mercoledì 21 luglio 2010

Contratto, diffida ad adempiere, procura, forma scritta, necessità

Cassazione civile , SS.UU., sentenza 15.06.2010 n° 14292

La procura relativa alla diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 c.c. deve essere rilasciata per iscritto, indipendentemente dal carattere eventualmente solenne della forma richiesta per il contratto destinato in ipotesi ad essere risolto. (1)
NDR: la sentenza de qua è particolarmente importante per gli effetti pratici.
(*) Riferimenti normativi: art. 1454 c.c..

(1) In tema di diffida ad adempiere e ritrattazione, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 08.11.2007 n° 23315.

Per approfondimenti in dottrina, si vedano:
- VIOLA (a cura di), Il contratto, Cedam, 2009;
- DIENER, Il contratto in generale, Giuffrè, 2002;
- ROPPO, Il contratto, Giuffrè, 2001;
- BIANCA, Il contratto, Giuffrè, 2000.
(Fonte: Massimario.it - 27/2010. Cfr. nota di Elena Salemi)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 15 giugno 2010, n. 14292

Svolgimento del processo
La controversia è insorta tra le parti con riferimento a una vicenda che in sede di merito è stata ricostruita essenzialmente in questi termini: il 2 ottobre 1996 A.A. notificò a sua sorella A.R., a norma dell'art. 732 c.c., l'intenzione di vendere a terzi la propria quota ideale dell'eredità paterna "per un controvalore di L. 150.000.000 al netto di qualsivoglia onere passato, presente e futuro gravante sulla quota stessa"; con raccomandata del 21 novembre 1996 A.R. comunicò "la propria accettazione ad acquistare la quota ereditaria come sopra specificata per la somma di L. 150.000.000"; con lettera del 27 novembre 1996 l'avv. Luigi Marceli, nell'interesse di A.A., invitò A.R. a indicare il notaio incaricato del rogito; rispose con lettera del 22 dicembre 1996 l'avv. M. F., precisando che dal prezzo della vendita doveva essere defalcata la somma di L. 80.877.240, corrispondente all'importo delle spese straordinarie sostenute da A.R. a vantaggio del fratello; per conto di quest'ultimo, con lettera del 13 gennaio 1997, l'avv. L. M., ai sensi dell'art. 1454 c.c., intimò a A.R. di indicare entro 15 giorni il notaio per la stipula, con contestuale pagamento del prezzo come concordato, avvertendo che altrimenti "dovrà intendersi risolto e priva di efficacia la proposta di acquisto con conseguente libera e piena facoltà del Dott. A. di alienare la quota stessa ad altri"; la diffida rimase senza esito.
Ciò stante, con atto notificato il 25 luglio 1997 A.R. citò davanti al Tribunale di Roma A.A., chiedendo che fosse accertato il proprio diritto di prelazione e che le fosse trasferita la quota in contestazione previo pagamento della somma di L. 69.122.7 60 o di altra da accertare, detratto quanto da lei già anticipato per imposta di successione e altri oneri e spese. Il convenuto si costituì in giudizio concludendo per il rigetto della domanda, in quanto l'attrice era decaduta dal suo vantato diritto, pretendendo modificazioni della proposta che aveva accettato e non adempiendo nel termine assegnatole con la diffida, con conseguente risoluzione del contratto; contestò le singole voci di credito esposte nella citazione e chiese, in via riconvenzionale, la condanna dell'attrice al. pagamento di L. 11.537.834, pari alla differenza tra la somma di L. 15.000.000 da lei dovuta per il godimento esclusivo da parte sua di un bene ereditario e quella di L. 3.462.155 costituente l'effettivo ammontare del debito dei convenuto.
Essendo stata dichiarata l'interruzione del processo, in seguito alla morte di A.A., la causa fu riassunta nei confronti delle sue eredi M.M.A. ed A.E., che rimasero contumaci.
Intervennero invece nel processo, facendo proprie le richieste formulate dal convenuto, F.M. e B.A., alla quali A.A. con un rogito del 4 dicembre 1997, aveva venduto la propria quota ereditaria.
All'esito dell'istruzione della causa, con sentenza del 15 maggio 2001 il Tribunale, dichiarò legittimo l'intervento di F.M. e B.A., qualificandolo come adesivo dipendente; respinse la domanda proposta dall'attrice, ritenendo che con la sua inequivoca accettazione l'accordo contrattuale tra le parti era stato concluso, ma si era però risolto in seguito all'inutile decorso del termine assegnato a A.R. con l'intimazione ad adempiere Inviatale dall'avv. L. M.; non provvide su la domanda riconvenzionale, da reputarsi abbandonata in quanto non era stata riproposta dalle eredi del convenuto rimaste contumaci, nè ora ammissibile da parte delle intervenute nel processo.
Impugnata da A.R., la decisione è stata confermata dalla Corte d'appello di Roma, che con sentenza del 15 giugno 2004 ha rigettato il gravame, che era stato contrastato da F.M. e B.A., mentre non si erano costituite M.M.A. ed A.E..
Contro tale sentenza A.R. ha proposto ricorso per cassazione, in base a due motivi. F.M. e B.A. si sono costituite con controricorso. M.M.A. ed A.E. non hanno svolto attività difensive nel giudizio di legittimità. A.R. e F.M. hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso A.R. lamenta che erroneamente è stato dichiarato legittimo l'intervento nel processo di F.M. e B.A., le quali avevano preteso di sostituirsi ad A.A., facendo proprie le richieste che egli aveva formulato.
La doglianza è infondata.
Già il Tribunale aveva ritenuto inammissibile l'intervento di cui si tratta, con riferimento all'adesione alla domanda riconvenzionale, sulla quale infatti si era astenuto dal provvedere, rilevando che doveva reputarsi abbandonata, poichè erano rimaste contumaci le eredi del convenuto, uniche abilitate a riproporla dopo la riassunzione della causa. D'altra parte, come pure correttamente era stato osservato dal primo giudice ed è stato ribadito dalla Corte d'appello, F.M. e B.A., erano senz'altro legittimate a intervenire nei processo, ai sensi dell'art. 105 c.p.c., comma 2, avendo un proprio interesse a sostenere le ragioni di A.A. e ad aderire alla richiesta di rigetto della domanda proposta dall'attrice, il cui accoglimento avrebbe potuto pregiudicare l'avvenuto acquisto, da parte loro, della quota ereditaria oggetto della controversia: acquisto dichiaratamente compiuto nella consapevolezza della pendenza di questa causa, il cui atto introduttivo peraltro era stato a suo tempo trascritto. Pertanto le intervenute, nonostante l'improprio richiamo all'art. 111 c.p.c., contenuto nella loro comparsa di costituzione in giudizio, non hanno inteso operare alcuna indebita "sostituzione processuale del de cuius" nè "estromettere le legittime eredi", come sostiene A.R..
Con il secondo motivo di ricorso vengono rivolte alla sentenza impugnata due distinte critiche, per avere la Corte d'appello: - ingiustificatamente ritenuto che la proposta di A.A. fosse stata accettata, pur se era stata formulata in maniera imprecisa e seguita da una diversa controproposta; - considerato valida la diffida ad adempiere, che invece era affetta da nullità, in quanto firmata da persona priva di procura rilasciata per iscritto.
La prima di tali censure deve essere disattesa.
