venerdì 13 marzo 2009

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo......


La Cassazione e il lavoro dei clandestini
(Cass. pen., n. 38079/2008)
G. De Falco
(Nota a sentenza 9/2/2009)


E' purtroppo ancora assai frequente, nel mondo del lavoro, l'assunzione irregolare di lavoratori stranieri non in regola con le disposizioni che disciplinano l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari nel nostro paese. E' noto che la manodopera immigrata consente un notevole risparmio al datore di lavoro, sia in punto di retribuzione che in punto di oneri contributivi. Per fronteggiare tale fenomeno, a prescindere dalle violazioni circa l'irregolare instaurazione del rapporto di lavoro, le norme in tema di immigrazione delineano il reato di cui all'art. 22 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico in tema di immigrazione) che punisce il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso di soggiorno sia scaduto, revocato o annullato. La giurisprudenza è assai rigorosa nel ritenere configurabile il reato sia quando l'assunzione riguardi un solo lavoratore, sia quando ne concerna un numero superiore. Analogamente è irrilevante la tipologia del rapporto di lavoro perfezionato, sempreché questo dia luogo ad un rapporto di sostanziale subordinazione. Una recente sentenza della Cassazione penale (sezione feriale 6.10.08 - udienza 4.9.08 - n. 38079, ricorrente la Marca) precisa invero, in modo ineccepibile, che il reato in questione è configurabile qualunque sia la tipologia di lavoro subordinato instaurato, e quindi anche nel caso di lavoro in prova, e indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività, e quindi anche nel caso di lavoro durato un solo giorno. Anche tali, in apparenza, marginali connotazioni del rapporto di lavoro ledono infatti l'interesse dello Stato a non consentire l'occupazione di soggetti che non siano in regola con le diposizioni in tema di ingresso e di permanenza nel territorio nazionale e a mantenere il controllo sulla disciplina di ogni tipo di rapporto lavorativo. Sempre a proposito dell'interpretazione rigorosa fornita dalla giurisprudenza in ordine alla fattispecie penale in parola va ricordato che sia i giudici di merito che la Cassazione ravvisano il reato con riferimento a qualunque tipo di attività svolta dal datore di lavoro; e dunque anche il semplice cittadino che assuma una badante o una colf clandestina, o comunque qualsiasi lavoratore non chiamato a lavoratore nell'ambito di un'attività imprenditoriale, incorre nel reato in questione.

Dott. Giuseppe De Falco
Magistrato

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo......


La Cassazione e il lavoro dei clandestini
(Cass. pen., n. 38079/2008)
G. De Falco
(Nota a sentenza 9/2/2009)


E' purtroppo ancora assai frequente, nel mondo del lavoro, l'assunzione irregolare di lavoratori stranieri non in regola con le disposizioni che disciplinano l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari nel nostro paese. E' noto che la manodopera immigrata consente un notevole risparmio al datore di lavoro, sia in punto di retribuzione che in punto di oneri contributivi. Per fronteggiare tale fenomeno, a prescindere dalle violazioni circa l'irregolare instaurazione del rapporto di lavoro, le norme in tema di immigrazione delineano il reato di cui all'art. 22 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico in tema di immigrazione) che punisce il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso di soggiorno sia scaduto, revocato o annullato. La giurisprudenza è assai rigorosa nel ritenere configurabile il reato sia quando l'assunzione riguardi un solo lavoratore, sia quando ne concerna un numero superiore. Analogamente è irrilevante la tipologia del rapporto di lavoro perfezionato, sempreché questo dia luogo ad un rapporto di sostanziale subordinazione. Una recente sentenza della Cassazione penale (sezione feriale 6.10.08 - udienza 4.9.08 - n. 38079, ricorrente la Marca) precisa invero, in modo ineccepibile, che il reato in questione è configurabile qualunque sia la tipologia di lavoro subordinato instaurato, e quindi anche nel caso di lavoro in prova, e indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività, e quindi anche nel caso di lavoro durato un solo giorno. Anche tali, in apparenza, marginali connotazioni del rapporto di lavoro ledono infatti l'interesse dello Stato a non consentire l'occupazione di soggetti che non siano in regola con le diposizioni in tema di ingresso e di permanenza nel territorio nazionale e a mantenere il controllo sulla disciplina di ogni tipo di rapporto lavorativo. Sempre a proposito dell'interpretazione rigorosa fornita dalla giurisprudenza in ordine alla fattispecie penale in parola va ricordato che sia i giudici di merito che la Cassazione ravvisano il reato con riferimento a qualunque tipo di attività svolta dal datore di lavoro; e dunque anche il semplice cittadino che assuma una badante o una colf clandestina, o comunque qualsiasi lavoratore non chiamato a lavoratore nell'ambito di un'attività imprenditoriale, incorre nel reato in questione.

Dott. Giuseppe De Falco
Magistrato

Gli immigrati clandestini ed il lavoro irregolare


Corte di Cassazione Penale Sezione Feriale 6/10/2008 n. 38079;
Pres. De Roberto G.
Lavoro clandestino

FATTO E DIRITTO
Con sentenza 23/4/08 la Corte di Appello di Genova confermava la sentenza 6/6/07 del Tribunale di Savona che, a seguito di giudizio abbreviato, condannava L.M.A. alla pena complessiva (interamente condonata) di 4.500,00 Euro di ammenda (in parte sostitutiva della corrispondente pena detentiva) per il reato di occupazione alle proprie dipendenze di straniero (tale M. D.) senza permesso di soggiorno (D.L. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12: in (omissis)).
Ricorreva personalmente per cassazione l'imputato, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Con un primo motivo lamentava che il giudice di merito avesse ritenuto la sussistenza del reato in presenza di un solo lavoratore occupato (mentre la norma usava il sostantivo al plurale: "lavoratori"). Con un secondo motivo lamentava che il reato fosse stato ritenuto nonostante l'assenza di prova di uno stabile rapporto, lo straniero stesso avendo dichiarato ai carabinieri di essere in prova presso l'impresa ed al primo giorno di lavoro. Con un terzo motivo lamentava la mancata assunzione di una prova decisiva (la testimonianza del proprio commercialista).
All'udienza fissata per la discussione, non comparsa la parte ricorrente, il PG presso la S.C. chiedeva dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
Il ricorso, manifestamente infondato, è inammissibile.
Col primo motivo si sostiene che la norma violata intende sanzionare l'occupazione di una pluralità di "lavoratori stranieri" clandestini: quando la medesima legge ha voluto diversamente ha usato una diversa locuzione ("uno o più stranieri": art. 24, comma 6, in materia di lavoro stagionale). La tesi, basata su una lettura meramente letterale della norma, non solo è contraddetta dall'inciso finale della stessa, dove si stabilisce la pena "per ogni lavoratore impiegato" (venendo così meno il preteso rilievo della pluralità indistinta dei lavoratori), ma lo è soprattutto - come peraltro già rilevato dal giudice di merito - dalla ratio della norma (e della legge) di cui trattasi (evitare l'occupazione di stranieri irregolari).
Allo stesso modo il secondo motivo contraddice una giurisprudenza di legittimità del tutto condivisa (v. sez. 1^, 26/3/08-14/4/08, n. 15463, Zhao), secondo cui il concetto di occupazione che figura nell'art. 22 della legge de qua si riferisce alla instaurazione di un qualunque rapporto di lavoro subordinato (quindi anche un rapporto di lavoro in prova), indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività (quindi anche il lavoro di un giorno).
Il terzo motivo si limita genericamente ad evocare un mezzo di prova (che si assume decisivo, ma ciò è da escludersi in forza delle considerazioni che precedono) chiesto nel corso del procedimento di primo grado (celebrato in abbreviato). Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di somma, a favore della Cassa delle ammende, che è congruo fissare in 1.000,00 Euro.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende.

Gli immigrati clandestini ed il lavoro irregolare


Corte di Cassazione Penale Sezione Feriale 6/10/2008 n. 38079;
Pres. De Roberto G.
Lavoro clandestino

FATTO E DIRITTO
Con sentenza 23/4/08 la Corte di Appello di Genova confermava la sentenza 6/6/07 del Tribunale di Savona che, a seguito di giudizio abbreviato, condannava L.M.A. alla pena complessiva (interamente condonata) di 4.500,00 Euro di ammenda (in parte sostitutiva della corrispondente pena detentiva) per il reato di occupazione alle proprie dipendenze di straniero (tale M. D.) senza permesso di soggiorno (D.L. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12: in (omissis)).
Ricorreva personalmente per cassazione l'imputato, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Con un primo motivo lamentava che il giudice di merito avesse ritenuto la sussistenza del reato in presenza di un solo lavoratore occupato (mentre la norma usava il sostantivo al plurale: "lavoratori"). Con un secondo motivo lamentava che il reato fosse stato ritenuto nonostante l'assenza di prova di uno stabile rapporto, lo straniero stesso avendo dichiarato ai carabinieri di essere in prova presso l'impresa ed al primo giorno di lavoro. Con un terzo motivo lamentava la mancata assunzione di una prova decisiva (la testimonianza del proprio commercialista).
All'udienza fissata per la discussione, non comparsa la parte ricorrente, il PG presso la S.C. chiedeva dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
Il ricorso, manifestamente infondato, è inammissibile.
Col primo motivo si sostiene che la norma violata intende sanzionare l'occupazione di una pluralità di "lavoratori stranieri" clandestini: quando la medesima legge ha voluto diversamente ha usato una diversa locuzione ("uno o più stranieri": art. 24, comma 6, in materia di lavoro stagionale). La tesi, basata su una lettura meramente letterale della norma, non solo è contraddetta dall'inciso finale della stessa, dove si stabilisce la pena "per ogni lavoratore impiegato" (venendo così meno il preteso rilievo della pluralità indistinta dei lavoratori), ma lo è soprattutto - come peraltro già rilevato dal giudice di merito - dalla ratio della norma (e della legge) di cui trattasi (evitare l'occupazione di stranieri irregolari).
Allo stesso modo il secondo motivo contraddice una giurisprudenza di legittimità del tutto condivisa (v. sez. 1^, 26/3/08-14/4/08, n. 15463, Zhao), secondo cui il concetto di occupazione che figura nell'art. 22 della legge de qua si riferisce alla instaurazione di un qualunque rapporto di lavoro subordinato (quindi anche un rapporto di lavoro in prova), indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività (quindi anche il lavoro di un giorno).
Il terzo motivo si limita genericamente ad evocare un mezzo di prova (che si assume decisivo, ma ciò è da escludersi in forza delle considerazioni che precedono) chiesto nel corso del procedimento di primo grado (celebrato in abbreviato). Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di somma, a favore della Cassa delle ammende, che è congruo fissare in 1.000,00 Euro.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende.

