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venerdì 13 marzo 2009

Termini di impugnazione della dellibera di revoca del contributo finanziario


Termini di impugnazione della delibera di revoca del contributo finanziario
(Cons. Stato, n. 38/2009)
R. Corapi

I termini per impugnare la delibera interministeriale con la quale vengano revocati i contributi finanziari in precedenza concessi al beneficiario decorrono dal momento in cui quest'ultimo ne abbia avuto effettiva conoscenza e non dalla pubblicazione della stessa sulla Gazzetta Ufficiale. Lo ha chiarito la sesta sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 38 del 12 gennaio 2009.La questione in esame riguardava il ricorso proposto dinanzi al Tar del Lazio da una società al fine di ottenere l'annullamento di una delibera del CIPI (Comitato Interministeriale per il Coordinamento della Politica Industriale), con la quale le era stato in parte revocato un contributo finanziario concessole ai sensi dell'art. 3 della legge 193 del 1984. A fondamento della propria domanda la ricorrente deduceva diverse violazioni di legge ed eccesso di potere, in particolare la mancata comunicazione dell'avvio del procedimento di revoca del contributo e il travisamento dei fatti nella motivazione del provvedimento. Per resistere al ricorso si costituivano in giudizio il Ministero delle Attività Produttive, il CIPI e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i quali eccepivano la tardività del ricorso ritenendo il provvedimento impugnato oltre i termini consentiti dalla legge.Il Tar decideva di accogliere il ricorso e le amministrazioni costituitesi in giudizio decidevano quindi di appellare la sentenza di primo grado, riproponendo l'eccezione di tardività del ricorso e lamentando l'erroneità nel merito della sentenza. L'eccezione di irricevibilità proposta dalle appellanti si fondava sull'assunto che il termine di impugnazione della delibera del CIPI dovesse decorrere dall'avviso comparso nella G.U. n. 62 del 16 marzo 1994, recante l'indicazione della delibera del CIPI di revoca del contributo e del suo contenuto, ovvero, al più tardi, dalla data in cui ne era stato dato atto nella controversia civile insorta tra le parti. Il testo dell'avviso, infatti, era stato trascritto sia nella comparsa conclusionale depositata per l'udienza collegiale del 13 febbraio 1995 nel corso giudizio di primo grado, tenutosi dinanzi al Tribunale di Roma e relativo all'opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla società appellata per il pagamento del contributo finanziario, sia nell'atto di appello notificato alla società il 7 maggio 1996. Al contrario di quanto sostenuto dalle amministrazioni appellanti, i giudici di primo grado avevano invece ritenuto che il termine d'impugnazione del provvedimento decorresse dal 24 ottobre 1996, giorno in cui la delibera era stata depositata in copia integrale all'udienza relativa alla causa pendente tra le parti dinanzi alla Corte di Appello di Roma e che quindi l'eccezione di tardività del ricorso fosse infondata.I giudici della sesta sezione del Consiglio di stato, dopo aver esaminato la questione, hanno deciso di accogliere l'appello e, per l'effetto, dichiarato il ricorso di primo grado irricevibile e annullato la sentenza appellata. Il Collegio ha motivato la propria decisione ritenendo non corretta la tesi sostenuta dal Giudice di primo grado e spiegando che, sebbene si possa condividere l'opinione secondo cui la pubblicità contenuta nella Gazzetta Ufficiale non fosse idonea ad assolvere il requisito della conoscenza legale del provvedimento, in quanto effetto non previsto da una norma di legge, fosse al contrario piuttosto evidente come in capo all'appellata dovesse ritenersi perfezionato il requisito della conoscenza del provvedimento impugnato, pur in difetto di comunicazione formale. Il Collegio ha quindi spiegato che le ripetute indicazioni contenute negli atti giudiziari sopra indicati, unitamente al notevole lasso di tempo trascorso dall'adozione del provvedimento e della sua pubblicazione in G.U, nonché tenuto conto della qualità professionale dell'appellata, dovessero ritenersi integrare quelle presunzioni gravi, precise e concordanti che, ai sensi dell'art. 2729 c.c., consentono di provare il fatto ignoto attraverso fatti noti, con la conseguenza che il ricorso di primo grado in discussione era da considerarsi senz'altro tardivo.