Si verte nella materia dell'interpretazione ai atti negoziali, che può formare oggetto di sindacato in questa sede soltanto sotto i profili della violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale e della omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione. Ma per il primo aspetto, nessun rilievo è stato formulato dalla ricorrente. Quanto al secondo, va rilevato che la Corte d'appello ha dato adeguatamente conto delle ragioni della decisione sul punto, richiamando "l'inequivoco tenore della comunicazione; in data 21 novembre 1996", con cui "l'attrice comunicava al fratello la propria accettazione ad acquistare la quota ereditaria come sopra meglio specificata per la somma di L. 150.000.000, facendo peraltro espresso riferimento all'atto notificato in data 2.10.96 dal fratello signor A.A. con il quale lo stesso, ai sensi e per gli affetti di cui all'art. 732 c.c., ha comunicato alla sottoscritta ed alla madre R.E. la volontà di alienare a terzi per un contro valore di L. 150.000.000 l'intera quota ereditaria", dal che si è desunto che A.R. "non formulò pertanto una nuova proposta contrattuale, ma sintetizzò il contenuto della proposta del fratello e della sua accettazione con gli stessi termini ed accettò quanto contenuto nell'atto notificato il 2.10.1996". Le contestazioni mosse da A.R. a queste argomentazioni non possono costituire idonea ragione di cassazione della sentenza impugnata, stanti i limiti propri del giudizio di legittimità, che consentono a questa Corte, sulle questioni di fatto, soltanto di verificare se la motivazione della sentenza impugnata sia esauriente e logicamente coerente e le inibiscono di compiere accertamenti e valutazioni prettamente di merito, come quelli che in sostanza la ricorrente richiede. Nè può essere presa in considerazione la deduzione relativa all'asserito carattere indeterminato, quanto all'entità del prezzo, della proposta formulata da A.A.: il tema non ha formato oggetto di decisione nella sentenza impugnata, nè la ricorrente ha precisato - come era suo onere - se e in quali atti lo abbia prospettato nel giudizio a quo.
Sull'altra questione, sollevata con il motivo gì impugnazione in esame, si è verificato nella giurisprudenza di legittimità un contrasto, per la cui composizione il ricorso è stata assegnato alle sezioni unite.
Negli esatti termini il cui si pone in questo giudizio, la questione è stata affrontata soltanto in tre sentenze, che le hanno dato soluzioni divergenti: secondo Cass. 25 marzo 1978 n. 1447 "affinchè la diffida ad adempiere, intimata alla parte inadempiente da un soggetto diverso dall'altro contraente, possa produrre gli effetti di cui all'art. 1454 c.c., è necessario che quei soggetto sia munito di procura scritta del creditore, e che tale procura sia allegata, o comunque portata a conoscenza del debitore con mezzi idonei, atteso il carattere negoziale della diffida medesima, quale atto unilaterale destinato a incidere sul rapporto contrattuale determinandone la risoluzione per l'inutile decorso del termine assegnato"; da questo indirizzo si è discostata Cass. 26 giugno 1987 n. 5641, con cui si è deciso che "l'art. 1350 c.c., stabilisce l'obbligo della forma scritta per la conclusione o la modifica dei contratti relativi a diritti reali immobiliari, ma nè esso, nè altra disposizione di legge prevedono analogo requisito di forma per ogni comunicazione o intimazione riguardante l'esecuzione di detti contratti; pertanto, è pienamente valida ed efficace la diffida ad adempiere un contratto preliminare di compravendita, intimata, per conto e nell'interesse dei contraente, da persona fornita di un semplice mandato verbale, come pure quella sottoscritta da un falsus procurator, e successivamente ratificata dalla parte interessata"; in una posizione intermedia si è infine collocata Cass. 1 settembre 1990 n. 9085, ritenendo che "per il combinato disposto degli art. 1324 e 1392 c.c., la procura per la diffida ad adempiere a norma dell'art. 1454 c.c., ancorchè questa sia atto unilaterale, deve essere fatta per iscritto soltanto nei casi previsti dalla legge e quindi se per il contratto, che si intende risolvere, la forma scritta sia richiesta ad suhstantiam o anche soltanto ad probationem e non quando riguardi beni mobili, per cui può essere anche conferita tacitamente, sempre che promani dall'interessato e sia manifestata con atti o fatti univoci e concludenti, restando in facoltà dell'intimato di esigere a norma dell'art. 1393 c.c., che il rappresentante, o chi si dichiari tale, giustifichi, nelle forme di legge, i suoi poteri". Altre decisioni - come quelle richiamate nella sentenza impugnata, insieme con Cass. 5641/87 - non sono pertinenti, poichè non si riferiscono specificamente, come invece quelle sopra citate, alla procura per l'intimazione ad adempiere.
Ritiene il collegio che debba essere seguito l'orientamento tracciato da Cass. 1447/78.
Le norme che vengono in considerazione sono gli artt. 1454, 1324 e 1392 c.c., che rispettivamente dispongono: - "Alla parte inadempiente l'altra può intimare per iscritto di adempiere in un congrue termine, con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s'intenderà senz'altro risoluto... Decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto"; - "Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale"; - "La procura non ha effetto se non è conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere". La diffida ad adempiere va certamente compresa tra gli atti equiparati ai contratti, data la sua natura prettamente negoziale: si tratta di una manifestazione di volontà consistente nell'esplicazione di un potere di unilaterale disposizione della sorte di un rapporto, di per sè idonea a incidere direttamente nella realtà giuridica, poichè da luogo all'automatica risoluzione ipso iure del vincolo sinallagmatico, senza necessità di una pronuncia giudiziale, nel caso di inutile decorso del termine assegnato all'altra parte. E' pertanto soggetta alla disciplina dei contratti, e in particolare a quella della rappresentanza, compresa la norma che estende alla procura il requisito di forma prescritto per il relativo negozio: norma la cui applicazione non è impedita da alcuna incompatibilità nè dall'esistenza di una qualche diversa disposizione. Poichè dunque la diffida deve essere rivolta all'inadempiente "per iscritto", è indispensabile che la procura per intimarla venga rilasciata in questa stessa forma dal creditore al suo rappresentante, indipendentemente dal carattere eventualmente "solenne" della forma richiesta per il contratto destinato in ipotesi a essere risolto (carattere peraltro presente nella specie, dato che a norma dell'art. 1543 c.c., "la vendita di un'eredità deve farsi per atto scritto, sotto pena di nullità" e nella successione del de cuius erano compresi anche beni immobili). Non contrastano con questa comunque ineludibile conclusione i precedenti della giurisprudenza di legittimità (Cass. 25 marzo 1995 n. 3566, 26 marzo 2002 n. 4310) nei quali si è fatto cenno alla possibilità che la diffida ad adempiere venga "fatta nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo", ma esclusivamente con riferimento alle modalità della sua trasmissione e senza affatto disconoscere che debba rivestire forma scritta.
Il principio da enunciare è quindi: "La procura relativa alla diffida ad adempiere di cui aìl'art. 1454 c.c., deve essere rilasciata per iscritto, indipendentemente dal carattere eventualmente solenne della forma richiesta per il contratto destinato in ipotesi ad essere risolto".
Nella memoria di F.M. si è dedotto che A.A., costituendosi nel giudizio di primo grado e chiedendo che fosse accertata l'avvenuta risoluzione del contratto in questione, in forza del persistente inadempimento di A.R. dopo l'intimazione inviatale dall'avv. L. M., aveva comunque ratificato l'operato del suo legale e consolidato gli effetti della diffida.
L'assunto non può essere preso in esame, per la stessa ragione esposta a proposito della tesi della ricorrente circa l'indeterminatezza della proposta rivoltale: la questione non ha formalo oggetto di decisione nella sentenza impugnata e non viene dedotto che sia stata sottoposta alla Corre d'appello. Nè comunque poteva essere sollevata in questo giudizio con la memoria, che è atto destinato soltanto a illustrare le difese già svolte dalla parte resistente con il controricorso e non a farne valere di nuove (Cass. 13 marzo 2006 n. 5400).
Rigettato pertanto il primo motivo di ricorso e accolto il secondo nei limiti di cui si è detto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice, che si designa in una diversa sezione della Corte d'appello di Roma, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo nei limiti di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.