Il lavoratore può agire direttamente contro l'assicuratore datoriale per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro

Corte Costituzionale sentenza 63 del 2009 -

"questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro."


SENTENZA N. 63
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza del 13 maggio 2008 dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra N. B. e la UMS Generali Marine S.p.A. ed altro, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visti l'atto di costituzione di N. B. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 febbraio 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Giuseppe Sante Assennato e Alessandro Garlatti per N. B. e l'avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un giudizio promosso da un lavoratore vittima di infortunio contro il fallimento della società datrice di lavoro e l'assicuratore di tale società, la Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 13 maggio 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro.
La Corte rimettente espone di essere stata investita del ricorso proposto dal lavoratore contro la sentenza del giudice di secondo grado confermativa della pronuncia del tribunale che, ammettendo al passivo fallimentare il credito del lavoratore per il danno differenziale conseguente all'infortunio sul lavoro da lui subito il 17 novembre 1995, aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta dello stesso lavoratore contro l'assicuratore del datore di lavoro, perché, in base all'art. 1917 cod. civ., il danneggiato non ha azione diretta contro la compagnia assicuratrice.
Il giudice a quo ricorda che un'analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, commi primo e secondo, cod. civ., è stata già proposta alla Corte costituzionale, la quale, con ordinanza n. 457 del 2006, l'ha dichiarata manifestamente inammissibile sotto due profili: in primo luogo perchè sollevata nel corso di un giudizio che ha quale unico possibile oggetto l'ammissione al passivo del credito azionato ed il suo rango (giudizio nel quale, pertanto, non è rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore); in secondo luogo, perchè la questione era stata prospettata dal rimettente in termini commisti ad una modifica dell'ordine legale dei privilegi, come tale estranea all'oggetto del giudizio principale, promosso esclusivamente per la riforma del capo della sentenza che aveva rigettato la pretesa di azionare il credito direttamente nei confronti dell'assicuratore.
La rimettente ritiene di dover riproporre la questione depurata dai predetti profili di inammissibilità.
In particolare, quanto al secondo, la Corte di cassazione afferma che nel giudizio principale non è prospettata alcuna questione di ordine di privilegi.
Invece, per quel che concerne il primo profilo di inammissibilità, la rimettente sostiene che il principio di concentrazione delle tutele derivante dall'art. 111, secondo comma, Cost., consente, e in un certo senso impone, nell'alternatività tra azione diretta verso l'assicuratore e ammissione al passivo fallimentare dell'assicurato (eventualmente per il residuo non coperto dall'assicuratore), una risposta giudiziaria contestuale alla domanda di giustizia del danneggiato. Tale esigenza di concentrazione, ad avviso del giudice a quo, è a fondamento delle modifiche apportate alla legge fallimentare dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in particolare con l'eliminazione delle precedenti limitazioni alla cognizione del tribunale fallimentare, e della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 12 novembre 2004, n. 21499) che, nell'affermare la mera specialità del rito, con esclusione di qualsiasi profilo di competenza, ammette la trattazione contestuale avanti al tribunale fallimentare di tutte le questioni (anche nei confronti di terzi) che, come quella diretta del lavoratore infortunato contro l'assicuratore, siano incidenti sulla formazione dello stato passivo.
Con riferimento alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente sostiene che la norma censurata viola gli artt. 3 e 35 Cost., discriminando il lavoratore vittima di infortunio rispetto ad altri soggetti che godono invece di azione diretta verso l'assicuratore o verso altri terzi e, in particolare, rispetto: ai dipendenti dell'appaltatore che hanno azione diretta contro il committente, ai sensi dell'art. 1676 del codice civile; ai dipendenti dell'impresa somministratrice nel contratto di somministrazione di lavoro ed a quelli dell'impresa appaltatrice nel contratto di appalto di opere o servizi, i quali – a norma, rispettivamente, degli artt. 23 e 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30) – possono esercitare azione diretta nei confronti del debitore del loro datore di lavoro per il pagamento dei trattamenti retributivi loro spettanti; ai danneggiati da sinistro stradale, che hanno azione diretta nei confronti dell'assicuratore del danneggiante ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti). In tutti questi casi le somme dovute dall'assicuratore al danneggiato sono sottratte alla par condicio creditorum del danneggiante dichiarato fallito.
La rimettente deduce, poi, la violazione dell'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'irrazionalità dell'attuale disciplina dell'art. 1917, secondo comma, cod. civ., sia perché tale norma affida il soddisfacimento, o meno, del bene primario rappresentato dal credito risarcitorio del lavoratore infortunato alla mera volontà dell'assicuratore o dell'assicurato che, in ragione del tempo in cui viene manifestata, può essere sottratto alla par condicio creditorum, sia perché essa non concede azione diretta al lavoratore infortunato sul luogo di lavoro, mentre il lavoratore vittima di infortunio in itinere gode dell'azione diretta in quanto vittima della strada.
Infine, il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché un'azione diretta nei confronti dell'assicuratore consentirebbe tempi processuali più rapidi e minori costi per spese di giustizia.
2. – Nel giudizio si è costituito il lavoratore ricorrente nel giudizio principale che ha concluso nel senso della fondatezza della questione.
La parte privata, dopo aver ripercorso l'iter del giudizio principale ed aver dato conto delle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione, deduce che l'art. 1917, secondo comma, cod. civ., frustra il diritto del lavoratore infortunato al risarcimento del danno subito. Infatti, l'indennizzo assicurativo (estraneo all'utile e al patrimonio dell'impresa) in caso di fallimento del datore di lavoro entra nella massa attiva del fallimento alla stregua di un qualsiasi cespite attivo dell'impresa fallita, pur trattandosi di una somma destinata a risarcire un danno. Esso finisce per costituire un incremento patrimoniale attivo sul quale altri, non danneggiati dall'infortunio, possono soddisfarsi almeno in parte. Vengono così in comparazione due diversi interessi di rango diseguale: la par condicio creditorum (che, pur essendo privilegiata dall'ordinamento, non è oggetto di protezione costituzionale) e la tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore (di rango costituzionale ex artt. 32 e 36, primo comma, Cost.).
2.1. – In prossimità dell'udienza di discussione la parte privata ha depositato memoria nella quale ha sostenuto l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri e, in via subordinata, ha chiesto che la Corte affermi il principio secondo cui il danneggiato da infortunio sul lavoro ha azione diretta contro l'assicuratore per il credito risarcitorio del danno differenziale anche dopo la dichiarazione di fallimento.
3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.
Sotto il primo profilo la questione sarebbe manifestamente inammissibile per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, poiché la Corte rimettente prende le mosse dal presupposto secondo cui la sopravvenienza del fallimento impedirebbe all'assicuratore di pagare l'indennizzo direttamente al danneggiato e all'amministrazione fallimentare di ordinare all'assicuratore il pagamento diretto (come invece sarebbe previsto dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., qualora l'assicurato fosse in bonis), senza esplorare la possibilità di un'interpretazione alternativa, alla stregua della quale le facoltà di pagamento diretto già previste dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., possano sopravvivere al fallimento dell'assicurato.
Quanto al merito, il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia che l'impostazione della questione di legittimità costituzionale, così come sollevata dalla Corte di cassazione, è viziata da un salto logico, poiché la rimettente, sostenendo che il problema nascerebbe dal venir meno, a seguito del fallimento del datore di lavoro, delle facoltà di pagamento diretto di cui all'art. 1917, secondo comma, cod. civ., avrebbe dovuto denunciare la predetta norma codicistica, non per il fatto che essa non preveda l'azione diretta del lavoratore in caso di sopravvenuto fallimento, bensì per il fatto che essa esclude, in tale ipotesi, la sopravvivenza delle facoltà di pagamento diretto di cui al secondo comma.
L'interventore nega, poi, la sussistenza della denunziata violazione dell'art. 3 Cost. in relazione all'azione diretta concessa al danneggiato da sinistro occorso nella circolazione stradale. Infatti, questa facoltà costituisce la sola tutela specifica prevista dalla legge al danneggiato da tale tipo di sinistri, mentre, in materia di infortuni sul lavoro, l'assicurazione obbligatoria dei lavoratori presso gli istituti pubblici a ciò preposti assicura essa stessa un'adeguata tutela.
A parere del Presidente del Consiglio dei ministri, non v'è disuguaglianza costituzionalmente apprezzabile neppure in relazione all'azione diretta per le retribuzioni non pagate concessa ai dipendenti dell'appaltatore di lavori o di manodopera poi fallito, verso il committente di questo. Infatti – se si eccettua la limitata copertura a carico dell'Istituto nazionale della previdenza sociale accordata dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80 (Attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro) – il lavoratore non dispone di garanzie sostanziali per il pagamento delle retribuzioni a fronte dell'insolvenza del datore di lavoro e pertanto è logico che il legislatore valorizzi le possibilità di surrogazione del terzo, ogni volta che questi si trovi in un rapporto sostanzialmente diretto con il lavoratore.
Per quel che concerne la denunciata violazione dell'art. 35 Cost., l'Avvocatura generale dello Stato deduce che i sistemi di garanzia pubblica delle retribuzioni e dei risarcimenti in caso di infortuni apprestano tutta la tutela che l'ordinamento può conferire ai diritti dei lavoratori nel necessario equilibrio con altre posizioni creditorie che potrebbero essere altrettanto meritevoli di tutela e dunque rientra nella discrezionalità del legislatore decidere se introdurre, a favore dei soli lavoratori subordinati, per il danno differenziale da infortunio sul lavoro, la deroga al principio della par condicio creditorum (che costituisce un'attuazione del principio di uguaglianza) richiesta dall'ordinanza di rimessione.
Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che non sussiste violazione degli artt. 24 e 111 Cost. in relazione alla maggiore complessità e durata processuale del fallimento rispetto all'azione ordinaria diretta. Infatti, il credito risarcitorio del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro è assistito, nell'ambito del concorso fallimentare, da privilegio generale (il che già lo differenzia da molti altri crediti). Inoltre la complessità e durata delle procedure fallimentari è un'evenienza di fatto, cui va posto rimedio su altri piani dell'ordinamento. Infine, l'irragionevole durata e complessità dei fallimenti non costituisce, contrariamente a quanto asserisce la rimettente, un fatto notorio, bensì una circostanza che può, o meno, sussistere nei singoli casi.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede in favore del lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale derivante da infortunio sul lavoro.
2. – La questione è inammissibile.
Questa Corte, con l'ordinanza n. 457 del 2006, ha dichiarato l'inammissibilità di una questione analoga alla presente, perché irrilevante nel giudizio a quo il cui oggetto era l'ammissione al passivo del credito azionato ex art. 93 o 101 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa). In tale procedimento non poteva – a giudizio della Corte – essere rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore.
Anche nel presente caso il giudizio principale riguarda l'ammissione di un credito al passivo fallimentare. La rimettente sembra però ritenere implicitamente superabile il rilievo contenuto nell'ordinanza n. 457 del 2006. Essa afferma, infatti, che il tribunale fallimentare ben può esaminare il merito della domanda proposta dal danneggiato contro l'assicuratore del datore di lavoro fallito. Nell'ordinanza di rimessione si sottolinea che l'esigenza di concentrare davanti a quel giudice tutte le questioni che incidano sulla formazione dello stato passivo troverebbe riscontro nell'art. 111, secondo comma, Cost. (che enuncia i princìpi del giusto processo e della sua ragionevole durata), nelle modifiche alla legge fallimentare apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), e nell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Ritiene tuttavia questa Corte che dall'art. 111, secondo comma, Cost., non può desumersi la necessità di una concentrazione davanti al giudice fallimentare di tutti i vari strumenti di tutela giudiziale previsti dall'ordinamento. Al principio della ragionevole durata del processo enunciato dalla predetta norma costituzionale «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza» (sentenza n. 148 del 2005) e tali non possono essere considerate le disposizioni con le quali il legislatore, nell'esercizio non irragionevole dell'ampia discrezionalità di cui gode in tema di individuazione del giudice competente, definisce l'ambito della cognizione dei singoli organi giurisdizionali.
E', poi, inconferente il richiamo ai princìpi ispiratori della riforma della disciplina delle procedure concorsuali introdotta dal d. lgs. n. 5 del 2006. Infatti, indipendentemente da qualsiasi considerazione circa le conseguenze di tale riforma sulla effettiva possibilità per i creditori del fallimento di proporre nel giudizio di opposizione allo stato passivo domande contro terzi, c'è da osservare che, per espressa previsione dell'art. 150 del d. lgs. n. 5 del 2006, le procedure di fallimento che – come quella sulla quale si innesta il giudizio a quo – erano pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legislativo sono comunque disciplinate dalla legge anteriore.
Infine, la stessa giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla rimettente a conforto della propria impostazione, non afferma affatto la possibilità di trattazione, davanti al tribunale fallimentare, di domande proposte dai creditori del fallimento contro terzi.
Dall'implausibilità della motivazione sulla rilevanza della questione deriva, dunque, l'inammissibilità della stessa.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2009.
Il Cancelliere
F.to: FRUSCELLA