Dott.ssa Rossella Corapi
rcorapi@studiolegaledirago.it

Termini di impugnazione della dellibera di revoca del contributo finanziario


Termini di impugnazione della delibera di revoca del contributo finanziario
(Cons. Stato, n. 38/2009)
R. Corapi

I termini per impugnare la delibera interministeriale con la quale vengano revocati i contributi finanziari in precedenza concessi al beneficiario decorrono dal momento in cui quest'ultimo ne abbia avuto effettiva conoscenza e non dalla pubblicazione della stessa sulla Gazzetta Ufficiale. Lo ha chiarito la sesta sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 38 del 12 gennaio 2009.La questione in esame riguardava il ricorso proposto dinanzi al Tar del Lazio da una società al fine di ottenere l'annullamento di una delibera del CIPI (Comitato Interministeriale per il Coordinamento della Politica Industriale), con la quale le era stato in parte revocato un contributo finanziario concessole ai sensi dell'art. 3 della legge 193 del 1984. A fondamento della propria domanda la ricorrente deduceva diverse violazioni di legge ed eccesso di potere, in particolare la mancata comunicazione dell'avvio del procedimento di revoca del contributo e il travisamento dei fatti nella motivazione del provvedimento. Per resistere al ricorso si costituivano in giudizio il Ministero delle Attività Produttive, il CIPI e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i quali eccepivano la tardività del ricorso ritenendo il provvedimento impugnato oltre i termini consentiti dalla legge.Il Tar decideva di accogliere il ricorso e le amministrazioni costituitesi in giudizio decidevano quindi di appellare la sentenza di primo grado, riproponendo l'eccezione di tardività del ricorso e lamentando l'erroneità nel merito della sentenza. L'eccezione di irricevibilità proposta dalle appellanti si fondava sull'assunto che il termine di impugnazione della delibera del CIPI dovesse decorrere dall'avviso comparso nella G.U. n. 62 del 16 marzo 1994, recante l'indicazione della delibera del CIPI di revoca del contributo e del suo contenuto, ovvero, al più tardi, dalla data in cui ne era stato dato atto nella controversia civile insorta tra le parti. Il testo dell'avviso, infatti, era stato trascritto sia nella comparsa conclusionale depositata per l'udienza collegiale del 13 febbraio 1995 nel corso giudizio di primo grado, tenutosi dinanzi al Tribunale di Roma e relativo all'opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla società appellata per il pagamento del contributo finanziario, sia nell'atto di appello notificato alla società il 7 maggio 1996. Al contrario di quanto sostenuto dalle amministrazioni appellanti, i giudici di primo grado avevano invece ritenuto che il termine d'impugnazione del provvedimento decorresse dal 24 ottobre 1996, giorno in cui la delibera era stata depositata in copia integrale all'udienza relativa alla causa pendente tra le parti dinanzi alla Corte di Appello di Roma e che quindi l'eccezione di tardività del ricorso fosse infondata.I giudici della sesta sezione del Consiglio di stato, dopo aver esaminato la questione, hanno deciso di accogliere l'appello e, per l'effetto, dichiarato il ricorso di primo grado irricevibile e annullato la sentenza appellata. Il Collegio ha motivato la propria decisione ritenendo non corretta la tesi sostenuta dal Giudice di primo grado e spiegando che, sebbene si possa condividere l'opinione secondo cui la pubblicità contenuta nella Gazzetta Ufficiale non fosse idonea ad assolvere il requisito della conoscenza legale del provvedimento, in quanto effetto non previsto da una norma di legge, fosse al contrario piuttosto evidente come in capo all'appellata dovesse ritenersi perfezionato il requisito della conoscenza del provvedimento impugnato, pur in difetto di comunicazione formale. Il Collegio ha quindi spiegato che le ripetute indicazioni contenute negli atti giudiziari sopra indicati, unitamente al notevole lasso di tempo trascorso dall'adozione del provvedimento e della sua pubblicazione in G.U, nonché tenuto conto della qualità professionale dell'appellata, dovessero ritenersi integrare quelle presunzioni gravi, precise e concordanti che, ai sensi dell'art. 2729 c.c., consentono di provare il fatto ignoto attraverso fatti noti, con la conseguenza che il ricorso di primo grado in discussione era da considerarsi senz'altro tardivo.

