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mercoledì 2 dicembre 2009

Alcune precisazioni sulla quantificazione del danno da irragionevole durata del processo

Equa riparazione, quantificazione del danno non patrimoniale, criteri, precisazioni







Cassazione civile , sez. I, sentenza 14.10.2009 n° 21840













La quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo. Tuttavia, tale cifra deve valere in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non deve essere inferiore a euro 1000 per quelli successivi, in quanto l'irragionevole durata eccedente quest’ultimo periodo determina uevidente aggravamento del danno. (1-2)













(*) Riferimenti normativi: Legge n. 89/2001.





1) In tema di ansia come danno non patrimoniale derivante da irragionevole durata del processo, si veda Corte d'Appello Potenza, sez. lavoro, decreto 10.03.2009.





(2) Si veda il focus di L. Viola: Equa riparazione da irragionevole durata del processo: le novità giurisprudenziali.













(Fonte: Altalex Massimario 41/2009. Cfr. nota di Giuseppe Mommo)











SEZIONE I CIVILE













Sentenza 14 ottobre 2009, n. 21840









Svolgimento del processo













I.V. adiva la Corte d'appello di Napoli, allo scopo di ottenere l'equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al T.a.r. per la Campania, avente ad oggetto la corresponsione di contributi per l'assistenza prestata ad un proprio familiare, proposto nel luglio 1997, deciso con sentenza del 16.3.01, appellata innanzi al Consiglio di Stato.













La Corte d'appello, con decreto del 24.1.2006, fissata la durata ragionevole del giudizio in anni tre (in relazione alla domanda concernente il giudizio di primo grado), liquidava per il danno non patrimoniale, per il tempo eccedente detto termine (mesi otto), Euro 500,00 per ciascun anno di ritardo, quindi, complessivi Euro 334,00, oltre interessi legali dalla data del decreto, condannando la Presidenza del Consiglio dei ministri a pagare le spese del giudizio.













Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso, I. V., affidato a dieci motivi; ha resistito con controricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri.













Motivi della decisione













1.- La ricorrente, con i motivi da 1 a 6 e 10^, denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 6 1 CEDU, della L. n. 89 del 2001 e degli artt. 112 e 132 c.p.c., nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); dopo avere richiamato una serie di sentenze della Corte di Strasburgo e di questa Corte, sulla premessa dell'efficacia vincolante per il giudice nazionale sia della CEDU, sia della giurisprudenza della Corte EDU, pone le seguenti questioni (riassunte nel primo motivo, ma sostanzialmente reiterate negli altri mezzi, anche in difformità rispetto alla sintesi datane nella rubrica degli stessi):













la liquidazione dell'equa riparazione andrebbe effettuata avendo riguardo all'intera durata del giudizio; il giudice nazionale non potrebbe discostarsi dal parametro stabilito dal giudice europeo (Euro 1.500,00 per anno); nelle cause concernenti controversie di lavoro e/o previdenziali dovrebbe essere riconosciuto un bonus di Euro 2.000,00 e, se il giudice nazionale ciò non fa, incorrerebbe in omessa pronuncia e vizio di motivazione (motivi 2-4 e 6), mentre il ritardo nel deposito dell'istanza di prelievo potrebbe rilevare esclusivamente ai fini della quantificazione del risarcimento (motivo 5); in relazione a detti profili la motivazione del decreto sarebbe viziata (motivo 10).













1.1.- Con i motivi da 7 a 9, è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 6 CEDU e dell'art. 1 del protocollo addizionale, degli artt. 91 e 92 c.p.c., delle tariffe professionali ed omessa pronuncia (art. 112 c.p.c.), nonchè difetto di motivazione nella parte in cui il decreto avrebbe quantificato in misura insufficiente le spese del giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, art. 132 c.p.c.), discostandosi dai criteri della Corte EDU e dalle liquidazioni operate da questa Corte, non applicando le voci della tariffa prevista per i giudizi contenziosi e riducendo senza motivazione gli importi asseritamente dovuti.













2.- Il ricorso proposto dall'avv. M.A.L., in proprio, quale antistatario, e inammissibile, perchè proposto da soggetto non legittimato.













Secondo l'orientamento di questa Corte, al quale va data continuità, la qualità di procuratore della parte nei cui confronti è stata pronunziata la sentenza impugnata non abilita il suo titolare alla proposizione dell'impugnazione in proprio, neanche quando si controverta unicamente sul punto delle spese processuali, salvo che lo stesso procuratore non ne sia dichiarato antistatario ed i motivi delle proposte censure attengano alla concessione della distrazione (Cass., n. 20321 del 2005; n. 4973 del 1993; n. 7597 del 1990).













Pertanto, resta preclusa al difensore distrattario l'impugnazione in proprio, con riferimento alla pronuncia sulle spese, quando essa attenga alla loro adeguatezza, ovvero all'an, poichè in questa ipotesi l'unica legittimata a sollevare doglianze in merito è la parte rappresentata, quale soggetto comunque obbligato, nel rapporto con il professionista, a soddisfarlo delle sue pretese (Cass. n. 16717 del 2008, n. 11566 del 2008). Il difensore che ha chiesto la distrazione diviene, infatti, parte del giudizio solo nel caso in cui sorga controversia sul provvedimento che ha disposto la distrazione o se il giudice a quo abbia omesso di provvedere sull'istanza (Cass., n. 20121 del 2005; n. 13290 del 2003; n. 12204 del 2003).













