martedì 27 ottobre 2009

News e varie ... di rilevanza giuridica e anche politica

Rassegna di notizie







- Diritto costituzionale, procedura penale:





CORTE COSTITUZIONALE:





NO ALLA SOSPENSIONE DEL PROCESSO PENALE PER LE ALTE CARICHE DELLO STATO













La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).













Sotto un primo profilo la Consulta ha affermato che:













- "Il problema dell’individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle prerogative assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché, da un lato, come già rilevato da questa Corte, «alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del 2004) e, dall’altro, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi. Questa complessiva architettura istituzionale, ispirata ai princípi della divisione dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della Costituzione debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius né in melius.













Tale conclusione, dunque, non deriva dal riconoscimento di una espressa riserva di legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale. Tali sono, ad esempio, le norme che attengono alle funzioni connesse alle alte cariche considerate dalla norma denunciata, come: l’art. 68 Cost., il quale prevede per i parlamentari (e, quindi, anche per i Presidenti delle Camere) alcune prerogative sostanziali e processuali in relazione sia a reati funzionali (primo comma) sia a reati anche extrafunzionali (secondo e terzo comma); l’art. 90 Cost., il quale prevede l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; l’art. 96 Cost., il quale prevede per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri, anche se cessati dalla carica, la sottoposizione alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, secondo modalità stabilite con legge costituzionale".













Sotto un secondo profilo, la Consulta ha argomentato come segue:













- "La denunciata sospensione è, infatti, derogatoria rispetto al regime processuale comune, perché si applica solo a favore dei titolari di quattro alte cariche dello Stato, con riferimento ai processi instaurati nei loro confronti, per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica. La deroga si risolve, in particolare, in una evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, come quelle connesse a cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o, ancora piú generalmente, quelle che il cittadino ha il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, Cost.).













È ben vero che il principio di uguaglianza comporta che, se situazioni uguali esigono uguale disciplina, situazioni diverse possono richiedere differenti discipline. Tuttavia, in base alla giurisprudenza di questa Corte citata al punto 7.3.1., deve ribadirsi che, nel caso in cui la differenziazione di trattamento di fronte alla giurisdizione riguardi il titolare o un componente di un organo costituzionale e si alleghi, quale ragione giustificatrice di essa, l’esigenza di proteggere le funzioni di quell’organo, si rende necessario che un tale ius singulare abbia una precisa copertura costituzionale. Si è visto, infatti, che il complessivo sistema delle suddette prerogative è regolato da norme di rango costituzionale, in quanto incide sull’equilibrio dei poteri dello Stato e contribuisce a connotare l’identità costituzionale dell’ordinamento.













Le pur significative differenze che esistono sul piano strutturale e funzionale tra i Presidenti e i componenti di detti organi non sono tali da alterare il complessivo disegno del Costituente, che è quello di attribuire, rispettivamente, alle Camere e al Governo, e non ai loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.) e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.). Non è, infatti, configurabile una preminenza del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a mantenerne l’unità, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri e ricopre, perciò, una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares".













La Corte ha così concluso: "la sospensione processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un’evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale. Essa, dunque, non costituisce fonte di rango idoneo a disporre in materia".













(Corte Costituzionale, Sentenza 19 ottobre 2009, n.262: Sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato - Incostituzionalità).













- Diritto processuale civile, diritto della responsabilità civile e risarcimento dei danni:





CASSAZIONE CIVILE:





RISARCIMENTO DEL DANNO FUTURO DI SOGGETTO NON PRODUTTIVO DI REDDITO













La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla risarcibilità e sulle modalità di liquidazione del danno patrimoniale futuro di soggetti non ancora produttivi di reddito a causa della giovane (o giovanissima) età.













La Corte afferma innanzitutto che “è indubbia la validità generale (e quindi anche nelle fattispecie come quella in esame) del principio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) e del principio secondo cui (ex art. 1226 cod. civ.) è consentita la liquidazione equitativa del danno solo se quest’ultimo è provato (o non è contestato) nella sua esistenza e non dimostrabile, se non con grande difficoltà, nel suo preciso ammontare”.













Secondo la Corte “il modo con cui tali due principi sono stati applicati ha talora condotto a rendere in sostanza la liquidabilità del danno in questione meramente teorica ma non concretamente realizzabile in pratica”, e aggiunge “È in realtà ovvio che è (quasi) sempre impossibile dare la prova rigorosa, precisa ed incontestabile di un danno futuro; infatti, persino se il danneggiato produceva un reddito al momento del sinistro, l’evoluzione successiva della sua capacità di produrlo (ovviamente nell’eventualità che il sinistro medesimo non si fosse verificato) può essere oggetto solo di un giudizio prognostico meramente probabilistico (potrebbe infatti persino accadere che in concreto tale capacità venga successivamente a mancare) basato su presunzioni; la più importante e basilare delle quali è certamente costituita dall’entità del reddito già prodotto. È palese che tale impossibilità è ancora più evidente nell’ipotesi di danneggiato che al momento del sinistro non produceva reddito, in quanto in tal caso viene meno pure quell’elemento presuntivo che è costituito dall’entità del reddito già prodotto”.













Tuttavia, “Ciò non significa però che tale danneggiato debba sempre e comunque restare privato (applicando un errato “rigore” interpretativo che porterebbe in concreto ad escludere sempre la liquidabilità in questione) del risarcimento del danno patrimoniale; che ben può essere liquidato invece in base ad una corretta interpretazione della normativa in questione (in particolare in tema di presunzioni). Va precisato a questo punto che è nell’ordine naturale delle cose che un soggetto ancora in età scolastica, qualora non abbia particolari deficienze, in futuro produrrà un reddito. Si potrà discutere in ordine all’entità di tale presumibile reddito futuro in relazione agli elementi prognostici offerti, con riferimento allo specifico soggetto in questione, dalle risultanze processuali della particolare causa di cui si tratta”.













La Cassazione ha così elaborato questo principio di diritto (nel solco di un ormai consolidato filone interpretativo): “In tema di risarcimento di danno patrimoniale subito da una persona minore o comunque in età giovanile, qualora sia accertata non una “micro permanente” ma una percentuale superiore di invalidità permanente, la mera circostanza che il soggetto danneggiato, all’epoca dell’incidente, non avesse una specifica capacità professionale e non svolgesse attività lavorativa non autorizza ad escludere un danno futuro solo sulla base di ciò e senza ulteriori indagini. Al contrario il Giudice, con giudizio prognostico fondato su basi probabilistiche, deve valutare se ed in che misura i postumi permanenti ridurranno la futura capacità di guadagno di detta persona, tenendo conto in primo luogo della percentuale di invalidità medicalmente accertata, della natura e qualità dei postumi stessi, dell’orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata attività redditizia, degli studi da lui portati a termine, dell’educazione ricevuta dalla famiglia nonché delle presumibili opportunità di lavoro che si presenteranno al danneggiato anche in relazione al prevedibile futuro mercato del lavoro; ed in secondo luogo della posizione sociale ed economica di quest’ultima; nonché di ogni altra circostanza rilevante (ferma restando la possibilità per colui che è chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare che il minore, da quel particolare tipo di invalidità, non risentirà alcun danno o risentirà danni minori rispetto a quelli prospettati). In assenza di riscontri concreti dai quali desumere gli elementi suddetti, (e, perciò, in mancanza della possibilità di ricorrere alla prova presuntiva), la liquidazione potrà avvenire attraverso il ricorso al triplo della pensione sociale. La scelta tra l’uno o l’altro tipo di liquidazione costituisce un giudizio tipicamente di merito ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata”.













(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, 30 settembre 2009, n.20943: Risarcimento danno futuro del giovane).













- Diritto immobiliare, del condominio e dei diritti reali, diritto processuale civile:





CASSAZIONE CIVILE:





PARCHEGGIO PERTINENZIALE NEL SOTTOSUOLO CONDOMINIALE













La Cassazione ha giudicato del tutto corrette le motivazioni e le conclusioni ha cui è pervenuta la Corte d'appello in un giudizio relativo alla realizzazione di parcheggi pertinenziali nel sottosuolo del condominio.













In particolare:





- la sottrazione del sottosuolo comune al pari uso di tutti i condomini per la edificazione di autorimesse di proprietà esclusiva di una parte di essi trova giustificazione nel disposto dell'articolo 9 della legge 122/1989;





- la detta norma si riferisce esclusivamente al sottosuolo o ai locali siti al piano terreno e non ad altri beni comuni;





- il richiamo al secondo comma dell'articolo 1120 c.c. operato dall'articolo 9 della legge 122/1989 è riferibile solo ai beni comuni diversi dal sottosuolo;





- è possibile realizzare box sotterranei - previa delibera condominiale approvata con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136 c.c. - pur se in numero inferiore a quello della totalità dei condomini non potendo i condomini dissenzienti impedire tale realizzazione voluta invece dalla maggioranza dei partecipanti al condominio;





- è lecito l'uso del sottosuolo per frazioni corrispondenti alle singole autorimesse pertinenziali da realizzare - con esclusione di qualsiasi uso su ciascuna porzione da parte di tutti gli altri condomini - purché venga rispettato il pari diritto sul sottosuolo comune in capo ai condomini contrari o rimasti estranei all'innovazione di tale bene comune;





- tale rispetto è assicurato ove il numero delle autorimesse sotterranee realizzate sia inferiore al numero delle unità di proprietà esclusiva ed ove sia possibile per i condomini dissenzienti "senza restrizioni o difficoltà maggiori di quelle degli altri condomini", dotare "le loro unità di analoghe autorimesse pertinenziali sotterranee".













