Pretore di Padova n. 1017/98, depositata il 30.12.98 con cui, revocato il decreto ingiuntivo chiesto e ottenuto per pagamento, di prestazioni professionali, era stato anche condannato alla restituzione di L.850.000 in favore di F. C..
Sosteneva che il pretore aveva errato nel ritenere inesigibile la sua richiesta di consulente del lavoro per aver svolto attività riservata ai commercialisti; che aveva errato nel valutare le prove documentali e testimoniali assunte in I grado.
Si costituiva il convenuto chiedendo la conferma dell'impugnata sentenza. Con sentenza dep. il 6 febbraio 2003 la Corte di appello di Venezia respingeva l'impugnazione, ritenendo che le attività professionali in relazione alle quali era stato chiesto il compenso non rientravano fra quelle attribuite dall'art. 2 della L. 11.1.79 n. 12 ai consulenti del lavoro, che svolgono tutti gli adempimenti previsti per l’amministrazione del personale dipendente nonché ogni altra funzione che sia affine, connessa e conseguente. Nella specie,non rientravano nelle competenze del consulente del lavoro l'attività relativa alla cessione di azienda e la correlativa valutazione patrimoniale della panetteria, né lo studio di fattibilità dell'apertura nel Comune di Salvezzano di un negozio di erboristeria né la redazione dell'atto di transazione stipulato dal N. per porre fine alla controversia sfociata in una denuncia penale da parte di colui il quale doveva acquistare la panetteria, e che aveva contestato al C. di aver abusivamente asportato dal negozio derrate alimentari già inventariate, facenti ormai parte dell'oggetto del contratto di cessione d'azienda. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il N. sulla base di un unico motivo.
Resiste con controricorso il C..
Motivi della decisione
Con l'unico articolato motivo il ricorrente,lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 12 del 1979, in relazione all'art. 2231 cod. civ., censura la sentenza che: a) erroneamente aveva limitato le attribuzioni dei consulenti del lavoro, senza tenere conto dell' ampliamento della competenza in materia fiscale e tributaria conferita con una serie di provvedimenti legislativi introdotti in epoca successiva alla legge n. 12 del 1979; b) fra le attività proprie dei consulenti del lavoro devono essere annoverate anche quelle operazioni che, pur essendo di competenza di altre categorie professionali, non sono a queste riservate in via esclusiva, secondo quanto al riguardo statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 418 del 1996,che ha ritenuto conforme ai principi dettati dalla legge delega i decreti n. 1067 e 1068 del 1953. b) in ogni caso, gli atti compiuti dal N. non rientravano fra quelli tipici di cui ai menzionati decreti.
Il motivo è fondato.
La sentenza, nel ritenere non dovuto il compenso chiesto dal ricorrente per attività professionali che non rientravano nelle competenze professionali attribuite al consulente del lavoro,ha confermato la decisione di primo grado che aveva considerato le stesse riservate ai dottori commercialisti.
Orbene, l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, sicché il professionista non iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della necessaria qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa. Peraltro, al fine di stabilire se ricorra la nullità prevista dall'art. 2231 cod. civ., occorre verificare se la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione.
Nella specie, tale indagine non è stata affatto compiuta dai giudici di appello, che si sono limitati ad escludere che l'attività espletata dal ricorrente rientrasse nelle attribuzioni dei consulenti del lavoro secondo quanto al riguardo previsto dalla legge n. 12 del 1979.
Vanno qui richiamati i principi elaborati dalla Corte Costituzionale,secondo cui il sistema degli ordinamenti professionali di cui all'art. 33, quinto comma, della Costituzione, deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, avendo la funzione di tutelare non l'interesse corporativo di una categoria professionale ma quello degli interessi di un società che si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessità :il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica (Corte Cost. 345 del 1995).
Ed alla luce di tali principi ancora la Consulta (sentenza n. 418 del 1996), nel ritenere manifestamente infondata la questione di illegittimità dell'art. 1 , primo e ultimo comma del D.P.R n. 1067 DEL 1953 e dell'art. 1 , primo e ultimo comma, del D.P.R n. 1068 del 1953 in relazione all'art. 76 Cost.,ne ha rilevato la conformità alla precisa prescrizione contenuta nell'articolo unico, lettera a), della legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (Delega al Governo della facoltà di provvedere alla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere), secondo cui "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva".
Nelle norme delegate - hanno sottolineato i giudici delle leggi - non si rinviene alcuna attribuzione in via esclusiva di competenze, ma viene riaffermato che l'elencazione delle attività, oggetto della professione disciplinata, non pregiudica ne' "l'esercizio di ogni altra attività professionale dei professionisti considerati ne' quanto può formare oggetto dell'attività professionale di altre categorie a norma di leggi e regolamenti". In altri termini la disposizione comporta, da un canto, la non tassatività della elencazione delle attività e, dall'altro, la non limitazione dell'ambito delle attribuzioni e attività in genere professionale di altre categorie di liberi professionisti.
L'espressione "a norma di leggi e regolamenti", di cui all'ultimo comma di entrambe le disposizioni impugnate, dei D.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, deve doverosamente essere intesa non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche, con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi. Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio,cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oneri amministrativi o tributari).
Pertanto, erroneamente la Corte di appello ha escluso il diritto al compenso, non rientrando le attività professionali svolte dal N. (consulenza e valutazione in materia aziendale; redazione di un atto di transazione) in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista dalla legge come condizione di esercizio della professione).
Il ricorso va pertanto accolto;
la sentenza va cassata,con rinvio,anche per le spese della presente fase,ad altra sezione della Corte di appello di Venezia. Il giudice di rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "Nelle materie commerciali, economiche finanziarie e di ragioneria, le prestazioni di assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali, non rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione ".