In relazione a detto ricorso non deve essere resa pronuncia sulle spese, in quanto la Presidenza del Consiglio dei ministri non ha svolto attività difensiva in riferimento al medesimo.













3.- Preliminarmente, va ribadito che alla pronuncia di accoglimento parziale per manifesta fondatezza, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non ostano le conclusioni del F.G., poichè che la decisione del ricorso presenta aspetti d'evidenza compatibili con l'immediata decisione, sia pure in senso difforme a dette conclusioni (Cass. n. 5704 del 2008; n. 23842 e n. 13748 del 2007).













I motivi sintetizzati nel p. 1, da esaminare congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono manifestamente fondati entro i termini e nei limiti di seguito precisati.













Alle questioni poste con detti mezzi va data soluzione ribadendo i seguenti principi, più volti affermati da questa Corte:













il giudice italiano deve interpretare la L. n. 89 del 2001 in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della L. n. 89 del 2001; qualora ciò non sia possibile ed egli dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto all'art. 117 Cost., comma 1, restando escluso che possa procedere alla "non applicazione" della prima (Corte cost. n. 348 e n. 349 del 2007; in riferimento alla legge in esame Cass. S.U. n. 1338 del 2004);













la precettività, per il giudice nazionale, della giurisprudenza della Corte EDU non concerne il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo per l'equa riparazione, essendo per il primo vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è rilevante soltanto il periodo eccedente il termine ragionevole, in virtù di una modalità di calcolo che non incide sulla complessiva attitudine di detta legge ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata de processo (per tutte, Cass. n. 4572 del 2009; n. 1566 e n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007);













i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea, che ha fissato un parametro tendenziale di Euro 1.000,00/Euro 1.500,00 per anno, non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali:













l'entità della "posta in gioco", apprezzata in comparazione con la situazione economico-patrimoniale della parte, che questa ha l'onere di allegare e dedurre; il "numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento"; il comportamento della parte istante, sicchè rileva anche il ritardo c/o la mancata presentazione della cd. istanza di prelievo, la quale non incide sul termine di durata ragionevole, ma bene può essere assunto come sintomo di uno attenuato interesse per la controversia; per tutte, Cass. n. 4572 e n. 3515 del 2009; n. 1630 del 2006), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, a quelle da ultimo richiamate, aggiungi Cass. n. 6039 del 2009; n. 6898 del 2008);













in virtù della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, qualora non emergano, elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale (costituiti appunto, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico-patrimoniale dell'istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), l'esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, la quantificazione, deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo, in virtù degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009, i cui principi vanno qui confermati, con la precisazione che tale parametro va osservalo in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo aversi riguardo, per quelli successivi, al parametro di L. 1.000,00, per anno di ritardo, dato che l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno;













le norme disciplinatrici della fattispecie non permettono di riconoscere una ulteriore somma arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell'oggetto e della natura della controversia, poichè il giudice europeo ha affermato che una somma più elevata rispetto al suindicato parametro va riconosciuta, qualora la controversia rivesta una certa importanza, facendo un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali, senza che ciò implichi alcun automatismo, significando soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008); quindi, il giudice del merito può attribuire una somma maggiore, qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, restando escluso uno specifico obbligo di motivazione e/o di pronuncia sul punto, da ritenersi quest'ultima implicita nella liquidazione del danno, con la conseguenza che, se il giudice non si pronuncia sul cd. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (così, tra le altre, Cass. n. 7073, n. 6039 e n. 3515 del 2009; n. 18012 e n. 6898 del 2008).













In applicazione di detti principi, le censure in esame sono manifestamente fondate nella parte in cui il decreto ha liquidato l'equa riparazione nella misura di Euro 500,00 per anno di ritardo, in considerazione del non rilevante valore economico della causa.













Infatti, si tratta di circostanza certo valutabile e che, tuttavia, legittimava una riduzione del parametro minimo della Corte EDU che, secondo l'orientamento di questa Corte, per essere ragionevole non poteva scendere al di sotto di Euro 750,00 per anno di ritardo.













In relazione alle censure accolte, il decreto deve essere cassato con conseguente assorbimento dei motivi concernenti le spese, dovendo comunque esserne effettuata la riliquidazione - e la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.













Pertanto, in applicazione dello standard minimo CEDU - che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius -, individuato nella somma di Euro 750,00 per ciascun anno di ritardo il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale (la motivazione della Corte d'appello sullo scarso interesse per il giudizio non è stata adeguatamente censurata e permette di applicare detto parametro), va riconosciuta all'istante la complessiva somma di Euro 500,00, in relazione agli anni eccedenti il triennio (mesi otto, come incensurabilmente accertato dal giudice del merito), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.













Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza - distratte in favore del difensore, per dichiarazione di anticipo - quanto al giudizio di merito e per la metà quanto alla presente fase, dichiarando compensata la residua parte, sussistendo giusti motivi, in considerazione del parziale accoglimento del ricorso.













P.Q.M.