La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.













(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 18 settembre 2009, n.20254).













- Diritto dei contratti e delle obbligazioni, diritto commerciale, diritto del lavoro:





MINISTERO LAVORO:





IL FRANCHISING PER LE AZIENDE DI SERVIZI













Il Ministero del Lavoro ha risposto ad una istanza di interpello formulata dalla Confcommercio in ordine alla applicazione del contratto di franchising di alla L. n. 129/2004 alle aziende di servizi e alla gestione dei relativi rapporti di lavoro instaurati dal franchisor e dal franchisee.













Innanzitutto il Ministero non si ravvisa motivi per escludere il ricorso al franchising da parte di soggetti che svolgono attività nel settore dei servizi. Quanto alla gestione dei rapporti di lavoro facenti capo al franchisor ed al franchisee, il Ministero afferma che il franchisee o il franchisor soggiacciono alle vigenti disposizioni in materia di rapporti di lavoro alla stregua di ogni altro soggetto di natura imprenditoriale. "Ne deriva, in capo al franchisor e al franchisee, la piena e assoluta titolarità del potere direttivo sulla forza lavoro alle rispettive dipendenze e la responsabilità esclusiva di ciascuno degli imprenditori individualmente per quanto riguarda gli obblighi e le responsabilità relativi ai rapporti di lavoro utilizzati nelle proprie organizzazioni. L’appartenenza alla rete di franchising infatti non incide sui normali criteri di imputazione dei rapporti di lavoro anche quando, elementi che in altre circostanze potrebbero essere ritenuti sintomatici di una unicità di impresa trovino invece adeguato e razionale riscontro in un genuino rapporto di franchising. Da ciò discende, inoltre, che i diritti dei lavoratori possono essere esercitati esclusivamente nei confronti del proprio datore di lavoro (franchisor ovvero franchisee) che, unico responsabile del rapporto di lavoro, rimane altresì unico destinatario di cause o rivendicazioni eventualmente avanzate dai propri dipendenti".





(Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, Interpello 12 ottobre 2009, n.73: Il franchising per le aziende di servizi).















News e varie ... di rilevanza giuridica e anche politica

Rassegna di notizie



- Diritto costituzionale, procedura penale:


CORTE COSTITUZIONALE:


NO ALLA SOSPENSIONE DEL PROCESSO PENALE PER LE ALTE CARICHE DELLO STATO






La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).






Sotto un primo profilo la Consulta ha affermato che:






- "Il problema dell’individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle prerogative assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché, da un lato, come già rilevato da questa Corte, «alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del 2004) e, dall’altro, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi. Questa complessiva architettura istituzionale, ispirata ai princípi della divisione dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della Costituzione debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius né in melius.






Tale conclusione, dunque, non deriva dal riconoscimento di una espressa riserva di legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale. Tali sono, ad esempio, le norme che attengono alle funzioni connesse alle alte cariche considerate dalla norma denunciata, come: l’art. 68 Cost., il quale prevede per i parlamentari (e, quindi, anche per i Presidenti delle Camere) alcune prerogative sostanziali e processuali in relazione sia a reati funzionali (primo comma) sia a reati anche extrafunzionali (secondo e terzo comma); l’art. 90 Cost., il quale prevede l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; l’art. 96 Cost., il quale prevede per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri, anche se cessati dalla carica, la sottoposizione alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, secondo modalità stabilite con legge costituzionale".






Sotto un secondo profilo, la Consulta ha argomentato come segue:






- "La denunciata sospensione è, infatti, derogatoria rispetto al regime processuale comune, perché si applica solo a favore dei titolari di quattro alte cariche dello Stato, con riferimento ai processi instaurati nei loro confronti, per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica. La deroga si risolve, in particolare, in una evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, come quelle connesse a cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o, ancora piú generalmente, quelle che il cittadino ha il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, Cost.).






È ben vero che il principio di uguaglianza comporta che, se situazioni uguali esigono uguale disciplina, situazioni diverse possono richiedere differenti discipline. Tuttavia, in base alla giurisprudenza di questa Corte citata al punto 7.3.1., deve ribadirsi che, nel caso in cui la differenziazione di trattamento di fronte alla giurisdizione riguardi il titolare o un componente di un organo costituzionale e si alleghi, quale ragione giustificatrice di essa, l’esigenza di proteggere le funzioni di quell’organo, si rende necessario che un tale ius singulare abbia una precisa copertura costituzionale. Si è visto, infatti, che il complessivo sistema delle suddette prerogative è regolato da norme di rango costituzionale, in quanto incide sull’equilibrio dei poteri dello Stato e contribuisce a connotare l’identità costituzionale dell’ordinamento.






Le pur significative differenze che esistono sul piano strutturale e funzionale tra i Presidenti e i componenti di detti organi non sono tali da alterare il complessivo disegno del Costituente, che è quello di attribuire, rispettivamente, alle Camere e al Governo, e non ai loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.) e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.). Non è, infatti, configurabile una preminenza del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a mantenerne l’unità, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri e ricopre, perciò, una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares".






La Corte ha così concluso: "la sospensione processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un’evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale. Essa, dunque, non costituisce fonte di rango idoneo a disporre in materia".






(Corte Costituzionale, Sentenza 19 ottobre 2009, n.262: Sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato - Incostituzionalità).






- Diritto processuale civile, diritto della responsabilità civile e risarcimento dei danni:


CASSAZIONE CIVILE:


RISARCIMENTO DEL DANNO FUTURO DI SOGGETTO NON PRODUTTIVO DI REDDITO






La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla risarcibilità e sulle modalità di liquidazione del danno patrimoniale futuro di soggetti non ancora produttivi di reddito a causa della giovane (o giovanissima) età.






La Corte afferma innanzitutto che “è indubbia la validità generale (e quindi anche nelle fattispecie come quella in esame) del principio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) e del principio secondo cui (ex art. 1226 cod. civ.) è consentita la liquidazione equitativa del danno solo se quest’ultimo è provato (o non è contestato) nella sua esistenza e non dimostrabile, se non con grande difficoltà, nel suo preciso ammontare”.






Secondo la Corte “il modo con cui tali due principi sono stati applicati ha talora condotto a rendere in sostanza la liquidabilità del danno in questione meramente teorica ma non concretamente realizzabile in pratica”, e aggiunge “È in realtà ovvio che è (quasi) sempre impossibile dare la prova rigorosa, precisa ed incontestabile di un danno futuro; infatti, persino se il danneggiato produceva un reddito al momento del sinistro, l’evoluzione successiva della sua capacità di produrlo (ovviamente nell’eventualità che il sinistro medesimo non si fosse verificato) può essere oggetto solo di un giudizio prognostico meramente probabilistico (potrebbe infatti persino accadere che in concreto tale capacità venga successivamente a mancare) basato su presunzioni; la più importante e basilare delle quali è certamente costituita dall’entità del reddito già prodotto. È palese che tale impossibilità è ancora più evidente nell’ipotesi di danneggiato che al momento del sinistro non produceva reddito, in quanto in tal caso viene meno pure quell’elemento presuntivo che è costituito dall’entità del reddito già prodotto”.






Tuttavia, “Ciò non significa però che tale danneggiato debba sempre e comunque restare privato (applicando un errato “rigore” interpretativo che porterebbe in concreto ad escludere sempre la liquidabilità in questione) del risarcimento del danno patrimoniale; che ben può essere liquidato invece in base ad una corretta interpretazione della normativa in questione (in particolare in tema di presunzioni). Va precisato a questo punto che è nell’ordine naturale delle cose che un soggetto ancora in età scolastica, qualora non abbia particolari deficienze, in futuro produrrà un reddito. Si potrà discutere in ordine all’entità di tale presumibile reddito futuro in relazione agli elementi prognostici offerti, con riferimento allo specifico soggetto in questione, dalle risultanze processuali della particolare causa di cui si tratta”.






La Cassazione ha così elaborato questo principio di diritto (nel solco di un ormai consolidato filone interpretativo): “In tema di risarcimento di danno patrimoniale subito da una persona minore o comunque in età giovanile, qualora sia accertata non una “micro permanente” ma una percentuale superiore di invalidità permanente, la mera circostanza che il soggetto danneggiato, all’epoca dell’incidente, non avesse una specifica capacità professionale e non svolgesse attività lavorativa non autorizza ad escludere un danno futuro solo sulla base di ciò e senza ulteriori indagini. Al contrario il Giudice, con giudizio prognostico fondato su basi probabilistiche, deve valutare se ed in che misura i postumi permanenti ridurranno la futura capacità di guadagno di detta persona, tenendo conto in primo luogo della percentuale di invalidità medicalmente accertata, della natura e qualità dei postumi stessi, dell’orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata attività redditizia, degli studi da lui portati a termine, dell’educazione ricevuta dalla famiglia nonché delle presumibili opportunità di lavoro che si presenteranno al danneggiato anche in relazione al prevedibile futuro mercato del lavoro; ed in secondo luogo della posizione sociale ed economica di quest’ultima; nonché di ogni altra circostanza rilevante (ferma restando la possibilità per colui che è chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare che il minore, da quel particolare tipo di invalidità, non risentirà alcun danno o risentirà danni minori rispetto a quelli prospettati). In assenza di riscontri concreti dai quali desumere gli elementi suddetti, (e, perciò, in mancanza della possibilità di ricorrere alla prova presuntiva), la liquidazione potrà avvenire attraverso il ricorso al triplo della pensione sociale. La scelta tra l’uno o l’altro tipo di liquidazione costituisce un giudizio tipicamente di merito ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata”.






