Rassegna di notizie
- Diritto costituzionale, procedura penale:
CORTE COSTITUZIONALE:
NO ALLA SOSPENSIONE DEL PROCESSO PENALE PER LE ALTE CARICHE DELLO STATO
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).
Sotto un primo profilo la Consulta ha affermato che:
- "Il problema dell’individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle prerogative assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché, da un lato, come già rilevato da questa Corte, «alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del 2004) e, dall’altro, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi. Questa complessiva architettura istituzionale, ispirata ai princípi della divisione dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della Costituzione debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius né in melius.
Tale conclusione, dunque, non deriva dal riconoscimento di una espressa riserva di legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale. Tali sono, ad esempio, le norme che attengono alle funzioni connesse alle alte cariche considerate dalla norma denunciata, come: l’art. 68 Cost., il quale prevede per i parlamentari (e, quindi, anche per i Presidenti delle Camere) alcune prerogative sostanziali e processuali in relazione sia a reati funzionali (primo comma) sia a reati anche extrafunzionali (secondo e terzo comma); l’art. 90 Cost., il quale prevede l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; l’art. 96 Cost., il quale prevede per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri, anche se cessati dalla carica, la sottoposizione alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, secondo modalità stabilite con legge costituzionale".
Sotto un secondo profilo, la Consulta ha argomentato come segue:
- "La denunciata sospensione è, infatti, derogatoria rispetto al regime processuale comune, perché si applica solo a favore dei titolari di quattro alte cariche dello Stato, con riferimento ai processi instaurati nei loro confronti, per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica. La deroga si risolve, in particolare, in una evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, come quelle connesse a cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o, ancora piú generalmente, quelle che il cittadino ha il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, Cost.).
È ben vero che il principio di uguaglianza comporta che, se situazioni uguali esigono uguale disciplina, situazioni diverse possono richiedere differenti discipline. Tuttavia, in base alla giurisprudenza di questa Corte citata al punto 7.3.1., deve ribadirsi che, nel caso in cui la differenziazione di trattamento di fronte alla giurisdizione riguardi il titolare o un componente di un organo costituzionale e si alleghi, quale ragione giustificatrice di essa, l’esigenza di proteggere le funzioni di quell’organo, si rende necessario che un tale ius singulare abbia una precisa copertura costituzionale. Si è visto, infatti, che il complessivo sistema delle suddette prerogative è regolato da norme di rango costituzionale, in quanto incide sull’equilibrio dei poteri dello Stato e contribuisce a connotare l’identità costituzionale dell’ordinamento.
Le pur significative differenze che esistono sul piano strutturale e funzionale tra i Presidenti e i componenti di detti organi non sono tali da alterare il complessivo disegno del Costituente, che è quello di attribuire, rispettivamente, alle Camere e al Governo, e non ai loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.) e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.). Non è, infatti, configurabile una preminenza del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a mantenerne l’unità, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri e ricopre, perciò, una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares".
La Corte ha così concluso: "la sospensione processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un’evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale. Essa, dunque, non costituisce fonte di rango idoneo a disporre in materia".
(Corte Costituzionale, Sentenza 19 ottobre 2009, n.262: Sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato - Incostituzionalità).
- Diritto processuale civile, diritto della responsabilità civile e risarcimento dei danni:
CASSAZIONE CIVILE:
RISARCIMENTO DEL DANNO FUTURO DI SOGGETTO NON PRODUTTIVO DI REDDITO
La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla risarcibilità e sulle modalità di liquidazione del danno patrimoniale futuro di soggetti non ancora produttivi di reddito a causa della giovane (o giovanissima) età.
La Corte afferma innanzitutto che “è indubbia la validità generale (e quindi anche nelle fattispecie come quella in esame) del principio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) e del principio secondo cui (ex art. 1226 cod. civ.) è consentita la liquidazione equitativa del danno solo se quest’ultimo è provato (o non è contestato) nella sua esistenza e non dimostrabile, se non con grande difficoltà, nel suo preciso ammontare”.