La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dall'avv. M. A.L., in proprio, quale antistatario; accoglie i primi sei motivi ed il decimo motivo del ricorso, per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione - assorbiti i restanti motivi, concernenti la liquidazione delle spese del giudizio -, cassa il decreto impugnalo e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri a corrispondere alla ricorrente la complessiva somma di Euro 500,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali - per la metà, quanto alla presente fase, compensandosi la restante parte - distratte in favore dell'avv. M.A.L. e liquidate, quanto al giudizio di merito, in Euro 905,00 (di cui Euro 385,00 per diritti ed Euro 420,00 per onorari) e, quanto al giudizio di legittimità - per la metà, dichiarando compensata la residua parte - in Euro 450,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.





Dispone che la Cancelleria provveda alle comunicazioni di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 5.







Così deciso in Roma, il 30 settembre 2009.







Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2009.

Alcune precisazioni sulla quantificazione del danno da irragionevole durata del processo

Equa riparazione, quantificazione del danno non patrimoniale, criteri, precisazioni



Cassazione civile , sez. I, sentenza 14.10.2009 n° 21840






La quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo. Tuttavia, tale cifra deve valere in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non deve essere inferiore a euro 1000 per quelli successivi, in quanto l'irragionevole durata eccedente quest’ultimo periodo determina uevidente aggravamento del danno. (1-2)






(*) Riferimenti normativi: Legge n. 89/2001.


1) In tema di ansia come danno non patrimoniale derivante da irragionevole durata del processo, si veda Corte d'Appello Potenza, sez. lavoro, decreto 10.03.2009.


(2) Si veda il focus di L. Viola: Equa riparazione da irragionevole durata del processo: le novità giurisprudenziali.






(Fonte: Altalex Massimario 41/2009. Cfr. nota di Giuseppe Mommo)





SEZIONE I CIVILE






Sentenza 14 ottobre 2009, n. 21840




Svolgimento del processo






I.V. adiva la Corte d'appello di Napoli, allo scopo di ottenere l'equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al T.a.r. per la Campania, avente ad oggetto la corresponsione di contributi per l'assistenza prestata ad un proprio familiare, proposto nel luglio 1997, deciso con sentenza del 16.3.01, appellata innanzi al Consiglio di Stato.






La Corte d'appello, con decreto del 24.1.2006, fissata la durata ragionevole del giudizio in anni tre (in relazione alla domanda concernente il giudizio di primo grado), liquidava per il danno non patrimoniale, per il tempo eccedente detto termine (mesi otto), Euro 500,00 per ciascun anno di ritardo, quindi, complessivi Euro 334,00, oltre interessi legali dalla data del decreto, condannando la Presidenza del Consiglio dei ministri a pagare le spese del giudizio.






Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso, I. V., affidato a dieci motivi; ha resistito con controricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri.






Motivi della decisione






1.- La ricorrente, con i motivi da 1 a 6 e 10^, denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 6 1 CEDU, della L. n. 89 del 2001 e degli artt. 112 e 132 c.p.c., nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5); dopo avere richiamato una serie di sentenze della Corte di Strasburgo e di questa Corte, sulla premessa dell'efficacia vincolante per il giudice nazionale sia della CEDU, sia della giurisprudenza della Corte EDU, pone le seguenti questioni (riassunte nel primo motivo, ma sostanzialmente reiterate negli altri mezzi, anche in difformità rispetto alla sintesi datane nella rubrica degli stessi):






la liquidazione dell'equa riparazione andrebbe effettuata avendo riguardo all'intera durata del giudizio; il giudice nazionale non potrebbe discostarsi dal parametro stabilito dal giudice europeo (Euro 1.500,00 per anno); nelle cause concernenti controversie di lavoro e/o previdenziali dovrebbe essere riconosciuto un bonus di Euro 2.000,00 e, se il giudice nazionale ciò non fa, incorrerebbe in omessa pronuncia e vizio di motivazione (motivi 2-4 e 6), mentre il ritardo nel deposito dell'istanza di prelievo potrebbe rilevare esclusivamente ai fini della quantificazione del risarcimento (motivo 5); in relazione a detti profili la motivazione del decreto sarebbe viziata (motivo 10).






1.1.- Con i motivi da 7 a 9, è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 6 CEDU e dell'art. 1 del protocollo addizionale, degli artt. 91 e 92 c.p.c., delle tariffe professionali ed omessa pronuncia (art. 112 c.p.c.), nonchè difetto di motivazione nella parte in cui il decreto avrebbe quantificato in misura insufficiente le spese del giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, art. 132 c.p.c.), discostandosi dai criteri della Corte EDU e dalle liquidazioni operate da questa Corte, non applicando le voci della tariffa prevista per i giudizi contenziosi e riducendo senza motivazione gli importi asseritamente dovuti.






2.- Il ricorso proposto dall'avv. M.A.L., in proprio, quale antistatario, e inammissibile, perchè proposto da soggetto non legittimato.






Secondo l'orientamento di questa Corte, al quale va data continuità, la qualità di procuratore della parte nei cui confronti è stata pronunziata la sentenza impugnata non abilita il suo titolare alla proposizione dell'impugnazione in proprio, neanche quando si controverta unicamente sul punto delle spese processuali, salvo che lo stesso procuratore non ne sia dichiarato antistatario ed i motivi delle proposte censure attengano alla concessione della distrazione (Cass., n. 20321 del 2005; n. 4973 del 1993; n. 7597 del 1990).