(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, 30 settembre 2009, n.20943: Risarcimento danno futuro del giovane).






- Diritto immobiliare, del condominio e dei diritti reali, diritto processuale civile:


CASSAZIONE CIVILE:


PARCHEGGIO PERTINENZIALE NEL SOTTOSUOLO CONDOMINIALE






La Cassazione ha giudicato del tutto corrette le motivazioni e le conclusioni ha cui è pervenuta la Corte d'appello in un giudizio relativo alla realizzazione di parcheggi pertinenziali nel sottosuolo del condominio.






In particolare:


- la sottrazione del sottosuolo comune al pari uso di tutti i condomini per la edificazione di autorimesse di proprietà esclusiva di una parte di essi trova giustificazione nel disposto dell'articolo 9 della legge 122/1989;


- la detta norma si riferisce esclusivamente al sottosuolo o ai locali siti al piano terreno e non ad altri beni comuni;


- il richiamo al secondo comma dell'articolo 1120 c.c. operato dall'articolo 9 della legge 122/1989 è riferibile solo ai beni comuni diversi dal sottosuolo;


- è possibile realizzare box sotterranei - previa delibera condominiale approvata con la maggioranza di cui al secondo comma dell'articolo 1136 c.c. - pur se in numero inferiore a quello della totalità dei condomini non potendo i condomini dissenzienti impedire tale realizzazione voluta invece dalla maggioranza dei partecipanti al condominio;


- è lecito l'uso del sottosuolo per frazioni corrispondenti alle singole autorimesse pertinenziali da realizzare - con esclusione di qualsiasi uso su ciascuna porzione da parte di tutti gli altri condomini - purché venga rispettato il pari diritto sul sottosuolo comune in capo ai condomini contrari o rimasti estranei all'innovazione di tale bene comune;


- tale rispetto è assicurato ove il numero delle autorimesse sotterranee realizzate sia inferiore al numero delle unità di proprietà esclusiva ed ove sia possibile per i condomini dissenzienti "senza restrizioni o difficoltà maggiori di quelle degli altri condomini", dotare "le loro unità di analoghe autorimesse pertinenziali sotterranee".






La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.






(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 18 settembre 2009, n.20254).






- Diritto dei contratti e delle obbligazioni, diritto commerciale, diritto del lavoro:


MINISTERO LAVORO:


IL FRANCHISING PER LE AZIENDE DI SERVIZI






Il Ministero del Lavoro ha risposto ad una istanza di interpello formulata dalla Confcommercio in ordine alla applicazione del contratto di franchising di alla L. n. 129/2004 alle aziende di servizi e alla gestione dei relativi rapporti di lavoro instaurati dal franchisor e dal franchisee.






Innanzitutto il Ministero non si ravvisa motivi per escludere il ricorso al franchising da parte di soggetti che svolgono attività nel settore dei servizi. Quanto alla gestione dei rapporti di lavoro facenti capo al franchisor ed al franchisee, il Ministero afferma che il franchisee o il franchisor soggiacciono alle vigenti disposizioni in materia di rapporti di lavoro alla stregua di ogni altro soggetto di natura imprenditoriale. "Ne deriva, in capo al franchisor e al franchisee, la piena e assoluta titolarità del potere direttivo sulla forza lavoro alle rispettive dipendenze e la responsabilità esclusiva di ciascuno degli imprenditori individualmente per quanto riguarda gli obblighi e le responsabilità relativi ai rapporti di lavoro utilizzati nelle proprie organizzazioni. L’appartenenza alla rete di franchising infatti non incide sui normali criteri di imputazione dei rapporti di lavoro anche quando, elementi che in altre circostanze potrebbero essere ritenuti sintomatici di una unicità di impresa trovino invece adeguato e razionale riscontro in un genuino rapporto di franchising. Da ciò discende, inoltre, che i diritti dei lavoratori possono essere esercitati esclusivamente nei confronti del proprio datore di lavoro (franchisor ovvero franchisee) che, unico responsabile del rapporto di lavoro, rimane altresì unico destinatario di cause o rivendicazioni eventualmente avanzate dai propri dipendenti".


(Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, Interpello 12 ottobre 2009, n.73: Il franchising per le aziende di servizi).







I singoli condomini possono chiedere l'equa riparazione se ... la vexata quaestio condominiale si protrae troppo a lungo!!!!

l’amministratore non può chiedere allo Stato l’equa riparazione per un processo troppo lento.













La Corte di cassazione , con la sentenza n. 22558 del 22 ottobre 2009, ha accolto il ricorso del Ministero della Giustizia rovesciando la decisione di merito.







I singoli condomini, ha precisato Piazza Cavour, possono agire personalmente se la causa condominiale è andata troppo per le lunghe mentre il condominio, non avendo personalità giuridica, resta inerme di fronte alle lungaggini processuali.







i commentatori dell’articolo però concludono male: “Una notizia che farà felice i tecnici di via Arenula alle prese da qualche anno a questa parte coi conti sull’equa riparazione che è una delle voci di debito che più pesa allo Stato italiano. Tanto più in materia condominiale dove il contenzioso è tanto e spesso si protrae per molti anni.”, ignorando che viceversa si apre il portone del ricorso per ogni singolo condomino il che è sicuramente peggio per i tecnici di via ARENULA…..

I singoli condomini possono chiedere l'equa riparazione se ... la vexata quaestio condominiale si protrae troppo a lungo!!!!

l’amministratore non può chiedere allo Stato l’equa riparazione per un processo troppo lento.






La Corte di cassazione , con la sentenza n. 22558 del 22 ottobre 2009, ha accolto il ricorso del Ministero della Giustizia rovesciando la decisione di merito.



I singoli condomini, ha precisato Piazza Cavour, possono agire personalmente se la causa condominiale è andata troppo per le lunghe mentre il condominio, non avendo personalità giuridica, resta inerme di fronte alle lungaggini processuali.



i commentatori dell’articolo però concludono male: “Una notizia che farà felice i tecnici di via Arenula alle prese da qualche anno a questa parte coi conti sull’equa riparazione che è una delle voci di debito che più pesa allo Stato italiano. Tanto più in materia condominiale dove il contenzioso è tanto e spesso si protrae per molti anni.”, ignorando che viceversa si apre il portone del ricorso per ogni singolo condomino il che è sicuramente peggio per i tecnici di via ARENULA…..
Attraversamento sulle strisce e responsabilità dell’automobilista







Cassazione civile , sez. III, sentenza 30.09.2009 n° 20949 (Rocchina Staiano)











L’importanza di questa sentenza di legittimità è di aver ritenuto, contrariamente agli altri orientamenti, che il pedone ha certamente il diritto di precedenza nell'attraversamento della strada sulle strisce pedonali.













Tale orientamento smentisce che le c.d. "strisce pedonali" non impongono al conducente dell'auto l'obbligo di fermarsi in ogni caso, come invece il segnale di "stop", ma solo di moderare ulteriormente la velocità, nell'approssimarsi alle stesse, di accertarsi dell'esistenza nei pressi di un pedone e di arrestarsi solo se è avvistato un pedone che si accinge ad attraversarle ovvero che le stia già attraversando. In realtà, tenendo presente le motivazione della sentenza di legittimità, l'obbligo di arresto del veicolo, in prossimità degli attraversamenti pedonali, è strettamente connesso all'avvistamento di un pedone, che tenga un comportamento che in qualche modo lasci presumere che stia per avvalersi delle strisce pedonali per l'attraversamento. Qualora detto preventivo accertamento non sia possibile, perché l'accesso alle strisce pedonali è coperto da ostacoli (quali ad esempio altre auto parcheggiate, cartelloni pubblicitari o fermate di autobus), la velocità, che già deve essere moderata per il solo fatto della presenza della zona di attraversamento pedonale, deve ulteriormente essere ridotta, non essendo assolutamente imprevedibile che, dietro quell'ostacolo visivo, possa esservi un pedone, che si accinga ad attraversare la strada. La velocità deve essere commisurata alla possibilità di arrestare l'auto, qualora si verifichi detta ultima evenienza.













Art. 2054, comma 1, c.c. e responsabilità del conducente













La ratio dell'art. 2054, comma 1, c.c., richiede che il conducente del veicolo abbia un comportamento oculato e prudente, fino ai limiti estremi della diligenza.













La prova liberatoria da parte del conducente, di cui all'art. 2054, c. 1, c.c., nel caso di danni prodotti a persone o cose dalla circolazione di un veicolo, non deve essere necessariamente data in modo diretto, cioé dimostrando di avere tenuto un comportamento esente da colpa e perfettamente conforme alle regole del codice della strada, ma può risultare anche dall'accertamento che il comportamento della vittima sia stato il fattore causale esclusivo dell'evento dannoso, comunque non evitabile da parte del conducente, attese le concrete circostanze della circolazione e la conseguente impossibilità di attuare una qualche idonea manovra di emergenza (Cass. 2.12.1986, n. 7113; Cass. 16 giugno 1993, n. 6707). In particolare se il pedone pone in essere un comportamento colposo che può costituire causa esclusiva del suo investimento da parte di un veicolo, il conducente, sul quale grava la presunzione di responsabilità di cui alla prima parte dell'art. 2054 c. c., va ritenuto esente da colpa, ove dimostri che l'improvvisa ed imprevedibile comparsa del pedone sulla propria traiettoria di marcia ha reso inevitabile l'evento dannoso, tenuto conto della breve distanza di avvistamento, insufficiente per operare una idonea manovra di fortuna. Quindi la responsabilità del conducente coinvolto nell'investimento d'un pedone, pur essendo presunta, può essere tuttavia esclusa, non solo quando l'investitore abbia fornito la prova d'aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma anche quando risulti con certezza, dalle modalità del fatto, che non v'era da parte sua una reale possibilità di evitare l'incidente; tale situazione ricorre allorché il pedone compia l'attraversamento della strada immettendovisi cosi repentinamente da costituire un ostacolo improvviso ed inevitabile si da non consentire al conducente di evitarne l'investimento (Cass. 27 aprile 1990, n. 3554).