Secondo la Corte “il modo con cui tali due principi sono stati applicati ha talora condotto a rendere in sostanza la liquidabilità del danno in questione meramente teorica ma non concretamente realizzabile in pratica”, e aggiunge “È in realtà ovvio che è (quasi) sempre impossibile dare la prova rigorosa, precisa ed incontestabile di un danno futuro; infatti, persino se il danneggiato produceva un reddito al momento del sinistro, l’evoluzione successiva della sua capacità di produrlo (ovviamente nell’eventualità che il sinistro medesimo non si fosse verificato) può essere oggetto solo di un giudizio prognostico meramente probabilistico (potrebbe infatti persino accadere che in concreto tale capacità venga successivamente a mancare) basato su presunzioni; la più importante e basilare delle quali è certamente costituita dall’entità del reddito già prodotto. È palese che tale impossibilità è ancora più evidente nell’ipotesi di danneggiato che al momento del sinistro non produceva reddito, in quanto in tal caso viene meno pure quell’elemento presuntivo che è costituito dall’entità del reddito già prodotto”.
Tuttavia, “Ciò non significa però che tale danneggiato debba sempre e comunque restare privato (applicando un errato “rigore” interpretativo che porterebbe in concreto ad escludere sempre la liquidabilità in questione) del risarcimento del danno patrimoniale; che ben può essere liquidato invece in base ad una corretta interpretazione della normativa in questione (in particolare in tema di presunzioni). Va precisato a questo punto che è nell’ordine naturale delle cose che un soggetto ancora in età scolastica, qualora non abbia particolari deficienze, in futuro produrrà un reddito. Si potrà discutere in ordine all’entità di tale presumibile reddito futuro in relazione agli elementi prognostici offerti, con riferimento allo specifico soggetto in questione, dalle risultanze processuali della particolare causa di cui si tratta”.
La Cassazione ha così elaborato questo principio di diritto (nel solco di un ormai consolidato filone interpretativo): “In tema di risarcimento di danno patrimoniale subito da una persona minore o comunque in età giovanile, qualora sia accertata non una “micro permanente” ma una percentuale superiore di invalidità permanente, la mera circostanza che il soggetto danneggiato, all’epoca dell’incidente, non avesse una specifica capacità professionale e non svolgesse attività lavorativa non autorizza ad escludere un danno futuro solo sulla base di ciò e senza ulteriori indagini. Al contrario il Giudice, con giudizio prognostico fondato su basi probabilistiche, deve valutare se ed in che misura i postumi permanenti ridurranno la futura capacità di guadagno di detta persona, tenendo conto in primo luogo della percentuale di invalidità medicalmente accertata, della natura e qualità dei postumi stessi, dell’orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata attività redditizia, degli studi da lui portati a termine, dell’educazione ricevuta dalla famiglia nonché delle presumibili opportunità di lavoro che si presenteranno al danneggiato anche in relazione al prevedibile futuro mercato del lavoro; ed in secondo luogo della posizione sociale ed economica di quest’ultima; nonché di ogni altra circostanza rilevante (ferma restando la possibilità per colui che è chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare che il minore, da quel particolare tipo di invalidità, non risentirà alcun danno o risentirà danni minori rispetto a quelli prospettati). In assenza di riscontri concreti dai quali desumere gli elementi suddetti, (e, perciò, in mancanza della possibilità di ricorrere alla prova presuntiva), la liquidazione potrà avvenire attraverso il ricorso al triplo della pensione sociale. La scelta tra l’uno o l’altro tipo di liquidazione costituisce un giudizio tipicamente di merito ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata”.
(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, 30 settembre 2009, n.20943: Risarcimento danno futuro del giovane).