Pertanto, resta preclusa al difensore distrattario l'impugnazione in proprio, con riferimento alla pronuncia sulle spese, quando essa attenga alla loro adeguatezza, ovvero all'an, poichè in questa ipotesi l'unica legittimata a sollevare doglianze in merito è la parte rappresentata, quale soggetto comunque obbligato, nel rapporto con il professionista, a soddisfarlo delle sue pretese (Cass. n. 16717 del 2008, n. 11566 del 2008). Il difensore che ha chiesto la distrazione diviene, infatti, parte del giudizio solo nel caso in cui sorga controversia sul provvedimento che ha disposto la distrazione o se il giudice a quo abbia omesso di provvedere sull'istanza (Cass., n. 20121 del 2005; n. 13290 del 2003; n. 12204 del 2003).






In relazione a detto ricorso non deve essere resa pronuncia sulle spese, in quanto la Presidenza del Consiglio dei ministri non ha svolto attività difensiva in riferimento al medesimo.






3.- Preliminarmente, va ribadito che alla pronuncia di accoglimento parziale per manifesta fondatezza, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non ostano le conclusioni del F.G., poichè che la decisione del ricorso presenta aspetti d'evidenza compatibili con l'immediata decisione, sia pure in senso difforme a dette conclusioni (Cass. n. 5704 del 2008; n. 23842 e n. 13748 del 2007).






I motivi sintetizzati nel p. 1, da esaminare congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono manifestamente fondati entro i termini e nei limiti di seguito precisati.






Alle questioni poste con detti mezzi va data soluzione ribadendo i seguenti principi, più volti affermati da questa Corte:






il giudice italiano deve interpretare la L. n. 89 del 2001 in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della L. n. 89 del 2001; qualora ciò non sia possibile ed egli dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto all'art. 117 Cost., comma 1, restando escluso che possa procedere alla "non applicazione" della prima (Corte cost. n. 348 e n. 349 del 2007; in riferimento alla legge in esame Cass. S.U. n. 1338 del 2004);






la precettività, per il giudice nazionale, della giurisprudenza della Corte EDU non concerne il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo per l'equa riparazione, essendo per il primo vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è rilevante soltanto il periodo eccedente il termine ragionevole, in virtù di una modalità di calcolo che non incide sulla complessiva attitudine di detta legge ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata de processo (per tutte, Cass. n. 4572 del 2009; n. 1566 e n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007);






i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea, che ha fissato un parametro tendenziale di Euro 1.000,00/Euro 1.500,00 per anno, non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali:






l'entità della "posta in gioco", apprezzata in comparazione con la situazione economico-patrimoniale della parte, che questa ha l'onere di allegare e dedurre; il "numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento"; il comportamento della parte istante, sicchè rileva anche il ritardo c/o la mancata presentazione della cd. istanza di prelievo, la quale non incide sul termine di durata ragionevole, ma bene può essere assunto come sintomo di uno attenuato interesse per la controversia; per tutte, Cass. n. 4572 e n. 3515 del 2009; n. 1630 del 2006), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, a quelle da ultimo richiamate, aggiungi Cass. n. 6039 del 2009; n. 6898 del 2008);






in virtù della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, qualora non emergano, elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale (costituiti appunto, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico-patrimoniale dell'istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), l'esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, la quantificazione, deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo, in virtù degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009, i cui principi vanno qui confermati, con la precisazione che tale parametro va osservalo in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo aversi riguardo, per quelli successivi, al parametro di L. 1.000,00, per anno di ritardo, dato che l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno;






le norme disciplinatrici della fattispecie non permettono di riconoscere una ulteriore somma arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell'oggetto e della natura della controversia, poichè il giudice europeo ha affermato che una somma più elevata rispetto al suindicato parametro va riconosciuta, qualora la controversia rivesta una certa importanza, facendo un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali, senza che ciò implichi alcun automatismo, significando soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008); quindi, il giudice del merito può attribuire una somma maggiore, qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, restando escluso uno specifico obbligo di motivazione e/o di pronuncia sul punto, da ritenersi quest'ultima implicita nella liquidazione del danno, con la conseguenza che, se il giudice non si pronuncia sul cd. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (così, tra le altre, Cass. n. 7073, n. 6039 e n. 3515 del 2009; n. 18012 e n. 6898 del 2008).






In applicazione di detti principi, le censure in esame sono manifestamente fondate nella parte in cui il decreto ha liquidato l'equa riparazione nella misura di Euro 500,00 per anno di ritardo, in considerazione del non rilevante valore economico della causa.






Infatti, si tratta di circostanza certo valutabile e che, tuttavia, legittimava una riduzione del parametro minimo della Corte EDU che, secondo l'orientamento di questa Corte, per essere ragionevole non poteva scendere al di sotto di Euro 750,00 per anno di ritardo.






In relazione alle censure accolte, il decreto deve essere cassato con conseguente assorbimento dei motivi concernenti le spese, dovendo comunque esserne effettuata la riliquidazione - e la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.