I danni













La sentenza in esame non ha riconosciuto, quale lesione del credito, il danno derivato dalla perdita della possibilità di ereditare dalla madre l'appartamento che il locatore le aveva offerto di acquistare ad un prezzo assolutamente vantaggioso.













Inoltre, tale sentenza ha escluso la risarcibilità, iure hereditario, del danno biologico subito alla madre in ragione della brevità del lasso di tempo per il quale era sopravvissuta alle lesioni, nonché del danno “esistenziale” che i figli avevano subito. Ciò è avvenuto in applicazione dei principi enunciati dalle Cass. civ., sez. un., sentenza 11 novembre 2008, n. 26972, la quale quest’ultima sentenza ha ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante reato) e quello in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge. Nella medesima sentenza è stato aggiunto che il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sotto categorie. Pertanto il c.d. danno esistenziale, inteso quale “il pregiudizio alle attività non remunerative della persona” causato dal fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente garantito, costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato.













(Altalex, 19 ottobre 2009. Nota di Rocchina Staiano)







Attraversamento sulle strisce e responsabilità dell’automobilista



Cassazione civile , sez. III, sentenza 30.09.2009 n° 20949 (Rocchina Staiano)





L’importanza di questa sentenza di legittimità è di aver ritenuto, contrariamente agli altri orientamenti, che il pedone ha certamente il diritto di precedenza nell'attraversamento della strada sulle strisce pedonali.






Tale orientamento smentisce che le c.d. "strisce pedonali" non impongono al conducente dell'auto l'obbligo di fermarsi in ogni caso, come invece il segnale di "stop", ma solo di moderare ulteriormente la velocità, nell'approssimarsi alle stesse, di accertarsi dell'esistenza nei pressi di un pedone e di arrestarsi solo se è avvistato un pedone che si accinge ad attraversarle ovvero che le stia già attraversando. In realtà, tenendo presente le motivazione della sentenza di legittimità, l'obbligo di arresto del veicolo, in prossimità degli attraversamenti pedonali, è strettamente connesso all'avvistamento di un pedone, che tenga un comportamento che in qualche modo lasci presumere che stia per avvalersi delle strisce pedonali per l'attraversamento. Qualora detto preventivo accertamento non sia possibile, perché l'accesso alle strisce pedonali è coperto da ostacoli (quali ad esempio altre auto parcheggiate, cartelloni pubblicitari o fermate di autobus), la velocità, che già deve essere moderata per il solo fatto della presenza della zona di attraversamento pedonale, deve ulteriormente essere ridotta, non essendo assolutamente imprevedibile che, dietro quell'ostacolo visivo, possa esservi un pedone, che si accinga ad attraversare la strada. La velocità deve essere commisurata alla possibilità di arrestare l'auto, qualora si verifichi detta ultima evenienza.






Art. 2054, comma 1, c.c. e responsabilità del conducente






La ratio dell'art. 2054, comma 1, c.c., richiede che il conducente del veicolo abbia un comportamento oculato e prudente, fino ai limiti estremi della diligenza.






La prova liberatoria da parte del conducente, di cui all'art. 2054, c. 1, c.c., nel caso di danni prodotti a persone o cose dalla circolazione di un veicolo, non deve essere necessariamente data in modo diretto, cioé dimostrando di avere tenuto un comportamento esente da colpa e perfettamente conforme alle regole del codice della strada, ma può risultare anche dall'accertamento che il comportamento della vittima sia stato il fattore causale esclusivo dell'evento dannoso, comunque non evitabile da parte del conducente, attese le concrete circostanze della circolazione e la conseguente impossibilità di attuare una qualche idonea manovra di emergenza (Cass. 2.12.1986, n. 7113; Cass. 16 giugno 1993, n. 6707). In particolare se il pedone pone in essere un comportamento colposo che può costituire causa esclusiva del suo investimento da parte di un veicolo, il conducente, sul quale grava la presunzione di responsabilità di cui alla prima parte dell'art. 2054 c. c., va ritenuto esente da colpa, ove dimostri che l'improvvisa ed imprevedibile comparsa del pedone sulla propria traiettoria di marcia ha reso inevitabile l'evento dannoso, tenuto conto della breve distanza di avvistamento, insufficiente per operare una idonea manovra di fortuna. Quindi la responsabilità del conducente coinvolto nell'investimento d'un pedone, pur essendo presunta, può essere tuttavia esclusa, non solo quando l'investitore abbia fornito la prova d'aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma anche quando risulti con certezza, dalle modalità del fatto, che non v'era da parte sua una reale possibilità di evitare l'incidente; tale situazione ricorre allorché il pedone compia l'attraversamento della strada immettendovisi cosi repentinamente da costituire un ostacolo improvviso ed inevitabile si da non consentire al conducente di evitarne l'investimento (Cass. 27 aprile 1990, n. 3554).






I danni






La sentenza in esame non ha riconosciuto, quale lesione del credito, il danno derivato dalla perdita della possibilità di ereditare dalla madre l'appartamento che il locatore le aveva offerto di acquistare ad un prezzo assolutamente vantaggioso.






Inoltre, tale sentenza ha escluso la risarcibilità, iure hereditario, del danno biologico subito alla madre in ragione della brevità del lasso di tempo per il quale era sopravvissuta alle lesioni, nonché del danno “esistenziale” che i figli avevano subito. Ciò è avvenuto in applicazione dei principi enunciati dalle Cass. civ., sez. un., sentenza 11 novembre 2008, n. 26972, la quale quest’ultima sentenza ha ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante reato) e quello in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge. Nella medesima sentenza è stato aggiunto che il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sotto categorie. Pertanto il c.d. danno esistenziale, inteso quale “il pregiudizio alle attività non remunerative della persona” causato dal fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente garantito, costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato.






(Altalex, 19 ottobre 2009. Nota di Rocchina Staiano)



lunedì 26 ottobre 2009

Acquisto della Cittadinanza Italiana iure sanguinis: i figli dei migranti italiani... un caso d'altri tempi

Cassazione civile SS.UU. del 25-02-2009, n. 4466



"Con la sentenza n.4466 del 2009 le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno precisato che la cittadinanza italiana spetta anche alle donne che hanno sposato lo straniero prima del 1948 e che, per effetto dell'art.10 della legge n. 555 del 1912 avevano perduto la cittadinanza italiana.







Questa situazione riguarda molti emigranti del 1800 e del 1900: la figlia dell'emigrante italiano aveva perduto la cittadinanza italiana per effetto del matrimonio con il cittadino straniero, mentre il fratello di sesso maschile aveva conservato la cittadinanza italiana e ha potuto recuperarla anche dopo molti anni.







La Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittima questa disposizione della legge n.555 del 1912, ma tuttora cotinuava ad essere applicata la legge del 1912. Dopo decenni di sentenze di opposto indirizzo, le Sezioni Unite infine hanno risolto la problematica ammettendo che anche la donna che si è sposata prima del 1948 può recuperare la cittadinanza italiana".







LA SENTENZA





Svolgimento del processo







E.M., nata il (OMISSIS) al (OMISSIS) da E. E., che non aveva la cittadinanza (OMISSIS) quale figlio di C.A., che l'aveva perduta per effetto di matrimonio con un cittadino (OMISSIS), dato che tale perdita e mancato acquisto di stato erano dipesi dall'applicazione di norme della L. 13 giugno 1912, n. 555, dichiarate illegittime nel 1975 e nel 1983 dalla Corte costituzionale, perchè discriminatorie della posizione della donna rispetto a quella dell'uomo (artt. 3 e 29 Cost.), con citazione del 27 agosto 2003, chiedeva al Tribunale di Roma in contraddittorio con il Ministero dell'Interno di dichiararla cittadina (OMISSIS) iure sanguinis, per trasmissione dello stato dai suoi ascendenti.











Il Ministero dell'Interno si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda, respinta nel 2004 dall'adito Tribunale, per mancanza della dichiarazione della C. di voler riacquistare la cittadinanza perduta, ai sensi della L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 219; avverso tale pronuncia l'attrice proponeva gravame, respinto dalla sentenza di cui in epigrafe della Corte d'appello di Roma, la quale, riteneva inidonea la esibita dichiarazione della C. sul riacquisto della cittadinanza.











Per la cassazione di tale sentenza la E. ha proposto ricorso di quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c. e notificato a mezzo posta il 15 - 16 dicembre 2006 al Ministero dell'Interno e al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione e i due intimati non si sono difesi.











La prima sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 2563 del 4 febbraio 2008, ha rilevato che si ripropone la questione degli effetti retroattivi della incostituzionalità di norme precostituzionali, che, in relazione alla previgente L. n. 555 del 1912, è stata oggetto di contrasto tra più sentenze di questa Corte, risolto delle Sezioni unite nel senso che la incostituzionalità sopravvenuta di tali norme, non retroagisce oltre il 1 gennaio 1948 nè opera per i rapporti esauriti, tra cui s'è compreso quello di perdita dello stato per la donna a causa di matrimonio con cittadino straniero, anteriore a detta data.