Il lavoratore può agire direttamente contro l'assicuratore datoriale per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro

Corte Costituzionale sentenza 63 del 2009 -

"questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro."


SENTENZA N. 63
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza del 13 maggio 2008 dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra N. B. e la UMS Generali Marine S.p.A. ed altro, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visti l'atto di costituzione di N. B. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 febbraio 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Giuseppe Sante Assennato e Alessandro Garlatti per N. B. e l'avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un giudizio promosso da un lavoratore vittima di infortunio contro il fallimento della società datrice di lavoro e l'assicuratore di tale società, la Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 13 maggio 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro.
La Corte rimettente espone di essere stata investita del ricorso proposto dal lavoratore contro la sentenza del giudice di secondo grado confermativa della pronuncia del tribunale che, ammettendo al passivo fallimentare il credito del lavoratore per il danno differenziale conseguente all'infortunio sul lavoro da lui subito il 17 novembre 1995, aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta dello stesso lavoratore contro l'assicuratore del datore di lavoro, perché, in base all'art. 1917 cod. civ., il danneggiato non ha azione diretta contro la compagnia assicuratrice.
Il giudice a quo ricorda che un'analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, commi primo e secondo, cod. civ., è stata già proposta alla Corte costituzionale, la quale, con ordinanza n. 457 del 2006, l'ha dichiarata manifestamente inammissibile sotto due profili: in primo luogo perchè sollevata nel corso di un giudizio che ha quale unico possibile oggetto l'ammissione al passivo del credito azionato ed il suo rango (giudizio nel quale, pertanto, non è rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore); in secondo luogo, perchè la questione era stata prospettata dal rimettente in termini commisti ad una modifica dell'ordine legale dei privilegi, come tale estranea all'oggetto del giudizio principale, promosso esclusivamente per la riforma del capo della sentenza che aveva rigettato la pretesa di azionare il credito direttamente nei confronti dell'assicuratore.
La rimettente ritiene di dover riproporre la questione depurata dai predetti profili di inammissibilità.
In particolare, quanto al secondo, la Corte di cassazione afferma che nel giudizio principale non è prospettata alcuna questione di ordine di privilegi.
Invece, per quel che concerne il primo profilo di inammissibilità, la rimettente sostiene che il principio di concentrazione delle tutele derivante dall'art. 111, secondo comma, Cost., consente, e in un certo senso impone, nell'alternatività tra azione diretta verso l'assicuratore e ammissione al passivo fallimentare dell'assicurato (eventualmente per il residuo non coperto dall'assicuratore), una risposta giudiziaria contestuale alla domanda di giustizia del danneggiato. Tale esigenza di concentrazione, ad avviso del giudice a quo, è a fondamento delle modifiche apportate alla legge fallimentare dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in particolare con l'eliminazione delle precedenti limitazioni alla cognizione del tribunale fallimentare, e della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 12 novembre 2004, n. 21499) che, nell'affermare la mera specialità del rito, con esclusione di qualsiasi profilo di competenza, ammette la trattazione contestuale avanti al tribunale fallimentare di tutte le questioni (anche nei confronti di terzi) che, come quella diretta del lavoratore infortunato contro l'assicuratore, siano incidenti sulla formazione dello stato passivo.
Con riferimento alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente sostiene che la norma censurata viola gli artt. 3 e 35 Cost., discriminando il lavoratore vittima di infortunio rispetto ad altri soggetti che godono invece di azione diretta verso l'assicuratore o verso altri terzi e, in particolare, rispetto: ai dipendenti dell'appaltatore che hanno azione diretta contro il committente, ai sensi dell'art. 1676 del codice civile; ai dipendenti dell'impresa somministratrice nel contratto di somministrazione di lavoro ed a quelli dell'impresa appaltatrice nel contratto di appalto di opere o servizi, i quali – a norma, rispettivamente, degli artt. 23 e 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30) – possono esercitare azione diretta nei confronti del debitore del loro datore di lavoro per il pagamento dei trattamenti retributivi loro spettanti; ai danneggiati da sinistro stradale, che hanno azione diretta nei confronti dell'assicuratore del danneggiante ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti). In tutti questi casi le somme dovute dall'assicuratore al danneggiato sono sottratte alla par condicio creditorum del danneggiante dichiarato fallito.
La rimettente deduce, poi, la violazione dell'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'irrazionalità dell'attuale disciplina dell'art. 1917, secondo comma, cod. civ., sia perché tale norma affida il soddisfacimento, o meno, del bene primario rappresentato dal credito risarcitorio del lavoratore infortunato alla mera volontà dell'assicuratore o dell'assicurato che, in ragione del tempo in cui viene manifestata, può essere sottratto alla par condicio creditorum, sia perché essa non concede azione diretta al lavoratore infortunato sul luogo di lavoro, mentre il lavoratore vittima di infortunio in itinere gode dell'azione diretta in quanto vittima della strada.
Infine, il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché un'azione diretta nei confronti dell'assicuratore consentirebbe tempi processuali più rapidi e minori costi per spese di giustizia.
2. – Nel giudizio si è costituito il lavoratore ricorrente nel giudizio principale che ha concluso nel senso della fondatezza della questione.
La parte privata, dopo aver ripercorso l'iter del giudizio principale ed aver dato conto delle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione, deduce che l'art. 1917, secondo comma, cod. civ., frustra il diritto del lavoratore infortunato al risarcimento del danno subito. Infatti, l'indennizzo assicurativo (estraneo all'utile e al patrimonio dell'impresa) in caso di fallimento del datore di lavoro entra nella massa attiva del fallimento alla stregua di un qualsiasi cespite attivo dell'impresa fallita, pur trattandosi di una somma destinata a risarcire un danno. Esso finisce per costituire un incremento patrimoniale attivo sul quale altri, non danneggiati dall'infortunio, possono soddisfarsi almeno in parte. Vengono così in comparazione due diversi interessi di rango diseguale: la par condicio creditorum (che, pur essendo privilegiata dall'ordinamento, non è oggetto di protezione costituzionale) e la tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore (di rango costituzionale ex artt. 32 e 36, primo comma, Cost.).
2.1. – In prossimità dell'udienza di discussione la parte privata ha depositato memoria nella quale ha sostenuto l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri e, in via subordinata, ha chiesto che la Corte affermi il principio secondo cui il danneggiato da infortunio sul lavoro ha azione diretta contro l'assicuratore per il credito risarcitorio del danno differenziale anche dopo la dichiarazione di fallimento.
3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.
