sabato 7 giugno 2008

Affinchè non accada mai più

"Era un angelo sospeso nel cielo,
ma un cavo si è spezzato.
Questa è la cronaca
di un incidente sul lavoro"


Affinchè non accada mai più

"Era un angelo sospeso nel cielo,
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Questa è la cronaca
di un incidente sul lavoro"


giovedì 5 giugno 2008

La prima notificazione all'imputato/indagato


Processo penale, notificazioni alla parte, nullità, vizi, precisazioni

Cassazione penale , SS.UU., sentenza 15.05.2008 n° 19602

Processo penale – notificazioni alla parte – nullità – vizi – precisazioni [art. 157 c.p.p.]

La notificazione diversa dal modello di notificazione prescritto non provoca necessariamente la lesione del diritto alla conoscenza degli atti processuali, laddove si dimostri che l’imputato ne era comunque a conoscenza, con la conseguenza che non vi è inesistenza dell’atto. (1) (2)
(1) Sul tema della mancata notificazione all’imputato detenuto, si veda Cassazione penale 15417/2008.(2) Sul tema del dies a quo relativo ai termini per presentare l’appello, si veda Cassazione civile 4996/2008.

Tra i contributi più recenti della dottrina, si vedano:- Cusato, La notificazione degli atti civili, penali, amministrativi e tributari, CEDAM, 2008;- Peroni, Decreto di irreperibilità e notificazione del decreto di citazione a giudizio, in Diritto penale e processo, 2008, n. 2, IPSOA, p. 185;- Silvestri, In tema di notificazione del decreto che dispone i giudizio e irreperibilità dell'imputato, in Cassazione penale, 2008, n. 2, GIUFFRÈ, p. 652.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 27 marzo - 15 maggio 2008, n. 19602

(Presidente Gemelli - Relatore Carmenini)

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 13 dicembre 2006, la Corte di appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza del tribunale monocratico di Rossano del 2 novembre 2005, ha confermato il giudizio di responsabilità penale a carico di B. M. in ordine ai reati di cui agli arti 44 lett. b) d.P.R. n. 380 del 2001 (capo A della rubrica) e 71 e 72 del medesimo d.P.R. (capo C), per avere realizzato un fabbricato a due piani fuori terra in cemento armato, edificato su un terrapieno sorretto da un muro di contenimento anch'esso in cemento armato, senza la prescritta concessione edilizia, senza il progetto esecutivo e la direzione di un tecnico qualificato, senza la previa prescritta denuncia all'Ufficio dell'ex Genio civile. Di conseguenza la Corte ha condannato l'imputata alla pena come in atti, confermando l'ordine di demolizione delle opere abusive, ha concesso i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna e ha dichiarato estinti per prescrizione gli ulteriori reati di cui al capo B (violazione degli arti. 93, 94 e 95 dei d.P.R. n. 380 del 2001).
La M. ha impugnato detta sentenza con ricorso per cassazione, articolando quattro motivi. Col primo motivo lamenta la violazione dell'art. 606, comma 1 lett. c) cod. proc. pen., per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità. In particolare si duole dell'erronea applicazione dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., sul rilievo che la notificazione all'imputata dell'avviso di fissazione del giudizio di appello per l'udienza del 13.11.2006 è stata effettuata al difensore di fiducia, nonostante l'esistenza agli atti di un domicilio dichiarato; precisa che trattandosi di prima notificazione nella fase di appello, la stessa avrebbe dovuto essere effettuata ai sensi dell'art. 157, comma 1, cod. proc. pen. Secondo la ricorrente la modalità di notificazione adottata nella specie configurerebbe un'ipotesi di nullità assoluta ed insanabile, ai sensi dell'art. 179, in relazione all'art. 178, lett. c), cod. proc. pen., che travolgerebbe ogni atto conseguente, compresa la sentenza impugnata. Col secondo motivo deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 40 c.p., nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto. La M. assume di essere estranea ai fatti, essendo soltanto il marito il proprietario del terreno su cui insiste il manufatto e il committente dell'opera abusivamente realizzata; sostiene che la Corte di appello di Catanzaro ha violato il principio della responsabilità penale personale, e, con una motivazione palesemente illogica, ha ritenuto la sua colpevolezza sul presupposto che "la qualità di committenti oltre che di proprietari dell'opera abusiva discende dalla qualità di conviventi" e che "la stessa (l'imputata) era presente al momento dell'intervento dei militari operanti ed ha sottoscritto il verbale di constatazione dell'illecito edilizio". Col terzo e quarto motivo, infine, eccepisce la prescrizione anche dei residui reati e lamenta un trattamento sanzionatorio eccessivamente gravoso.
La Terza Sezione penale, rilevata l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla «legittimità della notificazione all'imputato del decreto di fissazione dell'udienza per il giudizio di appello» mediante consegna «al difensore di fiducia, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., nonostante l'esistenza agli atti del domicilio dichiarato», ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen.
Il Primo Presidente, con decreto del 5 febbraio 2008, ha fissato, per la trattazione del ricorso, l'odierna udienza pubblica del 27 marzo 2008.

