lunedì 14 luglio 2008

Valore venale de Espropri

Occupazione appropriativa, illegittimità, conseguenze, danni, sussistenza
Cassazione civile , sez. I, sentenza 23.04.2008 n° 10560

Occupazione appropriativa – illegittimità – conseguenze – danni – sussistenza [d.p.r. 327/2001]
In caso di occupazione appropriativa, l’espropriato ha diritto ad un ristoro economico corrispondente al valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni valore. (1) (2) (3) (4)
(1) In tema di danno da occupazione appropriativi, si veda Cassazione civile, SS.UU. 9040/2008.(2) In materia di occupazione usurpativa, si veda Cassazione civile, SS.UU. 26732/2007.(3) In materia di occupazione appropriativa ed irreversibile trasformazione del bene, si veda Cassazione civile, SS.UU. 24397/2007.(4) In materia di espropriazione e dichiarazione di pubblica utilità, si veda Consiglio di Stato, adunanza plenaria n. 9/2007.
Tra i contributi della dottrina più recente, si vedano:- GIOIA, L'occupazione appropriativa compete al giudice amministrativo, in Danno e responsabilità, 2008, n. 4, IPSOA, p. 475;- DE LUCIA, PROTTO, Occupazione appropriativa e provvedimento ex art. 43 T.U. Espropriazioni, in Urbanistica e appalti, 2008, n. 4, IPSOA, p. 516;- MARZANO, Inapplicabilità dell'occupazione appropriativa ad opere private di interesse pubblico, in Urbanistica e appalti, 2007, n. 3, IPSOA, p. 328;- LIMENTANI, VERONELLI, Occupazione appropriativi, in Giornale di diritto amministrativo, 2007, n. 7, IPSOA, p. 747;- DE MARZO G., Occupazione appropriativa e risarcimento del danno, in Urbanistica e appalti, 2007, n. 12, IPSOA, p. 1512.
(Fonte: Altalex Massimario 25/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 29 gennaio - 23 aprile 2008, n. 10560
(Presidente Carnevale - Relatore Salvago)