Per l’ex nuora niente casa coniugale anche se assegnata dal giudice


Cassazione civile , sezione III, sentenza 07.07.2010 n° 15986 (Manuela Rinaldi)


Comodato e separazione? Nuovo orientamento della Suprema Corte sul tema del diritto alla permanenza nella casa coniugale, dopo la separazione, nell’ipotesi in cui la stessa venne concessa in comodato agli sposi dai genitori di uno di essi affinché la stessa venisse adibita ad abitazione familiare.
In caso di separazione la nuora deve restituire la casa coniugale.
I giudici di legittimità con la sentenza 15986/2010 hanno segnato un’importante e rilevante svolta (visto il precedente e consolidato orientamento giurisprudenziale in tale ambito) sul tema del comodato e della assegnazione della casa coniugale in caso di separazione tra coniugi, precisando che l’abitazione deve essere restituita ai suoceri, che la concessero, appunto, in comodato.
In base alla decisione della Corte la fattispecie integra il c.d. comodato precario caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vincolo è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante.
La questione
I giudici della terza sezione civile sono stati chiamati a pronunciarsi sul ricorso presentato da una coppia che aveva concesso in comodato la casa (di loro proprietà) al figlio sposato.
Il figlio successivamente si separa e la casa viene assegnata dal giudice alla moglie affidataria dei figli.
In primo grado il tribunale aveva dato ragione alla coppia di suoceri ordinando alla nuora la restituzione dell’immobile; ma poi la Corte d’Appello aveva ribaltato le carte in tavola assegnando nuovamente la casa alla donna affidataria dei figli.
La questione si sposta, quindi, dinanzi all’attenzione della Suprema Corte.
I Giudici di legittimità nella sentenza de qua hanno evidenziato che nel caso in cui sia in atto un comodato precario, senza la previsione di un termine per la restituzione dell’immobile, è nella facoltà del proprietario dell’immobile (nel caso di specie i suoceri) chiedere alla ex moglie di lasciare l’alloggio anche se assegnato alla stessa con provvedimento del giudice.
In tal caso la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante che ha la facoltà di manifestarla ad nutum.
Per la Corte non ha alcuna rilevanza il fatto che la casa familiare sia stata assegnata in sede di separazione personale dei coniugi al coniuge affidatario dei figli.
(Altalex, 15 luglio 2010. Nota di Manuela Rinaldi)




Manuela Rinaldi
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 7 luglio 2010, n. 15986
Svolgimento del processo
S.A. e R.S. convennero in giudizio C.A. dinanzi al tribunale di Lecce chiedendo la restituzione di un immobile da essi attori concesso in comodato al proprio figlio e alla convenuta, all'epoca marito e moglie, perchè entrambi lo adibissero temporaneamente ad abitazione familiare.
Il giudice di primo grado accolse la domanda, ordinando alla C. il rilascio dell'immobile.
L'impugnazione proposta da quest'ultima fu accolta dalla corte di appello di Lecce.
La sentenza è stata impugnata dalla S. e dal R. con ricorso per cassazione sorretto da due motivi illustrati da memoria.
La parte intimata non ha svolto attività difensiva.


Motivi della decisione


Il ricorso è fondato quanto al secondo motivo.
Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 345, 416, 431 c.p.c..
La doglianza non può essere accolta.

Esso si infrange difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello nella parte in cui ha ritenuto che la deduzione dell'insussistenza di un fatto costitutivo dal quale non possa prescindersi ai fini dell'accoglimento della domanda non costituisca eccezione in senso proprio, ma mera difesa, come tale proponibile per la prima volta in appello.
La decisione, conforme a diritto, si sottrae alle censure mosse dai ricorrenti.
Con il secondo motivo, si denuncia una ulteriore violazione ed erronea applicazione degli artt. 1803 e 1810 c.c..
Il motivo è fondato.
Correttamente osservano i ricorrenti come la convenzione negoziale per la quale è processo fosse privo di termine, integrando così la fattispecie del c.d. comodato precario, caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l'immobile sia stato adibito ad uso familiare e sia stato assegnato, in sede di separazione tra coniugi, all'affidatario dei figli, come condivisibilmente affermato da questa corte regolatrice con la sentenza 10258/1997.
E' pertanto viziata da errore di diritto la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto che condizione di legittimità della richiesta di restituzione fosse la sopravvenienza di un urgente e impreveduto bisogno, falsamente applicando, nella specie, la norma di cui all'art. 1809 c.c., comma 2.
La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata, e il procedimento rinviato alla stessa corte di appello di Lecce che, in diversa composizione, farà applicazione del principio di diritto suesposto.
P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Lecce in altra composizione.