Motivi della decisione
La questione giuridica controversa può essere così sintetizzata: "Se la notificazione presso il difensore di fiducia, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., possa essere effettuata anche nel caso in cui l'imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni".
Le soluzioni date dalla giurisprudenza di questa Corte hanno evidenziato un contrapposto orientamento, sviluppatosi soprattutto tra la Quinta Sezione penale, da un lato, e la Terza e la Sesta Sezione, dall'altro.
In breve, la Quinta Sezione ha affermato, con le sentenze Landro (25.01 - 27.02.2007, n. 8108 rv 236522) e Rizzato (24.10 - 06.12.2005, n. 44608 rv 232612), che il domicilio "legale" non può prevalere su quello dichiarato, considerato che l'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. è riferibile, nell'organizzazione della norma in cui si inserisce, alle ipotesi considerate dai commi precedenti; che "la disposizione di cui all'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. (relativa alte notifiche all'imputato mediante consegna al difensore di fiducia) si applica solo alle notificazioni successive a quella eseguita ai sensi dell'art. 157, comma ottavo, mentre non si applica nell'ipotesi in cui l'imputato abbia precedentemente eletto (dichiarato) domicilio nel luogo di abituale dimora, ex art. 161 cod. proc. pen."; che la nullità tempestivamente eccepita comporta la nullità del giudizio di appello e della sentenza impugnata".
Al contrario, la Terza sezione (sentenza Ardito, 20.09 -08.11.2007, n. 41063 rv 237639) e la Sesta Sezione (sentenze Casilli, 09.03 - 01.06.2006, n. 19267 rv 234499; Borrelli, 02.04 - 31.05.2007, n. 21341 rv 236874, ed altre) rilevano che la forma di notificazione prevista dall'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. "deve ritenersi prevalente su ogni altra", sicché, in presenza di nomina fiduciaria, è irrilevante, ai fini della successiva notificazione del decreto di citazione in appello, il domicilio dichiarato dall'imputato; evidenziano che il comma 8 bis dell'art. 157 cod. proc. pen. è stato introdotto dalla legge 22.4.2005, n. 60, che ha convertito con modificazioni il D.L. 21.2.2005, n. 17, all'enunciato fine di garantire la ragionevole durata del processo in ottemperanza all'art. 111 Cost. e, quindi, di accelerare i tempi di notifica degli atti; sottolineano che presupposto di operatività della norma è esclusivamente la previa rituale effettuazione di una prima notifica all'imputato "a piede libero", riferendosi a tale prima notifica l'incipit dell'art. 157 cod. proc. pen. "salvo quanto previsto dagli artt. 161 e 162 cod. proc. pen.", in considerazione proprio della ratio della nuova disposizione, volta a consentire un tendenziale e generalizzato risparmio di tempi attraverso l'automatica notificazione degli atti ulteriori al difensore di fiducia (che diviene domiciliatario per legge del proprio assistito); sostengono che l'indagato/imputato può, in qualsiasi momento, escludere la domiciliazione ex lege con dichiarazione o diversa elezione di domicilio esplicitamente ed espressamente formulata in tal senso; che il difensore di fiducia non soltanto ha la possibilità di proporre deduzioni per la valutazione, da parte del giudice ex art. 420 bis cod. proc. pen., del rilievo probabilistico del buon esito della citazione dell'imputato, ma può anche interrompere l'automatismo delineato dal comma 8 bis in esame, dal momento che la stessa norma prevede che egli "può dichiarare immediatamente all'autorità che procede di non accettare la notificazione".
Le opposte soluzioni ermeneutiche risentono della non univoca soluzione normativa data ai rilievi mossi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo al sistema previgente dei processi in contumacia, mediante la legge 22 aprile 2005, n. 60 di conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n.17, nel cui corpo è inserita la normativa in esame.
Due sono i principi ai quali la disciplina in parola ha inteso ispirarsi: 1) il diritto dell'imputato alla conoscenza dell'accusa; 2) la garanzia della ragionevole durata del processo.
Il secondo dei filoni giurisprudenziali sopra esposti mostra di privilegiare la celerità del processo e si inserisce tendenzialmente nelle linee maggiormente evolutive del rapporto imputato-difensore, privilegiando la figura del difensore di fiducia, nella quale individua l'elemento portante ed innovativo della legge n. 60 del 2005, ed assegnando alla notifica all'imputato, mediante consegna al difensore di fiducia, un ruolo del tutto fisiologico, quale forma ordinaria di notificazione.
L'auspicabile semplificazione del sistema delle notificazioni, non completato con chiarezza dal legislatore, non può, tuttavia, essere effettuato in via meramente ermeneutica. Le stesse sentenze fautrici di questo orientamento sono portate ad assegnare alla parte adempimenti non espressamente previsti, ma ricavabili solo forzatamente dal sistema (l'indagato/imputato può, in qualsiasi momento, escludere la domiciliazione ex lege con dichiarazione o diversa elezione di domicilio esplicitamente ed espressamente formulata in tal senso; il difensore di fiducia ha la possibilità di proporre deduzioni per la valutazione, da parte del giudice ex art. 420 bis cod. proc. pen., del rilievo probabilistico del buon esito della citazione dell'imputato). Questa soluzione, per altro, comporterebbe un forte ridimensionamento di taluni punti della vigente regolamentazione dell'elezione di domicilio (artt. 161 e 162 cod. proc. pen.), nel senso che la dichiarazione o l'elezione di domicilio ivi previste riguarderebbero esclusivamente l'imputato difeso d'ufficio, in quanto per l'imputato difeso di fiducia non sarebbe possibile alcuna dichiarazione di domicilio, né un'elezione diversa da quella presso il suo difensore.
La lettura sistematica, allo stato consentita dal complesso delle norme coinvolte - senza che per altro si possa fare carico alla sede ermeneutica della maggiore o minore incisività del raggio di azione della norma positiva -, deve condurre verso l'opzione prescelta dal primo orientamento, con le precisazioni applicative nei sensi di seguito esplicate.
Gli artt. 157 e 161 e seguenti cod. proc. pen. descrivono, per quanto attiene alle notificazioni all'imputato non detenuto, un percorso duplice, rafforzato dall'inizio testuale del primo di detti articoli ("salvo quanto previsto dagli artt. 161 e 162").
In buona sostanza il legislatore ha inteso assicurare la piena conoscenza dell'accusa da parte dell'imputato rappresentandosi due situazioni: la prima si verifica quando manca un previo contatto con le autorità indicate dall'art. 161 cod. proc. pen. ed in tal caso occorre una prima notificazione direttamente all'interessato in una delle forme previste dall'art. 157; la seconda si verifica quando l'imputato può essere avvertito dal giudice, dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria ed il tal caso emergerà, in genere, una dichiarazione o elezione di domicilio e si seguiranno le forme indicate dall'art. 161 e seguenti del codice di rito. In questa visione la disposizione contenuta nel comma 8 bis dell'art. 157 non può non essere letta nell'ambito dell'articolo che la contiene.
Il sistema appare, dunque, articolato secondo due tipologie di notificazioni.
Quando si deve effettuare la prima notificazione all'imputato, che non abbia eletto o dichiarato domicilio, si deve procedere in uno dei modi consecutivi previsti dai primi otto commi dell'art. 157.
Una volta effettuata regolarmente la prima notificazione, se l'imputato provvede a nominare il difensore di fiducia, tutte le successive notificazioni si effettuano mediante consegna al difensore; questi può "immediatamente", quindi antecedentemente alla prima notificazione presso di lui, dichiarare all'autorità che procede di non accettare la notificazione, altrimenti il processo nei suoi vari gradi seguirà con la notificazione al difensore di fiducia.
In caso di mancata nomina del difensore di fiducia, si procederà a norma dei commi 2 e 4 dell'art. 161 cod. proc. pen..
Se, invece, vi sono state elezione o dichiarazione di domicilio, si seguiranno direttamente le forme dettate dall'art. 161 e seguenti cod. proc. pen..
Va sottolineato che, in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la conoscenza dell'accusa, preordinata allo svolgimento di un'efficace attività difensiva, deve realizzarsi attraverso una "notificazione ufficiale proveniente dall'autorità competente" (Brozicek c. Italia, 19 dicembre 1989); ma non si richiede necessariamente una forma particolare. La stessa Corte delinea un'attività collaborativa da parte dell'imputato, una volta regolarmente avvisato (Kimmel c. Italia, 2 settembre 2004; Booker c. Italia, 14 settembre 2006; Zaratin c. Italia, 23 novembre 2006). Il disinteresse dell'imputato informato equivale ad una rinuncia a presenziare alle udienze con la conseguenza che non è configurabile nessuna violazione della Convenzione.
Ancora, in tema di semplificazione dell'iter del processo attraverso un sistema di notificazioni non incerto, vanno ribaditi i seguenti principi giurisprudenziali: a) l'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. "riguarda l'intero processo e non già ogni grado di giudizio, sicché non occorre individuare per ciascuna fase processuale una prima notificazione rispetto alla quale possa, poi, trovare attuazione la nuova disciplina" (in tal senso la Terza Sezione nell'ordinanza di rimessione, nonché Cass. Sez. V, 25.05.- 21.11.2006, n. 38136, ric. Bertone e altro, rv 235976 e Sez. IV, 11.10 - 21.11.2005, n. 41649, Mandrini, rv 232409); b) la nullità assoluta e insanabile prevista dall'art. 179 cod. pro. pen. ricorre soltanto nei caso in cui la notificazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell'atto da parte dell'imputato, mente essa non ricorre nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue l'applicabilità della sanatoria di cui all'art. 184 cod. proc. pen.. Per altro, l'imputato che intenda eccepire la nullità assoluta della citazione o della sua notificazione, non risultante dagli atti, non può limitarsi a denunciare l'inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare al giudice di non avere avuto cognizione dell'atto e indicare gli specifici elementi che consentano l'esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice stesso (Cass. Sez. U. sent. 00119 del 2005, Palumbo).
Si possono ora trarre le debite conclusioni sulla questione giuridica controversa.
Al quesito : "Se la notificazione presso il difensore di fiducia, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., possa essere effettuata anche nel caso in cui l'imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni", deve essere data risposta negativa.
Consegue come lineare corollario che: 1) l'operatività dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. è subordinata all'assenza di una dichiarazione o elezione di domicilio. Tutte le successive notificazioni, qualora l'imputato abbia nominato un difensore di fiducia e non abbia dichiarato o eletto domicilio, devono essere eseguite mediante consegna al difensore, ferma restando l'assenza di una preclusione all'esercizio della facoltà dell'imputato stesso di dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni anche dopo la nomina di un difensore di fiducia, esercizio che ha l'effetto di paralizzare la regola contenuta nel citato comma 8 bis; 2) detta regola, inoltre, riguarda l'intero processo, sicché non occorre individuare per ciascuna fase processuale una prima notificazione rispetto alla quale possa, poi, trovare attuazione la nuova disciplina; 3) l'eventuale nullità derivante dalla notificazione effettuata ai sensi dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., per casi diversi da quelli previsti non configura una nullità assoluta ed insanabile per omessa vocatio in jus, bensì una nullità di ordine generale e a regime intermedio per inosservanza delle norme sulla notificazione, che deve ritenersi sanata quando risulti provato che l’errore non abbia impedito all'imputato di conoscere l'esistenza dell'atto e di esercitare il diritto di difesa; essa rimane comunque senza effetto se non è dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all'art. 184 comma primo, alle sanatorie generali di cui all'art. 183 e alle regole di deducibilità di cui all'art. 182 cod. proc. pan., oltre che ai termini di rilevabilità di cui all'art. 180 stesso codice.
Prendendo in esame la specifica situazione oggetto del primo motivo di ricorso, secondo le emergenze del processo, è agevole rilevare che il 2 dicembre 2003 la M., come risulta dal verbale redatto dalla polizia giudiziaria, dichiarava domicilio presso la sua abitazione in Rossano contrada Lampa Patire n. 29, ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen., e nominava difensore di fiducia l'avv. Leonardo Trento del foro di Rossano; riceveva a mani proprie, nel domicilio dichiarato, tutti gli atti del procedimento di primo grado (l'avviso di conclusione delle indagini preliminari e il decreto di citazione diretta a giudizio); il 2 novembre 2005 il Tribunale pronunciava sentenza di condanna, avverso la quale l'imputata proponeva appello personalmente con atto sottoscritto anche dal difensore di fiducia.
Il decreto di citazione per il giudizio di appello veniva notificato, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., mediante consegna al difensore di fiducia, avv. Leonardo Trento; l'imputata non compariva all'udienza fissata e la Corte ne dichiarava la contumacia; l'estratto contumaciale della sentenza di secondo grado le veniva notificato il 19 gennaio 2007, di nuovo ai sensi dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., presso il difensore di fiducia, avv. Leonardo Trento, il quale non si era avvalso della facoltà di non accettare gli atti notificatigli; il 28 febbraio 2007 l'imputata proponeva personalmente ricorso per cassazione, con atto sottoscritto anche dal nuovo difensore Serafino Trento, nominato in calce al ricorso con contestuale revoca dell'avv. Leonardo Trento (v'è da notare che, a parte l'omonimia patronimica, entrambi i suddetti avvocati fanno parte non solo del medesimo Foro di Rossano, ma anche del medesimo studio - v. il timbro dello studio legale in cui figurano entrambi - e l'avv. Serafino Trento aveva anche sostituito l'avv. Leonardo Trento all'udienza del 15 dicembre 2004 nel corso del giudizio di primo grado).
Come si vede, la ricorrente non solo non deduce la mancata o comunque menomata conoscenza conseguente all'adozione del modello di notificazione previsto dall'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., ma dimostra di essere sempre stata a piena conoscenza di tutti gli sviluppi del processo, avendo anche proposto personalmente le impugnazioni, sia in grado di appello che in sede di legittimità; né il difensore, presso cui sono state effettuate le notificazioni, ha eccepito alcunché nel giudizio di appello: ne consegue che la notificazione, certamente non inesistente, ma viziata, in quanto diversa dal modello di notificazione prescritto, non ha provocato nessuna lesione del diritto alla conoscenza e all'intervento dell'imputata e, per altro, la relativa eccezione è comunque tardiva, poiché ben poteva e doveva essere dedotta nel giudizio di appello.
Il primo motivo di ricorso deve essere, quindi, disatteso.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi in relazione al secondo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente deduce l'erronea affermazione della sua colpevolezza in ordine ai reati ascrittile, in violazione del principio della responsabilità penale personale, assumendo di essere estranea ai fatti, al più attribuibili al marito, proprietario del terreno su cui insiste il manufatto e committente dell'opera abusivamente realizzata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, in tema di reati edilizi, la responsabilità relativa al manufatto sul quale l'abuso è stato effettuato può dedursi da indizi precisi e concordanti, quali la qualità di coniuge del committente, il regime patrimoniale dei coniugi, lo svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, la richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, la presenza in loco all'atto dell'accertamento. Pertanto, una volta ritenuto in fatto il diretto interesse ai lavori e la qualità della M. di committente dell'opera abusiva, secondo un accertamento corretto ed insindacabile in sede di legittimità, la Corte territoriale ha conseguentemente ritenuto la colpevolezza dell'imputata, pervenendo a conclusioni esenti da vizi logico-giuridici (v., ex plurimis, Cass. Sez. 3, sent. n. 32856 del 2005 rv 232200, Farzone; n. 26121 del 2005, Rosato, rv 231954).
Neppure si è verificata l'invocata prescrizione dei residui reati per i quali la Corte catanzarese ha affermato la responsabilità penale della M..
I fatti sono stati contestati come ancora in corso il 20.11.2003; il periodo prescrizionale massimo, secondo la normativa applicabile alla specie, matura in quattro anni e sei mesi; a questo arco di tempo va, poi, aggiunto il periodo di sospensione di un mese a causa del rinvio dell'udienza in sede di appello dal 13.11 al 13.12.2006, dietro richiesta del difensore dell'imputata: l'evento estintivo dei reati si verificherebbe, quindi, soltanto il 20.6.2008. Si aggiunga che la sentenza di appello ha fissato, senza rilievi di parte, al 2.12.2003 (e non al 20.11) la fine dei lavori.
Quanto al trattamento sanzionatorio, infine, la Corte territoriale, nel confermare i criteri adottati dal primo giudice, ha provveduto ad eliminare la pena inflitta per la contravvenzione dichiarata prescritta ed ha ridotto l'aumento per la continuazione, ritenuto eccessivo, pervenendo così ad una pena del tutto adeguata ai profili oggettivi e soggettivi dei reati commessi, secondo i criteri fissati dall'art. 133 c.p..
Consegue alle suesposte considerazioni il rigetto del ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La prima notificazione all'imputato/indagato