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza non definitiva del 31 luglio 1991, respingeva la domanda con cui C. C. aveva chiesto la condanna del Comune di Gallarate al rilascio di alcuni terreni di sua proprietà ricompresi P.e.e.p. approvato il 21 luglio 1982, e dichiarava che il C. aveva diritto al risarcimento dei danni subiti a causa dell’illegittimo protrarsi della loro occupazione disposta, per un triennio dall’immissione in possesso, con decreti emanati, rispettivamente, l’11 gennaio 1983, il 31 gennaio 1983 e il 7 dicembre 1983: in quanto i fondi erano stati nel frattempo destinati in modo irreversibile alla realizzazione delle opere previste dal P.e.e.p. ed il Comune ne aveva pertanto acquisito la proprietà, per cui era tenuto a corrispondere al proprietario una somma pari al loro controvalore.
Con sentenza definitiva del 6 agosto 1993, determinava la somma suddetta nella misura di L. 1.217.074.000, con gli interessi legali della domanda.
Il Comune proponeva appello nei confronti di entrambe le sentenze, che censurava, tra l’altro, per non aver rilevato che le situazioni giuridiche soggettive delle quali il C. assumeva l’ingiusta lesione avevano consistenza (non di diritti soggettivi, ma) di interessi legittimi e, conseguentemente, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
La Corte di appello di Milano, con sentenza non definitiva del 12 maggio 1998, lo respingeva, osservando:
a) che il vincolo nascente dall’inclusione nel P.e.e.p. non implica, di per sé, alcuna degradazione del diritto di proprietà, né legittima il protrarsi dell’occupazione oltre il suo termine di durata; b) che, alla data di notifica dell’atto di citazione (9 ottobre 1987), il termine di durata delle occupazioni autorizzate con i decreti dell’11 gennaio e del 31 gennaio 1983 era già scaduto e che la maturazione di quello relativo all’occupazione disposta il 7 dicembre 1983 su era verificata in corso di causa. Rigettava altresì la d’appello incidentale del C., e rimetteva la causa in istruttoria per la riliquidazione del risarcimento alla stregua dei criteri stabiliti dall’art. 5 bis, legge 8 agosto 1992, n. 359, così come riformulato dall’art. 3, comma 65, legge 23 dicembre 1996, n. 662, entrata in vigore dopo l’instaurazione del giudizio d’appello.
Con sentenza definitiva del 31 marzo 2000, liquidava l’ammontare del risarcimento in complessive L. 451.638.000, oltre rivalutazione e interessi.
Per la cassazione di tali sentenze, il C. ha proposto ricorso per cinque motivi. Il Comune ha resistito con controricorso formulando a sua volta, ricorso incidentale anche per motivi attinenti alla giurisdizione.
Le Sezioni Unite, con sentenza 2 aprile 2003 n. 5082 hanno dichiarato inammissibile la questione di giurisdizione. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso, C. C., denunciando violazione dell’art. 3 legge 458 del 1988, e dell’art. 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992, censura la sentenza impugnata per non aver preso in considerazione i propri motivi di appello, con cui egli aveva invocato l’applicazione della legge 458/1988 che attribuisce al provato il diritto ad ottenere la restituzione dell’immobile, ovvero in alternativa, il suo controvalore; ed aveva escluso che le opere di edilizia residenziale assumessero la qualifica di opere pubbliche sì da giustificare l’applicazione del criterio riduttivo di cui all’art. 5 bis, comma 7 bis della legge del 1992.
Il motivo è inammissibile.
Già nella sentenza non definitiva, la Corte territoriale pur non menzionandolo, ha puntualmente applicato l’art. 3 della legge 458/1988, invocato dal C., che a fronte della irreversibile trasformazione degli immobili privati in opere di edilizia residenziale (pag. 14) ha esteso al nuovo compendio in tal modo realizzato il regime della c.d. occupazione espropriativi disponendone l’acquisizione nel patrimonio dell’espropriante; ed escludendo la restituzione degli immobili agli originari proprietari, cui ha attribuito, in luogo di questa, un risarcimento corrispondente al controvalore dei beni illegittimamente ablati: così come del resto aveva richiesto l’appellante.
Queste considerazioni sono state ribadite nella sentenza definitiva, ove la Corte ha ricordato, questa volta espressamente, proprio il menzionato art. 3 che vieta all’espropriato di chiedere “la retrocessione del bene” e gli attribuisce come corrispettivo del sacrificio il diritto ad ottenere risarcimento del danno, svalutazione monetaria ed interessi legali. E tuttavia i giudici di appello hanno ritenuto che la misura del risarcimento fosse stata modificata dal sopravvenuto art. 5 bis comma 7 della ricordata legge 359/1992, che aveva introdotto un criterio riduttivo per liquidarlo; che tale parametro fosse applicabile a tutte le occupazioni espropriative (o considerate tali per volontà espressa dal legislatore) in cui non era stato dettato uno specifico criterio con esso incompatibile;
e che il giudice dovesse applicarlo di ufficio, come stabilito dalla stessa norma, anche nelle controversie in corso, purché l’indennizzo non fosse stato definito con sentenza passata in giudicato: perciò rispondendo pure alla considerazione prospettata nella memoria conclusiva del C. che aveva dedotto che al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, le opere residenziali erano interamente ultimate. Per cui le censure del ricorrente non hanno colto l’effettiva ratio decidendi di entrambe le decisioni fondate proprio sull’applicabilità al caso concreto della legge 458/1988, con l’integrazione alla stessa introdotta dall’art. 5 bis citato.
Con il terzo motivo, da esaminare a questo punto per evidenti ragioni di logica giuridica, il C., deducendo violazione degli art. 2697 cod. civ., nonché 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992, si duole che la Corte di appello abbia calcolato il risarcimento del danno secondo il criterio riduttivo stabilito da quest’ultima norma per la c.d. occupazione espropriativi, senza considerare che nel caso mancava la prova che vi fosse all’epoca dell’irreversibile trasformazione dell’immobile una dichiarazione di p.u. ancora valida ed efficace; che il comune di Gallarate non aveva fornito alcuna dimostrazione al riguardo; e che tale prova poteva comunque agevolmente ricavarsi dal decreto di occupazione temporanea che aveva espressamente ridotto quelli propri di validità del programma costruttivo di edilizia economica e popolare.
Anche questa censura è inammissibile.
Neppure il ricorrente ha prospettato di avere mai dedotto nei precedenti gradi del giudizio questioni inerenti alla mancanza, o invalidità, o inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, quale circostanza ostativa alla configurabilità dell’occupazione appropriativi; che il Tribunale di Busto Arsizio con la sentenza non definitiva del 31 luglio 1991 ha accertato essersi verificata a favore del comune di Gallarate, e per tale ragione ha respinto la richiesta del C. di restituzione dei beni irreversibilmente trasformati da detta amministrazione.
Ora i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e questioni che abbiano formato oggetto del giudizio di merito, restando escluso, pertanto, che in sede di legittimità possano essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di contestazione involgenti accertamenti di fatto non compiuti, perché non richiesti, in sede di merito. Per cui questa Corte ha ripetutamente affermato che non può prospettarsi per la prima volta in cassazione, ai fini di ottenere un risarcimento integrale del danno, la questione di invalidità o inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità per avvenuta scadenza dei termini per l’inizio ed il compimento dei lavori e della procedura, rispetto ad un originario accertamento del giudice di merito del verificarsi dell’occupazione espropriativi – sul necessario presupposto di una valida ed efficace dichiarazione di p.u. -, in relazione alla quale è stato liquidato il danno secondo il criterio riduttivo di cui all’art. 5 bis, comma settima bis, legge 359 del 1992: in quanto nell’occupazione illegittima per mancanza o inefficacia della dichiarazione di p.u. non è configurabile un’espropriazione, ma tutt’altra situazione in cui il proprietario, per converso, conserva e mantiene il proprio diritto dominicale sull’immobile, nonché in via primaria, quello di chiederne la restituzione. Ed in cui l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. è esperibile soltanto se (e solo perché) egli per una propria scelta discrezionale rinunci ad ottenere il rilascio del bene e preferisca invece, abbandonarlo definitivamente all’occupante e conseguire in cambio la completa reintegrazione economica del pregiudizio sofferto (Cass. 15687/2001, 70/2004, 18436/2004).
Con il secondo motivo, deducendo altra violazione della medesima legge nonché dell’art. 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992 lamenta che non sia stata applicata la disposizione dell’art. 3 legge 458/1988 sul risarcimento del danno, come estesa dalla sentenza 486/1991 della Corte Costituzionale che aveva introdotto un autonomo sistema di risarcimento fondato esclusivamente sull’art. 2043 c.c.; e non ridotto dall’art. 5 bis, come si ricavava dalla successiva sentenza 147/1999 della Consulta che aveva giustificato i due diversi regimi con la diversità delle situazioni disciplinate, nonché degli interventi pubblici consentiti, dando atto che per quelli rivolti al soddisfacimento di esigenze di edilizia residenziale pubblica, la tutela risarcitoria dei proprietari espropriati era integralmente garantita dalla legge del 1988.
Questo motivo è fondato.
La Corte Costituzionale ha avallato la legittimità della c.d. occupazione espropriativi, che entrambi i giudici di merito hanno accertato essersi verificata nella specie in danno degli immobili C., riconducendola nell’ambito di previsione del III comma dell’art. 42 Costit.: per il fatto che la norma non si riferisce soltanto “ad ipotesi ablative prefigurate in via generale ed accompagnante da sequenze procedimentali costanti ed unitarie”, ma consente al legislatore di disporre direttamente l’espropriazione anche se l’effetto ablatorio non si inquadri nell’ipotesi comune di un trasferimento preventivo dell’operazione, sempre che questa operazione sia assistita da motivi di pubblico interesse e dal giusto indennizzo”.
E tuttavia detto istituto pur fondato, tanto dalla giurisprudenza di questa Corte, quanto dalla stessa Consulta sull’intervento del legislatore che, chiamato ad operare un bilanciamento (già nella disciplina dell’accessione di diritto comune) dei contrapposti interessi del proprietario alla restituzione dell’immobile ormai trasformato, e dell’amministrazione espropriante al mantenimento dell’opera pubblica, privilegia questi ultimi almeno con riguardo all’assetto reale del nuovo ed ormai inscindibile compendio, non per questo ha perduto la sua connotazione di fatto illecito: per avere la propria fonte genetica non già in un atto di autorità dell’amministrazione espropriante, ma in un comportamento fattuale di questa che, pur priva di un titolo legittimo, attua l’irreversibile trasformazione dell’immobile privato appreso, inglobandolo nell’opera preventivata dalla dichiarazione di p.u.. Ed incidente sul compenso dovuto al proprietario per l’illegittimo sacrificio richiestogli, che dunque in forza dello stesso precetto contenuto nell’art. 42, III comma Costit., assume la fisionomia di un risarcimento del danno integrale, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato (art. 39 legge 2359 del 1865): sì da raggiungere, secondo la Corte Costituzionale, “la sua massima estensione consentita” in luogo del “massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesse, la pubblica amministrazione può garantire all’espropriato” nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge; ovvero di quella peculiare del “prezzo” del contratto di cessione (art. 12 della legge 865 del 1971), allorché l’effetto traslativo sia conseguito in via negoziale.
Con la conseguenza che tale consistenza dell’indennizzo – e perciò “il principio della responsabilità aquiliana ... corrispondente al valore reale del bene” – costituisce un elemento caratterizzante ed ineliminabile dell’occupazione espropriativa, ricorrente a prescindere dalla destinazione “legale” del bene espropriato; che è stato confermato sia pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche dall’art. 3 della legge. 458 del 1988. E successivamente – e più volte – dalla stessa Consulta, secondo cui “essendo l’interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, comporta la liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore velane del bene, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione” (Corte Costit. 369/1996, 188/1995, 542/1990, 384/1990).
Il legislatore, invece, limitatamente alle aree edificatorie, la cui radicale trasformazione sia intervenuta anteriormente al 30 settembre 1996, con la successiva disposizione dell’art. 3, comma 65, della legge 662 del 1996, ha esteso ad esso (comma 7 bis) il medesimo criterio riduttivo stabilito dall’art. 5 bis della legge. 359 del 1992 per determinare l’indennità di esproprio, con esclusione della riduzione del quaranta per cento prevista dal I comma della norma, e con l’aumento del dieci per cento: nel caso applicato dalla Corte di Appello anche perché la Corte costituzionale ne ha dichiarato la conformità all’art. 42 Costit. in quanto a) Il legislatore, in casi eccezionali, può ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno, attuabile sia nel campo della responsabilità contrattuale, sia in materia di responsabilità extracontrattuale; b) nella fattispecie dell’occupazione appropriativi, sussistevano in astratto gli estremi giustificativi di un intervento normativo “ragionevolmente riduttivo della misura della riparazione dovuta dalla Pubblica Amministrazione al proprietario dell’immobile che si venuto ad essere così incorporato nell’opera pubblica”.
Sennonché questo criterio riduttivo è venuto meno per effetto della recente sentenza 349 del 2007 della stessa Corte, che, accogliendo il dubbio sollevato da questa Corte con l’ordinanza di rimessione 11887 del 2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7 bis del menzionato art. 5 bis: in quanto la norma, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione. Ciò perché la Corte europea con specifico riferimento alla disciplina dell’occupazione ha ritenuto che la liquidazione del danno stabilita in misura superiore all’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo. E perché, d’altra parte, anche alla luce “delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito”.
Pertanto dal giorno successivo alla pubblicazione di questa decisione (art. 136 Costit. E 30, III comma legge 87 del 1953) non è più possibile applicare il meccanismo riduttivo introdotto dall’art. 5 bis, comma 7 bis a meno che il rapporto non sia ormai esaurito in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per Essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenza e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, della pronuncia di incostituzionalità (Cass. 16450/2006; 15200/2005; 22413/2004).
Nessuna di queste ipotesi si è verificata nel caso concreto posto che il C. con i motivi di impugnazione in esame ha impedito la definitiva ed immodificabile determinazione dell’indennizzo dovutogli per l’illegittima espropriazione dell’immobile ponendone in discussione l’ammontare; per cui l’aspetto patrimoniale della vicenda estintivo – acquisitiva torna ad essere disciplinato dalla ricordata regola, sostanzialmente tratta dall’art. 39 della legge 2359 del 1865, e fino alla sentenza 349/2007, mantenuta per le aree non edificabili limitatamente alle irreversibili trasformazioni successive al 30 settembre 1996, che comporta il diritto dell’espropriato ad un ristoro economico corrispondente al valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni valore.
L’applicazione di questo criterio è stata infine ribadita dall’art. 2 della legge 244 del 2007, il cui comma 89 sub e) ha modificato l’art. 55 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.p.r. 327/2001, disponendo che “nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di p.u., in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquido in misura pari al valore venale del bene”. Con la conseguenza che il risarcimento dovuto al C. per l’occupazione appropriativi subita deve essere liquidato in misura corrispondente al valore pieno che gli immobili avevano al momento già determinato dalle sentenze impugnate, in cui scaduto il termine finale fino al quale ne era stata autorizzata l’occupazione temporanea, la già avvenuta irreversibile trasformazione nell’opera programmata dal p.e.e.p. ne aveva provocato il trasferimento coattivo all’amministrazione espropriante.
L’accoglimento di questo motivo comporta l’assorbimento del quarto, con il cui il C. ha eccepito l’incostituzionalità del menzionato art. 5 bis comma 7 bis, per avere introdotto un criterio riduttivo di sistema incompatibile con gli artt. 3, 24, 28, 42, 97 Cost., avendo la menzionata decisione 349/2007 della Corte Costituzionale già scrutinato la questione, dichiarato incostituzionale la norma.
Con il quinto motivo del ricorso, il C., deducendo insufficienza ed altri vizi della motivazione si duole che la sentenza definitiva abbia valutato i terreni applicando i parametri edificatori del p.e.e.p. in luogo di quelli del precedente p.r.g. del 3 settembre 1957, senza considerare la duplice natura del piano di edilizia popolare, ed in base al solo presupposto che lo stesso si concretasse in una variante del precedente strumento urbanistico.
La doglianza è inammissibile in quanto il ricorrente non ha neppure a quali parametri intendeva riferirsi, ed in particolare se trattasi dagli indici territoriali del piano, ovvero degli indici fondiari; nonché a maggior ragione quale fosse quello applicato dalla Corte e quale quello più elevato che disciplinava la medesima zona nel p.r.g. del 1957. E non ha indicato, infine, neppure quale strumento urbanistico vigesse all'epoca dell'irreversibile trasformazione dell'immobile e quale regime prevedesse per la zona in cui poi sorto il p.e.e.p..
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato anche a sezioni unite (Cass. 125/2001; 148/2001 e successive), che è proprio l'indice medio di edificabilità, a tradurre le scelte generali sui livelli di edificazione sopportabili dal territorio comunale, nel suo insieme o in sue autonome componenti - anche per la fissazione dell'indice in un rapporto medio che ne conferma l'esorbitanza dalla funzione di attuazione del piano regolatore - ed a costituire la disciplina generale sull'utilizzazione edificatoria di tutti i suoli, compresi ne Piano di zona; per cui per rendere la censura autosufficiente, era necessario quanto meno che il C. allegasse se l'apprezzamento del valore del terreno compiuto in base ai menzionati indici medi di fabbricabilità correlati (o correlabili) al totale della superficie al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi, ed inoltre se detti parametri si riferissero all'intera area del piano stesso i ad una porzione differenziata per situazioni indipendenti dal progetto espropriativi: oppure se era avvenuto recependo la minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire (neppur essa indicata), per effetto dell'applicazione di disposizioni del piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni, ovvero servizi e infrastrutture: posto che soltanto in tale ultimo caso poteva stabilirsi se la sentenza incorsa nei vizi di motivazione addebitati nel giustificare l'applicazione di tali parametri con la natura di variante al p.r.g. peculiare del p.e.e.p..
Inammissibile è anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui il comune insiste nel dedurre che alla scadenza del decreto di occupazione non era venuto meno il proprio potere ablativo collegato alla dichiarazione di p.u. non ancora scaduta: posto che la Corte di appello non ha disconosciuto affatto tale circostanza, ma vi ha contrapposto quella del tutto pacifica e decisiva per il verificarsi dell'occupazione espropriativi, che né alla scadenza suddetta, né successivamente era stato mai emesso il decreto di esproprio, con la conseguenza, neppur essa contestata dall'ente, che gli immobili C. erano stati acquisiti non in forza di un titolo legittimo, bensì in conseguenza di una situazione fattuale, quale è la loro accertata irreversibile trasformazione.
Ed è infine inammissibile l'ultimo motivo relativo all'asserita sussistenza di una cessione volontaria tra le parti, per essersi con esso il comune limitato a contraddire il risultato dell'accertamento condotto dalle sentenze impugnate, che tra di esse erano intercorse mere trattative concluse da una delibera della Giunta comunale che aveva dato mandato al sindaco di provvedere ai successivi adempimenti per la stipula del contratto di vendita; cui gli organi comunali non avevano dato seguito: senza indicare alcun elemento idoneo ad individuare l'atto che sarebbe stato egualmente concluso tra le parti, a cominciare dall'offerta provvisoria dell'indennità ex art. 12 della legge 865/1971 e della sua incondizionata accettazione da parte del proprietario.
Conclusivamente la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, e non essendo necessari ulteriori accertamenti per avere già la Corte di appello determinato il valore venale dei terreni C., il Collegio deve decidere nel merito ex art. 384 cod. proc. pen. e condannare il comune a corrispondere il loro valore venale determinato come di seguito:
a) mappale 1062:L. 403.524.412; b) mappale 1399: L. 166.290.000; c) mappale 200: L. 195.978.099; d) diminuzione porzione residua L. 28.716.000. Ed in totale L. 749.508.511, pari ad Euro 410.330,00, oltre interessi legali e danno da svalutazione monetaria come determinati dalla sentenza definitiva della Corte di appello.
ne va infine mantenuta ferma anche la statuizione relativa alle spese dei pregressi gradi del giudizio, mentre anche quelle del giudizio di legittimità vanno gravate sul soccombente comune di Gallarate e liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il primo, il terzo ed il quinto motivo del principale, nonché il secondo ed il terzo dell'incidentale, accoglie il secondo del ricorso principale e, dichiarato assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; decidendo nel merito, condanna il comune di Gallarate a corrispondere a C. C. la complessiva somma di Euro 410.330,00, con rivalutazione monetaria calcolata dall'Istat ed interessi legali come con le decorrenze indicate nella sentenza definitiva della Corte di appello. Ne mantiene la statuizione relativa alle spese processuali e condanna il comune al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 12.000,00 di cui Euro 12.000,00 per onorario di difesa, oltre Iva ed accessori come per legge.