Si è negata la riespansibilità dei rapporti di cittadinanza estinti per effetto del matrimonio della donna con lo straniero, che aveva prodotto tale effetto irretrattabile, in ragione di una norma ratione temporis legittima; la prima sezione civile, pur ritenendo corretta la premessa dei principi enunciati dalle Sezioni Unite sulla retroattività delle sentenze della Corte Costituzionale dichiarative dell'illegittimità di leggi vigenti prima dell'entrata in vigore della carta fondamentale e sulla loro incostituzionalità c.d. sopravvenuta, non ne ha condiviso il corollario, per cui dovrebbero ritenersi "esauriti" i rapporti di cittadinanza estinti o mai nati anteriormente al 1 gennaio 1948, da ritenere insuscettibili di ripristino dopo la rimozione della norma che aveva prodotto tali conseguenze.











Errata sarebbe, ad avviso della sezione semplice, la considerazione come conclusi o esauriti dei rapporti di cittadinanza perduti o non acquistati prima del 1948 per la pregressa disciplina ritenuta incostituzionale, desumendo tale esaurimento dalle norme dichiarate illegittime, in quanti i fatti preclusivi alla estensione retroattiva della illegittimità costituzionale possono ricavarsi solo da norme diverse da quelle valutate dal giudice della legge, essendo costituiti dagli effetti del giudicato, dal decorso dei termini di decadenza o dei tempi di prescrizione o da atti concludenti in tal senso, di natura processuale o sostanziale.











Pertanto i rapporti di perduta o mancata cittadinanza ex L. n. 555 del 1912, "non esauriti" al 1 gennaio 1948, in assenza di eventi esterni che li abbiano definiti in precedenza, rendendoli non più giustiziabili ovvero insuscettibili di tutela giurisdizionale, non possono ritenersi esauriti.











La perdita per la donna della cittadinanza a causa del "fatto" matrimonio con lo straniero, di cui alla L. n. 555 del 1912, art. 10, comma 3, dichiarato incostituzionale almeno a decorrere dal 1 gennaio 1948, non costituirebbe un effetto che necessariamente deve permanere oltre tale data, potendo considerarsi rimossa dalla stessa data per incostituzionalità sopravvenuta, qualora manchino fatti o eventi preclusivi a tale efficacia retroattiva assoluta della pronuncia di incostituzionalità.











Dato il virtuale contrasto di tale soluzione con quella enunciata da precedenti pronunce della Corte di legittimità risolutive dei predetti contrasti, il Primo Presidente ha assegnato la decisione alle sezioni unite, ai sensi dell'art. 374 c.p.c..







Motivi della decisione











1.1. Il primo motivo di ricorso deduce violazione o falsa applicazione della L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 219 e insufficiente o omessa motivazione su punti decisivi, relativi all'esistenza dei presupposti di fatto per applicare tale norma.











Erroneamente la Corte Territoriale ha negato il riacquisto della cittadinanza per la ricorrente, per mancanza della dichiarazione della sua ascendente di voler recuperare la cittadinanza (OMISSIS), regolata dalla L. n. 151 del 1975, art. 219, pur essendo in atti tale documento, che esprime la volontà di C.A. di voler ritornare ad essere cittadina (OMISSIS), regolarmente manifestata alle autorità consolari (OMISSIS) in (OMISSIS), risiedendo la donna in quel paese.











La Corte di merito afferma apoditticamente che l'atto della C. non costituisce "idonea documentazione al riguardo... per cui la cittadinanza non è mai stata dalla medesima riacquistata e quindi non può essere trasmessa ai figli e ai loro eredi"; infatti la dichiarazione resa all'autorità consolare in presenza di due testi dalla C., di voler riacquistare la cittadinanza, è idonea al riacquisto dello stato e la sentenza di merito ha chiari vizi di motivazione su tale punto decisivo della sentenza.











1.2. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione di principi di diritto e insufficiente o omessa e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, dato che, anche a ritenere il documento di cui al primo motivo di ricorso inidoneo allo scopo, la Corte Territoriale ha errato nel negare che le pronunce di illegittimità costituzionale abbiano effetti retroattivi inapplicabili al rapporto di perduta cittadinanza per cui è causa, considerando quest'ultimo "esaurito", pur essendo lo stato un rapporto imprescrittibile.











1.3. Con il terzo motivo di ricorso si solleva il dubbio sulla legittimità costituzionale della L. n. 151 del 1975, art. 219, la cui applicabilità è stata confermata dalla Legge sulla Cittadinanza 5 febbraio 1992, n. 91, art. 17.











La condizione imposta da tali norme, per la quale, in assenza della dichiarazione da essa prevista, il riacquisto della cittadinanza sarebbe negato, è incostituzionale, perchè in contrasto con gli artt. 3 e 10 Cost., con la convenzione di New York del 18 dicembre 1979, ratificata dalla L. 14 marzo 1985, n. 132 e con i principi di non discriminazione tra uomo e donna di cui alla Costituzione europea. La perdita automatica della cittadinanza per la sola donna coniugata con straniero e non per l'uomo è discriminatoria e la pretesa di ulteriori oneri a carico della stessa vittima dell'ingiustizia, per recuperate lo stato di cui illegittimamente è stata privata, è incostituzionale, in quanto l'uomo conserva la sua cittadinanza in ogni caso e, per i discendenti delle donne decedute tra il (OMISSIS) e il (OMISSIS), il riacquisto della cittadinanza non potrebbe esservi.











Si chiede quindi di ritenere automatico il riacquisto della cittadinanza, così come lo era stata la perdita per effetto della legge incostituzionale.











1.4. Infine il quarto motivo di ricorso chiede la riforma della decisione della Corte Territoriale anche per lo ius superveniens di cui al D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, il c.d. "Codice della pari opportunità tra uomo e donna" e a norma della L. 28 novembre 2005, n. 246, art. 5. 2. Il secondo motivo di ricorso, che censura la sentenza di merito per aver negato l'automaticità del riacquisto della cittadinanza degli ascendenti della ricorrente e l'acquisto dello stato di cittadina per quest'ultima, per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale 16 aprile 1975 n. 87 e 9 febbraio 1983 n. 30, indipendentemente dalla dichiarazione della ascendente di lei, di cui alla L. n. 151 del 1975, art. 219, è logicamente preliminare all'esame degli altri motivi di ricorso.











La pronuncia del 1975 ha dichiarato illegittimo la L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 10, comma 3, per la parte in cui prevedeva la perdita della cittadinanza per la donna senza la volontà di questa, in caso di matrimonio con cittadino straniero; la sentenza n. 30 del 1983 del giudice delle leggi ha rilevato la incostituzionalità dell'art. 1, n.ri 1 e 2, e art. 2, comma 2, della stessa Legge per la parte in cui il primo non prevedeva l'acquisto della cittadinanza per i figli di madre cittadina e l'altro sanciva in ogni caso la prevalenza della cittadinanza del padre nella trasmissione dello stato di cittadino ai figli.











La controversia riguarda una discendente di soggetti che, anteriormente al 1948, hanno subito gli effetti delle norme dichiarate incostituzionali: la nonna della ricorrente, C. A., aveva perduto la cittadinanza (OMISSIS) senza avervi rinunciato, per essersi "maritata" (così la parola usata nella L. n. 555 del 1912) con un (OMISSIS) e il figlio della coppia, nato nel (OMISSIS), aveva dovuto acquisire lo stato di cittadino del padre, come imposto dalla legge discriminatoria della condizione femminile, e non aveva potuto trasmettere la cittadinanza (OMISSIS) alla figlia che ne chiede il riconoscimento in questa sede. A differenza dei precedenti che hanno dato luogo al contrasto, nei quali agivano in giudizio soggetti sui quali avevano inciso direttamente le leggi dichiarate incostituzionali, cioè donne che avevano perduto la cittadinanza per il matrimonio con lo straniero o persone che non la avevano acquistata per essere figli di madri nella condizione indicata e di padre straniero, nel caso, la istante è solo discendente di soggetti che hanno subito le conseguenze della disciplina discriminatoria.











Il riconoscimento giudiziale della cittadinanza spetterebbe di diritto alla ricorrente, per essere state dichiarate incostituzionali le norme sopra citate, dovendo ritenersi riacquisito o non perduto lo stato di cittadini (OMISSIS) dal padre e dalla nonna, quanto meno a decorrere dal 1 gennaio 1948, essendo incompatibili con il principio di non discriminazione tra i sessi gli effetti, perduranti nel tempo, della normativa incostituzionale non più applicabile quanto meno dalla data che precede.











2.1. La Corte Costituzionale nel 1975, dichiarando la illegittimità costituzionale della L. n. 555 del 1912, art. 10, comma 3, "nella parte in cui prevede la perdita della cittadinanza (OMISSIS) indipendentemente dalla volontà della donna", ha ritenuto tale disciplina discriminatoria della uguaglianza tra uomo e donna e violativa non solo dell'art. 3 Cost., ma anche del principio di uguaglianza dei coniugi e dell'unità familiare di cui all'art. 29 Cost., potendo indurre la donna, per non perdere il proprio stato di cittadina, "a non compiere l'atto giuridico del matrimonio o a sciogliere questo una volta compiuto" (così testualmente la citata sentenza n. 87 del 1975), prevedendo la stessa norma, sul punto non dichiarata illegittima, il riacquisto della cittadinanza per il successivo scioglimento del vincolo coniugale, la cui permanenza era il presupposto giuridico del perdurare della perdita dello stato di cittadina, anche nel precedente regime.











Ad analoga ratio decidendi si ispira la pronuncia n. 30 del 1983, che ritiene discriminante la disciplina della L. n. 555 del 1912, in ordine al mancato acquisto della cittadinanza, perchè "tratta in modo diverso i figli legittimi di padre (OMISSIS) e madre straniera rispetto ai figli legittimi di padre straniero e madre (OMISSIS)", come afferma la sentenza indicata, consentendo solo ai primi di acquisire lo stato di cittadino.