Pertanto, in applicazione dello standard minimo CEDU - che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius -, individuato nella somma di Euro 750,00 per ciascun anno di ritardo il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale (la motivazione della Corte d'appello sullo scarso interesse per il giudizio non è stata adeguatamente censurata e permette di applicare detto parametro), va riconosciuta all'istante la complessiva somma di Euro 500,00, in relazione agli anni eccedenti il triennio (mesi otto, come incensurabilmente accertato dal giudice del merito), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.






Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza - distratte in favore del difensore, per dichiarazione di anticipo - quanto al giudizio di merito e per la metà quanto alla presente fase, dichiarando compensata la residua parte, sussistendo giusti motivi, in considerazione del parziale accoglimento del ricorso.






P.Q.M.






La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dall'avv. M. A.L., in proprio, quale antistatario; accoglie i primi sei motivi ed il decimo motivo del ricorso, per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione - assorbiti i restanti motivi, concernenti la liquidazione delle spese del giudizio -, cassa il decreto impugnalo e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri a corrispondere alla ricorrente la complessiva somma di Euro 500,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali - per la metà, quanto alla presente fase, compensandosi la restante parte - distratte in favore dell'avv. M.A.L. e liquidate, quanto al giudizio di merito, in Euro 905,00 (di cui Euro 385,00 per diritti ed Euro 420,00 per onorari) e, quanto al giudizio di legittimità - per la metà, dichiarando compensata la residua parte - in Euro 450,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.


Dispone che la Cancelleria provveda alle comunicazioni di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 5.



Così deciso in Roma, il 30 settembre 2009.



Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2009.

giovedì 8 gennaio 2009

L'attività di consulenza ed il principo di libertà del lavoro autonomo



Cassazione Sezione seconda civile 11 giugno 2008, n. 15530 - (164)
Avvocati,professionisti,consulenza legale,stragiudiziale,attività riservata

"Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio,cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione"

Svolgimento del processo
Elio N. proponeva appello avverso la sentenza del Pretore di Padova n. 1017/98, depositata il 30.12.98 con cui, revocato il decreto ingiuntivo chiesto e ottenuto per pagamento, di prestazioni professionali, era stato anche condannato alla restituzione di L. 850.000 in favore di Francesco C. Sosteneva che il pretore aveva errato nel ritenere inesigibile la sua richiesta di consulente del lavoro per aver svolto attività riservata ai commercialisti; che aveva errato nel valutare le prove documentali e testimoniali assunte in I grado.
Si costituiva il convenuto chiedendo la conferma dell'impugnata sentenza. Con sentenza dep. il 6 febbraio 2003 la Corte di appello di Venezia respingeva l'impugnazione, ritenendo che le attività professionali in relazione alle quali era stato chiesto il compenso non rientravano fra quelle attribuite dall'art. 2 della L. 11.1.79 n. 12 ai consulenti del lavoro, che svolgono tutti gli adempimenti previsti per l’amministrazione del personale dipendente nonché ogni altra funzione che sia affine, connessa e conseguente.
Nella specie, non rientravano nelle competenze del consulente del lavoro l'attività relativa alla cessione di azienda e la correlativa valutazione patrimoniale della panetteria, né lo studio di fattibilità dell'apertura nel Comune di Salvezzano di un negozio di erboristeria né la redazione dell'atto di transazione stipulato dal N. per porre fine alla controversia sfociata in una denuncia penale da parte di colui il quale doveva acquistare la panetteria, e che aveva contestato al C. di aver abusivamente asportato dal negozio derrate alimentari già inventariate, facenti ormai parte dell'oggetto del contratto -di cessione d'azienda.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il N. sulla base di un unico motivo. Resiste con controricorso il C..
Motivi della decisione