Processo penale, notificazioni alla parte, nullità, vizi, precisazioni

Cassazione penale , SS.UU., sentenza 15.05.2008 n° 19602

Processo penale – notificazioni alla parte – nullità – vizi – precisazioni [art. 157 c.p.p.]

La notificazione diversa dal modello di notificazione prescritto non provoca necessariamente la lesione del diritto alla conoscenza degli atti processuali, laddove si dimostri che l’imputato ne era comunque a conoscenza, con la conseguenza che non vi è inesistenza dell’atto. (1) (2)
(1) Sul tema della mancata notificazione all’imputato detenuto, si veda Cassazione penale 15417/2008.(2) Sul tema del dies a quo relativo ai termini per presentare l’appello, si veda Cassazione civile 4996/2008.

Tra i contributi più recenti della dottrina, si vedano:- Cusato, La notificazione degli atti civili, penali, amministrativi e tributari, CEDAM, 2008;- Peroni, Decreto di irreperibilità e notificazione del decreto di citazione a giudizio, in Diritto penale e processo, 2008, n. 2, IPSOA, p. 185;- Silvestri, In tema di notificazione del decreto che dispone i giudizio e irreperibilità dell'imputato, in Cassazione penale, 2008, n. 2, GIUFFRÈ, p. 652.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 27 marzo - 15 maggio 2008, n. 19602

(Presidente Gemelli - Relatore Carmenini)

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 13 dicembre 2006, la Corte di appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza del tribunale monocratico di Rossano del 2 novembre 2005, ha confermato il giudizio di responsabilità penale a carico di B. M. in ordine ai reati di cui agli arti 44 lett. b) d.P.R. n. 380 del 2001 (capo A della rubrica) e 71 e 72 del medesimo d.P.R. (capo C), per avere realizzato un fabbricato a due piani fuori terra in cemento armato, edificato su un terrapieno sorretto da un muro di contenimento anch'esso in cemento armato, senza la prescritta concessione edilizia, senza il progetto esecutivo e la direzione di un tecnico qualificato, senza la previa prescritta denuncia all'Ufficio dell'ex Genio civile. Di conseguenza la Corte ha condannato l'imputata alla pena come in atti, confermando l'ordine di demolizione delle opere abusive, ha concesso i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna e ha dichiarato estinti per prescrizione gli ulteriori reati di cui al capo B (violazione degli arti. 93, 94 e 95 dei d.P.R. n. 380 del 2001).
La M. ha impugnato detta sentenza con ricorso per cassazione, articolando quattro motivi. Col primo motivo lamenta la violazione dell'art. 606, comma 1 lett. c) cod. proc. pen., per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità. In particolare si duole dell'erronea applicazione dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., sul rilievo che la notificazione all'imputata dell'avviso di fissazione del giudizio di appello per l'udienza del 13.11.2006 è stata effettuata al difensore di fiducia, nonostante l'esistenza agli atti di un domicilio dichiarato; precisa che trattandosi di prima notificazione nella fase di appello, la stessa avrebbe dovuto essere effettuata ai sensi dell'art. 157, comma 1, cod. proc. pen. Secondo la ricorrente la modalità di notificazione adottata nella specie configurerebbe un'ipotesi di nullità assoluta ed insanabile, ai sensi dell'art. 179, in relazione all'art. 178, lett. c), cod. proc. pen., che travolgerebbe ogni atto conseguente, compresa la sentenza impugnata. Col secondo motivo deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 40 c.p., nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto. La M. assume di essere estranea ai fatti, essendo soltanto il marito il proprietario del terreno su cui insiste il manufatto e il committente dell'opera abusivamente realizzata; sostiene che la Corte di appello di Catanzaro ha violato il principio della responsabilità penale personale, e, con una motivazione palesemente illogica, ha ritenuto la sua colpevolezza sul presupposto che "la qualità di committenti oltre che di proprietari dell'opera abusiva discende dalla qualità di conviventi" e che "la stessa (l'imputata) era presente al momento dell'intervento dei militari operanti ed ha sottoscritto il verbale di constatazione dell'illecito edilizio". Col terzo e quarto motivo, infine, eccepisce la prescrizione anche dei residui reati e lamenta un trattamento sanzionatorio eccessivamente gravoso.
La Terza Sezione penale, rilevata l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla «legittimità della notificazione all'imputato del decreto di fissazione dell'udienza per il giudizio di appello» mediante consegna «al difensore di fiducia, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., nonostante l'esistenza agli atti del domicilio dichiarato», ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen.
Il Primo Presidente, con decreto del 5 febbraio 2008, ha fissato, per la trattazione del ricorso, l'odierna udienza pubblica del 27 marzo 2008.