Sotto il primo profilo la questione sarebbe manifestamente inammissibile per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, poiché la Corte rimettente prende le mosse dal presupposto secondo cui la sopravvenienza del fallimento impedirebbe all'assicuratore di pagare l'indennizzo direttamente al danneggiato e all'amministrazione fallimentare di ordinare all'assicuratore il pagamento diretto (come invece sarebbe previsto dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., qualora l'assicurato fosse in bonis), senza esplorare la possibilità di un'interpretazione alternativa, alla stregua della quale le facoltà di pagamento diretto già previste dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., possano sopravvivere al fallimento dell'assicurato.
Quanto al merito, il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia che l'impostazione della questione di legittimità costituzionale, così come sollevata dalla Corte di cassazione, è viziata da un salto logico, poiché la rimettente, sostenendo che il problema nascerebbe dal venir meno, a seguito del fallimento del datore di lavoro, delle facoltà di pagamento diretto di cui all'art. 1917, secondo comma, cod. civ., avrebbe dovuto denunciare la predetta norma codicistica, non per il fatto che essa non preveda l'azione diretta del lavoratore in caso di sopravvenuto fallimento, bensì per il fatto che essa esclude, in tale ipotesi, la sopravvivenza delle facoltà di pagamento diretto di cui al secondo comma.
L'interventore nega, poi, la sussistenza della denunziata violazione dell'art. 3 Cost. in relazione all'azione diretta concessa al danneggiato da sinistro occorso nella circolazione stradale. Infatti, questa facoltà costituisce la sola tutela specifica prevista dalla legge al danneggiato da tale tipo di sinistri, mentre, in materia di infortuni sul lavoro, l'assicurazione obbligatoria dei lavoratori presso gli istituti pubblici a ciò preposti assicura essa stessa un'adeguata tutela.
A parere del Presidente del Consiglio dei ministri, non v'è disuguaglianza costituzionalmente apprezzabile neppure in relazione all'azione diretta per le retribuzioni non pagate concessa ai dipendenti dell'appaltatore di lavori o di manodopera poi fallito, verso il committente di questo. Infatti – se si eccettua la limitata copertura a carico dell'Istituto nazionale della previdenza sociale accordata dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80 (Attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro) – il lavoratore non dispone di garanzie sostanziali per il pagamento delle retribuzioni a fronte dell'insolvenza del datore di lavoro e pertanto è logico che il legislatore valorizzi le possibilità di surrogazione del terzo, ogni volta che questi si trovi in un rapporto sostanzialmente diretto con il lavoratore.
Per quel che concerne la denunciata violazione dell'art. 35 Cost., l'Avvocatura generale dello Stato deduce che i sistemi di garanzia pubblica delle retribuzioni e dei risarcimenti in caso di infortuni apprestano tutta la tutela che l'ordinamento può conferire ai diritti dei lavoratori nel necessario equilibrio con altre posizioni creditorie che potrebbero essere altrettanto meritevoli di tutela e dunque rientra nella discrezionalità del legislatore decidere se introdurre, a favore dei soli lavoratori subordinati, per il danno differenziale da infortunio sul lavoro, la deroga al principio della par condicio creditorum (che costituisce un'attuazione del principio di uguaglianza) richiesta dall'ordinanza di rimessione.
Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che non sussiste violazione degli artt. 24 e 111 Cost. in relazione alla maggiore complessità e durata processuale del fallimento rispetto all'azione ordinaria diretta. Infatti, il credito risarcitorio del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro è assistito, nell'ambito del concorso fallimentare, da privilegio generale (il che già lo differenzia da molti altri crediti). Inoltre la complessità e durata delle procedure fallimentari è un'evenienza di fatto, cui va posto rimedio su altri piani dell'ordinamento. Infine, l'irragionevole durata e complessità dei fallimenti non costituisce, contrariamente a quanto asserisce la rimettente, un fatto notorio, bensì una circostanza che può, o meno, sussistere nei singoli casi.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede in favore del lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale derivante da infortunio sul lavoro.
2. – La questione è inammissibile.
Questa Corte, con l'ordinanza n. 457 del 2006, ha dichiarato l'inammissibilità di una questione analoga alla presente, perché irrilevante nel giudizio a quo il cui oggetto era l'ammissione al passivo del credito azionato ex art. 93 o 101 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa). In tale procedimento non poteva – a giudizio della Corte – essere rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore.
Anche nel presente caso il giudizio principale riguarda l'ammissione di un credito al passivo fallimentare. La rimettente sembra però ritenere implicitamente superabile il rilievo contenuto nell'ordinanza n. 457 del 2006. Essa afferma, infatti, che il tribunale fallimentare ben può esaminare il merito della domanda proposta dal danneggiato contro l'assicuratore del datore di lavoro fallito. Nell'ordinanza di rimessione si sottolinea che l'esigenza di concentrare davanti a quel giudice tutte le questioni che incidano sulla formazione dello stato passivo troverebbe riscontro nell'art. 111, secondo comma, Cost. (che enuncia i princìpi del giusto processo e della sua ragionevole durata), nelle modifiche alla legge fallimentare apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), e nell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Ritiene tuttavia questa Corte che dall'art. 111, secondo comma, Cost., non può desumersi la necessità di una concentrazione davanti al giudice fallimentare di tutti i vari strumenti di tutela giudiziale previsti dall'ordinamento. Al principio della ragionevole durata del processo enunciato dalla predetta norma costituzionale «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza» (sentenza n. 148 del 2005) e tali non possono essere considerate le disposizioni con le quali il legislatore, nell'esercizio non irragionevole dell'ampia discrezionalità di cui gode in tema di individuazione del giudice competente, definisce l'ambito della cognizione dei singoli organi giurisdizionali.
E', poi, inconferente il richiamo ai princìpi ispiratori della riforma della disciplina delle procedure concorsuali introdotta dal d. lgs. n. 5 del 2006. Infatti, indipendentemente da qualsiasi considerazione circa le conseguenze di tale riforma sulla effettiva possibilità per i creditori del fallimento di proporre nel giudizio di opposizione allo stato passivo domande contro terzi, c'è da osservare che, per espressa previsione dell'art. 150 del d. lgs. n. 5 del 2006, le procedure di fallimento che – come quella sulla quale si innesta il giudizio a quo – erano pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legislativo sono comunque disciplinate dalla legge anteriore.
Infine, la stessa giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla rimettente a conforto della propria impostazione, non afferma affatto la possibilità di trattazione, davanti al tribunale fallimentare, di domande proposte dai creditori del fallimento contro terzi.
Dall'implausibilità della motivazione sulla rilevanza della questione deriva, dunque, l'inammissibilità della stessa.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2009.
Il Cancelliere
F.to: FRUSCELLA

Internet e la legge stampa, i forums, la libertà di espressione e il delitto di cui all'art. 403 c.p.


Cassazione penale, III sezione n.10535 11 dicembre 2008 - dep. 10 marzo 2009
Internet,forum,legge stampa, libertà di espressione,offese,vilipendio,religione

"Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata)."

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE
...
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
...