Con l'unico articolato motivo il ricorrente,lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 12 del 1979, in relazione all'art. 2231 cod. civ., censura la sentenza che: a) erroneamente aveva limitato le attribuzioni dei consulenti del lavoro, senza tenere conto dell' ampliamento della competenza in materia fiscale e tributaria conferita con una serie di provvedimenti legislativi introdotti in epoca successiva alla legge n. 12 del 1979; b) fra le attività proprie dei consulenti del lavoro devono essere annoverate anche quelle operazioni che, pur essendo di competenza di altre categorie professionali, non sono a queste riservate in via esclusiva, secondo quanto al riguardo statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 418 del 1996,che ha ritenuto conforme ai principi dettati dalla legge delega i decreti n. 1067 e 1068 del 1953.b)in ogni caso, gli atti compiuti dal N. non rientravano fra quelli tipici di cui ai menzionati decreti.
Il motivo è fondato.
La sentenza, nel ritenere non dovuto il compenso chiesto dal ricorrente per attività professionali che non rientravano nelle competenze professionali attribuite al consulente del lavoro, ha confermato la decisione di primo grado che aveva considerato le stesse riservate ai dottori commercialisti.
Orbene, l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, sicché il professionista non iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della necessaria qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa. Peraltro, al fine di stabilire se ricorra la nullità prevista dall'art. 2231 cod. civ., occorre verificare se la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad ablitazione.
Nella specie, tale indagine non è stata affatto compiuta dai giudici di appello, che si sono limitati ad escludere che l'attività espletata dal ricorrente rientrasse nelle attribuzioni dei consulenti del lavoro secondo quanto al riguardo previsto dalla legge n. 12 del 1979.
Vanno qui richiamati i principi elaborati dalla Corte Costituzionale, secondo cui il sistema degli ordinamenti professionali di cui all'art. 33, quinto comma, della Costituzione, deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, avendo la funzione di tutelare non l'interesse corporativo di una categoria professionale ma quello degli interessi di un società che si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessità : il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica (Corte Cost. 345 del 1995). Ed alla luce di tali principi ancora la Consulta (sentenza n. 418 del 1996), nel ritenere manifestamente infondata la questione di illegittimità dell'art. 1 , primo e ultimo comma del D.P.R n. 1067 DEL 1953 e dell'art. 1 , primo e ultimo comma, del D.P.R n. 1068 del 1953 in relazione all'art. 76 Cost.,ne ha rilevato la conformità alla precisa prescrizione contenuta nell'articolo unico, lettera a), della legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (Delega al Governo della facoltà di provvedere alla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere), secondo cui "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva". _ Nelle norme delegate-hanno sottolineato i giudici delle leggi- non si rinviene alcuna attribuzione in via esclusiva di competenze, ma viene riaffermato che l'elencazione delle attività, oggetto della professione disciplinata, non pregiudica ne' "l'esercizio di ogni altra attività professionale dei professionisti considerati ne' quanto può formare oggetto dell'attività professionale di altre categorie a norma di leggi e regolamenti". In altri termini la disposizione comporta, da un canto, la non tassatività della elencazione delle attività e, dall'altro, la non limitazione dell'ambito delle attribuzioni e attività in genere professionale di altre categorie di liberi professionisti. L'espressione "a norma di leggi e regolamenti", di cui all'ultimo comma di entrambe le disposizioni impugnate, dei D.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, deve doverosamente essere intesa non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche, con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi. Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio,cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oN. amministrativi o tributari). Pertanto ,erroneamente la Corte di appello ha escluso il diritto al compenso, non rientrando le attività professionali svolte dal N. (consulenza e valutazione in materia aziendale; redazione di un atto di transazione) in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista dalla legge come condizione di esercizio della professione). Il ricorso va pertanto accolto; la sentenza va cassata,con rinvio,anche per le spese della presente fase,ad altra sezione della Corte di appello di Venezia. Il giudice di rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "Nelle materie commerciali, economiche finanziarie e di ragioN.a, le prestazioni di assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali, non rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione ". _
P.Q.M.
Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia,anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