Motivi della decisione
La questione giuridica controversa può essere così sintetizzata: "Se la notificazione presso il difensore di fiducia, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., possa essere effettuata anche nel caso in cui l'imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni".
Le soluzioni date dalla giurisprudenza di questa Corte hanno evidenziato un contrapposto orientamento, sviluppatosi soprattutto tra la Quinta Sezione penale, da un lato, e la Terza e la Sesta Sezione, dall'altro.
In breve, la Quinta Sezione ha affermato, con le sentenze Landro (25.01 - 27.02.2007, n. 8108 rv 236522) e Rizzato (24.10 - 06.12.2005, n. 44608 rv 232612), che il domicilio "legale" non può prevalere su quello dichiarato, considerato che l'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. è riferibile, nell'organizzazione della norma in cui si inserisce, alle ipotesi considerate dai commi precedenti; che "la disposizione di cui all'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. (relativa alte notifiche all'imputato mediante consegna al difensore di fiducia) si applica solo alle notificazioni successive a quella eseguita ai sensi dell'art. 157, comma ottavo, mentre non si applica nell'ipotesi in cui l'imputato abbia precedentemente eletto (dichiarato) domicilio nel luogo di abituale dimora, ex art. 161 cod. proc. pen."; che la nullità tempestivamente eccepita comporta la nullità del giudizio di appello e della sentenza impugnata".
Al contrario, la Terza sezione (sentenza Ardito, 20.09 -08.11.2007, n. 41063 rv 237639) e la Sesta Sezione (sentenze Casilli, 09.03 - 01.06.2006, n. 19267 rv 234499; Borrelli, 02.04 - 31.05.2007, n. 21341 rv 236874, ed altre) rilevano che la forma di notificazione prevista dall'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. "deve ritenersi prevalente su ogni altra", sicché, in presenza di nomina fiduciaria, è irrilevante, ai fini della successiva notificazione del decreto di citazione in appello, il domicilio dichiarato dall'imputato; evidenziano che il comma 8 bis dell'art. 157 cod. proc. pen. è stato introdotto dalla legge 22.4.2005, n. 60, che ha convertito con modificazioni il D.L. 21.2.2005, n. 17, all'enunciato fine di garantire la ragionevole durata del processo in ottemperanza all'art. 111 Cost. e, quindi, di accelerare i tempi di notifica degli atti; sottolineano che presupposto di operatività della norma è esclusivamente la previa rituale effettuazione di una prima notifica all'imputato "a piede libero", riferendosi a tale prima notifica l'incipit dell'art. 157 cod. proc. pen. "salvo quanto previsto dagli artt. 161 e 162 cod. proc. pen.", in considerazione proprio della ratio della nuova disposizione, volta a consentire un tendenziale e generalizzato risparmio di tempi attraverso l'automatica notificazione degli atti ulteriori al difensore di fiducia (che diviene domiciliatario per legge del proprio assistito); sostengono che l'indagato/imputato può, in qualsiasi momento, escludere la domiciliazione ex lege con dichiarazione o diversa elezione di domicilio esplicitamente ed espressamente formulata in tal senso; che il difensore di fiducia non soltanto ha la possibilità di proporre deduzioni per la valutazione, da parte del giudice ex art. 420 bis cod. proc. pen., del rilievo probabilistico del buon esito della citazione dell'imputato, ma può anche interrompere l'automatismo delineato dal comma 8 bis in esame, dal momento che la stessa norma prevede che egli "può dichiarare immediatamente all'autorità che procede di non accettare la notificazione".
Le opposte soluzioni ermeneutiche risentono della non univoca soluzione normativa data ai rilievi mossi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo al sistema previgente dei processi in contumacia, mediante la legge 22 aprile 2005, n. 60 di conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n.17, nel cui corpo è inserita la normativa in esame.
Due sono i principi ai quali la disciplina in parola ha inteso ispirarsi: 1) il diritto dell'imputato alla conoscenza dell'accusa; 2) la garanzia della ragionevole durata del processo.
Il secondo dei filoni giurisprudenziali sopra esposti mostra di privilegiare la celerità del processo e si inserisce tendenzialmente nelle linee maggiormente evolutive del rapporto imputato-difensore, privilegiando la figura del difensore di fiducia, nella quale individua l'elemento portante ed innovativo della legge n. 60 del 2005, ed assegnando alla notifica all'imputato, mediante consegna al difensore di fiducia, un ruolo del tutto fisiologico, quale forma ordinaria di notificazione.
L'auspicabile semplificazione del sistema delle notificazioni, non completato con chiarezza dal legislatore, non può, tuttavia, essere effettuato in via meramente ermeneutica. Le stesse sentenze fautrici di questo orientamento sono portate ad assegnare alla parte adempimenti non espressamente previsti, ma ricavabili solo forzatamente dal sistema (l'indagato/imputato può, in qualsiasi momento, escludere la domiciliazione ex lege con dichiarazione o diversa elezione di domicilio esplicitamente ed espressamente formulata in tal senso; il difensore di fiducia ha la possibilità di proporre deduzioni per la valutazione, da parte del giudice ex art. 420 bis cod. proc. pen., del rilievo probabilistico del buon esito della citazione dell'imputato). Questa soluzione, per altro, comporterebbe un forte ridimensionamento di taluni punti della vigente regolamentazione dell'elezione di domicilio (artt. 161 e 162 cod. proc. pen.), nel senso che la dichiarazione o l'elezione di domicilio ivi previste riguarderebbero esclusivamente l'imputato difeso d'ufficio, in quanto per l'imputato difeso di fiducia non sarebbe possibile alcuna dichiarazione di domicilio, né un'elezione diversa da quella presso il suo difensore.
La lettura sistematica, allo stato consentita dal complesso delle norme coinvolte - senza che per altro si possa fare carico alla sede ermeneutica della maggiore o minore incisività del raggio di azione della norma positiva -, deve condurre verso l'opzione prescelta dal primo orientamento, con le precisazioni applicative nei sensi di seguito esplicate.
Gli artt. 157 e 161 e seguenti cod. proc. pen. descrivono, per quanto attiene alle notificazioni all'imputato non detenuto, un percorso duplice, rafforzato dall'inizio testuale del primo di detti articoli ("salvo quanto previsto dagli artt. 161 e 162").
In buona sostanza il legislatore ha inteso assicurare la piena conoscenza dell'accusa da parte dell'imputato rappresentandosi due situazioni: la prima si verifica quando manca un previo contatto con le autorità indicate dall'art. 161 cod. proc. pen. ed in tal caso occorre una prima notificazione direttamente all'interessato in una delle forme previste dall'art. 157; la seconda si verifica quando l'imputato può essere avvertito dal giudice, dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria ed il tal caso emergerà, in genere, una dichiarazione o elezione di domicilio e si seguiranno le forme indicate dall'art. 161 e seguenti del codice di rito. In questa visione la disposizione contenuta nel comma 8 bis dell'art. 157 non può non essere letta nell'ambito dell'articolo che la contiene.
Il sistema appare, dunque, articolato secondo due tipologie di notificazioni.
Quando si deve effettuare la prima notificazione all'imputato, che non abbia eletto o dichiarato domicilio, si deve procedere in uno dei modi consecutivi previsti dai primi otto commi dell'art. 157.
Una volta effettuata regolarmente la prima notificazione, se l'imputato provvede a nominare il difensore di fiducia, tutte le successive notificazioni si effettuano mediante consegna al difensore; questi può "immediatamente", quindi antecedentemente alla prima notificazione presso di lui, dichiarare all'autorità che procede di non accettare la notificazione, altrimenti il processo nei suoi vari gradi seguirà con la notificazione al difensore di fiducia.
In caso di mancata nomina del difensore di fiducia, si procederà a norma dei commi 2 e 4 dell'art. 161 cod. proc. pen..
Se, invece, vi sono state elezione o dichiarazione di domicilio, si seguiranno direttamente le forme dettate dall'art. 161 e seguenti cod. proc. pen..
Va sottolineato che, in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la conoscenza dell'accusa, preordinata allo svolgimento di un'efficace attività difensiva, deve realizzarsi attraverso una "notificazione ufficiale proveniente dall'autorità competente" (Brozicek c. Italia, 19 dicembre 1989); ma non si richiede necessariamente una forma particolare. La stessa Corte delinea un'attività collaborativa da parte dell'imputato, una volta regolarmente avvisato (Kimmel c. Italia, 2 settembre 2004; Booker c. Italia, 14 settembre 2006; Zaratin c. Italia, 23 novembre 2006). Il disinteresse dell'imputato informato equivale ad una rinuncia a presenziare alle udienze con la conseguenza che non è configurabile nessuna violazione della Convenzione.
Ancora, in tema di semplificazione dell'iter del processo attraverso un sistema di notificazioni non incerto, vanno ribaditi i seguenti principi giurisprudenziali: a) l'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. "riguarda l'intero processo e non già ogni grado di giudizio, sicché non occorre individuare per ciascuna fase processuale una prima notificazione rispetto alla quale possa, poi, trovare attuazione la nuova disciplina" (in tal senso la Terza Sezione nell'ordinanza di rimessione, nonché Cass. Sez. V, 25.05.- 21.11.2006, n. 38136, ric. Bertone e altro, rv 235976 e Sez. IV, 11.10 - 21.11.2005, n. 41649, Mandrini, rv 232409); b) la nullità assoluta e insanabile prevista dall'art. 179 cod. pro. pen. ricorre soltanto nei caso in cui la notificazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell'atto da parte dell'imputato, mente essa non ricorre nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue l'applicabilità della sanatoria di cui all'art. 184 cod. proc. pen.. Per altro, l'imputato che intenda eccepire la nullità assoluta della citazione o della sua notificazione, non risultante dagli atti, non può limitarsi a denunciare l'inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare al giudice di non avere avuto cognizione dell'atto e indicare gli specifici elementi che consentano l'esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice stesso (Cass. Sez. U. sent. 00119 del 2005, Palumbo).
Si possono ora trarre le debite conclusioni sulla questione giuridica controversa.
Al quesito : "Se la notificazione presso il difensore di fiducia, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., possa essere effettuata anche nel caso in cui l'imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni", deve essere data risposta negativa.
Consegue come lineare corollario che: 1) l'operatività dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen. è subordinata all'assenza di una dichiarazione o elezione di domicilio. Tutte le successive notificazioni, qualora l'imputato abbia nominato un difensore di fiducia e non abbia dichiarato o eletto domicilio, devono essere eseguite mediante consegna al difensore, ferma restando l'assenza di una preclusione all'esercizio della facoltà dell'imputato stesso di dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni anche dopo la nomina di un difensore di fiducia, esercizio che ha l'effetto di paralizzare la regola contenuta nel citato comma 8 bis; 2) detta regola, inoltre, riguarda l'intero processo, sicché non occorre individuare per ciascuna fase processuale una prima notificazione rispetto alla quale possa, poi, trovare attuazione la nuova disciplina; 3) l'eventuale nullità derivante dalla notificazione effettuata ai sensi dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., per casi diversi da quelli previsti non configura una nullità assoluta ed insanabile per omessa vocatio in jus, bensì una nullità di ordine generale e a regime intermedio per inosservanza delle norme sulla notificazione, che deve ritenersi sanata quando risulti provato che l’errore non abbia impedito all'imputato di conoscere l'esistenza dell'atto e di esercitare il diritto di difesa; essa rimane comunque senza effetto se non è dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all'art. 184 comma primo, alle sanatorie generali di cui all'art. 183 e alle regole di deducibilità di cui all'art. 182 cod. proc. pan., oltre che ai termini di rilevabilità di cui all'art. 180 stesso codice.
Prendendo in esame la specifica situazione oggetto del primo motivo di ricorso, secondo le emergenze del processo, è agevole rilevare che il 2 dicembre 2003 la M., come risulta dal verbale redatto dalla polizia giudiziaria, dichiarava domicilio presso la sua abitazione in Rossano contrada Lampa Patire n. 29, ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen., e nominava difensore di fiducia l'avv. Leonardo Trento del foro di Rossano; riceveva a mani proprie, nel domicilio dichiarato, tutti gli atti del procedimento di primo grado (l'avviso di conclusione delle indagini preliminari e il decreto di citazione diretta a giudizio); il 2 novembre 2005 il Tribunale pronunciava sentenza di condanna, avverso la quale l'imputata proponeva appello personalmente con atto sottoscritto anche dal difensore di fiducia.
Il decreto di citazione per il giudizio di appello veniva notificato, ex art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., mediante consegna al difensore di fiducia, avv. Leonardo Trento; l'imputata non compariva all'udienza fissata e la Corte ne dichiarava la contumacia; l'estratto contumaciale della sentenza di secondo grado le veniva notificato il 19 gennaio 2007, di nuovo ai sensi dell'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., presso il difensore di fiducia, avv. Leonardo Trento, il quale non si era avvalso della facoltà di non accettare gli atti notificatigli; il 28 febbraio 2007 l'imputata proponeva personalmente ricorso per cassazione, con atto sottoscritto anche dal nuovo difensore Serafino Trento, nominato in calce al ricorso con contestuale revoca dell'avv. Leonardo Trento (v'è da notare che, a parte l'omonimia patronimica, entrambi i suddetti avvocati fanno parte non solo del medesimo Foro di Rossano, ma anche del medesimo studio - v. il timbro dello studio legale in cui figurano entrambi - e l'avv. Serafino Trento aveva anche sostituito l'avv. Leonardo Trento all'udienza del 15 dicembre 2004 nel corso del giudizio di primo grado).
Come si vede, la ricorrente non solo non deduce la mancata o comunque menomata conoscenza conseguente all'adozione del modello di notificazione previsto dall'art. 157, comma 8 bis, cod. proc. pen., ma dimostra di essere sempre stata a piena conoscenza di tutti gli sviluppi del processo, avendo anche proposto personalmente le impugnazioni, sia in grado di appello che in sede di legittimità; né il difensore, presso cui sono state effettuate le notificazioni, ha eccepito alcunché nel giudizio di appello: ne consegue che la notificazione, certamente non inesistente, ma viziata, in quanto diversa dal modello di notificazione prescritto, non ha provocato nessuna lesione del diritto alla conoscenza e all'intervento dell'imputata e, per altro, la relativa eccezione è comunque tardiva, poiché ben poteva e doveva essere dedotta nel giudizio di appello.
Il primo motivo di ricorso deve essere, quindi, disatteso.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi in relazione al secondo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente deduce l'erronea affermazione della sua colpevolezza in ordine ai reati ascrittile, in violazione del principio della responsabilità penale personale, assumendo di essere estranea ai fatti, al più attribuibili al marito, proprietario del terreno su cui insiste il manufatto e committente dell'opera abusivamente realizzata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, in tema di reati edilizi, la responsabilità relativa al manufatto sul quale l'abuso è stato effettuato può dedursi da indizi precisi e concordanti, quali la qualità di coniuge del committente, il regime patrimoniale dei coniugi, lo svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, la richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, la presenza in loco all'atto dell'accertamento. Pertanto, una volta ritenuto in fatto il diretto interesse ai lavori e la qualità della M. di committente dell'opera abusiva, secondo un accertamento corretto ed insindacabile in sede di legittimità, la Corte territoriale ha conseguentemente ritenuto la colpevolezza dell'imputata, pervenendo a conclusioni esenti da vizi logico-giuridici (v., ex plurimis, Cass. Sez. 3, sent. n. 32856 del 2005 rv 232200, Farzone; n. 26121 del 2005, Rosato, rv 231954).
Neppure si è verificata l'invocata prescrizione dei residui reati per i quali la Corte catanzarese ha affermato la responsabilità penale della M..
I fatti sono stati contestati come ancora in corso il 20.11.2003; il periodo prescrizionale massimo, secondo la normativa applicabile alla specie, matura in quattro anni e sei mesi; a questo arco di tempo va, poi, aggiunto il periodo di sospensione di un mese a causa del rinvio dell'udienza in sede di appello dal 13.11 al 13.12.2006, dietro richiesta del difensore dell'imputata: l'evento estintivo dei reati si verificherebbe, quindi, soltanto il 20.6.2008. Si aggiunga che la sentenza di appello ha fissato, senza rilievi di parte, al 2.12.2003 (e non al 20.11) la fine dei lavori.
Quanto al trattamento sanzionatorio, infine, la Corte territoriale, nel confermare i criteri adottati dal primo giudice, ha provveduto ad eliminare la pena inflitta per la contravvenzione dichiarata prescritta ed ha ridotto l'aumento per la continuazione, ritenuto eccessivo, pervenendo così ad una pena del tutto adeguata ai profili oggettivi e soggettivi dei reati commessi, secondo i criteri fissati dall'art. 133 c.p..
Consegue alle suesposte considerazioni il rigetto del ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