- Diritto immobiliare, del condominio e dei diritti reali, diritto processuale civile:
CASSAZIONE CIVILE:
PARCHEGGIO PERTINENZIALE NEL SOTTOSUOLO CONDOMINIALE
La Cassazione ha giudicato del tutto corrette le motivazioni e le conclusioni ha cui è pervenuta la Corte d'appello in un giudizio relativo alla realizzazione di parcheggi pertinenziali nel sottosuolo del condominio.
In particolare:
- la sottrazione del sottosuolo comune al pari uso di tutti i condomini per la edificazione di autorimesse di proprietà esclusiva di una parte di essi trova giustificazione nel disposto dell'articolo 9 della legge 122/1989;
- la detta norma si riferisce esclusivamente al sottosuolo o ai locali siti al piano terreno e non ad altri beni comuni;
- il richiamo al secondo comma dell'articolo 1120 c.c. operato dall'articolo 9 della legge 122/1989 è riferibile solo ai beni comuni diversi dal sottosuolo;
- è possibile realizzare box sotterranei - previa delibera condominiale approvata con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136 c.c. - pur se in numero inferiore a quello della totalità dei condomini non potendo i condomini dissenzienti impedire tale realizzazione voluta invece dalla maggioranza dei partecipanti al condominio;
- è lecito l'uso del sottosuolo per frazioni corrispondenti alle singole autorimesse pertinenziali da realizzare - con esclusione di qualsiasi uso su ciascuna porzione da parte di tutti gli altri condomini - purché venga rispettato il pari diritto sul sottosuolo comune in capo ai condomini contrari o rimasti estranei all'innovazione di tale bene comune;
- tale rispetto è assicurato ove il numero delle autorimesse sotterranee realizzate sia inferiore al numero delle unità di proprietà esclusiva ed ove sia possibile per i condomini dissenzienti "senza restrizioni o difficoltà maggiori di quelle degli altri condomini", dotare "le loro unità di analoghe autorimesse pertinenziali sotterranee".
La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.
(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 18 settembre 2009, n.20254).
- Diritto dei contratti e delle obbligazioni, diritto commerciale, diritto del lavoro:
MINISTERO LAVORO:
IL FRANCHISING PER LE AZIENDE DI SERVIZI
Il Ministero del Lavoro ha risposto ad una istanza di interpello formulata dalla Confcommercio in ordine alla applicazione del contratto di franchising di alla L. n. 129/2004 alle aziende di servizi e alla gestione dei relativi rapporti di lavoro instaurati dal franchisor e dal franchisee.
Innanzitutto il Ministero non si ravvisa motivi per escludere il ricorso al franchising da parte di soggetti che svolgono attività nel settore dei servizi. Quanto alla gestione dei rapporti di lavoro facenti capo al franchisor ed al franchisee, il Ministero afferma che il franchisee o il franchisor soggiacciono alle vigenti disposizioni in materia di rapporti di lavoro alla stregua di ogni altro soggetto di natura imprenditoriale. "Ne deriva, in capo al franchisor e al franchisee, la piena e assoluta titolarità del potere direttivo sulla forza lavoro alle rispettive dipendenze e la responsabilità esclusiva di ciascuno degli imprenditori individualmente per quanto riguarda gli obblighi e le responsabilità relativi ai rapporti di lavoro utilizzati nelle proprie organizzazioni. L’appartenenza alla rete di franchising infatti non incide sui normali criteri di imputazione dei rapporti di lavoro anche quando, elementi che in altre circostanze potrebbero essere ritenuti sintomatici di una unicità di impresa trovino invece adeguato e razionale riscontro in un genuino rapporto di franchising. Da ciò discende, inoltre, che i diritti dei lavoratori possono essere esercitati esclusivamente nei confronti del proprio datore di lavoro (franchisor ovvero franchisee) che, unico responsabile del rapporto di lavoro, rimane altresì unico destinatario di cause o rivendicazioni eventualmente avanzate dai propri dipendenti".
(Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, Interpello 12 ottobre 2009, n.73: Il franchising per le aziende di servizi).