L'attività di consulenza ed il principo di libertà del lavoro autonomo



Cassazione Sezione seconda civile 11 giugno 2008, n. 15530 - (164)
Avvocati,professionisti,consulenza legale,stragiudiziale,attività riservata

"Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio,cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione"

Svolgimento del processo
Elio N. proponeva appello avverso la sentenza del Pretore di Padova n. 1017/98, depositata il 30.12.98 con cui, revocato il decreto ingiuntivo chiesto e ottenuto per pagamento, di prestazioni professionali, era stato anche condannato alla restituzione di L. 850.000 in favore di Francesco C. Sosteneva che il pretore aveva errato nel ritenere inesigibile la sua richiesta di consulente del lavoro per aver svolto attività riservata ai commercialisti; che aveva errato nel valutare le prove documentali e testimoniali assunte in I grado.
Si costituiva il convenuto chiedendo la conferma dell'impugnata sentenza. Con sentenza dep. il 6 febbraio 2003 la Corte di appello di Venezia respingeva l'impugnazione, ritenendo che le attività professionali in relazione alle quali era stato chiesto il compenso non rientravano fra quelle attribuite dall'art. 2 della L. 11.1.79 n. 12 ai consulenti del lavoro, che svolgono tutti gli adempimenti previsti per l’amministrazione del personale dipendente nonché ogni altra funzione che sia affine, connessa e conseguente.
Nella specie, non rientravano nelle competenze del consulente del lavoro l'attività relativa alla cessione di azienda e la correlativa valutazione patrimoniale della panetteria, né lo studio di fattibilità dell'apertura nel Comune di Salvezzano di un negozio di erboristeria né la redazione dell'atto di transazione stipulato dal N. per porre fine alla controversia sfociata in una denuncia penale da parte di colui il quale doveva acquistare la panetteria, e che aveva contestato al C. di aver abusivamente asportato dal negozio derrate alimentari già inventariate, facenti ormai parte dell'oggetto del contratto -di cessione d'azienda.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il N. sulla base di un unico motivo. Resiste con controricorso il C..
Motivi della decisione
Con l'unico articolato motivo il ricorrente,lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 12 del 1979, in relazione all'art. 2231 cod. civ., censura la sentenza che: a) erroneamente aveva limitato le attribuzioni dei consulenti del lavoro, senza tenere conto dell' ampliamento della competenza in materia fiscale e tributaria conferita con una serie di provvedimenti legislativi introdotti in epoca successiva alla legge n. 12 del 1979; b) fra le attività proprie dei consulenti del lavoro devono essere annoverate anche quelle operazioni che, pur essendo di competenza di altre categorie professionali, non sono a queste riservate in via esclusiva, secondo quanto al riguardo statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 418 del 1996,che ha ritenuto conforme ai principi dettati dalla legge delega i decreti n. 1067 e 1068 del 1953.b)in ogni caso, gli atti compiuti dal N. non rientravano fra quelli tipici di cui ai menzionati decreti.
Il motivo è fondato.
La sentenza, nel ritenere non dovuto il compenso chiesto dal ricorrente per attività professionali che non rientravano nelle competenze professionali attribuite al consulente del lavoro, ha confermato la decisione di primo grado che aveva considerato le stesse riservate ai dottori commercialisti.
Orbene, l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, sicché il professionista non iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della necessaria qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa. Peraltro, al fine di stabilire se ricorra la nullità prevista dall'art. 2231 cod. civ., occorre verificare se la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad ablitazione.
Nella specie, tale indagine non è stata affatto compiuta dai giudici di appello, che si sono limitati ad escludere che l'attività espletata dal ricorrente rientrasse nelle attribuzioni dei consulenti del lavoro secondo quanto al riguardo previsto dalla legge n. 12 del 1979.
Vanno qui richiamati i principi elaborati dalla Corte Costituzionale, secondo cui il sistema degli ordinamenti professionali di cui all'art. 33, quinto comma, della Costituzione, deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, avendo la funzione di tutelare non l'interesse corporativo di una categoria professionale ma quello degli interessi di un società che si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessità : il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica (Corte Cost. 345 del 1995). Ed alla luce di tali principi ancora la Consulta (sentenza n. 418 del 1996), nel ritenere manifestamente infondata la questione di illegittimità dell'art. 1 , primo e ultimo comma del D.P.R n. 1067 DEL 1953 e dell'art. 1 , primo e ultimo comma, del D.P.R n. 1068 del 1953 in relazione all'art. 76 Cost.,ne ha rilevato la conformità alla precisa prescrizione contenuta nell'articolo unico, lettera a), della legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (Delega al Governo della facoltà di provvedere alla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere), secondo cui "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva". _ Nelle norme delegate-hanno sottolineato i giudici delle leggi- non si rinviene alcuna attribuzione in via esclusiva di competenze, ma viene riaffermato che l'elencazione delle attività, oggetto della professione disciplinata, non pregiudica ne' "l'esercizio di ogni altra attività professionale dei professionisti considerati ne' quanto può formare oggetto dell'attività professionale di altre categorie a norma di leggi e regolamenti". In altri termini la disposizione comporta, da un canto, la non tassatività della elencazione delle attività e, dall'altro, la non limitazione dell'ambito delle attribuzioni e attività in genere professionale di altre categorie di liberi professionisti. L'espressione "a norma di leggi e regolamenti", di cui all'ultimo comma di entrambe le disposizioni impugnate, dei D.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, deve doverosamente essere intesa non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche, con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi. Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio,cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oN. amministrativi o tributari). Pertanto ,erroneamente la Corte di appello ha escluso il diritto al compenso, non rientrando le attività professionali svolte dal N. (consulenza e valutazione in materia aziendale; redazione di un atto di transazione) in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista dalla legge come condizione di esercizio della professione). Il ricorso va pertanto accolto; la sentenza va cassata,con rinvio,anche per le spese della presente fase,ad altra sezione della Corte di appello di Venezia. Il giudice di rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "Nelle materie commerciali, economiche finanziarie e di ragioN.a, le prestazioni di assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali, non rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione ". _
P.Q.M.
Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia,anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

venerdì 21 novembre 2008

NEWS DAL GIUDICE DI PACE


Giudice di Pace di Milano sentenza n. 7101 del 11 marzo 2008 -

Notifiche sanzioni amministrative a mezzo società privata
In evidenza: E' inesistente la notificazione del verbale di sanzione amministrativa ove al procedimento notificatorio non prenda parte alcun agente notificatore in quanto le attività ex lege a questo spettanti ex art. 3 l. 820/82 sono state delegate ad una società privata - inviata tramite web

UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI MILANO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice di pace di Milano della sezione IX Dott. Mariagiovanna Serloreti ha pronunciato e pubblicato la seguente
SENTENZA