mercoledì 28 maggio 2008

La nuova nozione di Piccolo imprenditore ai fini del fallimento


22.05.2008
Nuova nozione di piccolo imprenditore e sua perseguibilità per pregressi fatti di bancarotta

Le Sezioni Unite affrontano il tema della successione di norme nel tempo in relazione ai fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 169 del 2007 che ha modificato i requisiti per l'assoggettabilità a fallimento.

Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 15/05/2008, n. 19601 - N.L.

La quinta sezione penale della Corte, con ordinanza del 27 novembre 2007, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale interno alla stessa sezione sulla questione della ricaduta in campo penale della riforma attuata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5 nei confronti del piccolo imprenditore, e la conseguente sottoponibilità o meno di questi alla punibilità per i reati di bancarotta integrati prima della modifica.
Infatti da un lato era stata esclusa la punibilità per il soggetto oggi qualificato piccolo imprenditore, ai sensi delle disposizioni vigenti, per i reati di bancarotta integrati a seguito della dichiarazione di fallimento, mentre in altra occasione era stata ritenuta la non applicabilità, in senso favorevole all’imputato, delle disposizioni che regolano la successione di norme nel tempo, anche per la presenza della disposizione transitoria di cui all’art. 150 del citato decreto n. 5.
Poiché come è facilmente rilevabile facilmente la questione si pone nel solco del complesso tema della successione di norme nel tempo, nei suoi vari aspetti, oggetto anche di recente dell’ennesimo intervento delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un 16 gennaio 2008, Magera, in tema di disciplina dell’immigrazione, della quale si è già dato conto), la soluzione del contrasto era stata così affidata alle Sezioni Unite penali della Corte, che lo hanno risolto nel senso di cui in prosieguo.
E’ noto come con il d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5 sia stata operata la "Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80, emanato sulla base della legge-delega 14 maggio 2005, n.80.
L'art. 1, comma 6, lett. a), n. 1, della legge-delega, aveva stabilito, con riguardo alla "disciplina del fallimento", il principio direttivo, di contenuto indubitabilmente molto ampio, cosi formulato: "semplificare la disciplina attraverso 1'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita dell'istituto.
Successivamente al citato decreto legislativo n. 5 è stato poi emanato, sulla base della stessa legge-delega, come modificata, con 1'inserimento nell'art. 1, del comma 5-bis, ad opera dell'art. 1 comma 3 della legge 12 luglio 2006, n. 228, il d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, contenente "Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonche al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa”
L’originario quesito proposto all’attenzione delle Sezioni Unite è stato pertanto integrato nei seguenti termini: "se i fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5, e del successivo d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, che hanno modificato i requisiti perche 1'imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano a essere previsti come reato, anche se in base alla nuova normativa 1'imprenditore non potrebbe pia essere dichiarato fallito".
Le Sezioni Unite, che in più occasioni si sono occupate del delicato tema della successione di norme nel tempo, hanno ricordato come per stabilire se si verta in tema di abolitio criminis, rilevante ex art. 2 comma secondo c.p., occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per se rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi. Passando al caso concreto il collegio ha rilevato che nella struttura delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e seguenti della legge fallimentare il presupposto formale affinché le condotte poste in essere possano essere prese in considerazione, ai fini della responsabilita penale, non richiama le condizioni di fatto richieste per il fallimento (o 1'ammissione alle altre procedure concorsuali), consistendo invece nella esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento.
In tal modo nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale, e non per i fatti con essa accertati, e poiché in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale, ne discende come logica conseguenza, come affermato dalle Sezioni Unite, che il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti della legge fallimentare non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall'art. 1 l. fall. per la fallibilità dell'imprenditore, sicché le modifiche apportate all'art. 1 l. fall., ad opera del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell'art 2 c.p. sui procedimenti penali in corso.