Annullamento Autorizzazione Paesaggistica rilasciata dal Comune: Non sempre segue la demolizione

Condono edilizio, autorizzazione paesaggistica, annullamento, demolizione
Consiglio di Stato , sez. IV, decisione 28.04.2008 n° 1865


Condono edilizio – autorizzazione paesaggistica – annullamento – demolizione del manufatto – esclusione [art. 82, D.Lgs. 616/77]

Qualora, nel corso del procedimento di condono, la Soprintendenza annulli per difetto di motivazione l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune, il Comune non può disporre la demolizione del manufatto senza preventivamente esporre le ragioni per le quali ritiene che non sussistano i presupposti per il rilascio di una eventuale nuova autorizzazione fondata su motivazioni diverse. (1) (2) (3) (4) (5) (6)
(1) In tema di condono edilizio e demolizione di opere abusive, si veda TAR Campania-Napoli 3070/08.(2) In tema di condono edilizio e vincolo paesaggistico, si veda Consiglio di Stato 22/08.(3) In tema di condono edilizio e tutela dei terzi, si veda Consiglio di Stato 6332/07.(4) In tema di condono edilizio e silenzio-assenso, si veda TAR Toscana 441/07. (5) In tema di condono edilizio e competenze Stato-Regioni, si veda Corte Costituzionale 9/08.(6) Sul tema del rapporto tra condono e reati edilizi, si veda Cassazione penale 451/07.
(Fonte: Altalex Massimario 25/2008)

Consiglio di Stato
Sezione IV
Decisione 28 aprile 2008, n. 1865
(Presidente Trotta - Relatore Maruotti)

Rilevato che, nel corso della camera di consiglio fissata per la definizione della domanda incidentale dell’appellante, è stata rappresentata alle parti la possibilità che si sarebbe potuto definire il secondo grado del giudizio;
Considerato che sussistono i presupposti per l’immediata definizione del secondo grado del giudizio;
Considerato in fatto e in diritto quanto segue:
1. In data 28 febbraio 1995, la società appellante ha presentato al Comune di Bologna una domanda di condono avente per oggetto un manufatto in legno, realizzato senza titolo su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Con il provvedimento n. 20208-95 del 30 dicembre 1997, il Comune ha rilasciato l’autorizzazione prevista dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 ed ha disposto il condono.
In data 9 giugno 1998, la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Bologna – nell’esercizio del potere previsto dall’art. 82 del d.lg. n. 616 del 1977 – ha annullato il provvedimento del 30 dicembre 1997 per eccesso di potere, poiché il Comune “non spiega come e perché l’intervento autorizzato sia compatibile con le caratteristiche e le peculiarità paesaggistiche dell’area tutelata”, della quale la Soprintendenza ha sottolineato il particolare pregio.
2. Nel dare seguito all’atto della Soprintendenza, il Comune di Bologna:
- ha emesso l’ordine di demolizione n. 34897 del 28 febbraio 2001, che si è basato sul “diniego di condono PG 30208/95 del 5 gennaio 1998”;
- ha emesso l’ulteriore ordinanza n. 63176 del 10 aprile 2001, che ha “rettificato” il precedente ordine del 28 febbraio 2001, nel senso che – constatato l’annullamento del provvedimento del 30 dicembre 1997 – ha ribadito l’ordine di demolizione.
3. Col ricorso di primo grado n. 1025 del 2001 (proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna), la società ha impugnato i provvedimenti emessi dal Comune in data 28 febbraio 2001 e 10 aprile 2001, di cui ha chiesto l’annullamento.
Il TAR, con la sentenza n. 2789 del 2007, ha dichiarato inammissibile il ricorso (condannando la società al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio), poiché:
- l’ordinanza del 28 febbraio 2001 risulta comunicata alla società il 5 marzo 2001, mentre il ricorso è stato notificato l’8 giugno 2001;
- l’ordinanza del 10 aprile 2001 sarebbe meramente confermativa di quella precedente, di cui ha disposto la rettifica in ordine al precedente richiamo al “diniego di condono”, specificando che il provvedimento del 30 dicembre 1997 è stato poi annullato dalla Soprintendenza.
4. Col gravame in esame, la società ha dedotto che il TAR ha erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, poiché l’ordinanza del 10 aprile 2001 non può essere qualificata come atto meramente confermativo.
Inoltre, la società ha riproposto le censure formulate in primo grado, sulla illegittimità dell’ordinanza del 28 marzo 2001 (per erroneità nei presupposti e difetto di motivazione) e di quella del 10 aprile 2001 (per difetto di motivazione, poiché il Comune avrebbe dovuto previamente valutare se l’istanza di condono poteva essere accolta sotto il profilo paesaggistico, con una motivazione adeguata, che superasse il vizio di eccesso di potere rilevato dalla Soprintendenza).
5. Così riassunte le articolate censure dell’appellante, ritiene la Sezione che esse siano fondate e vadano accolte.
6. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, il provvedimento emesso dal Comune in data 10 aprile 2001 non ha natura meramente confermativa.
Esso, infatti, ha constatato come la precedente ordinanza del 28 febbraio 2001 avesse travisato le circostanze, nel ritenere che la demolizione dovesse conseguire all’emanazione di un provvedimento di “diniego di condono”, che in realtà non vi era mai stato.
Pertanto, l’ordinanza del 10 aprile 2001 – in relazione al vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti - va qualificata come atto di convalida di quella precedente del 28 febbraio 2001, e cioè come suo atto modificativo che ha rinnovato la lesione dell’interesse della società, sulla base di una motivazione parzialmente diversa.
Ciò comporta che il ricorso di primo grado:
- va dichiarato ammissibile, in quanto notificato in data 5 giugno 2001, nella parte in cui è stato proposto avverso il provvedimento del 10 aprile 2001 (in quanto non meramente confermativo di quello emesso il 28 febbraio 2001);
- va dichiarato ammissibile anche per la parte rivolta avverso l’ordinanza del 28 febbraio 2001, i cui effetti sono stati rinnovati dall’ordinanza del 10 aprile 2001, che ne ha inteso disporre la convalida con effetti ex tunc.
7. Le censure formulate in primo grado, riproposte in questa sede, risultano altresì fondate e vanno accolte.
7.1. Qualora nell’esercizio del potere previsto dall’art. 82 del d.lg. n. 616 del 1977 (trasfuso nel testo unico n. 190 del 1999 e poi nell’art. 146 del Codice n. 42 del 2994), e nel corso del procedimento di condono, la Soprintendenza annulli per difetto di motivazione l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune (quale autorità subdelegata dalla Regione), il Comune è titolare di un potere discrezionale, per il quale:
a) o ritiene che possa essere rilasciata una ulteriore autorizzazione paesaggistica, con una motivazione diversa da quella che ha condotto all’annullamento da parte dell’organo statale;
b) o ritiene – anche sulla base delle valutazioni formulate dall’organo statale – che non sussistano i presupposti per il rilascio della autorizzazione, ma in tal caso deve esporre le relative ragioni con adeguata motivazione, secondo i principi generali riguardanti l’esercizio delle pubbliche funzioni.
A seguito dell’annullamento della autorizzazione da parte dell’organo statale, non può invece il Comune senz’altro disporre la demolizione del manufatto per il quale è stata proposta la domanda di condono: anche se con un solo provvedimento, il Comune deve previamente valutare se l’istanza (già accolta sotto il profilo paesaggistico, con l’atto annullato per difetto di motivazione) sia meritevole di essere accolta.
Solo ove la relativa valutazione sia negativa, va emesso il conseguente ordine di demolizione.
7.2. Con riferimento al caso di specie, a seguito dell’annullamento della autorizzazione da parte della Soprintendenza, il Comune ha senz’altro emesso l’ordinanza di demolizione, senza valutare in alcun modo se l’originaria istanza – per la parte riguardante i valori paesaggistici - fosse meritevole di accoglimento sulla base di una motivazione diversa da quella ritenuta inadeguata dall’organo statale.
Pertanto, come ha dedotto l’appellante, i provvedimenti del 28 marzo 2005 e del 10 aprile 2001 si manifestano viziati per eccesso di potere, sotto i profili di difetto di motivazione e di inadeguata valutazione delle circostanze emerse nel corso del procedimento.
8. Per le ragioni che precedono, l’appello va accolto, sicché, in riforma della sentenza gravata, il ricorso originario va accolto perché risulta ammissibile e fondato.
Per l’effetto, va disposto l’annullamento degli atti impugnati in primo grado, così come è specificato nel dispositivo, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune di Bologna.
La condanna al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio (nonché al rimborso del contributo unificato) segue la soccombenza.
Di essa è fatta liquidazione nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie l’appello n. 2147 del 2001 e, in riforma della sentenza del TAR per l’Emilia Romagna n. 2789 del 2001, accoglie il ricorso di primo grado n. 1025 del 2001 ed annulla le ordinanze del Comune di Bologna n. 28 febbraio 2001 e del 10 aprile 2001, con cui è stata disposta la demolizione del manufatto realizzato alla via Ravone n. 26.
Condanna il Comune di Bologna al pagamento di euro 3.000 (tremila) in favore dell’appellante, per spese ed onorari dei due gradi del giudizio, oltre al rimborso delle spese sostenute per i contributi unificati.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla Autorità amministrativa.

Annullamento Autorizzazione Paesaggistica rilasciata dal Comune: Non sempre segue la demolizione

Condono edilizio, autorizzazione paesaggistica, annullamento, demolizione
Consiglio di Stato , sez. IV, decisione 28.04.2008 n° 1865


Condono edilizio – autorizzazione paesaggistica – annullamento – demolizione del manufatto – esclusione [art. 82, D.Lgs. 616/77]

Qualora, nel corso del procedimento di condono, la Soprintendenza annulli per difetto di motivazione l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune, il Comune non può disporre la demolizione del manufatto senza preventivamente esporre le ragioni per le quali ritiene che non sussistano i presupposti per il rilascio di una eventuale nuova autorizzazione fondata su motivazioni diverse. (1) (2) (3) (4) (5) (6)
(1) In tema di condono edilizio e demolizione di opere abusive, si veda TAR Campania-Napoli 3070/08.(2) In tema di condono edilizio e vincolo paesaggistico, si veda Consiglio di Stato 22/08.(3) In tema di condono edilizio e tutela dei terzi, si veda Consiglio di Stato 6332/07.(4) In tema di condono edilizio e silenzio-assenso, si veda TAR Toscana 441/07. (5) In tema di condono edilizio e competenze Stato-Regioni, si veda Corte Costituzionale 9/08.(6) Sul tema del rapporto tra condono e reati edilizi, si veda Cassazione penale 451/07.
(Fonte: Altalex Massimario 25/2008)

Consiglio di Stato
Sezione IV
Decisione 28 aprile 2008, n. 1865
(Presidente Trotta - Relatore Maruotti)