Dott.ssa Rossella Corapi
rcorapi@studiolegaledirago.it

lunedì 9 febbraio 2009

Illegittimià degli incarici conferiti al dipendente con procedura interna con criteri di remunerazione previsti per i consulenti esterni

Appalti pubblici, incarichi di progettazione e direzione dei lavori, consulenti esterni
Consiglio di Stato , sez. VI, decisione 22.10.2008 n° 5175

Appalti pubblici - incarichi di progettazione e direzione dei lavori - consulenti esterni - dipendenti ufficio tecnico del Comune - procedure di affidamento - criteri di remunerazione - differente regime [art. 17, L. 109/1994]

In tema di appalti pubblici, gli incarichi di progettazione e direzione dei lavori possono essere conferiti dalle stazioni appaltanti sia a dipendenti sia a professionisti esterni, secondo un regime diverso quanto ai meccanismi di affidamento e di remunerazione.
Ne deriva l'illegittimita dell'incarico conferito al dipendente con procedura di affidamento interna, ma secondo i criteri di remunerazione previsti per i consulenti esterni.
(Fonte: Altalex Massimario 41/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto e nota su Altalex Mese - Schede di Giurisprudenza)
Consiglio di Stato
Sezione VI
Decisione 1 luglio - 22 ottobre 2008, n. 5175
(Presidente Varrone - Relatore Atzeni)