Alfredo Montagna, sost. proc. gen. Corte di CassazioneTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

La nuova nozione di Piccolo imprenditore ai fini del fallimento


22.05.2008
Nuova nozione di piccolo imprenditore e sua perseguibilità per pregressi fatti di bancarotta

Le Sezioni Unite affrontano il tema della successione di norme nel tempo in relazione ai fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 169 del 2007 che ha modificato i requisiti per l'assoggettabilità a fallimento.

Cassazione penale Sentenza, Sez. SS.UU., 15/05/2008, n. 19601 - N.L.

La quinta sezione penale della Corte, con ordinanza del 27 novembre 2007, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale interno alla stessa sezione sulla questione della ricaduta in campo penale della riforma attuata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5 nei confronti del piccolo imprenditore, e la conseguente sottoponibilità o meno di questi alla punibilità per i reati di bancarotta integrati prima della modifica.
Infatti da un lato era stata esclusa la punibilità per il soggetto oggi qualificato piccolo imprenditore, ai sensi delle disposizioni vigenti, per i reati di bancarotta integrati a seguito della dichiarazione di fallimento, mentre in altra occasione era stata ritenuta la non applicabilità, in senso favorevole all’imputato, delle disposizioni che regolano la successione di norme nel tempo, anche per la presenza della disposizione transitoria di cui all’art. 150 del citato decreto n. 5.
Poiché come è facilmente rilevabile facilmente la questione si pone nel solco del complesso tema della successione di norme nel tempo, nei suoi vari aspetti, oggetto anche di recente dell’ennesimo intervento delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un 16 gennaio 2008, Magera, in tema di disciplina dell’immigrazione, della quale si è già dato conto), la soluzione del contrasto era stata così affidata alle Sezioni Unite penali della Corte, che lo hanno risolto nel senso di cui in prosieguo.
E’ noto come con il d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5 sia stata operata la "Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80, emanato sulla base della legge-delega 14 maggio 2005, n.80.
L'art. 1, comma 6, lett. a), n. 1, della legge-delega, aveva stabilito, con riguardo alla "disciplina del fallimento", il principio direttivo, di contenuto indubitabilmente molto ampio, cosi formulato: "semplificare la disciplina attraverso 1'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita dell'istituto.
Successivamente al citato decreto legislativo n. 5 è stato poi emanato, sulla base della stessa legge-delega, come modificata, con 1'inserimento nell'art. 1, del comma 5-bis, ad opera dell'art. 1 comma 3 della legge 12 luglio 2006, n. 228, il d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, contenente "Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonche al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa”
L’originario quesito proposto all’attenzione delle Sezioni Unite è stato pertanto integrato nei seguenti termini: "se i fatti di bancarotta commessi prima dell'entrata in vigore del d. 1gs. 9 gennaio 2006, n. 5, e del successivo d. 1gs. 12 settembre 2007, n. 169, che hanno modificato i requisiti perche 1'imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano a essere previsti come reato, anche se in base alla nuova normativa 1'imprenditore non potrebbe pia essere dichiarato fallito".
Le Sezioni Unite, che in più occasioni si sono occupate del delicato tema della successione di norme nel tempo, hanno ricordato come per stabilire se si verta in tema di abolitio criminis, rilevante ex art. 2 comma secondo c.p., occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per se rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi. Passando al caso concreto il collegio ha rilevato che nella struttura delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e seguenti della legge fallimentare il presupposto formale affinché le condotte poste in essere possano essere prese in considerazione, ai fini della responsabilita penale, non richiama le condizioni di fatto richieste per il fallimento (o 1'ammissione alle altre procedure concorsuali), consistendo invece nella esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento.
In tal modo nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale, e non per i fatti con essa accertati, e poiché in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale, ne discende come logica conseguenza, come affermato dalle Sezioni Unite, che il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti della legge fallimentare non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall'art. 1 l. fall. per la fallibilità dell'imprenditore, sicché le modifiche apportate all'art. 1 l. fall., ad opera del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell'art 2 c.p. sui procedimenti penali in corso.

Alfredo Montagna, sost. proc. gen. Corte di CassazioneTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

mercoledì 21 maggio 2008

Dalla Corte d Giustizia delle Comunità Europee

15.05.2008

Indennizzo per l'uso del bene prima della sua sostituzione, il no della Corte di Giustizia

Può il venditore di bene di consumo non conforme pretendere dal consumatore un indennizzo per l'uso del bene prima della sua sostituzione con un bene nuovo? Negativa la risposta della Corte di giustizia.

Corte di Giustizia Sentenza 17/04/2008, n. Causa C 404/06

Il caso prospettato dalla Cassazione tedesca alla Corte di giustizia prende le mosse dal contratto di vendita di un set forno che non mostrava nel primo periodo di sua utilizzazione alcuna anomalia.
Accortosi però che il bene presentava un difetto di conformità il consumatore segnalava l’inconveniente al venditore che provvedeva alla sostituzione del forno pretendendo, tuttavia, il pagamento di un indennizzo per l’uso del bene non conforme del quale aveva goduto l’acquirente alla stregua della normativa interna tedesca -artt. 439, n. 4, e 346, nn. 1 e 2, punto l, del BGB - che autorizza il venditore, in caso di sostituzione di un bene non conforme, ad ottenere un’indennità a titolo di compensazione dei vantaggi che l’acquirente ha ritratto dall’uso di tale bene fino alla sua sostituzione con un nuovo bene.
Nel giudizio proposto innanzi al giudice tedesco l’acquirente aveva chiesto la restituzione dell’indennizzo e la Cassazione si è rivolta alla Corte di Lussemburgo per sapere se la possibilità, riconosciuta dall’ordinamento tedesco, di pretendere un’indennità in caso di sostituzione del bene fosse o meno compatibile con il diritto comunitario, ritenendo che nessuna interpretazione conforme della normativa interna al diritto comunitario era possibile.
Vale la pena di rammentare che secondo l’art.3 dir.99/44/CEE «Il venditore risponde al consumatore di qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene. In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma del paragrafo 3, o ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto relativo a tale bene, conformemente ai paragrafi 5 e 6. In primo luogo il consumatore può chiedere al venditore di riparare il bene o di sostituirlo, senza spese in entrambi i casi, salvo che ciò sia impossibile o sproporzionato.Un rimedio è da considerare sproporzionato se impone al venditore spese irragionevoli in confronto all’altro rimedio (...).Le riparazioni o le sostituzioni devono essere effettuate entro un lasso di tempo ragionevole e senza notevoli inconvenienti per il consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha voluto il bene. L’espressione “senza spese” nei paragrafi 2 e 3 si riferisce ai costi necessari per rendere conformi i beni, in particolar modo con riferimento alle spese di spedizione e per la mano d’opera e i materiali. Il consumatore può chiedere una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto:– se il consumatore non ha diritto né alla [riparazione] né alla sostituzione o–se il venditore non ha esperito il rimedio entro un periodo ragionevole ovverse il venditore non ha esperito il rimedio senza notevoli inconvenienti per il consumatore(.)».Inoltre, va menzionato il quindicesimo ‘considerando’ della direttiva, «gli Stati membri possono prevedere che il rimborso al consumatore può essere ridotto, in considerazione dell’uso che quest’ultimo ha fatto del bene dal momento della consegna; (...) [le modalità di] risoluzione del contratto [possono] essere stabilit[e] dalla legislazione nazionale».
Orbene, il giudice comunitario ha così stabilito che l’art. 3 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 25 maggio 1999, 1999/44/CE deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale la quale consenta al venditore, nel caso in cui abbia venduto un bene di consumo presentante un difetto di conformità, di esigere dal consumatore un’indennità per l’uso di tale bene non conforme fino alla sua sostituzione con un bene nuovo.
Nessuna disposizione della direttiva sulla vendita di beni di consumo abilita infatti a ritenere che la sostituzione del bene non conforme possa essere agganciata al pagamento di un indennizzo da parte dell’acquirente per l’utilizzazione del bene non conforme, essa dipendendo in via esclusiva da un inadempimento del venditore, i cui effetti non possono ripercuotersi negativamente sull’acquirente. Ciò perché il legislatore comunitario ha inteso fare della gratuità del ripristino della conformità del bene da parte del venditore un elemento essenziale della tutela garantita al consumatore da tale direttiva. Tale obbligo mira a tutelare il consumatore dal rischio di oneri finanziari che potrebbe dissuadere il consumatore stesso dal far valere i propri diritti in caso di assenza di una tutela di questo tipo. Tale garanzia di gratuità voluta dal legislatore comunitario porta ad escludere la possibilità di qualsiasi rivendicazione economica da parte del venditore nell’ambito dell’esecuzione dell’obbligo a lui incombente di ripristino della conformità del bene oggetto del contratto.
L’unica possibilità in cui la direttiva consente al venditore di pretendere il pagamento di un indennizzo è quella che ricorre in caso di risoluzione del contratto, caso nel quale, in applicazione del principio della mutua restituzione dei vantaggi ricevuti, il venditore deve rimborsare al consumatore il prezzo di vendita del bene.