Svolgimento del processo
Con ordinanza 25 ottobre 2007 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Catania respinse la richiesta dell’Aduc di revoca del sequestro preventivo di alcune pagine web di sua proprietà disposto il 20.11.2007 in relazione al reato di cui all’art. 403 cod. pen. Il tribunale del riesame di Catania, con l’ordinanza in epigrafe, in parziale accoglimento dell’appello dell’Aduc, revoca il sequestro previa rimozione sul sito internet dell’Aduc delle espressioni e dei messaggi oggetto dei reati contestati, inibendone l’ulteriore diffusione.
L’Aduc propone ricorso per cassazione deducendo:
1) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo poiché non attiene a reati contro il buon costume. Osserva che l’art. 21, comma 6, Cost. consente la limitazione dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nei soli casi di manifestazioni contrarie al buon costume.
2) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo perché l’offesa ad una confessione religiosa non è contraria al buon costume.
3) erronea applicazione dell’art. 403 cod. pen. per erronea individuazione del bene giuridico protetto dalla norma. Osserva che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, non c’è offesa se non vengono individuati i singoli individui, soggetti passivi della norma e portatori del bene giuridico da essa tutelato.
4) erronea applicazione dell’art. 21, comma 3, Cost. ed erronea individuazione dell’ambito applicativo del divieto di sequestro ivi previsto. Erronea interpretazione restrittiva del concetto di stampa che esclude l’informazione non ufficiale.
Motivi della decisione
Il primo motivo è inammissibile perchè consiste in una censura nuova non dedotta con l’appello, e che non può quindi essere proposta per la prima volta in questa sede di legittimità. Il motivo è comunque manifestamente infondato perchè l’art. 21, comma 6, Cost. vieta direttamente “le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”, disponendo altresì che “la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”, ma non ha inteso dire che un comportamento, costituente manifestazione del pensiero, possa essere dalla legge vietato e previsto come reato esclusivamente quando sia contrario al buon costume, e non anche quando sia lesivo di altri beni ritenuti meritevoli di tutela, sebbene non lesivo del buon costume. Se così non fosse, del resto, dovrebbe ritenersi che i reati di ingiuria e diffamazione non sarebbero legittimi quando colpiscano comportamenti lesivi solo dell’onore e della reputazione delle persone, e non anche del buon costume.
Per le stesse ragioni è inammissibile, sia perché nuovo sia perché manifestamente infondato, anche il secondo motivo. Con l’atto di appello, invero, non era stato dedotto che il sequestro in questione era illegittimo perché le frasi contestate non erano suscettibili di offendere il buon costume inteso come pudore sessuale della collettività. Né tale doglianza può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità solo perché l’ordinanza impugnata ha osservato che alcune delle frasi incriminate, oltre ad avere offeso la religione cattolica mediante il vilipendio dei suoi fedeli e dei suoi ministri, avevano travalicato i limiti del buon costume alludendo espressamente a pratiche pedofile dei sacerdoti per diffondere il “sacro seme del cattolicesimo”. In ogni caso il motivo è manifestamente infondato perché l’art. 21, comma 6, Cost. non limita la possibilità della legge di prevedere, in caso di reato, il sequestro di cose che rappresentino manifestazioni del pensiero soltanto quando queste siano lesive del pudore sessuale.
Il terzo motivo è infondato perché esattamente il tribunale del riesame ha ritenuto che per la configurabilità del reato di cui all’art. 403 cod. pen. non occorre che le espressioni di vilipendio debbano essere rivolte a fedeli ben determinati, ben potendo invece, come nella specie, essere genericamente riferite alla indistinta generalità dei fedeli. La norma invero protegge il sentimento religioso di per sè, sanzionando le pubbliche offese verso lo stesso attuate mediante vilipendio dei fedeli di una confessione religiosa, o dei suoi ministri.
Opportunamente, invero, l’ordinanza impugnata ha ricordato la sent. n. 188 del 1975 della Corte costituzionale, la quale affermò che “il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20. Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire “tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa”, e che “il vilipendio, dunque, non si confonde nè con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, nè con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; nè con l’espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano.
Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell’art. 21 (e dell’art. 19), la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sè stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato”.
D’altra parte, anche la recente sent. n. 168 del 2005 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 403 cod. pen. nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anzichè la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice) ha fatto espresso riferimento alle “esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose”, ribadendo che tutte le norme contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso “si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l’art. 403 cod. pen. tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto”.
Del resto, anche qualora potesse accogliersi la tesi del ricorrente secondo cui il bene tutelato dalla norma non è il sentimento religioso ma la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una determinata confessione religiosa, non si vedrebbe perché questa tesi dovrebbe comportare che, per aversi reato, il vilipendio dovrebbe rivolgersi verso determinate persone e non verso il gruppo indistinto dei fedeli di quella confessione religiosa nei cui confronti viene pubblicamente portata l’offesa.
E’ infine infondato anche il quarto motivo. Va preliminarmente osservato che il tribunale del riesame ha revocato il sequestro del forum esistente nell’ambito del sito appartenente alla associazione ricorrente, lasciandolo esclusivamente sui singoli messaggi inviati da alcuni partecipanti al forum in questione, contenenti le frasi oggetto dei reati contestati. Ciò posto, il Collegio ritiene che esattamente il tribunale del riesame ha dichiarato che nel caso di specie non trova applicazione l’art. 21, comma 3, Cost., secondo cui “Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”, dato che la concreta fattispecie in esame non rientra nella più specifica disciplina della libertà di stampa, ma solo in quella più generale di libertà di manifestazione del proprio pensiero di cui all’art. 21, comma 1, Cost.
Gli interventi dei partecipanti al forum in questione, invero, non possono essere fatti rientrare nell’ambito della nozione di stampa, neppure nel significato più esteso ricavabile dall’art. 1 della legge 7 marzo 2001, n. 62, che ha esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui all’ articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (legge sulla stampa) al “prodotto editoriale”, stabilendo che per tale, ai fini della legge stessa, deve intendersi anche il “prodotto realizzato … su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico”.
Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata).
Acutamente il difensore del ricorrente sostiene che la norma costituzionale dovrebbe essere interpretata in senso evolutivo per adeguarla alle nuove tecnologie sopravvenute ed ai nuovi mezzi di espressione del libero pensiero. Ma da questo assunto, non può farsi derivare che i nuovi mezzi di comunicazione del proprio pensiero (newsletter, blog, forum, newsgroup, mailing list, chat, messaggi istantanei, e così via) possano, tutti in blocco, solo perché tali, essere inclusi nel concetto di stampa ai sensi dell’art. 21, comma 3, Cost., prescindendo dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi.
In realtà i messaggi lasciati su un forum di discussione (che, a seconda dei casi, può essere aperto a tutti indistintamente, o a chiunque si registri con qualsiasi pseudonimo, o a chi si registri previa identificazione) sono equiparabili ai messaggi che potevano e possono essere lasciati in una bacheca (sita in un luogo pubblico, o aperto al pubblico, o privato) e, così come quest’ultimi, anche i primi sono mezzi di comunicazione del proprio pensiero o anche mezzi di comunicazione di informazioni, ma non entrano (solo in quanto tali) nel concetto di stampa, sia pure in senso ampio, e quindi ad essi non si applicano le limitazioni in tema di sequestro previste dalla norma costituzionale.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
11 dicembre 2008 - dep. 10 marzo 2009

Internet e la legge stampa, i forums, la libertà di espressione e il delitto di cui all'art. 403 c.p.


Cassazione penale, III sezione n.10535 11 dicembre 2008 - dep. 10 marzo 2009
Internet,forum,legge stampa, libertà di espressione,offese,vilipendio,religione

"Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata)."

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE
...
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
...