Rilevato che, nel corso della camera di consiglio fissata per la definizione della domanda incidentale dell’appellante, è stata rappresentata alle parti la possibilità che si sarebbe potuto definire il secondo grado del giudizio;
Considerato che sussistono i presupposti per l’immediata definizione del secondo grado del giudizio;
Considerato in fatto e in diritto quanto segue:
1. In data 28 febbraio 1995, la società appellante ha presentato al Comune di Bologna una domanda di condono avente per oggetto un manufatto in legno, realizzato senza titolo su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Con il provvedimento n. 20208-95 del 30 dicembre 1997, il Comune ha rilasciato l’autorizzazione prevista dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 ed ha disposto il condono.
In data 9 giugno 1998, la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Bologna – nell’esercizio del potere previsto dall’art. 82 del d.lg. n. 616 del 1977 – ha annullato il provvedimento del 30 dicembre 1997 per eccesso di potere, poiché il Comune “non spiega come e perché l’intervento autorizzato sia compatibile con le caratteristiche e le peculiarità paesaggistiche dell’area tutelata”, della quale la Soprintendenza ha sottolineato il particolare pregio.
2. Nel dare seguito all’atto della Soprintendenza, il Comune di Bologna:
- ha emesso l’ordine di demolizione n. 34897 del 28 febbraio 2001, che si è basato sul “diniego di condono PG 30208/95 del 5 gennaio 1998”;
- ha emesso l’ulteriore ordinanza n. 63176 del 10 aprile 2001, che ha “rettificato” il precedente ordine del 28 febbraio 2001, nel senso che – constatato l’annullamento del provvedimento del 30 dicembre 1997 – ha ribadito l’ordine di demolizione.
3. Col ricorso di primo grado n. 1025 del 2001 (proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna), la società ha impugnato i provvedimenti emessi dal Comune in data 28 febbraio 2001 e 10 aprile 2001, di cui ha chiesto l’annullamento.
Il TAR, con la sentenza n. 2789 del 2007, ha dichiarato inammissibile il ricorso (condannando la società al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio), poiché:
- l’ordinanza del 28 febbraio 2001 risulta comunicata alla società il 5 marzo 2001, mentre il ricorso è stato notificato l’8 giugno 2001;
- l’ordinanza del 10 aprile 2001 sarebbe meramente confermativa di quella precedente, di cui ha disposto la rettifica in ordine al precedente richiamo al “diniego di condono”, specificando che il provvedimento del 30 dicembre 1997 è stato poi annullato dalla Soprintendenza.
4. Col gravame in esame, la società ha dedotto che il TAR ha erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, poiché l’ordinanza del 10 aprile 2001 non può essere qualificata come atto meramente confermativo.
Inoltre, la società ha riproposto le censure formulate in primo grado, sulla illegittimità dell’ordinanza del 28 marzo 2001 (per erroneità nei presupposti e difetto di motivazione) e di quella del 10 aprile 2001 (per difetto di motivazione, poiché il Comune avrebbe dovuto previamente valutare se l’istanza di condono poteva essere accolta sotto il profilo paesaggistico, con una motivazione adeguata, che superasse il vizio di eccesso di potere rilevato dalla Soprintendenza).
5. Così riassunte le articolate censure dell’appellante, ritiene la Sezione che esse siano fondate e vadano accolte.
6. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, il provvedimento emesso dal Comune in data 10 aprile 2001 non ha natura meramente confermativa.
Esso, infatti, ha constatato come la precedente ordinanza del 28 febbraio 2001 avesse travisato le circostanze, nel ritenere che la demolizione dovesse conseguire all’emanazione di un provvedimento di “diniego di condono”, che in realtà non vi era mai stato.
Pertanto, l’ordinanza del 10 aprile 2001 – in relazione al vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti - va qualificata come atto di convalida di quella precedente del 28 febbraio 2001, e cioè come suo atto modificativo che ha rinnovato la lesione dell’interesse della società, sulla base di una motivazione parzialmente diversa.
Ciò comporta che il ricorso di primo grado:
- va dichiarato ammissibile, in quanto notificato in data 5 giugno 2001, nella parte in cui è stato proposto avverso il provvedimento del 10 aprile 2001 (in quanto non meramente confermativo di quello emesso il 28 febbraio 2001);
- va dichiarato ammissibile anche per la parte rivolta avverso l’ordinanza del 28 febbraio 2001, i cui effetti sono stati rinnovati dall’ordinanza del 10 aprile 2001, che ne ha inteso disporre la convalida con effetti ex tunc.
7. Le censure formulate in primo grado, riproposte in questa sede, risultano altresì fondate e vanno accolte.
7.1. Qualora nell’esercizio del potere previsto dall’art. 82 del d.lg. n. 616 del 1977 (trasfuso nel testo unico n. 190 del 1999 e poi nell’art. 146 del Codice n. 42 del 2994), e nel corso del procedimento di condono, la Soprintendenza annulli per difetto di motivazione l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune (quale autorità subdelegata dalla Regione), il Comune è titolare di un potere discrezionale, per il quale:
a) o ritiene che possa essere rilasciata una ulteriore autorizzazione paesaggistica, con una motivazione diversa da quella che ha condotto all’annullamento da parte dell’organo statale;
b) o ritiene – anche sulla base delle valutazioni formulate dall’organo statale – che non sussistano i presupposti per il rilascio della autorizzazione, ma in tal caso deve esporre le relative ragioni con adeguata motivazione, secondo i principi generali riguardanti l’esercizio delle pubbliche funzioni.
A seguito dell’annullamento della autorizzazione da parte dell’organo statale, non può invece il Comune senz’altro disporre la demolizione del manufatto per il quale è stata proposta la domanda di condono: anche se con un solo provvedimento, il Comune deve previamente valutare se l’istanza (già accolta sotto il profilo paesaggistico, con l’atto annullato per difetto di motivazione) sia meritevole di essere accolta.
Solo ove la relativa valutazione sia negativa, va emesso il conseguente ordine di demolizione.
7.2. Con riferimento al caso di specie, a seguito dell’annullamento della autorizzazione da parte della Soprintendenza, il Comune ha senz’altro emesso l’ordinanza di demolizione, senza valutare in alcun modo se l’originaria istanza – per la parte riguardante i valori paesaggistici - fosse meritevole di accoglimento sulla base di una motivazione diversa da quella ritenuta inadeguata dall’organo statale.
Pertanto, come ha dedotto l’appellante, i provvedimenti del 28 marzo 2005 e del 10 aprile 2001 si manifestano viziati per eccesso di potere, sotto i profili di difetto di motivazione e di inadeguata valutazione delle circostanze emerse nel corso del procedimento.
8. Per le ragioni che precedono, l’appello va accolto, sicché, in riforma della sentenza gravata, il ricorso originario va accolto perché risulta ammissibile e fondato.
Per l’effetto, va disposto l’annullamento degli atti impugnati in primo grado, così come è specificato nel dispositivo, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune di Bologna.
La condanna al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio (nonché al rimborso del contributo unificato) segue la soccombenza.
Di essa è fatta liquidazione nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie l’appello n. 2147 del 2001 e, in riforma della sentenza del TAR per l’Emilia Romagna n. 2789 del 2001, accoglie il ricorso di primo grado n. 1025 del 2001 ed annulla le ordinanze del Comune di Bologna n. 28 febbraio 2001 e del 10 aprile 2001, con cui è stata disposta la demolizione del manufatto realizzato alla via Ravone n. 26.
Condanna il Comune di Bologna al pagamento di euro 3.000 (tremila) in favore dell’appellante, per spese ed onorari dei due gradi del giudizio, oltre al rimborso delle spese sostenute per i contributi unificati.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla Autorità amministrativa.

martedì 1 luglio 2008


05.05.2008

Sui confini della giurisdizione amministrativa in tema di annullamento dell'aggiudicazione e successiva caducazione del contratto

Nonostante il recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che hanno escluso la sussistenza della giurisdizione amministrativa sulla domanda volta ad ottenere, a seguito dell'annullamento della aggiudicazione, la dichiarazione di inefficacia del contratto di appalto, il Consiglio di Stato torna a pronunciarsi sulla validità delle diverse teorie prospettate in sede interpretativa sulla qualificazione della patologia contrattuale.

Consiglio di Stato Decisione, Sez. V, 12/02/2008, n. 490

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato si pronuncia su una articolata procedura di gara per l'affidamento di un appalto di lavori e servizi. Il giudice di primo grado aveva riconosciuto l'illegittimità dell'operato della commissione di gara, svoltosi in violazione del principio cardine della segretezza delle offerte, ed aveva annullato l'aggiudicazione e dichiarato l'inefficacia del contratto stipulato. La sentenza in esame del Consiglio di Stato si sofferma, in particolare, sulla questione degli effetti sul contratto dell'annullamento dell'aggiudicazione della gara.
Il dubbio sorto in sede interpretativo aveva ad oggetto l'individuazione delle conseguenze giuridiche determinate dall'annullamento del provvedimento di aggiudicazione sul contratto stipulato medio tempore dalla pubblica amministrazione. Secondo la tesi più risalente sostenuta dalla Corte di Cassazione, il contratto risulterebbe annullabile, ex art. 1441 c.c., per difetto di legittimazione a contrarre in capo alla pubblica amministrazione. Tale interpretazione ha come prima conseguenza il riconoscimento della legittimazione a far valere il vizio del contratto esclusivamente in capo alla stessa pubblica amministrazione, con il conseguente rischio di violare l'effettività della tutela per il privato.
Secondo tale tesi, inoltre, la competenza giurisdizionale spetterebbe, al giudice ordinario, con la possibilità di una duplicazione del giudizio avanti al giudice amministrativo per ottenere l'annullamento dell'aggiudicazione e davanti al giudice ordinario per privare di effetti il contratto.
A tale critiche ha fatto seguito un diverso orientamento secondo cui la violazione delle norme sull'aggiudicazione costituirebbe causa di nullità virtuale del contratto per violazione di norme imperative, ex art. 1418 c.c. Tale interpretazione è stata accolta in un primo tempo dai giudici amministrativi, la cui competenza a conoscere tali controversie sembrava riconosciuta dal riparto di giurisdizione sancito dal D.Lgs. n. 80 del 1998 e successivamente dalla legge 205 del 2000.
La tesi della nullità del contratto, inizialmente accolta in giurisprudenza, è stata poi sostituita con la teoria della caducazione immediata degli effetti del contratto. Secondo quest'ultima interpretazione, l'annullamento dell'aggiudicazione implica il venir meno con effetto retroattivo di un presupposto condizionante il negozio e comporta conseguentemente inefficacia del contratto stesso. Una variante di tale interpretazione sostiene, invece, l'inefficacia relativa del contratto, che può essere fatta valere dal concorrente leso dalle irregolarità della procedura ad evidenza pubblica.
La tesi allo stato prevalente, accolta anche dalla sentenza del Consiglio di Stato in esame, riconosce che il contratto sia affetto da inefficacia sopravvenuta, con la conseguenza che la dichiarazione di inefficacia del contratto non estende i suoi effetti sulle prestazioni medio tempore eseguite. I diritti maturati dai terzi in buona fede vengono fatti salvi anche sulla base dell'applicazione analogica degli artt. 23 e 25 c.c., estensibili alla pubblica amministrazione in quanto persona giuridica ex art.11 c.c. Le diverse tesi che sostengono l'inefficacia del contratto concordano in ogni caso nel sostenere che il vizio del contratto sia sopravvenuto, ossia un cd. vizio funzionale, e non implichi un vizio genetico del contratto riconducibile alla nullità o annullabilità.
La sentenza in esame si segnala, dunque, quale nuova presa di posizione del Consiglio di Stato sulla questione degli effetti sul contratto dell'annullamento dell'aggiudicazione, che disattende implicitamente quanto recentemente sostenuto dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con la recente pronuncia n. 27169 del 27 dicembre 2007.
Secondo quest'ultima sentenza, infatti, la dichiarazione di inefficacia del contratto compiuta dal giudice amministrativo eccede la sua sua competenza giurisdizionale. In applicazione del precetto contenuto nell'art. 103 della Costituzione, così come esplicato recentemente dalla sentenza n.204/04, al giudice amministrativo spetta la cognizione solo la fase di diritto pubblico e del procedimento amministrativo, mentre il piano negoziale, retto dalle norme del diritto privato spetta alla cognizione del giudice ordinario.
Secondo, la Corte di Cassazione spetta, dunque, al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda volta ad ottenere la dichiarazione di nullità o di inefficacia del contratto, a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione. La verifica della patologia contrattuale attiene, infatti, alla fase di esecuzione del rapporto rimessa dalla stessa legge al giudice ordinario, ex art. 244 del codice dei contratti pubblici.

Valeria De Carlo, Avvocato in Milano

Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

05.05.2008

Sui confini della giurisdizione amministrativa in tema di annullamento dell'aggiudicazione e successiva caducazione del contratto

Nonostante il recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che hanno escluso la sussistenza della giurisdizione amministrativa sulla domanda volta ad ottenere, a seguito dell'annullamento della aggiudicazione, la dichiarazione di inefficacia del contratto di appalto, il Consiglio di Stato torna a pronunciarsi sulla validità delle diverse teorie prospettate in sede interpretativa sulla qualificazione della patologia contrattuale.