Nella causa 14607/07 promossa con ricorso depositato in data 27.2.07 da XXX, rappresentato e difeso dal Dott. XXX
- Ricorrente
Contro
Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso da funzionari delegati della Polizia Municipale
- Resistente
Oggetto: opposizione a verbale n. XXX
Conclusioni delle parti: come in atti
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 27.2.07 il Signor XXX proponeva opposizione avverso il verbale in oggetto, chiedendone l’annullamento. All’udienza fissata compariva il di lui figlio XXX nonché il legale del ricorrente il quale si riportava ai propri atti. Nessuno compariva per il Comune che, costituitosi concludeva per il rigetto dell’opposizione. Il Giudice, fatte precisare le conclusioni, ritenuta matura la causa per la decisione dava immediata lettura del dispositivo.
Motivi della decisione
Il Giudice, dato atto che in relazione al primo motivo indicato nel ricorso e riguardante la non correttezza della procedura relativa alla redazione e notifica del verbale di contestazione opposto, il ricorrente sostiene che, in specie, nel procedimento notificatorio sia mancata la fase di trasmissione ex art. 3 l. 820/82 è riservata esclusivamente all’agente notificatore; che il verbale opposto non è mai stato nella disponibilità di alcun agente notificatore – ossia uno di quei soggetti individuati dall’art. 201 c.d.s. – in quanto tale fase è stata delegata a Poste Italiane che provvedevano a stampare il verbale e provvedevano a quegli adempimenti che per legge spettano esclusivamente all’agente notificatore (inserimento della copia nella busta, consegna all’ufficio postale) sostituendosi così al Comune di Milano; che pertanto la notificazione è avvenuta in maniera difforme dal procedimento previsto dalla legge in quanto è mancata la fase di trasmissione di esclusiva competenza dell’agente notificatore totalmente delegata a funzionari delle Poste; che, di conseguenza la notifica del verbale opposto sia inesistente in conformità dell’orientamento della Corte di Cassazione per la quale la notificazione è valida solo se effettuata nelle forme e con le modalità specificatamente previste; ritenuti validi e assorbenti i motivi su esposti dal ricorrente m ne accoglie l’opposizione.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in via equitativa , in dispositivo. Con distrazione a favore del Dott. XXX antistatario.
PQM
Il Giudice di Pace di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede:
Accoglie l’opposizione e per l’effetto annulla il verbale n. XXX;
Condanna il Comune di Milano alla rifusione , in favore del ricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida, in via equitativa, in complessivi € 150,00 oltre IVA e CPA, da distrarsi a favore del difensore antistatario Dott. XXX.
Così deciso in Milano, 21 gennaio 2008.
Il Giudice di Pace
Dott. Prof. Maria Giovanna Serloreti
La presente sentenza è stata resa pubblica mediante deposito in cancelleria oggi 11 marzo 2008.
Il Cancelliere
Tags: notifica, sanzioni amministrative, società privata giudice pace milano multe inesistenza, nullità, opposizione,circolazione stradale,contravvenzioni

NEWS DAL GIUDICE DI PACE


Giudice di Pace di Milano sentenza n. 7101 del 11 marzo 2008 -

Notifiche sanzioni amministrative a mezzo società privata
In evidenza: E' inesistente la notificazione del verbale di sanzione amministrativa ove al procedimento notificatorio non prenda parte alcun agente notificatore in quanto le attività ex lege a questo spettanti ex art. 3 l. 820/82 sono state delegate ad una società privata - inviata tramite web

UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI MILANO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice di pace di Milano della sezione IX Dott. Mariagiovanna Serloreti ha pronunciato e pubblicato la seguente
SENTENZA

Nella causa 14607/07 promossa con ricorso depositato in data 27.2.07 da XXX, rappresentato e difeso dal Dott. XXX
- Ricorrente
Contro
Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso da funzionari delegati della Polizia Municipale
- Resistente
Oggetto: opposizione a verbale n. XXX
Conclusioni delle parti: come in atti
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 27.2.07 il Signor XXX proponeva opposizione avverso il verbale in oggetto, chiedendone l’annullamento. All’udienza fissata compariva il di lui figlio XXX nonché il legale del ricorrente il quale si riportava ai propri atti. Nessuno compariva per il Comune che, costituitosi concludeva per il rigetto dell’opposizione. Il Giudice, fatte precisare le conclusioni, ritenuta matura la causa per la decisione dava immediata lettura del dispositivo.
Motivi della decisione
Il Giudice, dato atto che in relazione al primo motivo indicato nel ricorso e riguardante la non correttezza della procedura relativa alla redazione e notifica del verbale di contestazione opposto, il ricorrente sostiene che, in specie, nel procedimento notificatorio sia mancata la fase di trasmissione ex art. 3 l. 820/82 è riservata esclusivamente all’agente notificatore; che il verbale opposto non è mai stato nella disponibilità di alcun agente notificatore – ossia uno di quei soggetti individuati dall’art. 201 c.d.s. – in quanto tale fase è stata delegata a Poste Italiane che provvedevano a stampare il verbale e provvedevano a quegli adempimenti che per legge spettano esclusivamente all’agente notificatore (inserimento della copia nella busta, consegna all’ufficio postale) sostituendosi così al Comune di Milano; che pertanto la notificazione è avvenuta in maniera difforme dal procedimento previsto dalla legge in quanto è mancata la fase di trasmissione di esclusiva competenza dell’agente notificatore totalmente delegata a funzionari delle Poste; che, di conseguenza la notifica del verbale opposto sia inesistente in conformità dell’orientamento della Corte di Cassazione per la quale la notificazione è valida solo se effettuata nelle forme e con le modalità specificatamente previste; ritenuti validi e assorbenti i motivi su esposti dal ricorrente m ne accoglie l’opposizione.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in via equitativa , in dispositivo. Con distrazione a favore del Dott. XXX antistatario.
PQM
Il Giudice di Pace di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede:
Accoglie l’opposizione e per l’effetto annulla il verbale n. XXX;
Condanna il Comune di Milano alla rifusione , in favore del ricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida, in via equitativa, in complessivi € 150,00 oltre IVA e CPA, da distrarsi a favore del difensore antistatario Dott. XXX.
Così deciso in Milano, 21 gennaio 2008.
Il Giudice di Pace
Dott. Prof. Maria Giovanna Serloreti
La presente sentenza è stata resa pubblica mediante deposito in cancelleria oggi 11 marzo 2008.
Il Cancelliere
Tags: notifica, sanzioni amministrative, società privata giudice pace milano multe inesistenza, nullità, opposizione,circolazione stradale,contravvenzioni

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...