mercoledì 26 maggio 2010

L'estorsione nei rapporti familiari

Estorsione nei confronti di coniuge separato (Cass. pen., n. 15111/2010)


G. Dingeo (Nota a sentenza 25/5/2010)



Cass. pen., sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111

Con questa sentenza la Corte si occupa di un problema particolare. Ci si domanda infatti se può essere accusato del reato di estorsione il coniuge, proprietario della casa coniugale che in sede di separazione e divorzio venga affidata all'altro coniuge, che, con minacce di morte, lo costringa a trasferirsi altrove.

I fatti sono i seguenti. Tizio veniva condannato dal GUP per il reato di estorsione, per aver costretto, con minacce di morte e altre violenze, la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale e a trasferirsi altrove.

Detta casa era di proprietà dei familiari di Tizio.

Tizio ricorreva alla Corte d'appello che confermava la sentenza.

Pertanto, insoddisfatto, adiva il giudice di legittimità con tre distinti motivi di censura.

Col primo, lamentava la mancanza dell'elemento dell'ingiusto profitto, elemento qualificante del reato ascrittogli, perché l'abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l'intenzione di trasferirsi altrove.

Col secondo, sosteneva che le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.

Con l'ultimo, affermava che, tutt' al più, era ravvisabile, nella sua condotta, il reato di cui all'art. 393 c.p. ( ovvero esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) in quanto egli avrebbe potuto adire il giudice per ottenere l'immobile che era, in pratica, di sua proprietà.

Pertanto chiedeva l'annullamento della sentenza d'appello.

In questa sentenza vengono in considerazione i seguenti articoli. Innanzitutto l'art. 393 (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone): Chiunque, al fine indicato nell'articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell'offeso, con la reclusione fino a un anno.

Se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a euro 206.
La pena è aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi.
Viene poi in considerazione l'articolo 629 ( Estorsione): Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad ammettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.

La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.

Il Gup aveva riconosciuto la sussistenza del reato a causa dell'ingiusto profitto tratto dall'imputato Tizio che, con l'uso di violenze e minacce di morte, aveva costretto la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale che il giudice divorzile le aveva affidato, pur essendo, in pratica, di lui la proprietà dell'immobile.

I giudici della corte territoriale, in secondo grado di giudizio, decretavano l'irricevibilità della richiesta di ribaltare la sentenza, confermandola pienamente.

La cassazione respinge il ricorso, qualificandolo manifestamente infondato.

Anzitutto, i giudici di legittimità sgombrano il campo dal primo dubbio sollevato dall'odierno ricorrente, affermando che la sua ex moglie non aveva alcuna intenzione di abbandonare la casa coniugale a lei affidata in sede di separazione e divorzio. Ma vi era stata costretta dalle violenze e minacce di morte di Tizio, come chiaramente emerso anche grazie a diverse prove testimoniali acquisite in primo grado di giudizio.

Né l'odierno ricorrente adduce elementi a suffragio della tesi dell'abbandono volontario dell'immobile da parte della sua ex moglie, limitandosi ad una generica affermazione.

In relazione all'elemento del giusto profitto, esso chiaramente sussiste.

La casa era stata affidata a sua moglie, per quanto di proprietà dei familiari di lui, e dunque non era nella disponibilità dell'uomo.

Tizio, come risultato finale della sua condotta criminosa, cioè estorsiva, ha tratto ingiusto profitto, cagionando, aggiungiamo noi, un grave danno alla sua ex moglie, che, evidentemente, ha dovuto cercare un'altra casa con tutti i costi a ciò connessi (trasloco, locazione di altro immobile), magari aumentati dalla fretta con cui ha dovuto agire per sottrarsi alle violenze dell'ex marito.

Quanto all'ultima doglianza circa l'applicabilità dell'art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l'imputato poteva, in astratto, adire il giudice, ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate. E che, peraltro, possiamo aggiungere, nemmeno ci sono, poiché Tizio non poteva esercitare arbitrariamente le proprie ragioni, in quanto, giuridicamente, egli non ne aveva.

La casa era stata affidata dal giudice del divorzio a sua moglie.

La pretesa del marito di ritornarvi in possesso era del tutto giuridicamente infondata.

Dunque, non aveva ragione alcuna da esercitare, sia pur arbitrariamente (art. 393 c.p.).
Pertanto, correttamente, la sez. II penale della Corte di Cassazione respinge il ricorso, confermando la sentenza impugnata e condannando, altresì, Tizio al pagamento, a favore della Cassa delle ammende, della somma di mille Euro, equitativamente fissata in ragione di chiari profili di colpa del ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
Dott.ssa Giacomina Dingeo


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