Svolgimento del processo
Con ordinanza 25 ottobre 2007 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Catania respinse la richiesta dell’Aduc di revoca del sequestro preventivo di alcune pagine web di sua proprietà disposto il 20.11.2007 in relazione al reato di cui all’art. 403 cod. pen. Il tribunale del riesame di Catania, con l’ordinanza in epigrafe, in parziale accoglimento dell’appello dell’Aduc, revoca il sequestro previa rimozione sul sito internet dell’Aduc delle espressioni e dei messaggi oggetto dei reati contestati, inibendone l’ulteriore diffusione.
L’Aduc propone ricorso per cassazione deducendo:
1) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo poiché non attiene a reati contro il buon costume. Osserva che l’art. 21, comma 6, Cost. consente la limitazione dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nei soli casi di manifestazioni contrarie al buon costume.
2) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo perché l’offesa ad una confessione religiosa non è contraria al buon costume.
3) erronea applicazione dell’art. 403 cod. pen. per erronea individuazione del bene giuridico protetto dalla norma. Osserva che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, non c’è offesa se non vengono individuati i singoli individui, soggetti passivi della norma e portatori del bene giuridico da essa tutelato.
4) erronea applicazione dell’art. 21, comma 3, Cost. ed erronea individuazione dell’ambito applicativo del divieto di sequestro ivi previsto. Erronea interpretazione restrittiva del concetto di stampa che esclude l’informazione non ufficiale.
Motivi della decisione
Il primo motivo è inammissibile perchè consiste in una censura nuova non dedotta con l’appello, e che non può quindi essere proposta per la prima volta in questa sede di legittimità. Il motivo è comunque manifestamente infondato perchè l’art. 21, comma 6, Cost. vieta direttamente “le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”, disponendo altresì che “la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”, ma non ha inteso dire che un comportamento, costituente manifestazione del pensiero, possa essere dalla legge vietato e previsto come reato esclusivamente quando sia contrario al buon costume, e non anche quando sia lesivo di altri beni ritenuti meritevoli di tutela, sebbene non lesivo del buon costume. Se così non fosse, del resto, dovrebbe ritenersi che i reati di ingiuria e diffamazione non sarebbero legittimi quando colpiscano comportamenti lesivi solo dell’onore e della reputazione delle persone, e non anche del buon costume.
Per le stesse ragioni è inammissibile, sia perché nuovo sia perché manifestamente infondato, anche il secondo motivo. Con l’atto di appello, invero, non era stato dedotto che il sequestro in questione era illegittimo perché le frasi contestate non erano suscettibili di offendere il buon costume inteso come pudore sessuale della collettività. Né tale doglianza può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità solo perché l’ordinanza impugnata ha osservato che alcune delle frasi incriminate, oltre ad avere offeso la religione cattolica mediante il vilipendio dei suoi fedeli e dei suoi ministri, avevano travalicato i limiti del buon costume alludendo espressamente a pratiche pedofile dei sacerdoti per diffondere il “sacro seme del cattolicesimo”. In ogni caso il motivo è manifestamente infondato perché l’art. 21, comma 6, Cost. non limita la possibilità della legge di prevedere, in caso di reato, il sequestro di cose che rappresentino manifestazioni del pensiero soltanto quando queste siano lesive del pudore sessuale.
Il terzo motivo è infondato perché esattamente il tribunale del riesame ha ritenuto che per la configurabilità del reato di cui all’art. 403 cod. pen. non occorre che le espressioni di vilipendio debbano essere rivolte a fedeli ben determinati, ben potendo invece, come nella specie, essere genericamente riferite alla indistinta generalità dei fedeli. La norma invero protegge il sentimento religioso di per sè, sanzionando le pubbliche offese verso lo stesso attuate mediante vilipendio dei fedeli di una confessione religiosa, o dei suoi ministri.
Opportunamente, invero, l’ordinanza impugnata ha ricordato la sent. n. 188 del 1975 della Corte costituzionale, la quale affermò che “il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20. Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire “tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa”, e che “il vilipendio, dunque, non si confonde nè con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, nè con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; nè con l’espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano.
Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell’art. 21 (e dell’art. 19), la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sè stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato”.
D’altra parte, anche la recente sent. n. 168 del 2005 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 403 cod. pen. nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anzichè la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice) ha fatto espresso riferimento alle “esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose”, ribadendo che tutte le norme contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso “si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l’art. 403 cod. pen. tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto”.
Del resto, anche qualora potesse accogliersi la tesi del ricorrente secondo cui il bene tutelato dalla norma non è il sentimento religioso ma la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una determinata confessione religiosa, non si vedrebbe perché questa tesi dovrebbe comportare che, per aversi reato, il vilipendio dovrebbe rivolgersi verso determinate persone e non verso il gruppo indistinto dei fedeli di quella confessione religiosa nei cui confronti viene pubblicamente portata l’offesa.
E’ infine infondato anche il quarto motivo. Va preliminarmente osservato che il tribunale del riesame ha revocato il sequestro del forum esistente nell’ambito del sito appartenente alla associazione ricorrente, lasciandolo esclusivamente sui singoli messaggi inviati da alcuni partecipanti al forum in questione, contenenti le frasi oggetto dei reati contestati. Ciò posto, il Collegio ritiene che esattamente il tribunale del riesame ha dichiarato che nel caso di specie non trova applicazione l’art. 21, comma 3, Cost., secondo cui “Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”, dato che la concreta fattispecie in esame non rientra nella più specifica disciplina della libertà di stampa, ma solo in quella più generale di libertà di manifestazione del proprio pensiero di cui all’art. 21, comma 1, Cost.
Gli interventi dei partecipanti al forum in questione, invero, non possono essere fatti rientrare nell’ambito della nozione di stampa, neppure nel significato più esteso ricavabile dall’art. 1 della legge 7 marzo 2001, n. 62, che ha esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui all’ articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (legge sulla stampa) al “prodotto editoriale”, stabilendo che per tale, ai fini della legge stessa, deve intendersi anche il “prodotto realizzato … su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico”.
Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata).
Acutamente il difensore del ricorrente sostiene che la norma costituzionale dovrebbe essere interpretata in senso evolutivo per adeguarla alle nuove tecnologie sopravvenute ed ai nuovi mezzi di espressione del libero pensiero. Ma da questo assunto, non può farsi derivare che i nuovi mezzi di comunicazione del proprio pensiero (newsletter, blog, forum, newsgroup, mailing list, chat, messaggi istantanei, e così via) possano, tutti in blocco, solo perché tali, essere inclusi nel concetto di stampa ai sensi dell’art. 21, comma 3, Cost., prescindendo dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi.
In realtà i messaggi lasciati su un forum di discussione (che, a seconda dei casi, può essere aperto a tutti indistintamente, o a chiunque si registri con qualsiasi pseudonimo, o a chi si registri previa identificazione) sono equiparabili ai messaggi che potevano e possono essere lasciati in una bacheca (sita in un luogo pubblico, o aperto al pubblico, o privato) e, così come quest’ultimi, anche i primi sono mezzi di comunicazione del proprio pensiero o anche mezzi di comunicazione di informazioni, ma non entrano (solo in quanto tali) nel concetto di stampa, sia pure in senso ampio, e quindi ad essi non si applicano le limitazioni in tema di sequestro previste dalla norma costituzionale.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
11 dicembre 2008 - dep. 10 marzo 2009

mercoledì 11 marzo 2009

Project financing: brevi appunti sul d.lgs 125/08 i-e- terzo correttivo appalti

La finanza di progetto dopo il terzo decreto correttivo del Codice degli Appalti
Articolo di Antonio Serravezza 03.03.2009


La finanza di progetto dopo il terzo decreto correttivo del Codice degli Appalti
di Antonio Serravezza

Sommario: 1. Premessa - 2. La concessione di lavori pubblici: le fasi essenziali del procedimento di gara unica e doppia gara - 3. Project financing su iniziativa del privato previo avviso e con doppia gara - 3.1 Ambito di applicazione - 3.1.1 Opere inserite nella programmazione - 3.1.2 Opere non inserite nella programmazione - 4. Requisiti dei Proponenti - 5. Contenuto e limiti dell’offerta del proponente - 6. Modalità di svolgimento della gara ad iniziativa privata - 7. L’aggiudicazione della concessione - Riferimenti normativi

1. Premessa
La disciplina sulla finanza di progetto viene completamente riformata con una nuova formulazione dell’art. 153 con l’articolo 1, comma 1, lettera ee) del terzo decreto correttivo. Con la nuova formulazione scompare il vincolo alla gara unica e si potrà optare per una delle due seguenti procedure:
una doppia gara (comma 15) nella quale la prima procedura è finalizzata ad individuare il promotore e a porne in approvazione il progetto preliminare e ad attribuire il diritto di prelazione; la seconda consente di aggiudicare la concessione ponendo a base di gara la proposta del promotore approvata e rispetto alla quale quest’ultimo può entro 45 gg. esercitare il diritto di prelazione;
una gara unica semplificata (comma 1-14), senza alcun diritto di prelazione, su uno studio di fattibilità dell'amministrazione per individuare il promotore per interventi previsti negli elenchi annuali. I concorrenti dovranno presentare offerte corredate da progetto preliminare, bozza di convenzione, piano economico-finanziario e caratteristiche del servizio e gestione. Il promotore prescelto sarà tenuto, se necessario, a modificare il progetto; in caso di rifiuto, le amministrazioni interpelleranno gli altri concorrenti procedendo a scorrere la graduatoria.
Si prevede, inoltre e, ad oggetto specifico del presente documento, l'attribuzione ai soggetti privati del potere di sollecitare l'amministrazione, laddove questa rimanga inerte, non provvedendo entro sei mesi dall'approvazione dell'elenco annuale alla pubblicazione del bando per opere inserite nella programmazione (c.d. procedura ad iniziativa dei privati di cui all’art. 153 comma 16).1
Infine si prevede la distinzione tra la figura del proponente (il soggetto che formula una proposta di intervento per prevedere una opera di futura realizzazione, ovvero uno studio di fattibilità da inserire in un programma in corso di formazione) e promotore (soggetto che formula proposte per la realizzazione di interventi già inseriti nella programmazione triennale dell’amministrazione).
2. La concessione di lavori pubblici: le fasi essenziali del procedimento di gara unica e doppia gara
FASI
GARA UNICA
(comma 1-14)
DOPPIA GARA
(comma 15)
1
Bando di gara pubblicato sulla base di uno studio di fattibilità
Bando di gara sulla base di uno studio di fattibilità
2
Valutazione offerte pervenute
Valutazione offerte pervenute
3
Redazione graduatoria
Redazione graduatoria
4
Nomina promotore
Nomina promotore con diritto di prelazione
5
Convocazione Conferenza di servizi per approvazione del progetto presentato dal promotore
Convocazione Conferenza di servizi per approvazione del progetto presentato dal promotore
6
6.1 Stipula contratto di concessione salvo qualora il progetto necessiti modifiche.
6.2 Qualora il progetto debba essere modificato, l’amministrazione richiede al promotore di procedere, stabilendone anche i termini: a) alle modifiche progettuali prescritte in confèrenza di servizi, ai fini dell'approvazione del progetto; b) ad adeguare il piano economico-finanziario; c) a svolgere tutti gli adempimenti di legge, anche ai fini della valutazione di impatto ambientale. La predisposizione di tali modifiche e lo
svolgimento di tali adempimenti, in quanto onere del promotore, non comporta alcun compenso aggiuntivo, o incremento delle spese sostenute e indicate dal piano economico-finanziario per la predisposizione delle offerte.
(FINE PRIMA GARA)
Amministrazione indice una gara sulla base del progetto preliminare presentato dal promotore ed il piano eco-finanziario, salvo qualora il progetto necessiti modifiche.
7
INIZIO SECONDA GARA PER AFFIDAMENTOCONCESSIONE Amministrazione pubblica il bando sulla base del progetto preliminare approvato e del piano eco-finanziario del promotore.
8
8.1 Aggiudicazione della concessione al promotore, salvo presentazione di altre offerte.
8.2 Qualora il progetto necessiti di modifiche, richiede al promotore di procedere stabilendone anche i termini: a) alle modifiche progettuali prescritte in confèrenza
di servizi ai fini dell'approvazione del progetto; b) ad adeguare il piano economico-finanziario: c) a svolgere tutti gli adempimenti di legge anche ai fini della valutazione di impatto ambientale; la predisposizioni di tali modifiche e lo svolgimento di tali adempimenti in quanto onere a norma di legge, del promotore non comportano alcun compenso aggiuntivo, né incremento delle spese sostenute e indicate nel piano economico-finanziario per la predisposizione delle offerte.