Per l’ex nuora niente casa coniugale anche se assegnata dal giudice

Cassazione civile , sezione III, sentenza 07.07.2010 n° 15986 (Manuela Rinaldi)

Comodato e separazione? Nuovo orientamento della Suprema Corte sul tema del diritto alla permanenza nella casa coniugale, dopo la separazione, nell’ipotesi in cui la stessa venne concessa in comodato agli sposi dai genitori di uno di essi affinché la stessa venisse adibita ad abitazione familiare.
In caso di separazione la nuora deve restituire la casa coniugale.
I giudici di legittimità con la sentenza 15986/2010 hanno segnato un’importante e rilevante svolta (visto il precedente e consolidato orientamento giurisprudenziale in tale ambito) sul tema del comodato e della assegnazione della casa coniugale in caso di separazione tra coniugi, precisando che l’abitazione deve essere restituita ai suoceri, che la concessero, appunto, in comodato.
In base alla decisione della Corte la fattispecie integra il c.d. comodato precario caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vincolo è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante.
La questione
I giudici della terza sezione civile sono stati chiamati a pronunciarsi sul ricorso presentato da una coppia che aveva concesso in comodato la casa (di loro proprietà) al figlio sposato.
Il figlio successivamente si separa e la casa viene assegnata dal giudice alla moglie affidataria dei figli.
In primo grado il tribunale aveva dato ragione alla coppia di suoceri ordinando alla nuora la restituzione dell’immobile; ma poi la Corte d’Appello aveva ribaltato le carte in tavola assegnando nuovamente la casa alla donna affidataria dei figli.
La questione si sposta, quindi, dinanzi all’attenzione della Suprema Corte.
I Giudici di legittimità nella sentenza de qua hanno evidenziato che nel caso in cui sia in atto un comodato precario, senza la previsione di un termine per la restituzione dell’immobile, è nella facoltà del proprietario dell’immobile (nel caso di specie i suoceri) chiedere alla ex moglie di lasciare l’alloggio anche se assegnato alla stessa con provvedimento del giudice.
In tal caso la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante che ha la facoltà di manifestarla ad nutum.
Per la Corte non ha alcuna rilevanza il fatto che la casa familiare sia stata assegnata in sede di separazione personale dei coniugi al coniuge affidatario dei figli.
(Altalex, 15 luglio 2010. Nota di Manuela Rinaldi)


Manuela Rinaldi
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 7 luglio 2010, n. 15986
Svolgimento del processo
S.A. e R.S. convennero in giudizio C.A. dinanzi al tribunale di Lecce chiedendo la restituzione di un immobile da essi attori concesso in comodato al proprio figlio e alla convenuta, all'epoca marito e moglie, perchè entrambi lo adibissero temporaneamente ad abitazione familiare.
Il giudice di primo grado accolse la domanda, ordinando alla C. il rilascio dell'immobile.
L'impugnazione proposta da quest'ultima fu accolta dalla corte di appello di Lecce.
La sentenza è stata impugnata dalla S. e dal R. con ricorso per cassazione sorretto da due motivi illustrati da memoria.
La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato quanto al secondo motivo.
Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 345, 416, 431 c.p.c..
La doglianza non può essere accolta.
Esso si infrange difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello nella parte in cui ha ritenuto che la deduzione dell'insussistenza di un fatto costitutivo dal quale non possa prescindersi ai fini dell'accoglimento della domanda non costituisca eccezione in senso proprio, ma mera difesa, come tale proponibile per la prima volta in appello.
La decisione, conforme a diritto, si sottrae alle censure mosse dai ricorrenti.
Con il secondo motivo, si denuncia una ulteriore violazione ed erronea applicazione degli artt. 1803 e 1810 c.c..
Il motivo è fondato.
Correttamente osservano i ricorrenti come la convenzione negoziale per la quale è processo fosse privo di termine, integrando così la fattispecie del c.d. comodato precario, caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l'immobile sia stato adibito ad uso familiare e sia stato assegnato, in sede di separazione tra coniugi, all'affidatario dei figli, come condivisibilmente affermato da questa corte regolatrice con la sentenza 10258/1997.
E' pertanto viziata da errore di diritto la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto che condizione di legittimità della richiesta di restituzione fosse la sopravvenienza di un urgente e impreveduto bisogno, falsamente applicando, nella specie, la norma di cui all'art. 1809 c.c., comma 2.
La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata, e il procedimento rinviato alla stessa corte di appello di Lecce che, in diversa composizione, farà applicazione del principio di diritto suesposto.
P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Lecce in altra composizione.


martedì 13 luglio 2010

Stalking: profili di incostituzionalità sub art. 25 Cost. (sufficiente determinatrezza della fattispecie penale)

Notiziario OUA


Stalking, ossia molestia assillante:la fattispecie penale è sufficientemente determinata?
di Maurizio de Tilla - Presidente dell'OUA


Il decreto legge n. 11 del 2009, convertito nella legge 23 aprile 2009 n. 38, ha introdotto nel nostro ordinamento, con notevole ritardo rispetto agli altri ordinamenti europei, una «nuova» fattispecie di reato denominata «stalking», finalizzata a far venire meno la pericolosa condotta «persecutoria» nei confronti soprattutto delle donne. La nuova norma, l’articolo 612 bis del Codice penale, prevede che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni».


Ci si è posto il problema della costituzionalità della nuova normativa. Si è rilevato che il citato decreto legge potrebbe essere in contrasto con il principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, implicitamente contenuto nell’articolo 25 della Costituzione. Innanzitutto alcune precisazioni. Il bene giuridico tutelato dal legislatore si ravvisa nella libertà morale, ovvero nella libertà di autodeterminazione dell’individuo. Tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, che può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata. L’illecito in esame è contraddistinto dalla sussistenza di tre elementi costitutivi: la condotta tipica del reo; la reiterazione di tale condotta; l’insorgere di un particolare stato d’animo nella vittima.


La condotta del reo deve essere connotata dal dolo generico, cioè dalla volontà e consapevolezza di porre in essere le condotte persecutorie cagionando alla vittima uno degli eventi lesivi previsti dalla norma stessa. Infatti il dolo dell’agente è contraddistinto dalla rappresentazione specifica che, in seguito alla reiterazione seriale delle azioni delittuose predette, si verificherà nella vittima uno degli accadimenti dannosi considerati. L’illecito in esame è punito, salva l’applicazione di aggravanti, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.


Sono previste alcune aggravanti speciali: se il fatto è commesso da persona già condannata per lo specifico delitto la pena è aumentata fino a due terzi; se è commesso nei confronti di un minore o se ricorre una delle condizioni previste dall’articolo 339 del Codice penale, fino alla metà e si procede d’ufficio; in generale, il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di persona diversamente abile, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.


La persona che si ritiene offesa da una condotta simile, sino a quando non presenta formale querela, può avanzare richiesta di ammonimento nei confronti del molestatore. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore che, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, se ritiene fondata l’istanza ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Se il soggetto ammonito continua a molestare la sua vittima, si procede d’ufficio contro di lui e la pena è aggravata di almeno un terzo. Quando sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di reiterazione di tale reato, l’autorità di pubblica sicurezza, su autorizzazione del pubblico ministero che procede, diffida formalmente l’indagato dal compiere ulteriori atti persecutori.


