mercoledì 15 ottobre 2008

09.10.2008
Falso innocuo: ovverossia, per la Cassazione quasi mai

La Cassazione consolida la sua giurisprudenza in ordine al falso c.d. "innocuo", affermando che la lesività del falso va valutata con riferimento all'interesse protetto, che è la fede pubblica, e non all'interesse economico o di altra natura "materiale", eventualmente collegato all'utilizzo dell'atto falso.

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 19/09/2008, n. 36000

L’imputato, utilizzando la carta intestata ed i timbri di un istituto di istruzione, falsifica la firma del direttore e forma un falso attestato che produce in un pubblico concorso. Condannato per i reati di cui agli artt. 477, 482 e 61 n. 2 c.p. (falsità materiale commessa dal privato in certificati od autorizzazioni amministrative, aggravata dal nesso teleologico), ricorre per cassazione rilevando, fra l’altro, che il maggior punteggio attribuitigli da tale falsa attestazione non aveva influito sulla sua posizione di primarietà nella graduatoria del concorso in oggetto, in quanto, anche togliendo tale aggiuntivo punteggio, egli comunque, dato il divario rispetto a quello del successivo candidato, sarebbe risultato vincitore: donde l’irrilevanza dell’uso di tale documento falso e, pertanto, l’innocuità del falso stesso, con la conseguente richiesta di proscioglimento.
La Cassazione, invece, sul tema del falso c.d. "innocuo" è di diverso avviso. Richiamando la sua giurisprudenza sul tema, sostiene che la lesività o meno del falso va rapportata all’interesse protetto, id est la fede pubblica, a nulla rilevando l’interesse, di tipo economico o materiale, collegato all’utilizzo del falso stesso. Nella fattispecie il documento prodotto possedeva tale idoneità ingannatoria, tant’è che aveva comportato l’indebita assegnazione di un ulteriore punteggio al soggetto. Pertanto, conclude il Supremo Collegio, deve considerarsi del tutto irrilevante la circostanza, emersa solo a posteriori, che gli altri concorrenti non avrebbero superato l’imputato anche se questi non avesse ottenuto quel punteggio aggiuntivo, che nulla veniva a togliere alla potenzialità della falsificazione ad ingannare l’affidamento sulla genuinità del documento.
Premessa la distinzione (non sempre rilevata o ben chiara) fra il falso "grossolano", ossia quello macroscopicamente rilevabile e, quindi, non in grado di ingannare nessuno, e quello "innocuo", ossia esistente, ma non lesivo del bene protetto, appare opportuno insistere su tale ultima definizione,
Certo, non pare revocabile in dubbio che l’oggetto giuridico del reato di falso sia la pubblica fede, ma è anche vero che il falso non è quasi mai fine a se stesso, in quanto "non si falsifica per falsificare, ma per conseguire un risultato che sta al di là della falsificazione" (Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. II, 15a ed. a cura di Grosso, Milano, 2008, p. 69): donde la natura plurioffensiva di tali fattispecie. D’altra parte, anche chi nega tale specifica connotazione giuridica (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, 4 a ed., Bologna, 2007, p. 543 s.) denuncia l’estremo rigore repressivo nel campo della "falsità di atti", ove "la giurisprudenza è arrivata persino a sostenere che la lesione della pubblica fede è implicata in qualsivoglia falsificazione di atto pubblico". E, d’altra parte, senza scomodare lo storico precedente del codice Zanardelli, che puniva il falso solo ove ne potesse "derivare pubblico o privato nocumento" (art. 275), la stessa Relazione ministeriale veniva ad escludere, più che la punibilità, l’essenza stessa della falsitas "quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere": in definitiva, le ipotesi del falso grossolano, di quello innocuo o di quello inutile.
In tema di falso innocuo la giurisprudenza lo ha ricondotto al caso in cui esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere: in altri termini, la innocuità deve correlarsi alla funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere e non all’uso che dell’atto falso venga fatto (Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2007, D. e altro, Ced n. 238876; nello stesso senso: Cass. pen., sez. V, 30 settembre 1997, Brasola, in Giust. pen., 1998, II, c. 504). Nel solco di tale impostazione, dal negare l’innocuità del falso documentale di per sé (Cass. pen., sez. V, 19 maggio 2004, B. e altro, in Cass. pen., 2006, p. 118; Cass. pen., sez. V, 9 febbraio 2001, Stipa, Ced. n. 218393, Cass. pen., sez. V, 4 novembre 1993, Buraccini, in Giust. pen., 1997, II, c. 274) è breve il passo dall’affermare che la lesione della fede pubblica e, quindi, il concreto pregiudizio del bene giuridico tutelato nei reati di falso, è insita indefettibilmente nelle falsità in documenti pubblici, sicché in ordine a questi non è mai concepibile un falso innocuo, se non nel caso in cui incida su un documento inesistente o assolutamente nullo (Cass. pen., sez. V, 3 novembre 1988, Valicenti, in Giur. it., 1990, II, c. 100), ovvero, in ultima istanza, che il falso c.d. innocuo è irrilevante (Cass. pen., sez. un., 10 ottobre 1981, Di Carlo, in Arch. giur. circ., 1982, p. 387).
Unica eccezione, una criticata pronuncia, secondo la quale, pur ammettendo che il registro di classe costituisce atto pubblico e perciò le false attestazioni in esso contenute integrano gli estremi del falso ideologico, tuttavia nel caso in cui il registro di classe sia stato sottoscritto dall’insegnante incaricato dell’insegnamento mentre questo in effetti sia stato svolto da altro docente in possesso dei requisiti richiesti, il falso deve ritenersi innocuo ed escludersi la responsabilità penale (Cass. pen., sez. V, 20 novembre 1996, Scaricabarozzi, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 594, con nota di Monteverde, Insegnanti di scuole pareggiate: attestazioni infedeli nei registri).
La decisione della Suprema Corte in oggetto, in ogni caso, appare condivisibile, specie laddove sottolinea la necessità di rilevare la potenzialità ingannatoria del falso una sorta di giudizio ex ante, ossia indipendentemente dell’efficacia o meno che esso abbia avuto nell’uso poi fattone: se, dunque, falsitas non nocuit, ciononostante apta nocere erat.

Paolo Pittaro, Professore associato di Diritto penale nell'Università di TriesteTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

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