3. Project financing su iniziativa del privato previo avviso e con doppia gara
3.1 Ambito di applicazione
3.1.1 Opere inserite nella programmazione

Ai sensi del comma 16 del nuovo articolo 153, è possibile presentare alle amministrazioni aggiudicatrici, proposte relative alla realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità che, pur presenti nella programmazione triennale di cui all’art. 128 ovvero negli strumenti di programmazione approvati dall’amministrazione aggiudicatrice, non siano stato oggetto di pubblicazione dei relativi bandi nei successivi 6 (sei) mesi.
Il proponente è legittimato ad accedere allo studio di fattibilità predisposto dall’amministrazione, al fine di poter formulare la propria proposta.
Infine, è opportuno evidenziare che:
a) è necessario che l’amministrazione aggiudicatrice debba aver già deliberato, nell’elenco annuale, l’utilizzo del procedimento di gara unica previo bando e senza prelazione (art. 153, comma 1-14), o in alternativa, di gara doppia previo bando e con diritto di prelazione (art. 153 comma 15).
b) se ne deduce che il procedimento in questione non è attivabile in caso di inerzia riferita alla realizzazione di opere pubbliche mediante gli appalti tradizionali.
c) rimane prerogativa dell’amministrazione scegliere se realizzare un’opera mediante un contratto di appalto o di concessione e le priorità da assegnare a ciascun intervento programmato.

3.1.2 Opere non inserite nella programmazione
Si prevede ai sensi dell’art. 153 comma 19, la possibilità per i soggetti privati di presentare all'amministrazione in qualsiasi momento, anche al di fuori della fase di programmazione, proposte consistenti in uno studio di fattibilità per la realizzazione e la gestione di opere in concessione.
Qualora l'amministrazione, procedendo obbligatoriamente alla valutazione nel termine di sei mesi dal ricevimento della proposta, reputi l'opera di interesse pubblico la inserisce nel programma ed avvia la procedura di gara secondo le modalità di cui al comma 16.
Più in generale, secondo quanto previsto dalle linee guida predisposte in data 14 gennaio u.s. dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, devono trattarsi di interventi per i quali la programmazione triennale dell’amministrazione preveda il concorso di capitali privati attraverso lo strumento della concessione, escludendo iniziative private rispetto ad interventi per i quali siano previsti altri strumenti di realizzazione.
4. Requisiti dei Proponenti
Ai sensi del comma 8 del nuovo art. 153, possono presentate le proposte di inserimento nel programma triennale i soggetti in possesso dei requisiti previsti dal regolamento di concessionario anche associando o consorziando altri soggetti (cfr. art. articolo 98 del D.P.R. n. 554/1999 e determinazione n. 20/2001).
Ai sensi del comma 20, possono presentare le proposte di inserimento nel programma triennale:
a) i soggetti dotati dei requisiti tecnici, organizzativi, finanziari e gestionali specificati dal regolamento;
b) gli imprenditori individuali. anche artigiani, società commerciali, società cooperative;
c) i consorzi tra società cooperative e consorzi tra imprese artigiane;
d) ì consorzi stabili di cui all'articolo 3,1, comma 1. lettera c);
e) i consorzi ordinari e raggruppamenti;
f) i soggetti che abbiano stipulato il contatto di gruppo europeo d: interesse economico (GEIE):
g) le società di ingegneria;
h) le Camere di commercio;
i) le fondazioni.
Per quanto riguarda i soggetti di cui alla lettera a), in attesa del nuovo regolamento, si può fare rifèrimento all'articolo 99 del D.P.R. n. 554/1999, che disciplina i requisiti del promotore ed alla determinazione n. 20 del 2001.
Tutti i soggetti indicati possono associarsi o consorziarsi con enti finanziatori o gestori di servizi, fermo restando i requisiti di cui all’art. 38 del d.lgs. 163/2006.

5. Contenuto e limiti dell’offerta del proponente
Le offerte private rispetto ad interventi per cui è previsto, come anzi detto, il concorso di capitali privati attraverso lo strumento della concessione, ai sensi dell’art. 153 comma 9 devono contenere:
a) un progetto preliminare;
b) una bozza di convenzione;
E’ opportuno prevedere un suo contenuto minimo tale da disciplinare i rischi dell’operazione. “(…) Ad esempio, il rischio di costruzione a carico del privato implica la previsione di disposizioni contrattuali volti a sanzionare dal punto di vista economico i vizi di progettazione, la consegna ritardata dell’opera; il rischio di disponibilità comporta un meccanismo di riduzione dei pagamenti pubblici a fronte di prestazioni non fornite o che presentino standard qualitativi inferiori rispetto al mercato; il rischio di domanda implica l’abolizione di clausole di garanzia del tipo minimo garantito (..).”
c) un piano economico – finanziario asseverato da una banca nonché la specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione;
d) cauzione di cui all’art. 75 del d.lgs. 163/2006 a seguito di rifiuto alla sottoscrizione del contratto per fatto imputabile al promotore (pari al 2% per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente) corredata dalla documentazione dimostrativa del possesso dei requisiti soggettivi ;
e) ulteriore cauzione pari al 2,5% del valore dell’investimento come desumibile dallo studio di fattibilità posto a base di gara.
Quanto ai limiti dell’offerta si rende noto che:
1. adozione della proposta non determina alcun diritto del proponente al compenso per le prestazioni compiute, o alla realizzazione dei lavori, né alla gestione dei relativi servizi. In tali casi, l'amministrazione potrebbe prevedere dei bandì, pubblicati a seguito dell’ inserimento dell'opera negli strumenti di programmazione, il ricorso della procedura di gara di cui al comma 15 (c.d. doppia gara).
2. infine, si ritiene opportuno precisare che, qualora siano presenti più studi di fattibilità riguardanti la stessa esigenza o bisogno I'amministrazione procede alla scelta di quello da inserire nel programma triennale applicando le regole previste dall'articolo 15, comma 12, del D.P.R. n. 554/1999.
3.Occorre segnalare che l’art. 128, comma 6, del d.lgs. 163/2006 stabilisce, in generale, che nessuna opera può essere inserita nell’elenco annuale se non previa elaborazione del progetto preliminare, mentre la nuova disciplina del project financing prevede che possono essere presentate proposte, contenenti un progetto preliminare, per opere che sono nell’elenco annuale.
Tuttavia, nel terzo correttivo è stato chiarito che nell’art. 128, comma 6, per i lavori suscettibili di realizzazione mediante project financing, ai fini dell’inserimento nell’elenco annuale è sufficiente il solo studio di fattibilità e non è necessario il progetto preliminare.