Consiglio di Stato Decisione, Sez. V, 12/02/2008, n. 490

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato si pronuncia su una articolata procedura di gara per l'affidamento di un appalto di lavori e servizi. Il giudice di primo grado aveva riconosciuto l'illegittimità dell'operato della commissione di gara, svoltosi in violazione del principio cardine della segretezza delle offerte, ed aveva annullato l'aggiudicazione e dichiarato l'inefficacia del contratto stipulato. La sentenza in esame del Consiglio di Stato si sofferma, in particolare, sulla questione degli effetti sul contratto dell'annullamento dell'aggiudicazione della gara.
Il dubbio sorto in sede interpretativo aveva ad oggetto l'individuazione delle conseguenze giuridiche determinate dall'annullamento del provvedimento di aggiudicazione sul contratto stipulato medio tempore dalla pubblica amministrazione. Secondo la tesi più risalente sostenuta dalla Corte di Cassazione, il contratto risulterebbe annullabile, ex art. 1441 c.c., per difetto di legittimazione a contrarre in capo alla pubblica amministrazione. Tale interpretazione ha come prima conseguenza il riconoscimento della legittimazione a far valere il vizio del contratto esclusivamente in capo alla stessa pubblica amministrazione, con il conseguente rischio di violare l'effettività della tutela per il privato.
Secondo tale tesi, inoltre, la competenza giurisdizionale spetterebbe, al giudice ordinario, con la possibilità di una duplicazione del giudizio avanti al giudice amministrativo per ottenere l'annullamento dell'aggiudicazione e davanti al giudice ordinario per privare di effetti il contratto.
A tale critiche ha fatto seguito un diverso orientamento secondo cui la violazione delle norme sull'aggiudicazione costituirebbe causa di nullità virtuale del contratto per violazione di norme imperative, ex art. 1418 c.c. Tale interpretazione è stata accolta in un primo tempo dai giudici amministrativi, la cui competenza a conoscere tali controversie sembrava riconosciuta dal riparto di giurisdizione sancito dal D.Lgs. n. 80 del 1998 e successivamente dalla legge 205 del 2000.
La tesi della nullità del contratto, inizialmente accolta in giurisprudenza, è stata poi sostituita con la teoria della caducazione immediata degli effetti del contratto. Secondo quest'ultima interpretazione, l'annullamento dell'aggiudicazione implica il venir meno con effetto retroattivo di un presupposto condizionante il negozio e comporta conseguentemente inefficacia del contratto stesso. Una variante di tale interpretazione sostiene, invece, l'inefficacia relativa del contratto, che può essere fatta valere dal concorrente leso dalle irregolarità della procedura ad evidenza pubblica.
La tesi allo stato prevalente, accolta anche dalla sentenza del Consiglio di Stato in esame, riconosce che il contratto sia affetto da inefficacia sopravvenuta, con la conseguenza che la dichiarazione di inefficacia del contratto non estende i suoi effetti sulle prestazioni medio tempore eseguite. I diritti maturati dai terzi in buona fede vengono fatti salvi anche sulla base dell'applicazione analogica degli artt. 23 e 25 c.c., estensibili alla pubblica amministrazione in quanto persona giuridica ex art.11 c.c. Le diverse tesi che sostengono l'inefficacia del contratto concordano in ogni caso nel sostenere che il vizio del contratto sia sopravvenuto, ossia un cd. vizio funzionale, e non implichi un vizio genetico del contratto riconducibile alla nullità o annullabilità.
La sentenza in esame si segnala, dunque, quale nuova presa di posizione del Consiglio di Stato sulla questione degli effetti sul contratto dell'annullamento dell'aggiudicazione, che disattende implicitamente quanto recentemente sostenuto dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con la recente pronuncia n. 27169 del 27 dicembre 2007.
Secondo quest'ultima sentenza, infatti, la dichiarazione di inefficacia del contratto compiuta dal giudice amministrativo eccede la sua sua competenza giurisdizionale. In applicazione del precetto contenuto nell'art. 103 della Costituzione, così come esplicato recentemente dalla sentenza n.204/04, al giudice amministrativo spetta la cognizione solo la fase di diritto pubblico e del procedimento amministrativo, mentre il piano negoziale, retto dalle norme del diritto privato spetta alla cognizione del giudice ordinario.
Secondo, la Corte di Cassazione spetta, dunque, al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda volta ad ottenere la dichiarazione di nullità o di inefficacia del contratto, a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione. La verifica della patologia contrattuale attiene, infatti, alla fase di esecuzione del rapporto rimessa dalla stessa legge al giudice ordinario, ex art. 244 del codice dei contratti pubblici.

Valeria De Carlo, Avvocato in Milano

Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

27.06.2008
Il potere di proporre appello riconosciuto alla parte civile dopo la "legge Pecorella"

Nel solco dell'interpretazione accolta dalle Sezioni Unite penali, la Corte costituzionale ribadisce il principio secondo cui la modifica dell'art. 576 c.p.p., apportata dalla l. n. 46 del 2006, non ha inciso sulla facoltà di proporre appello riconosciuta alla parte civile.

Corte Costituzionale Ordinanza 20/06/2008, n. 226

Chiamata a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 576, comma 1, c.p.p. come modificato dall’art.6 l. 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui esclude che la parte civile possa proporre appello, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato, e dell’art. 10 della medesima legge recante la relativa disciplina transitoria, la Corte costituzionale ha respinto la premessa interpretativa, assunta a fondamento della dedotta questione di illegittimità, secondo cui la riforma delle impugnazioni operata dalla l. n. 46 del 2006 avrebbe soppresso, per la parte civile, il potere di appello. Nel riaffermare quanto già espresso nella precedenti decisioni sul punto (cfr. n. 3 del 2008 e n. 32 del 2007, entrambe in questo Archivio), la Corte costituzionale ha sottolineato come, nel diritto vivente, anche a seguito del’lintervento regolativo della Sezioni Unite (cfr. Cass., Sez. Un., 29 marzo 2007, n. 27614, in Diritto penale e processo, 2007, ), sia divenuta maggioritaria la tesi secondo cui la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 c.p.p. ad opera dell'art. 6 l. n. 46 del 2006, può proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado. Di conseguenza, «avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate − idonee a rendere le disposizioni censurate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili».

Stefano Corbetta, Giudice Penale presso il Tribunale di Milano

Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

27.06.2008
Il potere di proporre appello riconosciuto alla parte civile dopo la "legge Pecorella"

Nel solco dell'interpretazione accolta dalle Sezioni Unite penali, la Corte costituzionale ribadisce il principio secondo cui la modifica dell'art. 576 c.p.p., apportata dalla l. n. 46 del 2006, non ha inciso sulla facoltà di proporre appello riconosciuta alla parte civile.

Corte Costituzionale Ordinanza 20/06/2008, n. 226

Chiamata a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 576, comma 1, c.p.p. come modificato dall’art.6 l. 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui esclude che la parte civile possa proporre appello, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato, e dell’art. 10 della medesima legge recante la relativa disciplina transitoria, la Corte costituzionale ha respinto la premessa interpretativa, assunta a fondamento della dedotta questione di illegittimità, secondo cui la riforma delle impugnazioni operata dalla l. n. 46 del 2006 avrebbe soppresso, per la parte civile, il potere di appello. Nel riaffermare quanto già espresso nella precedenti decisioni sul punto (cfr. n. 3 del 2008 e n. 32 del 2007, entrambe in questo Archivio), la Corte costituzionale ha sottolineato come, nel diritto vivente, anche a seguito del’lintervento regolativo della Sezioni Unite (cfr. Cass., Sez. Un., 29 marzo 2007, n. 27614, in Diritto penale e processo, 2007, ), sia divenuta maggioritaria la tesi secondo cui la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 c.p.p. ad opera dell'art. 6 l. n. 46 del 2006, può proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado. Di conseguenza, «avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate − idonee a rendere le disposizioni censurate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili».

Stefano Corbetta, Giudice Penale presso il Tribunale di Milano

Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

lunedì 30 giugno 2008

Fattura, decreto ingiuntivo, prova, legittimità, sussistenza
Cassazione civile , sez. III, sentenza 03.04.2008 n° 8549
Fattura – decreto ingiuntivo – prova – legittimità – sussistenza
La fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l'emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale. (1)
(1) In materia di decreto ingiuntivo, si veda il focus
Il decreto ingiuntivo: la casistica giurisprudenziale recente.

Tra i contributi più recenti della dottrina sul tema del decreto ingiuntivo, si vedano:- VIANELLO, La costituzione dell'attore nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione: un dubbio di legittimità costituzionale, in Studium Iuris, 2008, n. 2, CEDAM, p. 142;- PACCHIOLI, PAPPALARDO, Il decreto ingiuntivo telematico con valore legale: l'esperienza del Tribunale di Milano, in Diritto dell'Internet, 2007, n. 2, IPSOA, p. 203;- MONTANARI, Nodi problematici in tema di raccordo tra opposizione al riconoscimento di lodo straniero e opposizione a decreto ingiuntivo, in Corriere giuridico (Il), 2007, n. 12, IPSOA, p. 1763;- MARUFFI, Decreto ingiuntivo di accoglimento parziale ed ambito del giudicato, in Rivista di Diritto Processuale, 2007, n. 4, CEDAM, p. 1047.
(Fonte:
Altalex Massimario 22/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 11 marzo – 3 aprile 2008, n. 8549
(Presidente Vittoria – Relatore Segreto)

Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 7.11.1995, M. D. proponeva opposizione contro il decreto ingiuntivo del Pretore di Savona n. 234/1995, con cui le veniva ingiunto, quale titolare della ditta IC Import, di corrispondere l'importo di 9720 franchi svizzeri, sulla base di fatture prodotte. Il Tribunale di Savona rigettava l'opposizione. La M. proponeva appello.
La corte di appello di Genova, con sentenza n. 17/2003, rigettava l'appello. Riteneva la corte territoriale che, pur non potendosi attribuire alla lettera datata 2.5.1991, dell'avv. Nasuti Greco, legale dell'opponente, natura di ricognizione di debito o natura confessoria, essa costituiva indizio della fondatezza della pretesa creditoria, dato il raccordo con la documentazione prodotta; che lo stesso legale nell'altra lettera del 12.11.1991 riconfermava l'ammissione del debito di Fs 9720, di cui alle fatture, limitandosi a sostenere che queste ultime erano prive di visto doganale.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione M. D., che ha anche presentato memoria. Non ha svolto attività difensiva l'intimata.
Motivi della decisione
l. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione o errata applicazione delle norme di diritto (art. 2720 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c).
Ritiene la ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha riconosciuto natura ricognitiva di debito alle missive del suo difensore, con conseguente carattere confessorio, con ciò violando l'art. 2720 c.c..
2.1. Il motivo è infondato.
La corte territoriale, infatti, contrariamente all'assunto della ricorrente, non ha ritenuto che le lettere del difensore dell'appellante avessero la natura di atti di ricognizione a norma dell'art. 2720 c.c. Essa si è limitata a ritenere che tali missive avessero solo il carattere di meri indizi, liberamente valutabili.
Tale principio è corretto.
Infatti è giurisprudenza pacifica che le dichiarazioni del difensore sfavorevoli al proprio assistito, anche se inserite in atti non qualificabili di parte (quali le lettere inviate alle controparte, anche prima dell'instaurazione del giudizio, nonché le memorie illustrative, le comparse conclusionali e di replica), possono essere utilizzate come elementi indiziari, valutabili ai sensi ed alle condizioni dell'art. 2729 c.c. (Cass. 15/05/1997, n. 4284; Cass. 29/09/2005, n. 19165).
2.2. Quanto alla censura secondo cui erratamente la sentenza impugnata avrebbe ritenuto provata la pretesa creditoria sulla base della missiva del 25.5.1991, essa è inammissibile, per mancato rispetto del principio di autosufficienza del ricorso. Qualora, con. il ricorso per Cassazione, venga dedotta l'omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l'asserita errata valutazione di risultanze processuali (un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t., ecc.), è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata o erroneamente valutata, che il ricorrente precisi - ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso la risultanza che egli asserisce erratamente valutata o insufficientemente valutata, dato che, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, il controllo deve essere consentito alla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 23.3.2005, n. 6225; Cass. 23.1.2004, n. 1170).
Nella fattispecie non risulta trascritto nel ricorso il contenuto di tale lettera del difensore dell'opponente.
3. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 634 c.p.c, nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, in quanto il decreto ingiuntivo , attenendo a somministrazioni di merci, non poteva essere emesso che sulla base di estratti autentici delle scritture contabili.
4. Il motivo è infondato.
Il decreto ingiuntivo in questione è, infatti, stato emesso sulla base di fatture commerciali.
La fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l'emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale. Deve escludersi, peraltro, che la stessa fattura possa rappresentare nel giudizio di merito - e anche in quello di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto in base a essa - prova idonea in ordine così alla certezza, alla liquidità e alla esigibilità del credito dichiaratovi, come ai fini della dimostrazione del fondamento della pretesa. La fattura, infatti, si inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all'altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito, per cui quando tale rapporto sia contestato tra le parti, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, proprio per la sua formazione a opera della stessa parte che intende avvalersene, non può assurgere a prova del contratto, ma, al più, può rappresentare un mero indizio della stipulazione di esso e dell'esecuzione della prestazione, mentre nessun valore, neppure indiziario, le si può riconoscere in ordine alla rispondenza della prestazione stessa a quella pattuita, come agli altri elementi costitutivi del contratto (Cass. 4/03/2003, n. 3188; Cass. 08/06/2004, n. 10830).
Nella fattispecie, quindi, ben poteva essere emesso il decreto ingiuntivo sulla base delle predette fatture commerciali.
5. Il ricorso va pertanto rigettato. Nulla per le spese del giudizio di Cassazione, non avendo svolto attività difensiva la parte intimata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di Cassazione.
Fattura, decreto ingiuntivo, prova, legittimità, sussistenza
Cassazione civile , sez. III, sentenza 03.04.2008 n° 8549
Fattura – decreto ingiuntivo – prova – legittimità – sussistenza
La fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l'emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale. (1)
(1) In materia di decreto ingiuntivo, si veda il focus
Il decreto ingiuntivo: la casistica giurisprudenziale recente.