P.Q.M.

Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia,anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia

mercoledì 28 maggio 2008

La nuova nozione di Piccolo imprenditore ai fini del fallimento


22.05.2008
Nuova nozione di piccolo imprenditore e sua perseguibilità per pregressi fatti di bancarotta

Le Sezioni Unite affrontano il tema della successione di norme nel tempo in relazione ai fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 169 del 2007 che ha modificato i requisiti per l'assoggettabilità a fallimento.

Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 15/05/2008, n. 19601 - N.L.

La quinta sezione penale della Corte, con ordinanza del 27 novembre 2007, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale interno alla stessa sezione sulla questione della ricaduta in campo penale della riforma attuata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5 nei confronti del piccolo imprenditore, e la conseguente sottoponibilità o meno di questi alla punibilità per i reati di bancarotta integrati prima della modifica.
Infatti da un lato era stata esclusa la punibilità per il soggetto oggi qualificato piccolo imprenditore, ai sensi delle disposizioni vigenti, per i reati di bancarotta integrati a seguito della dichiarazione di fallimento, mentre in altra occasione era stata ritenuta la non applicabilità, in senso favorevole all’imputato, delle disposizioni che regolano la successione di norme nel tempo, anche per la presenza della disposizione transitoria di cui all’art. 150 del citato decreto n. 5.
Poiché come è facilmente rilevabile facilmente la questione si pone nel solco del complesso tema della successione di norme nel tempo, nei suoi vari aspetti, oggetto anche di recente dell’ennesimo intervento delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un 16 gennaio 2008, Magera, in tema di disciplina dell’immigrazione, della quale si è già dato conto), la soluzione del contrasto era stata così affidata alle Sezioni Unite penali della Corte, che lo hanno risolto nel senso di cui in prosieguo.
E’ noto come con il d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5 sia stata operata la "Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80, emanato sulla base della legge-delega 14 maggio 2005, n.80.
L'art. 1, comma 6, lett. a), n. 1, della legge-delega, aveva stabilito, con riguardo alla "disciplina del fallimento", il principio direttivo, di contenuto indubitabilmente molto ampio, cosi formulato: "semplificare la disciplina attraverso 1'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita dell'istituto.
Successivamente al citato decreto legislativo n. 5 è stato poi emanato, sulla base della stessa legge-delega, come modificata, con 1'inserimento nell'art. 1, del comma 5-bis, ad opera dell'art. 1 comma 3 della legge 12 luglio 2006, n. 228, il d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, contenente "Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonche al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa”
L’originario quesito proposto all’attenzione delle Sezioni Unite è stato pertanto integrato nei seguenti termini: "se i fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5, e del successivo d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, che hanno modificato i requisiti perche 1'imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano a essere previsti come reato, anche se in base alla nuova normativa 1'imprenditore non potrebbe pia essere dichiarato fallito".
Le Sezioni Unite, che in più occasioni si sono occupate del delicato tema della successione di norme nel tempo, hanno ricordato come per stabilire se si verta in tema di abolitio criminis, rilevante ex art. 2 comma secondo c.p., occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per se rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi. Passando al caso concreto il collegio ha rilevato che nella struttura delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e seguenti della legge fallimentare il presupposto formale affinché le condotte poste in essere possano essere prese in considerazione, ai fini della responsabilita penale, non richiama le condizioni di fatto richieste per il fallimento (o 1'ammissione alle altre procedure concorsuali), consistendo invece nella esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento.
In tal modo nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale, e non per i fatti con essa accertati, e poiché in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale, ne discende come logica conseguenza, come affermato dalle Sezioni Unite, che il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti della legge fallimentare non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall'art. 1 l. fall. per la fallibilità dell'imprenditore, sicché le modifiche apportate all'art. 1 l. fall., ad opera del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell'art 2 c.p. sui procedimenti penali in corso.