Nella stessa linea e con riferimento sempre all'art. 3 Cost., comma 1, e art. 29 Cost., comma 2, si è infine dichiarato illegittimo, con la sentenza della C. Cost. 26 febbraio 1987 n. 81, l'art. 18 preleggi, che, nel caso di diversa nazionalità dei coniugi e di mancanza di una legge nazionale comune ad entrambi, imponeva l'applicazione della legge nazionale del marito al tempo del matrimonio; la decisione assume rilievo in questa sede, perchè la denegata posizione preminente del marito per individuare la legge applicabile ai due coniugi, importa che la trasmissione alla moglie della cittadinanza imposta dalla legge nazionale di lui per effetto del matrimonio al tempo in cui fu contratto possa permanere, senza essere considerata discriminatoria e violativa del diritto alla eguaglianza giuridica e morale dei coniugi.











2.2. Questa Corte, con sentenza 23 febbraio 1978 n. 903, ha negato che la pronuncia d'illegittimità costituzionale di norme anteriori all'entrata in vigore della Costituzione possa avere effetti prima del 1 gennaio 1948, data di vigenza della carta fondamentale, rilevando che "la perdita della cittadinanza (OMISSIS), a causa dell'acquisto della cittadinanza straniera per effetto del matrimonio della donna contratto con cittadino di altro paese, è effetto istantaneo di tale atto, costituente fatto generatore dell'evento, sul quale non può produrre effetti la pronuncia di illegittimità della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 10, comma 3, di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 87 del 1975".











La sentenza enuncia principi già all'epoca consolidati sulla c.d. incostituzionalità sopravvenuta delle norme precostituzionali dichiarate illegittime (cfr. infra n. 2.3.), ma ad essi non aderiscono due successive pronunce di questa Corte.











La Cass. 10 luglio 1996 n. 6297, sul presupposto che la stessa rilevanza della questione di legittimità costituzionale nel sistema di giudizio incidentale nel quale essa è decisa, comporta la cessazione di efficacia erga omnes delle leggi precostituzionali in quanto applicabili ai rapporti non esauriti, ritiene che causa del mancato acquisto della cittadinanza per l'attore, nato anteriormente al (OMISSIS) e figlio di padre (OMISSIS) e di madre che aveva perduto la cittadinanza per il matrimonio, non sia la nascita ma il rapporto di filiazione con uno dei genitori cittadino inciso ingiustamente dalla norma illegittima e riconosce all'istante la cittadinanza.











Nella stessa linea si muove Cass. 18 novembre 1996 n. 10086, relativa a un matrimonio del (OMISSIS) di una (OMISSIS) con uno (OMISSIS), e all'acquisto dello stato di cittadino del figlio; a seguito di queste due pronunce sorge il contrasto tra decisioni delle sezioni semplici, cui viene data una prima soluzione, da questa Corte a sezioni unite con la sentenza 27 novembre 1998 n. 12061, che aderisce a quanto enunciato nel 1978, con la precisazione che la regola dell'incostituzionalità sopravvenuta impone che la perdita della cittadinanza per effetto del matrimonio della donna con uno straniero prima dell'entrata in vigore della carta costituzionale, evento ormai definitivo, permanga pure dopo l'entrata in vigore della Costituzione, salvo la facoltà per la donna di riacquistare il suo stato con gli strumenti previsti dalla legge ordinaria, cioè con la dichiarazione di cui alla L. n. 151 del 1975, art. 219.











In rapporto a una cittadina (OMISSIS) nata in (OMISSIS), che aveva perso la cittadinanza per un matrimonio del (OMISSIS) con un (OMISSIS), la Cass. 22 novembre 2000 n. 15062, discostandosi dai principi enunciati nel 1998 ed aderendo alla tesi della c.d. incostituzionalità sopravvenuta, ha affermato che, a decorrere dal 1 gennaio 1948, il mancato esaurimento del rapporto di perdita della cittadinanza imposta dalla norma illegittima, ne comporta il recupero.











Si è rilevata il permanere degli effetti della perdita e del mancato acquisto dello stato contrastanti con principi e norme costituzionali dopo il 1 gennaio 1948, riconoscendosi la cittadinanza (OMISSIS) ai tre figli della donna, non cittadini solo per essere nati dopo che la madre aveva perduto lo stato di cittadina per la norma divenuta illegittima.











A causa del rinato contrasto degli orientamenti di questa Corte sulla perdita e sul mancato acquisto della cittadinanza, derivati tutti dalla previgente disciplina delle norme dichiarate illegittime della L. n. 555 del 1912, questa Corte a sezioni unite, con la sentenza 19 febbraio 2004 n. 3331, ha di nuovo confermato la irretrattabilità della perdita dello stato di cittadina per la donna che abbia contratto matrimonio con uno straniero prima dell'entrata in vigore della Costituzione, essendo tale effetto sorto da un evento intervenuto in via definitiva e ormai esaurito, prima che il parametro costituzionale di riferimento che lo rendeva illegittimo fosse giuridicamente esistente e potendo comunque la donna riacquisire il suo stato con la dichiarazione, in tal caso avente effetti costitutivi, di cui alla L. n. 151 del 1975, art. 219. 2.3. Ad eccezione delle due sentenze del 1996, tutte le altre riaffermano il principio per il quale "la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge è un accertamento con efficacia erga omnes, per cui, in conseguenza di esso, la norma di legge dichiarata costituzionalmente illegittima è espunta dal vigente sistema legislativo ex tunc, dal momento in cui è entrata in vigore, se si tratta di norma successiva alla Costituzione, ovvero dal momento di entrata in vigore di quest'ultima, se si tratta di norma anteriore ad essa" (tra altre, con le pronunce citate, cfr. Cass. 4 giugno 1969 n. 1959, 4 febbraio 1975 n. 419 e 12 gennaio 1980 n. 260 e, nello stesso senso, C. Cost.











27 aprile 1967 n. 58).











Salvo il caso in cui la stessa sentenza della Corte costituzionale regoli in maniera diversa la propria retroattività, la questione degli effetti retroattivi delle declaratorie d'illegittimità di leggi precostituzionali viene di solito risolta con i principi sopra enunciati della c.d. incostituzionalità sopravvenuta, affermandosi che, solo a decorrere dalla entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948) e non prima di tale data, possa avere rilievo il contrasto con le norme della legge fondamentale del diritto interno, mancando il parametro costituzionale di riferimento, non esistente nè vigente.











Pure di incostituzionalità sopravvenuta di norme giuridiche esattamente si parla con riferimento a norme dichiarate incostituzionali per il loro contrasto con precetti nascenti da modifiche alla Costituzione successive alla entrata in vigore delle norme ordinarie dichiarate illegittime: ciò è accaduto con la L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, in rapporto all'art. 117 Cost., sostituito dalla L. 18 ottobre 2001, n. 3, e alle pronunce della C. Cost. 24 ottobre 2007 n. 348 e 349.











In rapporto a tale questione Cass. 14 dicembre 2007 n. 26275 rileva correttamente che il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale impone che la norma che ne è oggetto regoli il rapporto controverso e che quindi questo sia ancora pendente perchè, per la sua regolamentazione, possa in riferimento ad esso cessare l'efficacia della legge di cui s'è dichiarata l'incostituzionalità, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza del giudice delle leggi (art. 136 Cost.).











Per effetto dell'accoglimento dalla questione incidentale di illegittimità costituzionale, si rende inapplicabile la norma illegittima ai rapporti e ai casi ai quali essa sarebbe stata applicata, in mancanza della pronuncia del giudice delle leggi, che incide su tali situazioni solo se ed in quanto esse non siano ormai definite, consolidate e concluse, per effetto di altre norme (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3).











Si era già autorevolmente affermato in dottrina che i limiti della retroattività delle sentenze dichiarative dell'incostituzionalità del giudice della legge, assoluta ed erga omnes, corrispondono comunque a quelli della rilevanza della questione prospettata al giudice delle leggi, che ne afferma l'ammissibilità solo quando il rapporto cui la norma della cui costituzionalità si dubita sia ancora giustiziabile, cioè assoggettabile a un giudizio che lo regoli in base alla disciplina in contrasto con la carta fondamentale e suscettibile di modifiche, e non quindi allorchè esso sia ormai esaurito e concluso, per effetto di norme diverse che lo abbiano ormai chiuso in via definitiva (Cass. 18 luglio 2006 n. 16450).











Se l'esaurimento di un rapporto si rileva da norme sostanziali o processuali diverse da quelle oggetto del giudizio di costituzionalità, la sua pendenza, necessaria per la rilevanza della questione, non può che desumersi dalla norma della cui costituzionalità si dubita, da rendere inefficace in relazione a situazioni che non debbano ritenersi già definite o ormai consolidate (così, Cass. 14 gennaio 2008 n. 599, la cit. n. 26275/2007, 28 luglio 2005 n. 15809).











Per le leggi precostituzionali, si afferma che i rapporti regolati da una normativa, sorti nella fase in cui questa non poteva valutarsi su parametri di costituzionalità inesistenti, di regola non possono neppure essere incisi dalla sopravvenuta illegittimità della legge, salvo diversa indicazione della sentenza del giudice delle leggi.











Quest'ultima pronuncia non può modificare i rapporti regolati dalla norma illegittima, salvo che questi non siano suscettibili di produrre, nella sfera giuridica di chi ne è titolare, ancora conseguenze per effetto della legge incostituzionale.