L’introduzione del reato di «stalking» porta ad analizzare i rapporti con i reati che con esso possono concorrere. L’attenzione va innanzitutto al reato di minaccia di cui all’articolo 612 del Codice penale, che deve considerarsi assorbito in quello di atti persecutori, venendo a configurare una delle condotte incriminate. In relazione a quello di violenza privata di cui all’articolo 610, il concorso va risolto in base al criterio di specialità, posto che l’alterazione delle abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata.


Discorso più complesso si può fare con riferimento alla contravvenzione di cui all’articolo 660 del Codice penale in quanto, esclusa la configurabilità del reato complesso, le molestie individuate nell’articolo 612 bis costituiscono il genus rispetto a quelle del 660, per l’integrazione del quale sono richiesti ulteriori requisiti che vengono a restringerne l’ambito applicativo. Deve tuttavia precisarsi che, affinché sia integrato il «delitto di atti persecutori», è necessaria una reiterazione delle condotte tale da produrre effetti perduranti nel tempo.


Questo porta a ritenere che le incriminazioni di minaccia, molestia e violenza privata continueranno a sussistere quali ipotesi autonome nel caso di singolo episodio oppure di più episodi che non diano luogo ad effetti che si protraggono nel tempo, essendo proprio il carattere della serialità l’elemento fondamentale del reato di stalking.


Relativamente al problema della costituzionalità della nuova normativa sul punto della sua sufficiente determinatezza, si è risposto affermando che, per soddisfare tale requisito, si deve specificare che la normativa in esame intende riferirsi a forme patologiche caratterizzate dallo stress e specificamente riconoscibili proprio come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati, forme che, sebbene non compiutamente codificate, trovano riscontro nella letteratura medica.


Sul piano dell’individuazione del soggetto autore dello stalking si è osservato che lo «stalker» o «molestatore assillante» è colui che mette in atto quell’insieme di condotte che possono essere sintetizzate, a titolo d’esempio, nel seguire la vittima nei suoi movimenti per controllarla, o meglio «appostarsi» alla sua vita. Può essere un conoscente, un collega, un estraneo, un ex-partner. In genere gli stalker agiscono, in quest’ultimo contesto, per recuperare il rapporto precedente o per vendicarsi per essere stati lasciati.


Alcuni hanno semplicemente l’intento di stabilire una relazione sentimentale perché mostrano gravi difficoltà nell’instaurare un rapporto affettivo significativo. Altri, invece, possono soffrire di disturbi mentali che li inducono a credere con convinzione nell’esistenza di una relazione, che in realtà non c’è, o comunque nella possibilità di stabilirne una. Altri ancora molestano persone conosciute superficialmente o addirittura sconosciuti allo scopo di vendicarsi per qualche torto reale o presunto.


Il confine fra corteggiamento e stalking all’inizio può essere impercettibile, ma diventa significativo quando limita la «libertà morale» della vittima ponendola in una condizione di allerta per la paura di un pericolo imminente. Il comportamento persecutorio non si realizza solo nell’alveo delle relazioni affettive e sentimentali, ma può riscontrarsi anche in altri contesti relazionali come gli ambiti lavorativi e quelli scolastici.


Sotto il profilo psicologico sono stati individuati nella prassi alcuni tipi di persecutori. Il «risentito» rappresenta una tipologia di stalker presente in letteratura. Si tratta di solito di un ex-partner che desidera vendicarsi per la rottura della relazione sentimentale causata, a suo avviso, da motivi ingiusti. Forte di questo risentimento, si sente spinto a ledere sia l’immagine della persona - per esempio pubblicando sul web foto o immagini osé oppure stampando volantini con frasi oscene per farli girare nell’ambiente di lavoro della vittima -, sia la persona stessa aspettandola fuori casa per farle delle scenate, sia danneggiando cose di proprietà, rigando per esempio la macchina o forandone le gomme.


Motivato dalla ricerca di una relazione e di attenzioni che possono riguardare l’amicizia o l’amore è, invece, il «bisognoso d’affetto». Questo tipo di stalker agisce soprattutto nell’ambito di rapporti professionali particolarmente stretti come quello tra il paziente e lo psicoterapeuta. In questi casi i molestatori fraintendono l’empatia e l’offerta di aiuto co-me segno di un interesse sentimentale. Spesso il rifiuto dell’altro viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che egli abbia bisogno di superare qualche difficoltà psicologica o concreta e che prima o poi riconoscerà l’inevitabilità del rapporto amoroso proposto.


Più impulsivo ma meno resistente nel tempo è il «corteggiatore incompetente», che manifesta una condotta basata su una scarsa abilità relazionale e si traduce in comportamenti opprimenti ed esplicitamente invadenti. Gli stalker di questo gruppo presentano una condotta persecutoria di solito di breve durata, desiderano corteggiare ma non sanno farlo e finiscono per adottare atteggiamenti che possono risultare fastidiosi.


Nella categoria degli ex-partner rientra anche il «respinto», che manifesta comportamenti persecutori in reazione a un rifiuto. Questo tipo di stalker è ambivalente perché oscilla tra due desideri contrapposti: da una parte desidera ristabilire la relazione, mentre dall’altra vuole solo vendicarsi per l’abbandono subito.


Infine il «predatore» è uno stalker che ambisce avere rapporti sessuali con una vittima che può essere pedinata, inseguita e spaventata. La paura, infatti, eccita questo tipo di molestatore che prova un senso di potere nel pianificare la caccia alla «preda». Questo genere di stalking può colpire anche bambini e può essere posto in essere anche da persone con disturbi psicopatologici di tipo sessuale come pedofili o feticisti.


Data: 09/07/2010


Fonte: SPECCHIO ECONOMICO










Stalking: profili di incostituzionalità sub art. 25 Cost. (sufficiente determinatrezza della fattispecie penale)

Notiziario OUA

Stalking, ossia molestia assillante:la fattispecie penale è sufficientemente determinata?
di Maurizio de Tilla - Presidente dell'OUA

Il decreto legge n. 11 del 2009, convertito nella legge 23 aprile 2009 n. 38, ha introdotto nel nostro ordinamento, con notevole ritardo rispetto agli altri ordinamenti europei, una «nuova» fattispecie di reato denominata «stalking», finalizzata a far venire meno la pericolosa condotta «persecutoria» nei confronti soprattutto delle donne. La nuova norma, l’articolo 612 bis del Codice penale, prevede che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni».

Ci si è posto il problema della costituzionalità della nuova normativa. Si è rilevato che il citato decreto legge potrebbe essere in contrasto con il principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, implicitamente contenuto nell’articolo 25 della Costituzione. Innanzitutto alcune precisazioni. Il bene giuridico tutelato dal legislatore si ravvisa nella libertà morale, ovvero nella libertà di autodeterminazione dell’individuo. Tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, che può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata. L’illecito in esame è contraddistinto dalla sussistenza di tre elementi costitutivi: la condotta tipica del reo; la reiterazione di tale condotta; l’insorgere di un particolare stato d’animo nella vittima.