Sul seguente ricorso in appello n. 7271/2003, proposto dal Comune di Force in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avv.ti Ranieri Felici e Sergio Del Vecchio ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Angelico n. 38controil Ministero dei Lavori Pubblici in persona del Ministro in carica e l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici, Servizio Ispettivo, Settore Vigilanza, Accertamenti, Ispezioni, Area Geografica Marche e Sardegna, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, sono per legge domiciliatiper l’annullamentodella sentenza del Tribunale Amministrativo per le Marche n. 203/2003 in data 31 marzo 2003, resa inter partes;Visto il ricorso con i relativi allegati;Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte appellata;Visti gli atti tutti della causa;Relatore alla pubblica udienza del 1 luglio 2008 il consigliere Manfredo Atzeni ed udito l’avv.to Del Vecchio e l’avv.to dello Stato Greco;Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
Fatto
Con ricorso al Tribunale Amministrativo per le Marche il Comune di Force in persona del Sindaco in carica impugnava la delibera n. 149 in data 29/5/2002 con la quale il Consiglio dell’Autorità per i Lavori Pubblici, interessata dall’esposto di alcuni consiglieri di minoranza del predetto Comune, aveva accertato profili di illegittimità nell’affidamento di incarichi di progettazione e di direzioni di lavori ad un libero professionista, responsabile del procedimento legato al Comune da rapporto di lavoro autonomo assimilabile nella sostanza a quello di dipendente (collaborazione coordinata e continuativa) ed affermato che la stessa Amministrazione non aveva operato in conformità alle norme della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e del D.P.R. 554/1999 con riferimento ai principi di pubblicità, concorsualità e trasparenza nelle procedure di selezione dei soggetti esterni, censurando pertanto il suo operato e richiamandolo ad una corretta osservanza delle norme in materia di affidamento di servizi di ingegneria.Lamentava:1. - Violazione della seconda preposizione del primo periodo del 6° comma dell’art. 4 della legge n. 109/94 e succ. mod. in riferimento al contenuto della determinazione n. 11/99 del 17 novembre 1999 a cura dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici relativa alla “individuazione della nozione di «chiunque vi abbia interesse» per le richieste di ispezione”;violazione dell’art. 3 e dell’art. 9 della legge 7 agosto 1990, n. 241 in riferimento al contenuto della ridetta determinazione dell’Autorità n. 11/99 per difetto di legittimazione attiva in capo ad “alcuni consiglieri di minoranza” che hanno richiesto l’intervento ispettivo ed in riferimento alla violazione degli artt. 42, 43, 44, 48 del D.Lgs. n. 267/2000 nonché per difetto assoluto di interesse e di motivazione della richiesta;violazione dell’art. 4, comma 4° della legge n. 109/94 in riferimento alla violazione dell’art. 1 della stessa legge per incompetenza dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ad interventi che esulano dalle materie per le quali l’organo è stato creato nonché per scopi diversi da quelli per i quali esso organo è stato demandato ad apprestare tutela;eccesso di potere sotto più profili (del difetto di motivazione, della carenza dei presupposti della falsa rappresentazione della realtà, dell’ingiustizia manifesta);2. - violazione del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 in riferimento alla violazione dell’art. 17 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e della circolare ministeriale 7 ottobre 1996, n. 448; eccesso di potere sotto più profili.Chiedeva quindi l’annullamento della deliberazione impugnata unitamente ove occorra, agli atti presupposti tra i quali, segnatamente, la relazione redatta dal Servizio Ispettivo e l’atto di regolazione in data 8 novembre 1999.Con la sentenza in epigrafe il Tribunale Amministrativo per le Marche respingeva il ricorso.Avverso la predetta sentenza insorge il Comune di Force in persona del Sindaco in carica, chiedendo la sua riforma e l’accoglimento del ricorso di primo grado.Si è costituita in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato chiedendo il rigetto dell’appello.Alla pubblica udienza dell’1 luglio 2008 la causa è stata trattenuta in decisione.In data 3 luglio 2008 è stato depositato il dispositivo (n. 523/2008: respinge).
Diritto