Tra i contributi più recenti della dottrina sul tema del decreto ingiuntivo, si vedano:- VIANELLO, La costituzione dell'attore nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione: un dubbio di legittimità costituzionale, in Studium Iuris, 2008, n. 2, CEDAM, p. 142;- PACCHIOLI, PAPPALARDO, Il decreto ingiuntivo telematico con valore legale: l'esperienza del Tribunale di Milano, in Diritto dell'Internet, 2007, n. 2, IPSOA, p. 203;- MONTANARI, Nodi problematici in tema di raccordo tra opposizione al riconoscimento di lodo straniero e opposizione a decreto ingiuntivo, in Corriere giuridico (Il), 2007, n. 12, IPSOA, p. 1763;- MARUFFI, Decreto ingiuntivo di accoglimento parziale ed ambito del giudicato, in Rivista di Diritto Processuale, 2007, n. 4, CEDAM, p. 1047.
(Fonte:
Altalex Massimario 22/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 11 marzo – 3 aprile 2008, n. 8549
(Presidente Vittoria – Relatore Segreto)

Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 7.11.1995, M. D. proponeva opposizione contro il decreto ingiuntivo del Pretore di Savona n. 234/1995, con cui le veniva ingiunto, quale titolare della ditta IC Import, di corrispondere l'importo di 9720 franchi svizzeri, sulla base di fatture prodotte. Il Tribunale di Savona rigettava l'opposizione. La M. proponeva appello.
La corte di appello di Genova, con sentenza n. 17/2003, rigettava l'appello. Riteneva la corte territoriale che, pur non potendosi attribuire alla lettera datata 2.5.1991, dell'avv. Nasuti Greco, legale dell'opponente, natura di ricognizione di debito o natura confessoria, essa costituiva indizio della fondatezza della pretesa creditoria, dato il raccordo con la documentazione prodotta; che lo stesso legale nell'altra lettera del 12.11.1991 riconfermava l'ammissione del debito di Fs 9720, di cui alle fatture, limitandosi a sostenere che queste ultime erano prive di visto doganale.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione M. D., che ha anche presentato memoria. Non ha svolto attività difensiva l'intimata.
Motivi della decisione
l. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione o errata applicazione delle norme di diritto (art. 2720 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c).
Ritiene la ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha riconosciuto natura ricognitiva di debito alle missive del suo difensore, con conseguente carattere confessorio, con ciò violando l'art. 2720 c.c..
2.1. Il motivo è infondato.
La corte territoriale, infatti, contrariamente all'assunto della ricorrente, non ha ritenuto che le lettere del difensore dell'appellante avessero la natura di atti di ricognizione a norma dell'art. 2720 c.c. Essa si è limitata a ritenere che tali missive avessero solo il carattere di meri indizi, liberamente valutabili.
Tale principio è corretto.
Infatti è giurisprudenza pacifica che le dichiarazioni del difensore sfavorevoli al proprio assistito, anche se inserite in atti non qualificabili di parte (quali le lettere inviate alle controparte, anche prima dell'instaurazione del giudizio, nonché le memorie illustrative, le comparse conclusionali e di replica), possono essere utilizzate come elementi indiziari, valutabili ai sensi ed alle condizioni dell'art. 2729 c.c. (Cass. 15/05/1997, n. 4284; Cass. 29/09/2005, n. 19165).
2.2. Quanto alla censura secondo cui erratamente la sentenza impugnata avrebbe ritenuto provata la pretesa creditoria sulla base della missiva del 25.5.1991, essa è inammissibile, per mancato rispetto del principio di autosufficienza del ricorso. Qualora, con. il ricorso per Cassazione, venga dedotta l'omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l'asserita errata valutazione di risultanze processuali (un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t., ecc.), è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata o erroneamente valutata, che il ricorrente precisi - ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso la risultanza che egli asserisce erratamente valutata o insufficientemente valutata, dato che, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, il controllo deve essere consentito alla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 23.3.2005, n. 6225; Cass. 23.1.2004, n. 1170).
Nella fattispecie non risulta trascritto nel ricorso il contenuto di tale lettera del difensore dell'opponente.
3. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 634 c.p.c, nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, in quanto il decreto ingiuntivo , attenendo a somministrazioni di merci, non poteva essere emesso che sulla base di estratti autentici delle scritture contabili.
4. Il motivo è infondato.
Il decreto ingiuntivo in questione è, infatti, stato emesso sulla base di fatture commerciali.
La fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l'emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale. Deve escludersi, peraltro, che la stessa fattura possa rappresentare nel giudizio di merito - e anche in quello di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto in base a essa - prova idonea in ordine così alla certezza, alla liquidità e alla esigibilità del credito dichiaratovi, come ai fini della dimostrazione del fondamento della pretesa. La fattura, infatti, si inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all'altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito, per cui quando tale rapporto sia contestato tra le parti, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, proprio per la sua formazione a opera della stessa parte che intende avvalersene, non può assurgere a prova del contratto, ma, al più, può rappresentare un mero indizio della stipulazione di esso e dell'esecuzione della prestazione, mentre nessun valore, neppure indiziario, le si può riconoscere in ordine alla rispondenza della prestazione stessa a quella pattuita, come agli altri elementi costitutivi del contratto (Cass. 4/03/2003, n. 3188; Cass. 08/06/2004, n. 10830).
Nella fattispecie, quindi, ben poteva essere emesso il decreto ingiuntivo sulla base delle predette fatture commerciali.
5. Il ricorso va pertanto rigettato. Nulla per le spese del giudizio di Cassazione, non avendo svolto attività difensiva la parte intimata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di Cassazione.
Nuove prospettive per il diritto di accesso agli atti delle procedure di gara
Corte di Giustizia UE , sez. II, sentenza 14.02.2008 n° C-450/06 (
Alessandro Del Dotto)