La condotta del reo deve essere connotata dal dolo generico, cioè dalla volontà e consapevolezza di porre in essere le condotte persecutorie cagionando alla vittima uno degli eventi lesivi previsti dalla norma stessa. Infatti il dolo dell’agente è contraddistinto dalla rappresentazione specifica che, in seguito alla reiterazione seriale delle azioni delittuose predette, si verificherà nella vittima uno degli accadimenti dannosi considerati. L’illecito in esame è punito, salva l’applicazione di aggravanti, con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Sono previste alcune aggravanti speciali: se il fatto è commesso da persona già condannata per lo specifico delitto la pena è aumentata fino a due terzi; se è commesso nei confronti di un minore o se ricorre una delle condizioni previste dall’articolo 339 del Codice penale, fino alla metà e si procede d’ufficio; in generale, il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di persona diversamente abile, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

La persona che si ritiene offesa da una condotta simile, sino a quando non presenta formale querela, può avanzare richiesta di ammonimento nei confronti del molestatore. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore che, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, se ritiene fondata l’istanza ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Se il soggetto ammonito continua a molestare la sua vittima, si procede d’ufficio contro di lui e la pena è aggravata di almeno un terzo. Quando sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di reiterazione di tale reato, l’autorità di pubblica sicurezza, su autorizzazione del pubblico ministero che procede, diffida formalmente l’indagato dal compiere ulteriori atti persecutori.

L’introduzione del reato di «stalking» porta ad analizzare i rapporti con i reati che con esso possono concorrere. L’attenzione va innanzitutto al reato di minaccia di cui all’articolo 612 del Codice penale, che deve considerarsi assorbito in quello di atti persecutori, venendo a configurare una delle condotte incriminate. In relazione a quello di violenza privata di cui all’articolo 610, il concorso va risolto in base al criterio di specialità, posto che l’alterazione delle abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata.

Discorso più complesso si può fare con riferimento alla contravvenzione di cui all’articolo 660 del Codice penale in quanto, esclusa la configurabilità del reato complesso, le molestie individuate nell’articolo 612 bis costituiscono il genus rispetto a quelle del 660, per l’integrazione del quale sono richiesti ulteriori requisiti che vengono a restringerne l’ambito applicativo. Deve tuttavia precisarsi che, affinché sia integrato il «delitto di atti persecutori», è necessaria una reiterazione delle condotte tale da produrre effetti perduranti nel tempo.

Questo porta a ritenere che le incriminazioni di minaccia, molestia e violenza privata continueranno a sussistere quali ipotesi autonome nel caso di singolo episodio oppure di più episodi che non diano luogo ad effetti che si protraggono nel tempo, essendo proprio il carattere della serialità l’elemento fondamentale del reato di stalking.

Relativamente al problema della costituzionalità della nuova normativa sul punto della sua sufficiente determinatezza, si è risposto affermando che, per soddisfare tale requisito, si deve specificare che la normativa in esame intende riferirsi a forme patologiche caratterizzate dallo stress e specificamente riconoscibili proprio come conseguenza del tipo di comportamenti incriminati, forme che, sebbene non compiutamente codificate, trovano riscontro nella letteratura medica.

Sul piano dell’individuazione del soggetto autore dello stalking si è osservato che lo «stalker» o «molestatore assillante» è colui che mette in atto quell’insieme di condotte che possono essere sintetizzate, a titolo d’esempio, nel seguire la vittima nei suoi movimenti per controllarla, o meglio «appostarsi» alla sua vita. Può essere un conoscente, un collega, un estraneo, un ex-partner. In genere gli stalker agiscono, in quest’ultimo contesto, per recuperare il rapporto precedente o per vendicarsi per essere stati lasciati.

Alcuni hanno semplicemente l’intento di stabilire una relazione sentimentale perché mostrano gravi difficoltà nell’instaurare un rapporto affettivo significativo. Altri, invece, possono soffrire di disturbi mentali che li inducono a credere con convinzione nell’esistenza di una relazione, che in realtà non c’è, o comunque nella possibilità di stabilirne una. Altri ancora molestano persone conosciute superficialmente o addirittura sconosciuti allo scopo di vendicarsi per qualche torto reale o presunto.

Il confine fra corteggiamento e stalking all’inizio può essere impercettibile, ma diventa significativo quando limita la «libertà morale» della vittima ponendola in una condizione di allerta per la paura di un pericolo imminente. Il comportamento persecutorio non si realizza solo nell’alveo delle relazioni affettive e sentimentali, ma può riscontrarsi anche in altri contesti relazionali come gli ambiti lavorativi e quelli scolastici.

Sotto il profilo psicologico sono stati individuati nella prassi alcuni tipi di persecutori. Il «risentito» rappresenta una tipologia di stalker presente in letteratura. Si tratta di solito di un ex-partner che desidera vendicarsi per la rottura della relazione sentimentale causata, a suo avviso, da motivi ingiusti. Forte di questo risentimento, si sente spinto a ledere sia l’immagine della persona - per esempio pubblicando sul web foto o immagini osé oppure stampando volantini con frasi oscene per farli girare nell’ambiente di lavoro della vittima -, sia la persona stessa aspettandola fuori casa per farle delle scenate, sia danneggiando cose di proprietà, rigando per esempio la macchina o forandone le gomme.

Motivato dalla ricerca di una relazione e di attenzioni che possono riguardare l’amicizia o l’amore è, invece, il «bisognoso d’affetto». Questo tipo di stalker agisce soprattutto nell’ambito di rapporti professionali particolarmente stretti come quello tra il paziente e lo psicoterapeuta. In questi casi i molestatori fraintendono l’empatia e l’offerta di aiuto co-me segno di un interesse sentimentale. Spesso il rifiuto dell’altro viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che egli abbia bisogno di superare qualche difficoltà psicologica o concreta e che prima o poi riconoscerà l’inevitabilità del rapporto amoroso proposto.

Più impulsivo ma meno resistente nel tempo è il «corteggiatore incompetente», che manifesta una condotta basata su una scarsa abilità relazionale e si traduce in comportamenti opprimenti ed esplicitamente invadenti. Gli stalker di questo gruppo presentano una condotta persecutoria di solito di breve durata, desiderano corteggiare ma non sanno farlo e finiscono per adottare atteggiamenti che possono risultare fastidiosi.

Nella categoria degli ex-partner rientra anche il «respinto», che manifesta comportamenti persecutori in reazione a un rifiuto. Questo tipo di stalker è ambivalente perché oscilla tra due desideri contrapposti: da una parte desidera ristabilire la relazione, mentre dall’altra vuole solo vendicarsi per l’abbandono subito.