1. L’appello è infondato.Il Comune, odierno appellante, a suo tempo ha conferito ad un architetto, estraneo ai suoi ruoli, un incarico per l’espletamento di prestazioni di natura tecnica ai sensi dell’art. 110 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, svolgendo le mansioni di responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, Settore Lavori Pubblici, con il compito di istruire le pratiche di competenza dell’Ufficio, con firma degli atti compresi quelli a rilevanza esterna, la redazione di progettazioni, stime e quant’altro necessario per il suo funzionamento, con assunzione di responsabilità dell’istruttoria e del provvedimento finale; l’incarico, per sua natura a termine, è stato più volte prorogato.Il Comune ha poi affidato allo stesso architetto, di solito congiuntamente ad altri professionisti, incarichi di progettazione e direzione lavori, compensati sulla base della tariffa professionale vigente.Alcuni consiglieri di minoranza di quel Comune hanno segnalato i fatti appena riassunti all’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici.Quest’ultima ha aperto istruttoria ai sensi dell’art. 4 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e, con il provvedimento impugnato in primo grado, ha accertato l’illegittimità dell’operato del Comune per violazione delle norme in materia di conferimento di servizi di ingegneria ed architettura con particolare riferimento ai principi di pubblicità, concorsualità e trasparenza da garantire nella selezione dei soggetti esterni, censurando il suo operato e richiamandolo ad una corretta osservanza delle norme relative, con l’adozione dei conseguenti provvedimenti.Il suddetto provvedimento è stato impugnato di fronte al Tribunale Amministrativo per le Marche, che ha respinto il ricorso, e la questione viene ora portata all’attenzione della Sezione.La difesa erariale sostiene l’inammissibilità del gravame negando il contenuto provvedimentale degli atti impugnati.La questione - riguardo alla quale appaiono condivisibili le osservazioni dei primi giudici - può essere assorbita, in quanto le ragioni dell’appellante sono infondate nel merito.2. Il Comune appellante sostiene in primo luogo che l’Autorità con propria determinazione n. 11/99 del 17 novembre 1999 ha stabilito che costituisce utile presupposto per avviare le proprie istruttorie la segnalazione di soggetti titolari di interesse ad intervenire.Siffatto interesse non potrebbe essere riconosciuto in capo ai consiglieri comunali di minoranza, che agiscono sulla base del proprio interesse politico ad opporsi all’operato dell’amministrazione per il cui il procedimento di cui si discute sarebbe stato iniziato senza un valido presupposto.La tesi non può essere condivisa.L’Autorità in base all’art. 4, quarto comma lett. a) e b), della legge 11 febbraio 1994, n. 109, applicabile ai fatti di causa ratione temporis, aveva il compito di vigilare affinché fosse assicurata l’economicità di esecuzione dei lavori pubblici e sull’osservanza della disciplina legislativa e regolamentare in materia verificando, anche con indagine campionarie, la regolarità delle procedure di affidamento dei medesimi.Lo svolgimento dei suddetti compiti costituiva per l’Autorità un obbligo, non una mera facoltà.L’adempimento del suddetto obbligo non era, evidentemente, condizionato dall’iniziativa di terzi, per cui palesemente l’Autorità era legittimata ad agire d’ufficio.L’assunto è rafforzato dall’art. 4, sesto comma, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, giustamente richiamato dai primi giudici, il quale espressamente stabilisce che l’Autorità esercita i propri poteri ispettivi anche sulla base della segnalazione di chiunque vi abbia interesse, in tal modo evidenziando che tali segnalazioni costituiscono solo uno dei possibili atti d’impulso.Osserva, quindi, il collegio che la determinazione n. 11/99 del 17 novembre 1999 costituisce lo strumento in base al quale l’Autorità seleziona le segnalazioni ricevute, individuando quelle alle quali attribuire maggiore credibilità; non può peraltro costituire lo strumento mediante il quale l’Autorità possa sottrarsi all’adempimento dei propri obblighi.Il riferimento all’interesse del quale deve essere portatore l’autore della segnalazione non può quindi essere inteso nei termini stretti nei quali l’interesse legittima la proposizione di ricorsi alla giurisdizione amministrativa, costituendo un semplice strumento di valutazione preventiva della serietà della segnalazione stessaOsserva, inoltre, il collegio che l’esigenza di razionalizzazione che ha ispirato la determinazione di cui ora si tratta recede di fronte all’obbligo, dell’Autorità, di assolvere i propri obblighi.Di conseguenza l’Autorità di fronte ad una segnalazione seria e circostanziata deve intervenire, nell’assolvimento della sua missione istituzionale, anche se la stessa proviene da soggetto il cui interesse nella vicenda debba essere accertato.3. Il Comune appellante obietta peraltro che la vicenda esula dall’ambito dei poteri dell’Autorità, in quanto non avente direttamente ad oggetto lavori pubblici ma un incarico conferito ai sensi