Roberto Conti, Magistrato in PalermoTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

Dalla Corte d Giustizia delle Comunità Europee

15.05.2008

Indennizzo per l'uso del bene prima della sua sostituzione, il no della Corte di Giustizia

Può il venditore di bene di consumo non conforme pretendere dal consumatore un indennizzo per l'uso del bene prima della sua sostituzione con un bene nuovo? Negativa la risposta della Corte di giustizia.

Corte di Giustizia Sentenza 17/04/2008, n. Causa C 404/06

Il caso prospettato dalla Cassazione tedesca alla Corte di giustizia prende le mosse dal contratto di vendita di un set forno che non mostrava nel primo periodo di sua utilizzazione alcuna anomalia.
Accortosi però che il bene presentava un difetto di conformità il consumatore segnalava l’inconveniente al venditore che provvedeva alla sostituzione del forno pretendendo, tuttavia, il pagamento di un indennizzo per l’uso del bene non conforme del quale aveva goduto l’acquirente alla stregua della normativa interna tedesca -artt. 439, n. 4, e 346, nn. 1 e 2, punto l, del BGB - che autorizza il venditore, in caso di sostituzione di un bene non conforme, ad ottenere un’indennità a titolo di compensazione dei vantaggi che l’acquirente ha ritratto dall’uso di tale bene fino alla sua sostituzione con un nuovo bene.
Nel giudizio proposto innanzi al giudice tedesco l’acquirente aveva chiesto la restituzione dell’indennizzo e la Cassazione si è rivolta alla Corte di Lussemburgo per sapere se la possibilità, riconosciuta dall’ordinamento tedesco, di pretendere un’indennità in caso di sostituzione del bene fosse o meno compatibile con il diritto comunitario, ritenendo che nessuna interpretazione conforme della normativa interna al diritto comunitario era possibile.
Vale la pena di rammentare che secondo l’art.3 dir.99/44/CEE «Il venditore risponde al consumatore di qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene. In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma del paragrafo 3, o ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto relativo a tale bene, conformemente ai paragrafi 5 e 6. In primo luogo il consumatore può chiedere al venditore di riparare il bene o di sostituirlo, senza spese in entrambi i casi, salvo che ciò sia impossibile o sproporzionato.Un rimedio è da considerare sproporzionato se impone al venditore spese irragionevoli in confronto all’altro rimedio (...).Le riparazioni o le sostituzioni devono essere effettuate entro un lasso di tempo ragionevole e senza notevoli inconvenienti per il consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha voluto il bene. L’espressione “senza spese” nei paragrafi 2 e 3 si riferisce ai costi necessari per rendere conformi i beni, in particolar modo con riferimento alle spese di spedizione e per la mano d’opera e i materiali. Il consumatore può chiedere una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto:– se il consumatore non ha diritto né alla [riparazione] né alla sostituzione o–se il venditore non ha esperito il rimedio entro un periodo ragionevole ovverse il venditore non ha esperito il rimedio senza notevoli inconvenienti per il consumatore(.)».Inoltre, va menzionato il quindicesimo ‘considerando’ della direttiva, «gli Stati membri possono prevedere che il rimborso al consumatore può essere ridotto, in considerazione dell’uso che quest’ultimo ha fatto del bene dal momento della consegna; (...) [le modalità di] risoluzione del contratto [possono] essere stabilit[e] dalla legislazione nazionale».
Orbene, il giudice comunitario ha così stabilito che l’art. 3 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 25 maggio 1999, 1999/44/CE deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale la quale consenta al venditore, nel caso in cui abbia venduto un bene di consumo presentante un difetto di conformità, di esigere dal consumatore un’indennità per l’uso di tale bene non conforme fino alla sua sostituzione con un bene nuovo.
Nessuna disposizione della direttiva sulla vendita di beni di consumo abilita infatti a ritenere che la sostituzione del bene non conforme possa essere agganciata al pagamento di un indennizzo da parte dell’acquirente per l’utilizzazione del bene non conforme, essa dipendendo in via esclusiva da un inadempimento del venditore, i cui effetti non possono ripercuotersi negativamente sull’acquirente. Ciò perché il legislatore comunitario ha inteso fare della gratuità del ripristino della conformità del bene da parte del venditore un elemento essenziale della tutela garantita al consumatore da tale direttiva. Tale obbligo mira a tutelare il consumatore dal rischio di oneri finanziari che potrebbe dissuadere il consumatore stesso dal far valere i propri diritti in caso di assenza di una tutela di questo tipo. Tale garanzia di gratuità voluta dal legislatore comunitario porta ad escludere la possibilità di qualsiasi rivendicazione economica da parte del venditore nell’ambito dell’esecuzione dell’obbligo a lui incombente di ripristino della conformità del bene oggetto del contratto.
L’unica possibilità in cui la direttiva consente al venditore di pretendere il pagamento di un indennizzo è quella che ricorre in caso di risoluzione del contratto, caso nel quale, in applicazione del principio della mutua restituzione dei vantaggi ricevuti, il venditore deve rimborsare al consumatore il prezzo di vendita del bene.

Roberto Conti, Magistrato in PalermoTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

lunedì 19 maggio 2008

Diritto delle Locazioni

Sfratto, sospensione dell'esecuzione, anziano ultrasessantacinquenne
Cassazione civile , sez. III, sentenza 07.04.2008 n° 8961

Sfratto - sospensione dell'esecuzione - anziano ultrasessantacinquenne - reddito disponibile - locazione altro immobile - equipollenza - necessità - insussistenza

Non è legittima la sospensione dell'esecuzione di sfratto in danno di un anziano ultrasessantacinquenne, se costui dispone di un reddito sufficiente ad accedere alla locazione di altro alloggio, anche se con caratteristiche non equipollenti a quello attualmente in locazione.
(Fonte: Altalex Massimario 17/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 26 febbraio – 7 aprile 2008, n. 8961
(Presidente Varrone – Relatore Federico)

Svolgimento del processo

Con ricorso 13.1.03 F. M. R. chiedeva al Tribunale di Salerno in funzione di G.E. che, ai sensi dell'art. 1 d.l. 122/02, fosse dichiarato che a M. N. non spettava la sospensione dell'esecuzione dello sfratto, relativamente all'immobile in Salerno, via *****, prevista dalla norma suddetta, in riferimento all'art. 80 commi 20-22 della L. 388/90.Con ordinanza 18.1.03 il G.E. disponeva che l'esecuzione proseguisse.Con successivo ricorso del 28.1.03 la N. si opponeva ex art. 1 comma 2 ultimo periodo d.l. 122/02 conv. in L. 185/02 al suddetto provvedimento, e l'adito Tribunale, con sentenza depositata il 23.9.03, accoglieva l'opposizione, disponendo la sospensione dell'esecuzione dello sfratto sino al 30.6.03.Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione ex art. 111 cost. la F., affidandosi ad un unico motivo, mentre nessuna attività difensiva è stata svolta dall'intimata.

Motivi della decisione

Con l'unico motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 80 commi 20, 21 e 22 L. 388/00, in combinato disposto con l'art. 1 commi 1 e 2 del D.L. 122/02 conv. in L. 185/02 ed in relazione all'art. 12 delle preleggi, avendo il Tribunale erroneamente ritenuto che per "altra abitazione" di cui parlano le norme suddette debba intendersi una diversa abitazione che sia equipollente con quella oggetto di sfratto.Il ricorso è fondato.Ha ritenuto, infatti, la sentenza gravata che per la sospensione delle procedure esecutive di rilascio per finita locazione, già disposta per gli immobili adibiti ad uso abitativo dall'art. 1 comma 1 D.l. n. 450/01, conv. in L. n. 14/02, e prorogata sino alla data del 30.6.03 dall'art. 1 comma 1 D.l. n. 122/02, occorresse che almeno uno dei requisiti previsti dalla prima parte della norma di cui all'art. 80 comma 20 L. n. 388/00 (esecutato o suo familiare ultrasessantacinquenne o gravemente handicappato) concorresse con almeno uno della seconda parte della norma stessa (mancanza di reddito idoneo a garantire una valida alternativa abitativa, ovvero indisponibilità di altra abitazione), ed ha sottolineato inoltre come la norma suddetta di legge so limitasse a postulare la possibilità sic et simpliciter di un'alternativa abitativa, tanto da legittimare la tesi dell'equipollenza dell'alternativa alla soluzione esistente, onde offrire una tutela sempre più effettiva a persone di età già molto avanzata.E' stato così escluso che la N., sessantacinquenne, fosse titolare di un reddito tale da consentirle il fitto di un alloggio con caratteristiche analoghe a quelle dell'immobile oggetto dell'esecuzione, e che comunque, in rapporto alle finalità in materia della legge, si potesse imporre all'esecutata un particolare onere - date le sue modeste capacità reddituali - di adattarsi anche a soluzioni abitative più disagiate di quella allo stato esistente.L'assunto in questione viola manifestamente il tenore letterale delle norme richiamate dal ricorrente nell'intitolazione del motivo di ricorso.Ed invero, ove si tenga presente il chiaro disposto della norma del citato comma 20 dell'art. 80 della legge n. 388/00, così come riportato testualmente nella sentenza impugnata, si rileva che nessun elemento consente ragionevolmente una sua interpretazione nel senso voluto dal Tribunale, e cioè che all'esecutata non possa imporsi alcuna soluzione alternativa abitativa che non sia equipollente (per le dimensioni più ridotte dell'alloggio e la sua localizzazione in zona della città più periferica).Se è vero, infatti, che dalla lettera della legge non risultano imposti siffatti sacrifici, è però altrettanto vero che dalla medesima non si evince neppure l'opposta soluzione, fondata sulla tesi dell'equipollenza dell'alternativa alla soluzione esistente.La norma si limita a prescrivere che, ai fini della sospensione dell'esecuzione, oltre alla presenza nell'immobile di persone, almeno sessantacinquenni o gravemente handicappate, appartenenti al nucleo familiare, occorra altresì o la mancata disponibilità di altra abitazione o quella di redditi sufficienti ad accedere all'affitto di una nuova casa, per cui la valutazione del reddito a disposizione dell'inquilino (nella specie, Euro 995,00 mensili) deve essere effettuata non in relazione alla possibilità di affitto di un alloggio equipollente (nel senso sopra indicato) a quello oggetto dell'esecuzione, ma in relazione a quella del reperimento in ogni caso di un alloggio a condizioni anche più disagiate di quelle già esistenti, quanto ad estensione di esso e ad ubicazione nel perimetro cittadino, purché pur sempre in astratto idoneo alle esigenze abitative dell'esecutata ed alle sue condizioni personali.Deve, dunque, affermarsi il principio che nel caso in esame, ai fini della sospensione dell'esecuzione in danno della N. sino alla data del 30.6.03, non debba aversi riguardo alla disponibilità, da parte dell'esecutata, di un reddito sufficiente ad accedere alla locazione di un alloggio aventi caratteristiche analoghe a quelle dell'immobile oggetto di esecuzione:, bastando che esso consenta comunque il fitto di un alloggio, anche a condizioni più disagiate (quanto all'ampiezza, alla, ubicazione meno favorevole in città ed alla stessa tipologia dell'immobile), purché adeguato alla situazione personale ed alle conseguenti esigenze abitative dell'interessata.La sentenza impugnata va, quindi, cassata, con rinvio al Tribunale di Salerno in diversa composizione, che dovrà attenersi al principio di diritto come sopra affermato e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Salerno in diversa composizione.