Infine il «predatore» è uno stalker che ambisce avere rapporti sessuali con una vittima che può essere pedinata, inseguita e spaventata. La paura, infatti, eccita questo tipo di molestatore che prova un senso di potere nel pianificare la caccia alla «preda». Questo genere di stalking può colpire anche bambini e può essere posto in essere anche da persone con disturbi psicopatologici di tipo sessuale come pedofili o feticisti.

Data: 09/07/2010

Fonte: SPECCHIO ECONOMICO





martedì 6 luglio 2010

Danno per ritardata riconsegna del bagaglio al passeggero aereo

Giudice di Pace: danno per consegna ritardata del bagaglio al passeggero aereo



 
In un caso di consegna del bagaglio del passeggero di vettore aereo dopo tre giorni, il Giudice di Pace ha applicato la recente pronuncia della Corte di Giustizia (6 maggio 2010) secondo cui "Il termine «danno» contenuto all’art. 22, n. 2, della convenzione per l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale conclusa a Montreal il 28 maggio 1999, che fissa la limitazione della responsabilità del vettore aereo per il danno derivante in particolare dalla perdita di bagagli, deve essere interpretato nel senso che include tanto il danno materiale quanto il danno morale".

In materia di competenza giurisdizionale il Giudice ha richiamato la Convenzione di Montreal e il nostro Codice del consumo. "L’art. 33 (competenza giurisdizionale) di detta Convenzione stabilisce che: l’azione per il risarcimento del danno è promossa, a scelta dell’attore, nel territorio di uno degli Stati Parti (criterio per la giurisdizione), o davanti al Tribunale (criterio per la competenza) del domicilio del vettore o della sede principale della sua attività o del luogo in cui esso possiede un’impresa che ha provveduto a stipulare il contratto, o davanti al Tribunale del luogo di destinazione (criterio per la competenza). E’ ius receptum che, all’interno dell’ordinamento giudiziario dello Stato investito di giurisdizione, ex art. 33 Convenzione di Montreal, la distribuzione della competenza tra diversi ordini del potere giudiziario, o ratione materiae e valoris all’interno dello stesso ordine, è rimessa alla legge di tale Paese. ... per la competenza territoriale, la regola legislativa è contenuta nel codice del consumo (D.L.vo 6/9/05 n.206), secondo cui si presume la vessatorietà della clausola che stabilisce come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore. Detta regola viene interpretata dalla giurisprudenza nel senso che, nelle controversie tra consumatore e professionista, si è stabilita la competenza territoriale esclusiva ed inderogabile (se non con apposita trattativa individuale) del giudice del luogo del consumatore, a prescindere dell’avvenuta designazione di una determinata sede giudiziaria nel documento negoziale e dall’operatività dei criteri ordinariamente previsti".

Nel merito il Giudice ha rilevato che "Per quanto concerne il risarcimento dei danni, l’art. 22, comma 2, della Convenzione di Montreal limita la responsabilità del vettore alla somma di 1000 diritti speciali di prelievo per passeggero, equivalente a circa € 1.134,00. Questo Giudice, ritiene che detta somma sia più che congrua rispetto all’effettivo danno subito dall’istante la quale, con la sola prova testimoniale non ha provato né la somma pagata per l’acquisto dei vestiari prima della partenza, né la somma pagata per l’acquisto dei vestiari dopo lo smarrimento del bagaglio. Ella avrebbero dovuto provare la spesa sostenuta con le ricevute di acquisto, da dove si poteva evincere la quantità e la qualità dei capi di vestiario e degli effetti personali acquistati."


(Giudice di Pace di Pozzuoli - Avv. Italo Bruno, Sentenza 23 giugno 2010: Danno da consegna ritardata di bagaglio)


Danno per ritardata riconsegna del bagaglio al passeggero aereo

Giudice di Pace: danno per consegna ritardata del bagaglio al passeggero aereo

 
In un caso di consegna del bagaglio del passeggero di vettore aereo dopo tre giorni, il Giudice di Pace ha applicato la recente pronuncia della Corte di Giustizia (6 maggio 2010) secondo cui "Il termine «danno» contenuto all’art. 22, n. 2, della convenzione per l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale conclusa a Montreal il 28 maggio 1999, che fissa la limitazione della responsabilità del vettore aereo per il danno derivante in particolare dalla perdita di bagagli, deve essere interpretato nel senso che include tanto il danno materiale quanto il danno morale".
In materia di competenza giurisdizionale il Giudice ha richiamato la Convenzione di Montreal e il nostro Codice del consumo. "L’art. 33 (competenza giurisdizionale) di detta Convenzione stabilisce che: l’azione per il risarcimento del danno è promossa, a scelta dell’attore, nel territorio di uno degli Stati Parti (criterio per la giurisdizione), o davanti al Tribunale (criterio per la competenza) del domicilio del vettore o della sede principale della sua attività o del luogo in cui esso possiede un’impresa che ha provveduto a stipulare il contratto, o davanti al Tribunale del luogo di destinazione (criterio per la competenza). E’ ius receptum che, all’interno dell’ordinamento giudiziario dello Stato investito di giurisdizione, ex art. 33 Convenzione di Montreal, la distribuzione della competenza tra diversi ordini del potere giudiziario, o ratione materiae e valoris all’interno dello stesso ordine, è rimessa alla legge di tale Paese. ... per la competenza territoriale, la regola legislativa è contenuta nel codice del consumo (D.L.vo 6/9/05 n.206), secondo cui si presume la vessatorietà della clausola che stabilisce come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore. Detta regola viene interpretata dalla giurisprudenza nel senso che, nelle controversie tra consumatore e professionista, si è stabilita la competenza territoriale esclusiva ed inderogabile (se non con apposita trattativa individuale) del giudice del luogo del consumatore, a prescindere dell’avvenuta designazione di una determinata sede giudiziaria nel documento negoziale e dall’operatività dei criteri ordinariamente previsti".
Nel merito il Giudice ha rilevato che "Per quanto concerne il risarcimento dei danni, l’art. 22, comma 2, della Convenzione di Montreal limita la responsabilità del vettore alla somma di 1000 diritti speciali di prelievo per passeggero, equivalente a circa € 1.134,00. Questo Giudice, ritiene che detta somma sia più che congrua rispetto all’effettivo danno subito dall’istante la quale, con la sola prova testimoniale non ha provato né la somma pagata per l’acquisto dei vestiari prima della partenza, né la somma pagata per l’acquisto dei vestiari dopo lo smarrimento del bagaglio. Ella avrebbero dovuto provare la spesa sostenuta con le ricevute di acquisto, da dove si poteva evincere la quantità e la qualità dei capi di vestiario e degli effetti personali acquistati."

(Giudice di Pace di Pozzuoli - Avv. Italo Bruno, Sentenza 23 giugno 2010: Danno da consegna ritardata di bagaglio)

Ordinanze. quando è competente il Sindaco???