dell’art. 110 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267.Tale ricostruzione non è esatta.Il problema evidenziato nella presente fattispecie è costituito dalla possibilità di conferire a collaboratore incaricato ai sensi del richiamato art. 110 incarichi libero professionali, nonché del regime eventualmente applicabile.Potrebbe essere affermato che i poteri dell’Autorità attengono all’affidamento ed esecuzione dei lavori pubblici, mentre non comprendono le problematiche relative all’affidamento ed esecuzione degli incarichi di progettazione e direzione lavori, ma tale prospettazione non sarebbe condivisibile.Invero, anche il momento della progettazione e della direzione dei lavori attiene all’economicità dei lavori pubblici, ed i meccanismi di assegnazione dei relativi incarichi soggiacciono agli stessi principi che presiedono all’assegnazione dei contratti di appalto, per cui giustamente l’Autorità ha ritenuto li ha ricompresi nel proprio ambito di cognizione.4. Infine, l’appellante contesta l’esattezza dei rilievi formulati dall’Autorità.La tesi non può essere condivisa.In base all’art. 17 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, le stazioni appaltanti potevano affidare gli incarichi di cui si tratta (oltre che con alcuni sistemi che ora interessano) a propri dipendenti ovvero a professionisti esterni, con disciplina diversa quanto ai meccanismi di affidamento e quanto alla remunerazione.Infatti, i rapporti con professionisti esterni vengono instaurati secondo procedimenti da pubblicizzare adeguatamente ed ai quali possono partecipare tutti i soggetti in possesso della qualificazione necessaria; la remunerazione è stabilita in base alle tariffe professionali vigenti, ed è oggetto di confronto concorrenziale.Gli incarichi interni vengono affidati qualora venga riscontrata l’esistenza dei presupposti di cui all’art. 17, quarto comma, della legge 109, più volte citata, e sono retribuiti secondo la disciplina di cui all’art. 18.Nel caso di specie il Comune appellante ha affidato ad un professionista incardinato, sebbene a termine, nella propria struttura un incarico professionale che poi ha retribuito secondo il regime proprio dei rapporti con i professionisti esterni alla struttura.Il Comune ha quindi confuso i due regimi, giungendo ad affidare contratti di rilevanza esterna con la libertà di scelta che gli è propria nell’ambito delle decisioni interne alla gestione della propria struttura.Il Comune nega che l’incaricato ai sensi dell’art. 110 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, possa essere assoggettato al regime proprio dei dipendenti, ed afferma che comunque tale valutazione non rientra nei compiti dell’Autorità.Quest’ultima osservazione deve essere disattesa in quanto l’Autorità ha delibato la configurazione del rapporto intercorrente fra il professionista di cui ora si discute ed il Comune come presupposto incidentale delle proprie valutazioni in ordine all’attività di gestione dei lavori pubblici.Nel merito, l’osservazione dell’Autorità deve essere condivisa.Nel caso di specie il Comune appellante ha conferito al professionista di cui si discute l’incarico di responsabile dell’Ufficio Tecnico, e quindi lo ha incardinato nell’ambito della propria struttura, attribuendogli i compiti, le responsabilità ed i poteri propri di tale collocazione.Giustamente quindi l’Autorità ha affermato che l’affidamento di incarichi di progettazione e direzione nei confronti del suddetto professionista deve avvenire nel rispetto della normativa dettata per l’affidamento dei suddetti incarichi a dipendenti dell’ente e gli stessi devono essere retribuiti secondo il sistema normativo proprio dei dipendenti.Il Comune, come già sottolineato, ha affidato gli incarichi in questione utilizzando l’ampia sfera di discrezionalità riconosciuta dall’art. 17 quando intenda avvalersi dei propri dipendenti, ed anzi nemmeno afferma di avere esplicitato le valutazioni richieste dall’art. 17; gli incarichi in parola sono stati poi pagati sulla base della tariffa professionale, senza impostare alcun raffronto fra professionisti.La suddetta confusione di procedimenti ha quindi portato a conferire incarichi esterni sulla base di un mero intuitus personae.Le osservazioni dell’Autorità devono, pertanto, essere condivise.5. L’appello deve, in conclusione, essere respinto.Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello indicato in epigrafe.
Condanna la parte appellante al pagamento, in favore dell’appellata, di spese ed onorari del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 5.000,00 oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Illegittimià degli incarici conferiti al dipendente con procedura interna con criteri di remunerazione previsti per i consulenti esterni