Nel caso di specie, la sentenza n. 87 del 1975 e la n. 30 del 1983 della Corte costituzionale chiariscono che, in ordine al matrimonio con lo straniero, la perdita della cittadinanza della moglie veniva meno con lo scioglimento del matrimonio e che il mancato acquisto dello stato derivava non dalla mera nascita da donna privata della cittadinanza, senza la sua volontà, ma dalla "filiazione" da questa, mostrando, con tale lettura delle norme incostituzionali della Legge del 1912, che erano il coniugio con lo straniero e la filiazione da questo le cause permanenti della perdita e del mancato acquisto dello stato e non i fatti da cui i rapporti sorgevano, pur non avendo il marito rilievo preminente in essi (C. Cost. n. 71/1987).











3. La cittadinanza è una condizione personale che rende una persona membro del popolo di un certo paese e da essa sorgono diritti e doveri non solo nei confronti dello Stato ma anche nei rapporti del cittadino con la società e le altre persone che ad essa appartengono (art. 4 Cost., commi 1 e 2).











Per la normativa ordinaria, alla cittadinanza ha diritto il figlio di padre o madre cittadini o di genitori ignoti, se nasce sul territorio nazionale (L. 5 febbraio 1992, n. 91, art. 1), con riferimento ai concetti di ius sanguinis e ius soli; la Costituzione vieta che lo stato possa perdersi per motivi politici (art. 22 Cost.) e la legge ordinaria precisa che ad esso può rinunciare solo chi ne è titolare (L. n. 92 del 1991, art. 11).











La struttura normativa dell'istituto evidenzia che ogni persona ha un diritto soggettivo alla condizione personale costituita dallo stato di cittadino e in tal senso sono pure le convenzioni internazionali rilevanti in questa sede ai sensi dell'art. 117 Cost. (dall'art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 al Trattato di Lisbona approvato dal Parlamento europeo il 16 gennaio 2008).











La L. n. 92 del 1991 sulla cittadinanza riafferma l'esistenza di tale diritto che può essere solo riconosciuto dalle autorità amministrative competenti (Ministero dell'Interno: artt. 7 e 8), prevedendo eccezionalmente atti concessori di esso da parte del Presidente della Repubblica, con una discrezionalità politica limitata, in rapporto alle circostanze speciali indicate dalla legge, per le quali la cittadinanza viene concessa (art. 9).











Lo stato di cittadino è permanente ed ha effetti perduranti nel tempo che si manifestano nell'esercizio dei diritti conseguenti;











esso, come si è rilevato, può perdersi solo per rinuncia, così come anche nella legislazione previgente (L. n. 555 del 1912, art. 8, n. 2).











Per la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata in (OMISSIS) dalla L. 14 marzo 1985, n. 132, richiamata in ricorso, alle donne spettano "diritti uguali a quelli degli uomini in materia di acquisto, mutamento e conservazione della cittadinanza".











Nella Legge del 1912, come interpretata dalla Corte Costituzionale nelle due richiamate sentenze, il rapporto di coniugio della donna "maritata" con straniero e quello di "filiazione" solo da padre cittadino comportavano rispettivamente la perdita o l'acquisto della cittadinanza, non spettante al figlio di donna che l'aveva perduta per matrimonio.











Nessun riferimento esclusivo alla nascita e al mero ius sanguinis giustificava o giustifica l'acquisto dello stato di cittadino, che sorge dalla filiazione, oggi anche adottiva, essendo dubitabile e superato il collegamento al mero fatto del nascere da un soggetto con una specifica cittadinanza dell'acquisto di questa, con una visione che pericolosamente si accosta al concetto di "razza", incompatibile con la civiltà prima ancora che con l'art. 3 Cost..











La cittadinanza, come esattamente si afferma dalla migliore dottrina, assume il suo senso e significato non solo nella disciplina dei rapporti verticali del suo titolare con lo Stato che esercita poteri sovrani nei suoi confronti, ma anche in quelli orizzontali con gli altri appartenenti alla società cui egli partecipa con lui titolari del medesimo stato (art. 4 Cost.).











Attraverso il rapporto di filiazione che collega una persona alla formazione sociale intermedia costituita dalla famiglia "società naturale" (artt. 2 e 29 Cost.), la persona entra in rapporto con l'intera società e ha diritto al riconoscimento dello stato di cittadino e dei diritti e doveri conseguenti.











Perciò correttamente si afferma che lo stato di cittadino, effetto della condizione di figlio, come questa, costituisce una qualità essenziale della persona, con caratteri d'assolutezza, originarietà, indisponibilità ed imprescrittibilità, che lo rendono giustiziabile in ogni tempo e di regola non definibile come esaurito o chiuso, se non quando risulti denegato o riconosciuto da sentenza passata in giudicato.











Tale ricostruzione del concetto di cittadinanza emerge dalle stesse sentenze sulla legge precostituzionale che la regolava della Corte Costituzionale, che ritengono la perdita e il mancato acquisto dello stato imposte dalla normativa illegittima, effetto di un matrimonio, sempre che questo permanga efficace e non sia stato sciolto, e dell'essere figlio di madre che la perdita dello stato abbia subito contro la sua volontà, senza rinunciarvi.











Si afferma nelle sentenze delle S.U. del 1998 e del 2004, che il fatto causativo della privazione della cittadinanza per la donna sarebbe il solo evento del matrimonio contratto prima dell'entrata in vigore della costituzione, cui l'art. 10 collegava la perdita della cittadinanza, qualificandosi tale effetto come conseguenza esaurita del matrimonio stesso, senza darsi rilievo alle indicate ragioni delle decisioni dichiarative della illegittimità della normativa, rilevata anche in base al perdurare del vincolo matrimoniale fino al suo scioglimento e alla filiazione della persona anche da madre cittadina.











La stessa ordinanza interlocutoria della prima sezione civile esattamente afferma che lo stato di cittadino, se perduto, è comunque recuperabile, come accadeva anche nel vigore della L. n. 555 del 1912, art. 10, sul punto non illegittimo, con lo scioglimento del vincolo e quindi che la perdita della cittadinanza costituisce un rapporto perdurante nel tempo, su cui incide lo stato di coniuge e non solo il fatto matrimonio e quello di figlio di donna e non di uomo cittadino, che, anche nella presente fattispecie, hanno inciso sulla cittadinanza degli ascendenti della ricorrente, in contrasto con i principi fondamentali e costituzionali di non discriminazione della donna e a causa di una diversità di trattamento fondata sulla distinzione sessuale e violativa del principio di tutela dell'unità familiare e di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.











In assenza di eventi o situazioni, regolate da norme diverse dalla L. n. 555 del 1912, come ad es. una sentenza passata in giudicato che abbia reso definitiva ed esaurita la perdita o il mancato acquisto della cittadinanza, il permanere di tali effetti comporta il perdurare delle conseguenze di una normativa discriminatoria e violativa di diritti fondamentali della donna, pure in assenza di un evento esterno che abbia reso definitivo il rapporto regolato dalle norme incostituzionali.











Il carattere assoluto della tutela del diritto fondamentale a non essere discriminati per ragioni di sesso leso dalla normativa del 1912, potrebbe far riconoscere una retroattività oltre la data di entrata in vigore della Costituzione e un'incidenza nel tempo analoga a quella riconosciuta nello spazio da questa Corte (S.U. ord. 29 maggio 2008 n. 14201 e sent. 11 marzo 2004 n. 5044), essendo in gioco diritti inviolabili della donna ad essere trattata non diversamente dall'uomo, che la Carta all'art. 2 "riconosce" e non attribuisce, anche in riferimento al ruolo dei coniugi nella famiglia (C. Cost. n. 81/87).











Il mancato riferimento a tale più estesa retroattività dalle citate sentenze della Corte Costituzionale del 1975 e del 1983, il cui contenuto indica la loro efficacia retroattiva solo per i rapporti non esauriti sui quali le norme incostituzionali ancora incidano, non consente di superare nel caso i principi enunciati dell'incostituzionalità sopravvenuta e il limite della retroattività non oltre il 1 gennaio 1948 della rilevata illegittimità delle norme precostituzionali.











3.1. I due precedenti del 1998 e del 2004 di questa Corte a sezioni unite collegano il recupero della cittadinanza alla dichiarazione prevista dalla L. n. 251 del 1975, art. 219, ritenendo la prima che il riferimento nella sentenza n. 87 del 1975 alla perdita della cittadinanza contro la volontà della donna, naturalmente escluda un riacquisto dello stato senza la volontà della stessa e affermandosi, nella seconda pronuncia, che tale atto avrebbe natura costitutiva almeno con riferimento alla cittadinanza perduta prima dell'entrata in vigore della L. n. 151 del 1975.











La norma, confermata dalla L. n. 92 del 1991, art. 17, prevede che "la donna che, per effetto di matrimonio con lo straniero ... ha perduto la cittadinanza (OMISSIS) prima dell'entrata in vigore della presente legge, la riacquista con dichiarazione resa all'autorità competente", cioè all'ufficiale di stato civile della città dove la dichiarante risiede o intende stabilire la sua residenza o, in caso di residenza all'estero, alle autorità diplomatiche o consolari (cfr. della L. n. 92 del 1991, artt. 7 e 23 e del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362, art. 1, norme che hanno sostituito l'art. 36 disp. att. c.c.).











In rapporto alla facoltà degli aventi diritto al recupero o all'acquisto della cittadinanza di rinunciare allo stato di cittadino, prevista, nella previgente L. n. 555 del 1912 (art. 8) e nella attuale normativa (L. n. 92 del 1991, art. 11), la L. n. 151 del 1975, art. 219, impone la dichiarazione, che, dalla stessa norma si prevede sia "resa" all'autorità amministrativa con effetti ricognitivi del riacquisto della cittadinanza perduta prima dell'entrata in vigore della Legge del 1975 e anteriormente al 1948.