L'ordinanza di rimozione rifiuti compete al Sindaco


TAR Lombardia-Milano, sez. VI, sentenza 09.06.2010 n° 1764 (Aurelio Schiavone)


In ordine alla competenza ad emanare l’ordinanza di rimozione rifiuti ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 (TUA) si sono sviluppati, in giurisprudenza, due orientamenti.

Da un lato, un orientamento minoritario ritiene che il previgente art. 14, comma 3, d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (cd. decreto Ronchi) sebbene affidasse già al Sindaco il potere di ordinare la rimozione dei rifiuti abbandonati, tuttavia - in virtù del principio sulla separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni gestionali di cui all’art. 107 del T. U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali - la norma va ora letta alla luce del nuovo principio per il quale spetta ai dirigenti tutta l’attività di gestione, tra cui è ricompresa quella sulla rimozione dei rifiuti abbandonati. La soluzione non cambia neppure dopo l’adozione del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, il cui articolo 192, comma 3, ultima parte, riproduce, con identica formulazione, la disposizione di cui al citato art. 14, comma 3, ultimo periodo[1].

Tuttavia, secondo un altro più condivisibile e seducente indirizzo giurisprudenziale, largamente condiviso e recepito dalla pronuncia in esame, la competenza ad emanare le ordinanze di rimozione rifiuti spetta a Sindaco per espressa disposizione dell’art. 192, comma 3, TUA.

Invero, pur essendo l’ordinanza di rimozione rifiuti ex art.192 cit. astrattamente suscettibile di poter rientrare nella sfera di competenza del responsabile dell’area tecnica, ai sensi dell’art. 107, comma 5, TUEL, a mente del quale l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, essa viene attribuita al Sindaco dall’insuperabile dato testuale sancito dal citato art. 192, comma 3, secondo periodo, in coerente applicazione del canone ermeneutico lex posterior specialis derogat anteriori generali, nonché ai sensi dello stesso art. 107, comma 4, TUEL, il quale consente che “Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’art. 1, comma 4°, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”[2].

Altrimenti detto, l’art. 192, comma 3, del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (TUA) - che è norma speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000 (TUEL) - attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2 e, in base agli ordinari criteri preposti alla soluzione delle antinomie normative (criterio della specialità e criterio cronologico), prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000[3].





(Altalex, 22 giugno 2010. Nota di Aurelio Schiavone)


_______________

[1] Così, T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. II, 4 novembre 2009, n. 1598, in Giurisprudenza di merito, fasc. n. 1 del 2010. Si veda, altresì, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 9 giugno 2009, n. 3159, in www.ambientediritto.it, secondo cui: “Ai sensi dell’art. 107 comma 5 T.U.E.L. 18 agosto 2000, n. 267, rientra nella competenza del dirigente, e non del Sindaco, l’adozione dell’ordinanza di rimozione di rifiuti rivolta al proprietario di un’area sulla quale gli stessi sono stati abbandonati”. Nello stesso senso, T.A.R. Basilicata, 23 maggio 2007, n. 457, in http://www.giustizia-amministrativa.it/.


[2] Cfr., a tal proposito, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 20 ottobre 2009, n. 1118, in www.giustizia-amministrativa.it e in corso di pubblicazione su Giurisprudenza di merito con nota di A. Mezzotero.

[3] Cfr., oltre alla pronuncia in rassegna, Cons. St., Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4061, in www.lexitalia.it. Nello stesso senso, T.A.R. Veneto, Sez. III, 24 novembre 2009, n. 2968, in www.ambientediritto.it, secondo cui: “L’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006 è norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 ed attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti, prevalendo per il criterio della specialità e per quello cronologico sul disposto dell’art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000”; Id., 20 ottobre 2009, n. 2623, ivi; Id., 29 settembre 2009, n. 2454, ivi; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 2 settembre 2009, n. 4598, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Veneto, sez. III, 14 gennaio 2009, n. 40, ivi.

Aurelio Schiavone




T.A.R.

Lombardia - Milano

Sezione VI

Sentenza 9 giugno 2010, n. 1764


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente


SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 2076 del 1999, proposto da:
Avila S.a.s., rappresentata e difesa dagli avv. Benedetto Dalla Libera, Luigi Sangiorgio, con domicilio eletto presso l’avv. Benedetto Dalla Libera in Milano, via Losanna,29;
contro
Comune di Lomagna non costituito in giudizio;
per l'annullamento


dell’ordinanza nr. 10 del 2.3.99 del Responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Lomagna che ordina di provvedere al ripristino dello stato dei luoghi con smaltimento delle macerie secondo la normativa in tema di rifiuti.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 maggio 2010 il dott. Ugo De Carlo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
Fatto e Diritto
Con ricorso regolarmente notificato e depositato la società ha impugnato l’atto indicato in epigrafe.
Il ricorso si articola su quattro motivi.
Il primo lamenta l’incompetenza del funzionario in quanto l’ordinanza in questione doveva essere emanata dal Sindaco o da un assessore delegato.


Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 7 e 8 L. 241\90 poiché non era stato comunicato alla ricorrente l’avvio del procedimento.
Il terzo motivo contesta l’eccesso di potere per travisamento dei fatti in quanto lo scarico del materiale è avvenuto ad opera della s.r.l. Marcos che ha sede nel medesimo luogo della Avila tramite una terza ditta.


Il quarto motivo eccepisce lo stesso vizio per il fatto che il materiale esistente nella scarpata è ivi presente da lungo tempo e non è possibile stabilire chi sia il responsabile dell’abbandono di rifiuti.


Il Comune di Lomagna non si costituiva in giudizio.


Il ricorso è fondato.


E’ assorbente il primo motivo che eccepisce l’incompetenza del funzionario alla emanazione dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti.
L’art. 14 D.lgs 22\97 attualmente riprodotto senza modifiche nell’art. 192 Codice dell’Ambiente affida il compito di emanare tali ordinanza ripristinatorie al Sindaco e trattandosi di norma speciale rispetto all’art. 107 D.lgs 267\00 che deroga alla ordinaria competenza dei funzionari per i provvedimenti di ordinaria amministrazione.
L'art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006 poi è norma speciale sopravvenuta rispetto all`art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 ed attribuisce espressamente al Sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti, prevalendo per il criterio della specialità e per quello cronologico sul disposto dell`art. 107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (cfr. Consiglio di Stato, Sez.V, 25.8.2008, n. 4061).


Il provvedimento va, pertanto, annullato per incompetenza rimanendo assorbiti gli altri profili di illegittimità che dovranno essere valutati dall’organo competente, e cioè il Sindaco, nel momento in cui dovrà riesercitare il potere.


Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, Sezione IV, definitivamente pronunciando sul ricorso epigrafato, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Condanna il Comune di Lomagna alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in € 2.000 oltre C.P.A. ed I.V.A.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 11 maggio 2010 con l'intervento dei Magistrati:
Adriano Leo, Presidente


Ugo De Carlo, Referendario, Estensore


Alberto Di Mario, Referendario
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE


DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 09/06/2010.






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