Appalti pubblici, incarichi di progettazione e direzione dei lavori, consulenti esterni
Consiglio di Stato , sez. VI, decisione 22.10.2008 n° 5175

Appalti pubblici - incarichi di progettazione e direzione dei lavori - consulenti esterni - dipendenti ufficio tecnico del Comune - procedure di affidamento - criteri di remunerazione - differente regime [art. 17, L. 109/1994]

In tema di appalti pubblici, gli incarichi di progettazione e direzione dei lavori possono essere conferiti dalle stazioni appaltanti sia a dipendenti sia a professionisti esterni, secondo un regime diverso quanto ai meccanismi di affidamento e di remunerazione.
Ne deriva l'illegittimita dell'incarico conferito al dipendente con procedura di affidamento interna, ma secondo i criteri di remunerazione previsti per i consulenti esterni.
(Fonte: Altalex Massimario 41/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto e nota su Altalex Mese - Schede di Giurisprudenza)
Consiglio di Stato
Sezione VI
Decisione 1 luglio - 22 ottobre 2008, n. 5175
(Presidente Varrone - Relatore Atzeni)

Sul seguente ricorso in appello n. 7271/2003, proposto dal Comune di Force in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avv.ti Ranieri Felici e Sergio Del Vecchio ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Angelico n. 38controil Ministero dei Lavori Pubblici in persona del Ministro in carica e l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici, Servizio Ispettivo, Settore Vigilanza, Accertamenti, Ispezioni, Area Geografica Marche e Sardegna, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, sono per legge domiciliatiper l’annullamentodella sentenza del Tribunale Amministrativo per le Marche n. 203/2003 in data 31 marzo 2003, resa inter partes;Visto il ricorso con i relativi allegati;Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte appellata;Visti gli atti tutti della causa;Relatore alla pubblica udienza del 1 luglio 2008 il consigliere Manfredo Atzeni ed udito l’avv.to Del Vecchio e l’avv.to dello Stato Greco;Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
Fatto
Con ricorso al Tribunale Amministrativo per le Marche il Comune di Force in persona del Sindaco in carica impugnava la delibera n. 149 in data 29/5/2002 con la quale il Consiglio dell’Autorità per i Lavori Pubblici, interessata dall’esposto di alcuni consiglieri di minoranza del predetto Comune, aveva accertato profili di illegittimità nell’affidamento di incarichi di progettazione e di direzioni di lavori ad un libero professionista, responsabile del procedimento legato al Comune da rapporto di lavoro autonomo assimilabile nella sostanza a quello di dipendente (collaborazione coordinata e continuativa) ed affermato che la stessa Amministrazione non aveva operato in conformità alle norme della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e del D.P.R. 554/1999 con riferimento ai principi di pubblicità, concorsualità e trasparenza nelle procedure di selezione dei soggetti esterni, censurando pertanto il suo operato e richiamandolo ad una corretta osservanza delle norme in materia di affidamento di servizi di ingegneria.Lamentava:1. - Violazione della seconda preposizione del primo periodo del 6° comma dell’art. 4 della legge n. 109/94 e succ. mod. in riferimento al contenuto della determinazione n. 11/99 del 17 novembre 1999 a cura dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici relativa alla “individuazione della nozione di «chiunque vi abbia interesse» per le richieste di ispezione”;violazione dell’art. 3 e dell’art. 9 della legge 7 agosto 1990, n. 241 in riferimento al contenuto della ridetta determinazione dell’Autorità n. 11/99 per difetto di legittimazione attiva in capo ad “alcuni consiglieri di minoranza” che hanno richiesto l’intervento ispettivo ed in riferimento alla violazione degli artt. 42, 43, 44, 48 del D.Lgs. n. 267/2000 nonché per difetto assoluto di interesse e di motivazione della richiesta;violazione dell’art. 4, comma 4° della legge n. 109/94 in riferimento alla violazione dell’art. 1 della stessa legge per incompetenza dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ad interventi che esulano dalle materie per le quali l’organo è stato creato nonché per scopi diversi da quelli per i quali esso organo è stato demandato ad apprestare tutela;eccesso di potere sotto più profili (del difetto di motivazione, della carenza dei presupposti della falsa rappresentazione della realtà, dell’ingiustizia manifesta);2. - violazione del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 in riferimento alla violazione dell’art. 17 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e della circolare ministeriale 7 ottobre 1996, n. 448; eccesso di potere sotto più profili.Chiedeva quindi l’annullamento della deliberazione impugnata unitamente ove occorra, agli atti presupposti tra i quali, segnatamente, la relazione redatta dal Servizio Ispettivo e l’atto di regolazione in data 8 novembre 1999.Con la sentenza in epigrafe il Tribunale Amministrativo per le Marche respingeva il ricorso.Avverso la predetta sentenza insorge il Comune di Force in persona del Sindaco in carica, chiedendo la sua riforma e l’accoglimento del ricorso di primo grado.Si è costituita in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato chiedendo il rigetto dell’appello.Alla pubblica udienza dell’1 luglio 2008 la causa è stata trattenuta in decisione.In data 3 luglio 2008 è stato depositato il dispositivo (n. 523/2008: respinge).
Diritto