Diritto delle Locazioni

Sfratto, sospensione dell'esecuzione, anziano ultrasessantacinquenne
Cassazione civile , sez. III, sentenza 07.04.2008 n° 8961

Sfratto - sospensione dell'esecuzione - anziano ultrasessantacinquenne - reddito disponibile - locazione altro immobile - equipollenza - necessità - insussistenza

Non è legittima la sospensione dell'esecuzione di sfratto in danno di un anziano ultrasessantacinquenne, se costui dispone di un reddito sufficiente ad accedere alla locazione di altro alloggio, anche se con caratteristiche non equipollenti a quello attualmente in locazione.
(Fonte: Altalex Massimario 17/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 26 febbraio – 7 aprile 2008, n. 8961
(Presidente Varrone – Relatore Federico)

Svolgimento del processo

Con ricorso 13.1.03 F. M. R. chiedeva al Tribunale di Salerno in funzione di G.E. che, ai sensi dell'art. 1 d.l. 122/02, fosse dichiarato che a M. N. non spettava la sospensione dell'esecuzione dello sfratto, relativamente all'immobile in Salerno, via *****, prevista dalla norma suddetta, in riferimento all'art. 80 commi 20-22 della L. 388/90.Con ordinanza 18.1.03 il G.E. disponeva che l'esecuzione proseguisse.Con successivo ricorso del 28.1.03 la N. si opponeva ex art. 1 comma 2 ultimo periodo d.l. 122/02 conv. in L. 185/02 al suddetto provvedimento, e l'adito Tribunale, con sentenza depositata il 23.9.03, accoglieva l'opposizione, disponendo la sospensione dell'esecuzione dello sfratto sino al 30.6.03.Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione ex art. 111 cost. la F., affidandosi ad un unico motivo, mentre nessuna attività difensiva è stata svolta dall'intimata.

Motivi della decisione

Con l'unico motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 80 commi 20, 21 e 22 L. 388/00, in combinato disposto con l'art. 1 commi 1 e 2 del D.L. 122/02 conv. in L. 185/02 ed in relazione all'art. 12 delle preleggi, avendo il Tribunale erroneamente ritenuto che per "altra abitazione" di cui parlano le norme suddette debba intendersi una diversa abitazione che sia equipollente con quella oggetto di sfratto.Il ricorso è fondato.Ha ritenuto, infatti, la sentenza gravata che per la sospensione delle procedure esecutive di rilascio per finita locazione, già disposta per gli immobili adibiti ad uso abitativo dall'art. 1 comma 1 D.l. n. 450/01, conv. in L. n. 14/02, e prorogata sino alla data del 30.6.03 dall'art. 1 comma 1 D.l. n. 122/02, occorresse che almeno uno dei requisiti previsti dalla prima parte della norma di cui all'art. 80 comma 20 L. n. 388/00 (esecutato o suo familiare ultrasessantacinquenne o gravemente handicappato) concorresse con almeno uno della seconda parte della norma stessa (mancanza di reddito idoneo a garantire una valida alternativa abitativa, ovvero indisponibilità di altra abitazione), ed ha sottolineato inoltre come la norma suddetta di legge so limitasse a postulare la possibilità sic et simpliciter di un'alternativa abitativa, tanto da legittimare la tesi dell'equipollenza dell'alternativa alla soluzione esistente, onde offrire una tutela sempre più effettiva a persone di età già molto avanzata.E' stato così escluso che la N., sessantacinquenne, fosse titolare di un reddito tale da consentirle il fitto di un alloggio con caratteristiche analoghe a quelle dell'immobile oggetto dell'esecuzione, e che comunque, in rapporto alle finalità in materia della legge, si potesse imporre all'esecutata un particolare onere - date le sue modeste capacità reddituali - di adattarsi anche a soluzioni abitative più disagiate di quella allo stato esistente.L'assunto in questione viola manifestamente il tenore letterale delle norme richiamate dal ricorrente nell'intitolazione del motivo di ricorso.Ed invero, ove si tenga presente il chiaro disposto della norma del citato comma 20 dell'art. 80 della legge n. 388/00, così come riportato testualmente nella sentenza impugnata, si rileva che nessun elemento consente ragionevolmente una sua interpretazione nel senso voluto dal Tribunale, e cioè che all'esecutata non possa imporsi alcuna soluzione alternativa abitativa che non sia equipollente (per le dimensioni più ridotte dell'alloggio e la sua localizzazione in zona della città più periferica).Se è vero, infatti, che dalla lettera della legge non risultano imposti siffatti sacrifici, è però altrettanto vero che dalla medesima non si evince neppure l'opposta soluzione, fondata sulla tesi dell'equipollenza dell'alternativa alla soluzione esistente.La norma si limita a prescrivere che, ai fini della sospensione dell'esecuzione, oltre alla presenza nell'immobile di persone, almeno sessantacinquenni o gravemente handicappate, appartenenti al nucleo familiare, occorra altresì o la mancata disponibilità di altra abitazione o quella di redditi sufficienti ad accedere all'affitto di una nuova casa, per cui la valutazione del reddito a disposizione dell'inquilino (nella specie, Euro 995,00 mensili) deve essere effettuata non in relazione alla possibilità di affitto di un alloggio equipollente (nel senso sopra indicato) a quello oggetto dell'esecuzione, ma in relazione a quella del reperimento in ogni caso di un alloggio a condizioni anche più disagiate di quelle già esistenti, quanto ad estensione di esso e ad ubicazione nel perimetro cittadino, purché pur sempre in astratto idoneo alle esigenze abitative dell'esecutata ed alle sue condizioni personali.Deve, dunque, affermarsi il principio che nel caso in esame, ai fini della sospensione dell'esecuzione in danno della N. sino alla data del 30.6.03, non debba aversi riguardo alla disponibilità, da parte dell'esecutata, di un reddito sufficiente ad accedere alla locazione di un alloggio aventi caratteristiche analoghe a quelle dell'immobile oggetto di esecuzione:, bastando che esso consenta comunque il fitto di un alloggio, anche a condizioni più disagiate (quanto all'ampiezza, alla, ubicazione meno favorevole in città ed alla stessa tipologia dell'immobile), purché adeguato alla situazione personale ed alle conseguenti esigenze abitative dell'interessata.La sentenza impugnata va, quindi, cassata, con rinvio al Tribunale di Salerno in diversa composizione, che dovrà attenersi al principio di diritto come sopra affermato e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Salerno in diversa composizione.

venerdì 16 maggio 2008

News dalla Suprema Corte





CORTE DI CASSAZIONE
SENTENZA N. 9812 DEL 14/04/2008





- LAVORATORI DI CALL CENTER - LAVORO SUBORDINATO E NON AUTONOMO-

La Corte, in una causa previdenziale, afferma che correttamente il giudice di merito ha inquadrato nel lavoro subordinato, e non nel lavoro autonomo, le prestazioni svolte dai lavoratori di call center, per le caratteristiche del lavoro svolto: necessità di seguire le direttive dell'azienda in relazione ad ogni singola telefonata, orario di lavoro preciso, utilizzazione di attrezzature e materiali di proprietà della società, necessità di giustificare le assenze. Il datore di lavoro è pertanto tenuto a versare i contributi.


Sentenza n. 9812 del 14 aprile 2008 (Sezione Lavoro, Presidente E. Ravagnani, Relatore G. D'Agostino)


A cura dell'Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione


Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...