Alfredo Montagna, sost. proc. gen. Corte di CassazioneTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

La nuova nozione di Piccolo imprenditore ai fini del fallimento


22.05.2008
Nuova nozione di piccolo imprenditore e sua perseguibilità per pregressi fatti di bancarotta

Le Sezioni Unite affrontano il tema della successione di norme nel tempo in relazione ai fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 169 del 2007 che ha modificato i requisiti per l'assoggettabilità a fallimento.

Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 15/05/2008, n. 19601 - N.L.

La quinta sezione penale della Corte, con ordinanza del 27 novembre 2007, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale interno alla stessa sezione sulla questione della ricaduta in campo penale della riforma attuata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5 nei confronti del piccolo imprenditore, e la conseguente sottoponibilità o meno di questi alla punibilità per i reati di bancarotta integrati prima della modifica.
Infatti da un lato era stata esclusa la punibilità per il soggetto oggi qualificato piccolo imprenditore, ai sensi delle disposizioni vigenti, per i reati di bancarotta integrati a seguito della dichiarazione di fallimento, mentre in altra occasione era stata ritenuta la non applicabilità, in senso favorevole all’imputato, delle disposizioni che regolano la successione di norme nel tempo, anche per la presenza della disposizione transitoria di cui all’art. 150 del citato decreto n. 5.
Poiché come è facilmente rilevabile facilmente la questione si pone nel solco del complesso tema della successione di norme nel tempo, nei suoi vari aspetti, oggetto anche di recente dell’ennesimo intervento delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un 16 gennaio 2008, Magera, in tema di disciplina dell’immigrazione, della quale si è già dato conto), la soluzione del contrasto era stata così affidata alle Sezioni Unite penali della Corte, che lo hanno risolto nel senso di cui in prosieguo.
E’ noto come con il d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5 sia stata operata la "Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80, emanato sulla base della legge-delega 14 maggio 2005, n.80.
L'art. 1, comma 6, lett. a), n. 1, della legge-delega, aveva stabilito, con riguardo alla "disciplina del fallimento", il principio direttivo, di contenuto indubitabilmente molto ampio, cosi formulato: "semplificare la disciplina attraverso 1'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita dell'istituto.
Successivamente al citato decreto legislativo n. 5 è stato poi emanato, sulla base della stessa legge-delega, come modificata, con 1'inserimento nell'art. 1, del comma 5-bis, ad opera dell'art. 1 comma 3 della legge 12 luglio 2006, n. 228, il d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, contenente "Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonche al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa”
L’originario quesito proposto all’attenzione delle Sezioni Unite è stato pertanto integrato nei seguenti termini: "se i fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5, e del successivo d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, che hanno modificato i requisiti perche 1'imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano a essere previsti come reato, anche se in base alla nuova normativa 1'imprenditore non potrebbe pia essere dichiarato fallito".
Le Sezioni Unite, che in più occasioni si sono occupate del delicato tema della successione di norme nel tempo, hanno ricordato come per stabilire se si verta in tema di abolitio criminis, rilevante ex art. 2 comma secondo c.p., occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per se rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi. Passando al caso concreto il collegio ha rilevato che nella struttura delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e seguenti della legge fallimentare il presupposto formale affinché le condotte poste in essere possano essere prese in considerazione, ai fini della responsabilita penale, non richiama le condizioni di fatto richieste per il fallimento (o 1'ammissione alle altre procedure concorsuali), consistendo invece nella esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento.
In tal modo nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale, e non per i fatti con essa accertati, e poiché in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale, ne discende come logica conseguenza, come affermato dalle Sezioni Unite, che il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti della legge fallimentare non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall'art. 1 l. fall. per la fallibilità dell'imprenditore, sicché le modifiche apportate all'art. 1 l. fall., ad opera del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell'art 2 c.p. sui procedimenti penali in corso.

Alfredo Montagna, sost. proc. gen. Corte di CassazioneTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...