La “legge di Good” e il “nocciolo della questione” – Arthur Bloch, noto umorista statunitense, rammenta come la “Legge di Good” costituisca una norma “naturale” fondamentale: «se hai un problema che deve essere risolto da una burocrazia, ti conviene cambiare problema».
1. Mi rendo conto che, ai “massimalisti” del diritto e, in specie, alle “vestali” del diritto amministrativo, simile citazione possa risultare sconveniente, un pò approssimativa e magari troppo profana.
Non è mia intenzione, tuttavia, urtare la sensibilità di alcuno; anzi, il tentativo è quello di porre un accento “meno amaro” su una realtà che, talora, più che lasciare – ritraendosi – stupiti e disorientati, finisce – agendo – per gettare nello sconcerto più assoluto.
Ecco, allora, che niente più della citazione sopra riportata è capace di esprimere il senso che, di fondo, tratteggia l’animo di chi si confronta – soprattutto a livello operativo più che teorico – con la vigente disciplina in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e con le relative regole dell’evidenza pubblica.
Le continue variazioni normative, le diverse indicazioni pratiche dei giudici e delle autorità (Ministeri, Autorità di vigilanza, etc.) rendono spesso impossibile all’operatore affrontare con serenità lo svolgimento di una gara e l’indizione di una procedura ad evidenza pubblica.
E se questa è un’osservazione che vale per tutto il Codice (si rammentano: i tre decreti “correttivi”, la finanziaria, la sentenza della Corte costituzionale 401/2007 e, da poco, la procedura di infrazione – la quale ultima, pur senza effetti modificativi diretti, giustifica e prefigura l’ennesimo intervento di modificazione normativa da parte dell’insediando XV legislatore), ci si trova, in questa sede, nuovamente all’esame di un ulteriore aspetto critico della normativa.
Nella recentissima pronuncia che qui si annota, di fatti, ad essere posto in discussione è – ora – il meccanismo dell’accesso agli atti o, quanto meno, l’accesso agli atti “all’italiana” che – stando ad una pronuncia della Corte di Giustizia, pur relativamente all’assetto legislativo prescelto da un altro Stato membro – potrebbe non risultare particolarmente rispettoso dei principi e delle regole della trasparenza (almeno, nell’accezione che di quest’ultima hanno le istituzioni comunitarie).
Più nello specifico, ad essere posto nel dubbio di compatibilità con il panorama normativo comunitario è il diritto di accedere alle informazioni e ai dati relativi all’offerta tecnica.
La vicenda è sintetizzabile nel quesito pregiudiziale alla soluzione della controversia, posto dal Giudice del rinvio: l’organo responsabile delle procedure di ricorso (in questo caso, un Giudice) deve garantire la riservatezza e il rispetto dei segreti commerciali contenuti nei fascicoli ad esso trasmessi dalle parti in causa, tra le quali rientra anche l’amministrazione aggiudicatrice, pur avendo esso allo stesso tempo il diritto di venire a conoscenza di siffatte informazioni e di prenderle in considerazione?
In effetti, se – come nel caso oggetto di sindacato – il ricorrente intende accedere agli atti relativi ai dati dell’offerta tecnica e si vede negare tale facoltà dall’amministrazione, viene il dubbio se tale accesso possa concretamente avvenire laddove, pendente il ricorso, sia l’autorità giudiziaria adita a consentire l’accesso ai dati in un primo tempo negati alla visione.
Ciò può, comunque, avvenire soltanto laddove si abbia una chiara nozione dell’oggetto dell’accesso e una idea certa sulla disciplina di questo oggetto; in sintesi, è implicito che, per rispondere alla domanda poc’anzi riportata, vi sia da chiedersi se, comunque, quelle informazioni sono normalmente accessibili oppure no.
2. Il diritto di accesso nel codice dei contratti pubblici – Nel nostro Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006) il diritto di accesso è disciplinato dall’art. 13 (“Accesso agli atti e divieti di divulgazione”); questo articolo, in parte, recepisce alcune delle indicazioni normative preesistenti al Codice, fra le quali l’art. 22 della l. n. 109/1994, l’art. 10 del d.P.R. n. 554/1999 e costituisce il recepimento delle disposizioni dettate sul punto dalla normativa comunitaria (da cui, com’è noto, il Codice ha avuto origine).
Com’è noto, al primo comma del citato articolo il legislatore nazionale inquadra l’istituto nella più generale disciplina dell’accesso agli atti, disposta dalla l. n. 241/1990 e dal relativo regolamento (d.P.R. n. 184/2006; entrambe queste norme sono state recentemente modificate); in tal senso, dunque, il diritto di accesso, per come disciplinato dall’art. 13 del d.lgs. n. 163/2006, costituisce norma speciale rispetto a quella generale della l. n. 241/1990 (artt. 22 e sgg.).
Non disponendo diversamente, dunque, l’articolo 13 – quanto a presupposti e condizioni per poter essere titolari del (e poter esercitare concretamente il) diritto di accesso – fa riferimento alla legge sul procedimento amministrativo.
Una prima serie di deroghe all’ordinaria disciplina della l. n. 241/1990, tuttavia, la si trova già al comma secondo dell’art. 13: sono i casi del c.d. “differimento” dell’accesso.
Ebbene, il potere di differimento è previsto e disciplinato in via generale dall’art. 24, comma 6, della l. n. 241/1990 e dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 184/2006: sostanzialmente, «il differimento dell'accesso è disposto ove sia sufficiente per assicurare una temporanea tutela agli interessi di cui all'articolo 24, comma 6, della legge, o per salvaguardare specifiche esigenze dell'amministrazione, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, in relazione a documenti la cui conoscenza possa compromettere il buon andamento dell'azione amministrativa».
In materia di appalti, comunque, il differimento è previsto in specifici casi e con termini massimi temporali (rectius, termini conclusivi del periodo di differimento) ben delineati e precisi, a seconda del tipo di procedura di selezione del contraente che sia stata selezionata dall’amministrazione procedente:
1) nelle procedure aperte, il diritto di accesso viene temporaneamente sterilizzato fino a che non è spirato il termine per la presentazione delle offerte ma solo in relazione al numero e all’identità dei soggetti che hanno fino a quel momento inviato i propri plichi e, dunque, la propria proposta contrattuale (“all’elenco dei soggetti che hanno presentato offerte”: art. 13, comma 2, lett. a);
2) nelle altre tipologie di procedure concorsuali la disciplina è la medesima (resta fermo il termine ultimo della presentazione delle offerte, n.d.r.) con l’aggiunta che, all’accesso, – oltre al numero e all’identità degli offerenti – sono sottratti anche il numero e i nominativi dei soggetti che hanno presentato istanza di partecipazione e che sono stati invitati ad offrire (tale differimento, tuttavia, è derogato per i soggetti non ammessi ad offrire nonostante abbiano formulato istanza di partecipazione: art. 13, comma 2, lett. b);
3) in ogni caso, il diritto di accesso viene temporaneamente compresso se esercitato per conoscere del contenuto e delle informazioni relative alle offerte, mentre l’interessato potrà tornare a godere pienamente di tale diritto solo dopo l’avvenuta approvazione dell’aggiudicazione (definitiva, n.d.a.: art. 13, comma 2, lett. c).
Siffatto impianto normativo, del resto, non è sconosciuto al nostro ordinamento, nel quale – fra l’altro – si è sempre sostenuto che «limiti speciali in materia di diritto di accesso, orientati, rispettivamente, alla esclusione dell'accesso e al suo differimento possono rinvenirsi soltanto nell'art. 4 d.m. lavori pubblici 14 marzo 2001 n. 292 (il quale si limita a differire l'accesso "...ai sotto elencati documenti sino a quando la conoscenza degli stessi possa impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell'azione amministrativa: a), b), c), d), e), f), (omissis) g) documenti relativi a procedure concorsuali per l'aggiudicazione di lavori e forniture di beni e servizi, nonché atti che possano pregiudicare la sfera di riservatezza dell'impresa o ente in ordine ai propri interessi professionali, finanziari, industriali e commerciali"). L'ultimo comma dell'art. 4 citato precisa, significativamente, che, "per una adeguata tutela degli interessi richiamati, l'accesso è consentito mediante estratto esclusivamente per notizie riguardanti la stessa impresa o ente richiedente, fino alla conclusione delle procedure di scelta del contraente"» (ex multis, T.A.R. Puglia-Bari, sez. I, sentenza 3 settembre 2002, n. 3827).
Solo per precisione, merita rammentare che l’inoltro di una istanza di accesso nelle more di una delle circostanze di cui al comma 2 non legittima l’amministrazione interessata ad opporre un diniego all’accesso agli atti, ma consente soltanto l’attivazione dei poteri di differimento in capo all’ufficio: di modo che, all’istante, potrà comunicarsi che “è possibile accedere solo dopo il ...” e non che “non è possibile accedere” (da sempre, del resto, si sostiene che «non può essere negato il diritto di una impresa che ha partecipato ad una gara di appalto di accedere a tutti i documenti della procedura di gara sulla base dell'esigenza di tutelare la riservatezza delle imprese partecipanti, (in assenza di specifiche disposizioni regolamentari che annettano tutela preminente alla tutela di quella riservatezza), visto che deve senz'altro ammettersi che tale esigenza possa giustificare il solo differimento dell'accesso sino alla conclusione delle procedure di scelta del contraente, ma non anche il diniego di accesso a gara conclusa»: T.A.R. Puglia-Bari, sent. cit.).
Sul differimento, infine, il legislatore ha disposto – sostanzialmente – che chiunque (specie nel caso di cui all’art. 13, comma 2, lett. b) viene a contatto con informazioni che – all’epoca del contatto stesso – non sarebbero accessibili, ha l’obbligo e il dovere di non divulgare tali informazioni (art. 13, commi 3 e 4), cosicché si configura un sistema di responsabilità condivise fra il pubblico ufficiale e il soggetto che espleta l’accesso in una fase tanto particolare.
Una seconda serie di deroghe all’ordinaria disciplina dell’accesso agli atti nelle gare di appalto, poi, è prevista al comma 5 dell’art. 13, relativamente ai casi di esclusione della possibilità di accedere a talune informazioni.
Per chiarezza, si osservi che – stando al dettato normativo – i quattro casi di esclusione vanno, comunque, distinti in casi di “esclusione assoluta” del diritto di accesso e casi di “esclusione relativa”.
Fra i primi rientrano quelle fattispecie concrete in cui si chiede di accedere:
1) ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all’applicazione del codice, che siano stati dati per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relativamente alla procedura e al contratto pubblico in questione (art. 13, comma 5, lett. c);
2) alle relazioni riservate del direttore dei lavori e dell’organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto (art. 13, comma 5, lett. d).
Pur concernendo fattispecie evidentemente particolari, appare doveroso specificare che l’esclusione di cui alla lett. c) del comma 5 non appare del tutto condivisibile, quantomeno in riferimento ad un caso particolare che potrebbe, certamente, verificarsi: si pensi all’occasione in cui un’impresa sia stata ammessa in virtù di un parere legale che ha risolto talune incertezze che l’amministrazione procedente aveva riscontrato, e che contro tale ammissione altra impresa (che sarebbe stata vincitrice in caso di non ammissione della prima anzidetta) intenda proporre ricorso; in simile fattispecie, se l’amministrazione – da sola e come spesso accade – non ha palesato le motivazioni dell’ammissione, disposta in sede di gara, ma ha fatto semplicemente rinvio a quanto espresso nel parere legale acquisito, non è illogico ritenere che il parere costituisca ex se motivazione del provvedimento di ammissione, pur restando materialmente e fisicamente distinta da esso, e appare plausibile ritenere che su tale motivazione (parere legale, n.d.a.) il soggetto che intende adire le competenti sedi di tutela non possa vedere compresso il proprio diritto di accesso se non a pena di una (ingiustificabile e incomprensibile) compressione del sotteso diritto, costituzionalmente garantito, di difesa.
Se tali, dunque, sono le esclusioni che abbiamo detto “assolute”, altre sono – invece – quelle “relative”: il riferimento è alle disposizioni di cui all’art. 13, comma 5, lett. a) e b), nelle quali è contemplata, per l’amministrazione, la possibilità di opporre un diniego di accesso ove si cerchi la libera disponibilità
1) di informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che rappresentino, sulla base di una motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali, oppure
2) di ulteriori aspetti riservati delle offerte, da individuarsi in sede di regolamento.
Pur se, ad un primo e sommario esame del testo del d.P.R. 28 gennaio 2008 (recante il nuovo regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice dei contratti pubblici, emesso ai sensi dell’art. 5 di quest’ultima norma), la previsione di cui alla lett. b) pare del tutto inadempiuta e – mi si passi il termine – “vuota” (configurando, in tal senso, una norma “aperta” per rinvio ai futuri sviluppi della fonte regolamentare) essa – assieme alla previsione della lett. a) – trova una eccezione nel comma 6 dell’art. 13, a ragione del quale «è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso».
Volendo aprire ad un ragionamento puramente giuridico, se l’accesso è diritto dell’interessato, ammesso in via generale dalla norma della l. n. 241/1990, le compressioni di cui ai commi 2 e 5 dell’art. 13 del d.lgs. n. 163/2006 altro non sono se non norma speciale e, comunque, eccezionale rispetto alla lex generalis, da interpretarsi – come l’operatore ben sa – in modo restrittivo (attenendosi a quanto tassativamente ed espressamente contenuto in esse); mentre le deroghe a tali eccezioni, contenute nel secondo periodo della lett. b), comma 2, dell’art. 13 e nel comma 6 di tale ultima disposizione, consentendo una riespansione e riaffermazione del diritto generalmente riconosciuto nel nostro ordinamento di accedere agli atti, possono ben essere considerate “eccezioni all’eccezione” e, dunque – nuovamente –, regola.
Orbene, è proprio sulla disposizione che crea queste “eccezione all’eccezione”, e cioè sul comma 6 dell’art. 13, che si appuntano le critiche e le censure della sentenza del Giudice comunitario da cui prendono le mosse le riflessioni e le conclusioni cui si cercherà di addivenire in questo scritto: è, in sintesi, su quel diritto di accedere ad informazioni commerciali e tecniche dell’altro offerente, motivato con la volontà di tutelare giurisdizionalmente la propria posizione giuridica, che si concentra la portata della decisione in commento.
3. Il diritto di accesso nelle direttive comunitarie – Prima, però, di cimentarsi nella (forse) risolutiva analisi della questione, preme rammentare – pur brevemente (e con le indispensabili scuse allo studioso) – quali siano le indicazioni in ordine all’espletamento dell’accesso ai documenti e alle informazioni della gara nel quadro normativo comunitario.
La direttiva 2004/18/CE, ad esempio, prevede che “fatte salve le disposizioni della presente direttiva, in particolare quelle relative agli obblighi in materia di pubblicità sugli appalti aggiudicati e di informazione dei candidati e degli offerenti, previsti rispettivamente all’Articolo 35, paragrafo 4, e all’Articolo 41, e conformemente alla legislazione nazionale cui è soggetta l’amministrazione aggiudicatrice, quest’ultima non rivela informazioni comunicate dagli operatori economici e da essi considerate riservate; tali informazioni comprendono in particolare segreti tecnici o commerciali, nonché gli aspetti riservati delle offerte” (art. 6, “Riservatezza”).