6. Modalità di svolgimento della gara ad iniziativa privata
In relazione a ciascun lavoro inserito nell’elenco annuale, per il quale l’amministrazione aggiudicatrice non provveda alla pubblicazione dei bandi entro 6 (sei) mesi dall’approvazione dell’elenco:
1) i proponenti, entro e non oltre 4 (quattro) mesi dal decorso di detto termine, una proposta (di pubblico interesse) avente il contenuto dell’offerta di cui sopra (comma 9);
2) entro 60 (sessanta) giorni dalla scadenza del termine di quattro mesi, l’amministrazione aggiudicatrice provvede, anche nel caso in cui sia pervenuta una sola proposta, a pubblicare un avviso con le modalità di cui all’art. 66 ovvero di cui all’art. 122 del d.lgs. 163/2006, secondo l’importo dei lavori, contenente i criteri in base ai quali si procede alla valutazione delle proposte; da questo momento decorre un termine in cui chi ha già presentato una proposta la può rielaborare alla luce dei criteri di valutazione resi noti con l’avviso, mentre altri interessati possono presentare altre proposte;
3) le eventuali proposte rielaborate e ripresentate alla luce dei suddetti criteri e le nuove proposte sono presentate entro novanta giorni dalla pubblicazione di detto avviso; quindi l’amministraizione aggiudicatrice:
4) esamina dette proposte, unitamente alle proposte già presentate e non rielaborate, entro sei mesi dalla scadenza di detto termine e verificato il possesso dei requisiti dei proponenti, individuano la migliore proposta;
5) redige una graduatoria;
6) nomina promotore il soggetto che ha presentato la migliore offerta secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa;
7) pone in approvazione il progetto preliminare presentato dal promotore sottoponendolo a Conferenza di servizi ex art. 14 bis l. 241/1990 (art. 97, d.lgs. n. 163/2006)
Se il soggetto che ha presentato la proposta prescelta ai sensi del comma 16 non partecipa alle gare, l’amministrazione aggiudicatrice incamera la garanzia di cui all’art. 75; scaduti i termini, la medesima valuta comparativamente le proposte e seleziona quella di pubblico interesse.
Dal combinato disposto dell’art. 2 della l. n. 241/1990 e dell’art. 153 comma 19 che prevede un obbligo di valutazione della PA a seguito di presentazione di proposte dei privati, appare quindi sussistente a carico dell’amministrazione coinvolta di concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
7. L’aggiudicazione della concessione
Nel project financing su iniziativa del privato le diverse modalità procedurali sono caratterizzate dalla necessità o meno di modificare il progetto preliminare e possono concretizzarsi in 3 (tre) diverse procedure connotate da una doppia gara.
L’amministrazione aggiudicatrice ha tre alternative, e cioè, in sede di Conferenza di servizi (art. 14 bis l. 241/1990 e art. 97 d.lgs. n. 163/2006) :
a) qualora il progetto preliminare necessiti di modifiche e ricorrono le condizioni di cui all’art. 582, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, l’amministrazione indice un dialogo competitivo sulla base del progetto preliminare e della proposta; il promotore che non risulti aggiudicatario nella procedura di dialogo competitivo, ha diritto al rimborso, con onere a carico dell’affidatario, delle spese sostenute nella misura massima di cui al comma 9, terzo periodo.
Al riguardo, va segnalato che il terzo correttivo ha modificato l’art. 58 stabilendo che il dialogo competitivo può riguardare anche l’affidamento di una concessione (oltre che l’affidamento di un appalto).
Per questa procedura è previsto che il promotore non aggiudicatario della concessione non ha diritto di prelazione, potendo pretendere solo di rimborso delle spese sostenute per la progettazione.
Si tiene che il dialogo competitivo debba svolgersi tra il promotore ed i soggetti che sono stati ammessi alla fase di selezione delle proposte.
E' opportuno precisare che:
a) nel caso di dialogo competitivo, l'approvazione del progetto preliminare avviene all'esito della gara, come negli altri casi di ricorso al dialogo competitivo;
b) rispetto ai casi di cui al comma 16, lett. b) e c), la fase di approvazione del progetto deve precedere la fase di gara ex articolo 143 ovvero ex articolo 153 comma 15 (gara con diritto di prelazione del promotore).
La disposizione non prevede quale sia l'esito della procedura nel caso in cui, sebbene il progetto necessiti di modifiche, non sussistano le condizioni per il ricorso al dialogo competitivo.
Si potrebbe in tal caso ritenere che amministrazione stessa modifichi il progetto preliminare adeguandolo alle modifiche richieste in sede di approvazione, predisponga il piano economico-finanziario ed indica una gara ai sensi dell'art. 14 del d.lgs. 163/2006 altrimenti l'amministrazione potrebbe provvedere all’ approvazione del progetto preliminare; bandire una nuova procedura selettiva ponendo a base di gara il progetto preliminare approvato e le condizioni economiche e contrattuali offerte dal promotore (comma 15. lett. b). c). d) ed 1)), previa indicazione di entrambe le possibilità nell’avviso di gara, poiché la disposizione non ne richiama l’applicazione. invitando in ogni caso il promotore.
b) se il progetto preliminare non necessita di modifiche (comma 16 lett. b)), previa approvazione del progetto preliminare presentato dal promotore, è possibile bandire una concessione ai sensi dell’art. 143, ponendo lo stesso progetto a base di gara ed invitando alla gara il promotore.
Per questa procedura è previsto che il promotore goda del diritto di prelazione.
c) qualora il progetto preliminare non necessiti di modifiche, (comma 16 lett. c)) previa approvazione del progetto preliminare presentato dal promotore, si può procedere ai sensi del comma 15, lett. c), d), e), f)3, ponendo lo stesso progetto e il piano economico-finanziario a base di gara e invitando alla gara il promotore (c.d. procedura a doppia gara).
Per questa procedura è previsto che il promotore goda del diritto di prelazione.
Non sussiste il diritto di prelazione qualora il progetto preliminare necessiti invece di modifiche.
Nei due casi di cui al comma 16, lettere b) e c) dell'articolo 153 del Codice, può essere stabilito che I'offerta dei concorrenti, poiché a base di gara vi è un progetto preliminare, sia costituita soltanto da modifiche migliorative del progetto a base di gara, o anche da un progetto definitivo.
Riferimenti normativi
d.lgs. n. 152/2008 (c.d. terzo correttivo);
d.lgs. n. 163/2006 (c.d. Codice dei contratti pubblici);
l. n. 241/1990 (Nuove norme in materia di proc. Amm. e di diritto di accesso ai documenti amministrativi);
D.P.R. n. 554/1999 (reg. di attuaz. della l. n. 109/1994 legge quadro in materia di lavori pubblici).
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1 Art. 153 Comma 16 - In relazione a ciascun lavoro inserito nell'elenco annuale di cui al comma 1, per il quale le amministrazioni aggiudicatrici non provvedano alla pubblicazione dei bandi entro sei mesi dalla approvazione dello stesso elenco annuale, i soggetti in possesso dei requisiti di cui al comma 8 possono presentare, entro e non oltre quattro mesi dal decorso di detto termine, una proposta avente il contenuto dell'offerta di cui al comma 9, garantita dalla cauzione di cui all'articolo 75, corredata dalla documentazione dimostrativa del possesso dei requisiti soggettivi e dell'impegno a prestare una cauzione nella misura dell'importo di cui al comma 9, terzo periodo, nel caso di indizione di gara ai sensi delle lettere a), b), c) del presente comma. Entro sessanta giorni dalla scadenza del termine di quattro mesi di cui al periodo precedente, le amministrazioni aggiudicatrici provvedono, anche nel caso in cui sia pervenuta una sola proposta, a pubblicare un avviso con le modalità di cui all'articolo 66 ovvero di cui all'articolo 122, secondo l'importo dei lavori, contenente i criteri in base ai quali si procede alla valutazione delle proposte. Le eventuali proposte rielaborate e ripresentate alla luce dei suddetti criteri e le nuove proposte sono presentate entro novanta giorni dalla pubblicazione di detto avviso; le amministrazioni aggiudicatrici esaminano dette proposte, unitamente alle proposte già presentate e non rielaborate, entro sei mesi dalla scadenza di detto termine. Le amministrazioni aggiudicatrici, verificato preliminarmente il possesso dei requisiti, individuano la proposta ritenuta di pubblico interesse, procedendo poi in via alternativa a:a) se il progetto preliminare necessita di modifiche, qualora ricorrano le condizioni di cui all'articolo 58, comma 2, indire un dialogo competitivo ponendo a base di esso il progetto preliminare e la proposta;b) se il progetto preliminare non necessita di modifiche, previa approvazione del progetto preliminare presentato dal promotore, bandire una concessione ai sensi dell'articolo 143, ponendo lo stesso progetto a base di gara ed invitando alla gara il promotore;c) se il progetto preliminare non necessita di modifiche, previa approvazione del progetto preliminare presentato dal promotore, procedere ai sensi del comma 15, lettere c), d), e), f), ponendo lo stesso progetto a base di gara e invitando alla gara il promotore.
2 Art. 58. Dialogo competitivo (art. 29, direttiva 2004/18)
1. Nel caso di appalti particolarmente complessi, qualora ritengano che il ricorso alla procedura aperta o ristretta non permetta l'aggiudicazione dell'appalto, le stazioni appaltanti possono avvalersi del dialogo competitivo conformemente al presente articolo.
2. Ai fini del ricorso al dialogo competitivo un appalto pubblico e' considerato «particolarmente complesso» quando la stazione appaltante:
- non e' oggettivamente in grado di definire, conformemente all'articolo 68, comma 3, lettere b), c) o d), i mezzi tecnici atti a soddisfare le sue necessità o i suoi obiettivi, o
- non e' oggettivamente in grado di specificare l'impostazione giuridica o finanziaria di un progetto. Possono, secondo le circostanze concrete, essere considerati particolarmente complessi gli appalti per i quali la stazione appaltante non dispone, a causa di fattori oggettivi ad essa non imputabili, di studi in merito alla identificazione e quantificazione dei propri bisogni o all'individuazione dei mezzi strumentali al soddisfacimento dei predetti bisogni, alle caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economico-finanziarie degli stessi e all'analisi dello stato di fatto e di diritto di ogni intervento nelle sue eventuali componenti storico-artistiche, architettoniche, paesaggistiche, nonche' sulle componenti di sostenibilità ambientale, socio-economiche, amministrative e tecniche.
3 D.lgs. n. 152/2008 art. 153 comma 15 (c.d. doppia gara). Le amministrazioni aggiudicatrici, ferme restando le disposizioni relative al contenuto del bando previste dal comma 3, primo periodo, possono, in alternativa a quanto prescritto dal comma 3, lettere a) e b), procedere come segue:
a) pubblicare un bando precisando che la procedura non comporta l'aggiudicazione al promotore prescelto, ma l'attribuzione allo stesso del diritto di essere preferito al migliore offerente individuato con le modalità di cui alle successive lettere del presente comma, ove il promotore prescelto intenda adeguare la propria offerta a quella ritenuta più vantaggiosa;
b) provvedere alla approvazione del progetto preliminare in conformità al comma 10, lettera c);
c) bandire una nuova procedura selettiva, ponendo a base di gara il progetto preliminare approvato e le condizioni economiche e contrattuali offerte dal promotore, con il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa;
d) ove non siano state presentate offerte valutate economicamente più vantaggiose rispetto a quella del promotore, il contratto e' aggiudicato a quest'ultimo;
e) ove siano state presentate una o più offerte valutate economicamente più vantaggiose di quella del promotore posta a base di gara, quest'ultimo può, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell'amministrazione aggiudicatrice, adeguare la propria proposta a quella del migliore offerente, aggiudicandosi il contratto. In questo caso l'amministrazione aggiudicatrice rimborsa al migliore offerente, a spese del promotore, le spese sostenute per la partecipazione alla gara, nella misura massima di cui al comma 9, terzo periodo;
f) ove il promotore non adegui nel termine indicato alla precedente lettera e) la propria proposta a quella del miglior offerente individuato in gara, quest'ultimo e' aggiudicatario del contratto e l'amministrazione aggiudicatrice rimborsa al promotore, a spese dell'aggiudicatario, le spese sostenute nella misura massima di cui al comma 9, terzo periodo. Qualora le amministrazioni aggiudicatrici si avvalgano delle disposizioni del presente comma, non si applicano il comma 10, lettere d), e), il comma 11 e il comma 12, ferma restando l'applicazione degli altri commi che precedono.

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