L'affermazione della norma che il riacquisto si ha "con" la dichiarazione e non "per effetto" di questa, in nessun caso consente di qualificare tale atto come costitutivo, anche se le autorità amministrative sono tenute a "riconoscere", con decreto ministeriale, il diritto al recupero della cittadinanza perduta a decorrere dal giorno successivo a quello in cui sono state adempiute tutte le formalità richieste (L. n. 92 del 1991, art. 15).











Deve ritenersi che, come previsto per lo stato di apolide, anche per lo stato di cittadino, la ricognizione amministrativa e il Decreto del Ministro dell'interno che ad essa consegue (L. n. 92 del 1991, artt. 7 e 8), riguardando un diritto soggettivo, sono atti vincolati che non possono che fondarsi sui documenti prodotti da chi li richiede, in applicazione dei principi d'imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).











L'accertamento giudiziale dello stato di cittadino invece non è vincolato ai medesimi limiti dell'azione della P.A. e, nel caso di perdita della cittadinanza per il matrimonio di donna con straniero anteriore al 1975, può avvenire senza tale atto, sempre che non sia provata dal Ministero la rinuncia dell'interessata allo stato stesso intervenuta nelle more (sul doppio binario, amministrativo e giurisdizionale, per il riconoscimento dello stato di apolidia, cfr.











S.U. 9 dicembre 2008 n. 28873).











Tale lettura costituzionale della L. n. 151 del 1975, art. 219, assorbe ogni censura proposta nel primo motivo di ricorso e rende irrilevante la questione di legittimità costituzionale sollevata nel terzo motivo d'impugnazione.











3.2. La situazione a base delle domande oggetto di questo giudizio, cioè il diritto allo stato di cittadina della ricorrente, perchè illegittimamente mai acquisito dal padre figlio di donna che lo ha perduto ingiustamente, è conseguenza "automatica" della applicazione di una legge incostituzionale a decorrere dal 1 gennaio 1948.











Sul piano logico prima che su quello giuridico, ai sensi dell'art. 136 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, la cessazione degli effetti della legge illegittima perchè discriminatoria, non può non incidere immediatamente e in via "automatica" sulle situazioni pendenti o ancora giustiziabili, come il diritto alla cittadinanza, potendo in ogni tempo, dalla data in cui la legge è divenuta inapplicabile, essere riconosciuto l'imprescrittibile diritto alla mancata perdita o all'acquisto dello stato di cittadino degli ascendenti della ricorrente e quindi il diritto di questa alla dichiarazione del proprio stato, come figlia di padre cittadino per la filiazione da donna che, dal (OMISSIS), deve ritenersi cittadina (OMISSIS).











Gli effetti prodotti da una legge ingiusta e discriminante nei rapporti di filiazione e coniugio e sullo stato di cittadinanza, che perdurino nel tempo, non possono che venire meno, anche in caso di morte di taluno degli ascendenti, con la cessazione di efficacia di tale legge, che decorre, dal 1 gennaio 1948, data dalla quale la cittadinanza deve ritenersi automaticamente recuperata per coloro che l'hanno perduta o non l'hanno acquistata a causa di una norma ingiusta, ove non vi sia stata una espressa rinuncia allo stato degli aventi diritto.











Le norme precostituzionali riconosciute illegittime per effetto di sentenze del giudice della legge, sono inapplicabili e non hanno più effetto dal 1 gennaio 1948 sui rapporti su cui ancora incidono, se permanga, la discriminazione delle persone per il loro sesso o la preminenza del marito nei rapporti familiari, sempre che vi sia una persona sulla quale determinano ancora conseguenze ingiuste, ma giustiziabili, cioè tutelabili in sede giurisdizionale.











Di certo non può costituire criterio ermeneutico in senso opposto degli effetti delle sentenza d'incostituzionalità delle leggi, la diffidenza della prassi amministrativa verso una eccessiva espansione della retroattività, che potrebbe dar luogo ad una moltiplicazione di richieste di cittadinanza dai discendenti dei cittadini (OMISSIS) emigrati in altri Stati, quale è l'attrice-ricorrente nella fattispecie (cfr. la circolare del Ministero dell'interno 11 novembre 1992, n. (OMISSIS), che in tali sensi interpreta la L. n. 91 del 1992, richiamando il parere della 1^ sezione del Consiglio di Stato del 15 gennaio 1983, che nega che le sentenze della Corte costituzionale possano retroagire oltre il 1 gennaio 1948).











In realtà, anche a non tenere conto della diversità, rispetto all'epoca della citata circolare ministeriale, dell'attuale condizione della società, in cui esistono forti flussi immigratori, oggi appare palese il favore del nostro legislatore per il recupero della cittadinanza dei discendenti degli emigrati all'estero, cui si tende a riconoscere il diritto di voto (la tendenza normativa emerge ad es. dalla L. 8 marzo 2006, n. 124, dal D.M. 5 aprile 2002 e dalla L. n. 91 del 1992, art. 18), dovendosi negare ogni rilievo alla nuova normativa sulle pari opportunità di cui al quarto motivo, assorbito per l'accoglimento della impugnazione.











5. In conclusione, il ricorso della E. è fondato, indipendentemente dalla dichiarazione della sua ascendente C. A. di voler riacquistare la cittadinanza, dovendo ritenersi tale effetto prodotto, a decorrere dal 1 gennaio 1948, dalla sentenza della Corte Cost. n. 87 del 1975, con analoghe conseguenze, dalla stessa data, per il padre della ricorrente, figlio di madre cittadina avente diritto allo stato per effetto della filiazione indicato, in ragione della sentenza del giudice della L. n. 30 del 1983 e della fine della preminenza del marito nella vita della famiglia e delle norme che la regolano.











Tale riconoscimento non può negarsi neppure in caso di morte degli ascendenti della ricorrente, salvo che vi sia stata, da costoro, rinuncia alla cittadinanza sempre consentita dalle leggi succedutesi nel tempo (L. n. 555 del 1912, art. 8 e L. n. 92 del 1991, art. 11), rinuncia di cui deve dare la prova in questa sede chi si oppone alla ricognizione del diritto. E' in rapporto all'esercizio della facoltà di rinuncia alla cittadinanza e all'applicazione dei principi di buona amministrazione di cui all'art. 97 Cost., che si è prevista la dichiarazione di cui alla L. n. 151 del 1975, art. 219, per il riacquisto della cittadinanza: trattasi di un documento necessario al fine del riconoscimento in sede amministrativa dello stato di cittadino della donna e dei suoi discendenti, comprovante la mancanza di una rinuncia alla cittadinanza e con effetti non costitutivi. La dichiarazione è necessaria con altre formalità, perchè resa all'autorità competente, vincola il Ministero dell'interno alla ricognizione con decreto dello stato già recuperato per legge.











Lo stesso documento non ha invece il medesimo rilievo decisivo per la tutela giurisdizionale dello stato di cittadino, recuperato automaticamente per la inapplicabilità sopravvenuta della legge dichiarata costituzionalmente illegittima, che fa cessare gli effetti di essa perduranti nel tempo, anche in costanza del rapporto di coniugio della donna a base della perdita, che, a decorrere dal 1948 non può dar luogo alla privazione dello stato.











Deve quindi enunciarsi il seguente principio di diritto "La titolarità della cittadinanza (OMISSIS) va riconosciuta in sede giudiziaria, indipendentemente dalla dichiarazione resa dall'interessata ai sensi della L. n. 151 del 1975, art. 219, alla donna che l'ha perduta per essere coniugata con cittadino straniero anteriormente al 1 gennaio 1948, in quanto la perdita senza la volontà della titolare della cittadinanza è effetto perdurante, dopo la data indicata, della norma incostituzionale, effetto che contrasta con il principio della parità dei sessi e della eguaglianza giuridica e morale dei coniugi (artt. 3 e 29 Cost.). Per lo stesso principio, riacquista la cittadinanza (OMISSIS) dal (OMISSIS), anche il figlio di donna nella situazione descritta, nato prima di tale data e nel vigore della L. n. 255 del 1912, determinando il rapporto di filiazione, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, la trasmissione a lui dello stato di cittadino, che gli sarebbe spettato di diritto senza la legge discriminatoria;











da quest'ultimo quindi lo stato, per il rapporto di paternità, deve trasmettersi alla figlia, ricorrente in questa sede e alla quale deve riconoscersi".











Ai sensi dell'art. 384 c.p.c., questa Corte, accolto il ricorso, deve quindi cassare la sentenza impugnata che ha applicato principi diversi e accogliere la domanda della E., non essendo provati dal Ministero fatti ostativi alla ricognizione richiesta e dovendosi ritenere acquisito automaticamente dalla ricorrente, alla data della nascita ((OMISSIS)), lo stato di cittadina per le ragioni richiamate.











Al riconoscimento devono seguire le formalità di legge da disporsi in via accessoria; le incertezze giurisprudenziali nella materia giustificano la totale compensazione delle spese dell'intero giudizio tra le parti.







P.Q.M.











La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c.: a) accoglie la domanda di E.M., nata a (OMISSIS) il (OMISSIS) e la dichiara cittadina (OMISSIS); b) ordina al Ministero dell'interno e, per esso, all'ufficiale dello stato civile competente, di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile, della cittadinanza della persona indicata, provvedendo alle eventuali comunicazioni alle autorità consolari competenti; c) compensa le spese dell'intero giudizio tra le parti.











Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, il 3 febbraio 2009.











Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2009











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