In sostanza, dunque, oltre alla disposizione specificamente dettata dall’art. 35, comma 4 (“talune informazioni relative all'aggiudicazione dell'appalto o alla conclusione dell’accordo quadro possono non essere pubblicate qualora la loro divulgazione ostacoli l'applicazione della legge, sia contraria all'interesse pubblico, pregiudichi i legittimi interessi commerciali di operatori economici pubblici o privati oppure possa recare pregiudizio alla concorrenza leale tra questi”) e dall’art. 41 (“le amministrazioni aggiudicatrici possono decidere di non divulgare talune informazioni relative all'aggiudicazione degli appalti, alla conclusione di accordi quadro o all'ammissione ad un sistema dinamico di acquisizione di cui al paragrafo 1, qualora la loro diffusione ostacoli l'applicazione della legge, sia contraria all'interesse pubblico, pregiudichi i legittimi interessi commerciali di operatori economici pubblici o privati oppure possa recare pregiudizio alla concorrenza leale tra questi”), la norma dell’art. 6 – letteralmente simmetrica a quella del comma 5, dell’art. 13 – manifesta una fondamentale apertura delle istituzioni comunitarie ad altre e ulteriori forme di garanzia del rispetto dei diritti e delle prerogative sviluppate da ciascun operatore commerciale nel settore di operatività.
Non risulta, invece, contemplata la “mitigazione” invece contenuta nell’art. 13, comma 6.
Solo in modo alquanto “forzato”, si potrebbero intravedere segnali di un’apertura simile a quella dell’art. 6 nel considerando n. 29 della direttiva 2004/18/CE ove – disponendo che “le specifiche tecniche fissate dai committenti pubblici dovrebbero permettere l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza” e che “a questo scopo deve essere possibile la presentazione di offerte che riflettano la pluralità di soluzioni tecniche. Pertanto le specifiche tecniche devono poter essere fissate in termini di prestazioni e di requisiti funzionali e, in caso di riferimento alla norma europea, o, in mancanza di quest’ultima, alla norma nazionale, le amministrazioni aggiudicatrici devono prendere in considerazione offerte basate su altre soluzioni equivalenti che soddisfano i requisiti delle amministrazioni aggiudicatrici e sono equivalenti in termini di sicurezza” – “per dimostrare l’equivalenza, gli offerenti dovrebbero poter utilizzare qualsiasi mezzo di prova”, non escludendo (almeno apparentemente) il ricorso all’accesso diretto alle informazioni contenute nell’offerta.
Parimenti, da altro contesto, è dato desumere – pur non con gli stessi termini letterali – che la reale incisività del diritto di difesa deve essere sempre garantita: è il caso della c.d. “direttiva ricorsi” (direttiva CEE 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, recante norme di “coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori”, pubblicata nella G.U.C.E. n. L395 del 30 dicembre 1989).
Tale ultima norma, del resto, dispone espressamente che “le decisioni prese dalle autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace” (artt. 1 e 2), tale potendosi ritenere – a parere di chi scrive – non solo un ricorso che sia contenuto nei tempi e negli adempimenti istruttori richiesti ma anche quello che sia ben mirato nei contenuti, con tale ultimo carattere presupponendo la conoscibilità più ampia delle informazioni relative al procedimento di gara e all’offerta e, dunque, l’accessibilità di quest’ultima da parte di chi intende tutelarsi evitando i c.d. “ricorsi al buio”.
4. La discrasia legislativa fra l’Italia e l’Unione – La sentenza della Corte di giustizia, tuttavia, apre uno scenario di assai problematica composizione.
I giudici comunitari, infatti, non paiono aver preso nella benché minima considerazione le riflessioni che, pur brevemente, si sono poc’anzi fatte sulla normativa del contesto comunitario. Anzi.
Nella vicenda concreta, oggetto di sindacato, i Giudici sono giunti ad affermare che, in sostanza, non è importante che il ricorrente abbia libero accesso alle informazioni relative all’offerta del controinteressato (ivi da intendersi in senso atecnico), bensì che tale accesso sia garantito all’organo chiamato a giudicare.
Detto altrimenti, è plausibile negare l’accesso ai dati tecnici di un’offerta.
La base di tale assunto è costituita dal fatto che già l’ex art. 15 della direttiva 93/36/CEE «prevede che le amministrazioni aggiudicatrici hanno l’obbligo di rispettare il carattere confidenziale di qualsiasi informazione fornita dai fornitori» (par. 37, sent. cit.).
Secondo la Corte, infatti, «l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici comprende l’apertura ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri» e «per conseguire tale obiettivo, è necessario che le amministrazioni aggiudicatici non divulghino informazioni relative a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici il cui contenuto potrebbe essere utilizzato per falsare la concorrenza, sia in una procedura di aggiudicazione in corso, sia in procedure di aggiudicazioni successive»; «inoltre, le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, per loro natura e per il sistema di regolamentazione comunitario in materia, sono fondate su un rapporto di fiducia tra le amministrazioni aggiudicatici e gli operatori economici che partecipano ad esse. Questi ultimi devono poter comunicare a tali amministrazioni aggiudicatici qualsiasi informazione utile nell’ambito della procedura di aggiudicazione, senza temere che esse rivelino a terzi elementi di informazione la cui divulgazione potrebbe recare pregiudizio a tali operatori» (parr. 34, 35 e 36, sent. cit.).
Insomma, leale e reale concorrenza, prima di ogni altra cosa.
E se anche, come nel caso in esame, sono in questione i caratteri tecnico-qualitativi dell’offerta «il principio del contraddittorio non implica che le parti abbiano un diritto di accesso illimitato e assoluto al complesso delle informazioni relative alla procedura di aggiudicazione dei mercati di cui trattasi che sono state presentate all’organo responsabile del ricorso» (par. 51, sent. cit.); in tal senso, la soluzione suggerita dal Giudice europeo è che, stante che «che l’organismo competente a conoscere dei ricorsi deve necessariamente poter disporre di tutte le informazioni necessarie per essere in grado di decidere con piena cognizione di causa, ivi comprese le informazioni riservate e i segreti commerciali» (par. 53, sent. cit.), «tale organo, prima di comunicare tali informazioni ad una parte nella controversia, deve dare all’operatore economico di cui trattasi la possibilità di opporre il loro carattere riservato o di segreto commerciale» (par. 54, sent. cit.) nonostante che essa debba, comunque, «garantire la riservatezza e il diritto al rispetto dei segreti commerciali con riferimento alle informazioni contenute nei fascicoli che le vengono comunicate dalle parti in causa, in particolare dall’amministrazione aggiudicatrice, pur potendo essa stessa esaminare tali informazioni e tenerne conto» (par. 55, sent. cit.).
Né più né meno un meccanismo simile a quello c.d. “del controinteressato” previsto nel nostro ordinamento con riguardo all’accesso ai dati personali e sensibili (meglio nota come privacy).
Simile meccanismo, però, non sussiste nel caso italiano.
Il Codice dei contratti – a differenza di quanto affermato, in linea di principio, dalla Corte di giustizia – afferma, da un lato, una generale inaccessibilità di talune informazioni e ne prevede, d’altro lato, la (incondizionata, n.d.a.) accessibilità quando, invece, si faccia valere la ragione dell’accesso ad una tutela (“difesa in giudizio”) dei propri diritti e interessi.
Contrariamente proprio a quanto affermato dalla Corte (cfr. parr. 39 e 40), in Italia è sufficiente che un soggetto interessato formuli una richiesta di accesso adducendo, a motivazione, la indispensabilità degli atti domandati ai fini di costituire idonea “difesa in giudizio” che – quasi in via automatica – l’amministrazione è obbligata per legge a concedere l’accesso (ignorando qualsivoglia problematica di leale concorrenza).
Un unico limite poteva essere rappresentato dal fatto che costruire una difesa “in giudizio” avrebbe potuto presupporre la sussistenza dei termini per ricorrere in giudizio, di modo che – ad esempio – se sono spirati i centoventi giorni, l’accesso agli atti potrebbe essere negato perché è in re ipsa che nessun tipo di giudizio può ormai essere attivato: tuttavia, anche siffatta costruzione può entrare in crisi solo ove si pensi all’attuale fermento e dibattito intorno alla eliminazione della c.d. “pregiudiziale amministrativa” (per la quale, in sintesi, l’annullamento dell’atto amministrativo è conditio sine qua non per l’accesso alla successiva tutela risarcitoria); onde per cui, il termine per esercitare il diritto di accesso ancorato a tale motivazione slitterebbe, nei termini, fino a quello ordinario di prescrizione dell’esercizio del diritto al risarcimento del danno.
Almeno in apparenza, dunque, i due ordinamenti (quello comunitario e quello nazionale, n.d.a.) paiono molto meno allineati di quanto non sembri, determinando, in questo senso, l’ennesima situazione di incertezza del diritto ancora una volta sul Codice dei contratti pubblici.
E si tratta, inoltre, di una fattispecie che alimenta anche un’antinomia pure interna all’ordinamento italiano, che da un lato protegge i diritti della proprietà industriale e intellettuale e dall’altro li rende accessibili nel settore dei contratti pubblici; e, se tecnicamente ciò trova una soluzione con il principio di due lex entrambe specialis, ma l’una (contratti pubblici) posterior all’altra (proprietà industriale), ragionando di principi e valori tale soluzione non pare minimamente condivisibile.
5. Possibili soluzioni (per l’operatore e per il legislatore) – Di fronte a tali (ed ennesime) problematiche, si pongono interrogativi non solo per il cultore del diritto, ma anche – e soprattutto – per l’operatore (specie, la P.A.) che di quelle norme su cui grava l’incertezza deve fare applicazione.
Una prima soluzione sta nella lettura “comunitariamente orientata” della norma di cui all’art. 13, comma 6.
Del resto, ove si statuisce che l’accesso è consentito “al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi” non pare impossibile che la locuzione “in giudizio” sia da intendersi quale “giudizio instaurato”, sostanzialmente rendendo la fattispecie del comma 6 simile a quella conclusivamente disposta dal Giudice comunitario, laddove le informazioni – normalmente riservate – sarebbero nella disponibilità di un Giudice che ne regolerebbe modi e quantità di accesso.
A ben vedere, tuttavia, siffatta ricostruzione rischia – però – di palesarsi eccessivamente forzata, in quanto pone in gioco una visione dell’istituto dell’accesso che, sicuramente, non è quella posta alla base del nostro ordinamento in materia.
Una seconda soluzione potrebbe, poi, essere quella di ritenere che si applichi al caso di accesso alle informazioni richiamate nell’art. 13, comma 5, lett. a) l’istituto della chiamata del controinteressato, già conosciuto dalla disciplina dell’ordinario accesso agli atti relativamente alla tutela degli aspetti della riservatezza (sic, Tessaro, Una ulteriore spallata al codice dei contratti in sede europea (stavolta in materia di accesso, in La Gazzetta degli enti locali, 2008, Maggioli ed.).
Tale impostazione, in sostanza, consentirebbe l’accesso ad informazioni rispetto alle quali, pendendo una richiesta, il titolare e produttore di esse è chiamato dalla P.A. (la quale in quel momento dette informazioni detiene) a dare il proprio assenso all’accesso richiesto (il riferimento cade sul fatto che il comma 5, lett. a) dell’art. 13 si richiama a una “motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente” che dichiara sostanzialmente inaccessibile l’offerta ed i suoi elementi); in caso di non prestazione del consenso, la P.A., bilanciando le posizioni (e, comunque, ponderando gli interessi e decidendo quale – fra l’interesse ad accedere e l’interesse a mantenere riservato – prevale), dovrebbe – allora – decidere se far prevalere l’una o l’altra pretesa.
Pure tale soluzione, comunque, mantiene alcuni profili di dubbia percorribilità.
In primo luogo, sostenere tale tesi significa sostenere l’applicabilità in via analogica dell’istituto della “notifica dell’accesso al controinteressato”, il quale – invece – si configura, come noto, quale istituto di eccezionale applicazione nel sistema dell’accesso agli atti (e infatti, lo si ammette solo per la tutela della riservatezza dei dati ex d.lgs. n. 196/2006) che, in Italia, ammette (almeno teoricamente) ben poche eccezioni alla regola generale della più assoluta reperibilità degli atti della P.A.; tale impossibilità di percorrere le vie dell’analogia per risolvere il problema, del resto, la si ricava – ad esempio – dalla ben nota inammissibilità dell’estensione dell’istituto della notifica a fattispecie non espressamente contemplate dall’ordinamento giuridico (si pensi alle frequenti – e illegittime – prassi di estendere lo strumento anche al caso di accesso ad atti quali i permessi di costruire o i titoli edilizi).
In secondo luogo, tale tesi “estensiva” pecca in difetto rispetto alla sentenza, che dichiara come vi siano informazioni totalmente e assolutamente inaccessibili rispetto agli aspetti dell’offerta, mentre nel meccanismo della “notifica al controinteressato” permane un margine di discrezionalità (il titolare delle informazioni cui si intende accedere potrebbe negare l’accessibilità, ma la P.A. potrebbe comunque riconoscere l’accesso) che la Corte di giustizia ha riconosciuto solo ad un giudice e non anche alla P.A., troppo direttamente coinvolta nella decisione sull’accessibilità delle informazioni.
E’, però, vero che tale sistema potrebbe divenire soluzione al problema se espressamente previsto e codificato dal legislatore (con l’ennesima modificazione normativa al Codice dei contratti).
Una terza soluzione – forse maggiormente percorribile e che non impegna, nel breve periodo, il legislatore in alcuna modifica – è quella che, nella pratica, la P.A. – in sede di enumerazione dei documenti necessari alla partecipazione alla gara indetta (e, dunque, in sede di bando) – preveda che l’offerente che stia producendo un’offerta costituente “segreto tecnico o commerciale” ai sensi e per gli effetti dell’art. 13, comma 5, lett. a), alleghi apposita dichiarazione in sede di offerta, nella quale motiva e documenta (motivare e documentare come due autonome e distinte attività, n.d.a.) siffatto carattere di segretezza della propria offerta.
In questo modo, a fronte della richiesta pervenuta, la P.A. potrebbe invocare detta dichiarazione a sostegno di un proprio diniego “giocato” sull’esigenza di tutela di un interesse che trova la propria fonte e il proprio riconoscimento nel contesto internazionale, ad opporsi al quale – giunti a quel punto – avrebbe titolo solo (e davvero, non pretestuosamente, come nei timori della Corte che prefigura scenari in cui si fanno ricorsi a posta per avere informazioni, n.d.a.) un Giudice realmente adito da un soggetto interessato.
Ciò – rispetto a qualsiasi altra soluzione e, comunque, in attesa dell’intervento risolutivo del legislatore – potrebbe almeno per ora “tamponare” questa nuova “falla” che il diritto comunitario ha (di nuovo) aperto nella già compromessa “barca” della legislazione nazionale italiana, semplicemente non risolvendo il conflitto tra P.A. e soggetto istante ma deresponsabilizzando la prima e spostando i problemi dell’istante ad un confronto con chi, quella dichiarazione, l’ha composta e motivata.

Sempre in attesa del provvidenziale, prossimo ed ennesimo “decreto correttivo".

(Altalex, 27 giugno 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...