1. L’appello è infondato.Il Comune, odierno appellante, a suo tempo ha conferito ad un architetto, estraneo ai suoi ruoli, un incarico per l’espletamento di prestazioni di natura tecnica ai sensi dell’art. 110 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, svolgendo le mansioni di responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, Settore Lavori Pubblici, con il compito di istruire le pratiche di competenza dell’Ufficio, con firma degli atti compresi quelli a rilevanza esterna, la redazione di progettazioni, stime e quant’altro necessario per il suo funzionamento, con assunzione di responsabilità dell’istruttoria e del provvedimento finale; l’incarico, per sua natura a termine, è stato più volte prorogato.Il Comune ha poi affidato allo stesso architetto, di solito congiuntamente ad altri professionisti, incarichi di progettazione e direzione lavori, compensati sulla base della tariffa professionale vigente.Alcuni consiglieri di minoranza di quel Comune hanno segnalato i fatti appena riassunti all’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici.Quest’ultima ha aperto istruttoria ai sensi dell’art. 4 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e, con il provvedimento impugnato in primo grado, ha accertato l’illegittimità dell’operato del Comune per violazione delle norme in materia di conferimento di servizi di ingegneria ed architettura con particolare riferimento ai principi di pubblicità, concorsualità e trasparenza da garantire nella selezione dei soggetti esterni, censurando il suo operato e richiamandolo ad una corretta osservanza delle norme relative, con l’adozione dei conseguenti provvedimenti.Il suddetto provvedimento è stato impugnato di fronte al Tribunale Amministrativo per le Marche, che ha respinto il ricorso, e la questione viene ora portata all’attenzione della Sezione.La difesa erariale sostiene l’inammissibilità del gravame negando il contenuto provvedimentale degli atti impugnati.La questione - riguardo alla quale appaiono condivisibili le osservazioni dei primi giudici - può essere assorbita, in quanto le ragioni dell’appellante sono infondate nel merito.2. Il Comune appellante sostiene in primo luogo che l’Autorità con propria determinazione n. 11/99 del 17 novembre 1999 ha stabilito che costituisce utile presupposto per avviare le proprie istruttorie la segnalazione di soggetti titolari di interesse ad intervenire.Siffatto interesse non potrebbe essere riconosciuto in capo ai consiglieri comunali di minoranza, che agiscono sulla base del proprio interesse politico ad opporsi all’operato dell’amministrazione per il cui il procedimento di cui si discute sarebbe stato iniziato senza un valido presupposto.La tesi non può essere condivisa.L’Autorità in base all’art. 4, quarto comma lett. a) e b), della legge 11 febbraio 1994, n. 109, applicabile ai fatti di causa ratione temporis, aveva il compito di vigilare affinché fosse assicurata l’economicità di esecuzione dei lavori pubblici e sull’osservanza della disciplina legislativa e regolamentare in materia verificando, anche con indagine campionarie, la regolarità delle procedure di affidamento dei medesimi.Lo svolgimento dei suddetti compiti costituiva per l’Autorità un obbligo, non una mera facoltà.L’adempimento del suddetto obbligo non era, evidentemente, condizionato dall’iniziativa di terzi, per cui palesemente l’Autorità era legittimata ad agire d’ufficio.L’assunto è rafforzato dall’art. 4, sesto comma, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, giustamente richiamato dai primi giudici, il quale espressamente stabilisce che l’Autorità esercita i propri poteri ispettivi anche sulla base della segnalazione di chiunque vi abbia interesse, in tal modo evidenziando che tali segnalazioni costituiscono solo uno dei possibili atti d’impulso.Osserva, quindi, il collegio che la determinazione n. 11/99 del 17 novembre 1999 costituisce lo strumento in base al quale l’Autorità seleziona le segnalazioni ricevute, individuando quelle alle quali attribuire maggiore credibilità; non può peraltro costituire lo strumento mediante il quale l’Autorità possa sottrarsi all’adempimento dei propri obblighi.Il riferimento all’interesse del quale deve essere portatore l’autore della segnalazione non può quindi essere inteso nei termini stretti nei quali l’interesse legittima la proposizione di ricorsi alla giurisdizione amministrativa, costituendo un semplice strumento di valutazione preventiva della serietà della segnalazione stessaOsserva, inoltre, il collegio che l’esigenza di razionalizzazione che ha ispirato la determinazione di cui ora si tratta recede di fronte all’obbligo, dell’Autorità, di assolvere i propri obblighi.Di conseguenza l’Autorità di fronte ad una segnalazione seria e circostanziata deve intervenire, nell’assolvimento della sua missione istituzionale, anche se la stessa proviene da soggetto il cui interesse nella vicenda debba essere accertato.3. Il Comune appellante obietta peraltro che la vicenda esula dall’ambito dei poteri dell’Autorità, in quanto non avente direttamente ad oggetto lavori pubblici ma un incarico conferito ai sensi dell’art. 110 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267.Tale ricostruzione non è esatta.Il problema evidenziato nella presente fattispecie è costituito dalla possibilità di conferire a collaboratore incaricato ai sensi del richiamato art. 110 incarichi libero professionali, nonché del regime eventualmente applicabile.Potrebbe essere affermato che i poteri dell’Autorità attengono all’affidamento ed esecuzione dei lavori pubblici, mentre non comprendono le problematiche relative all’affidamento ed esecuzione degli incarichi di progettazione e direzione lavori, ma tale prospettazione non sarebbe condivisibile.Invero, anche il momento della progettazione e della direzione dei lavori attiene all’economicità dei lavori pubblici, ed i meccanismi di assegnazione dei relativi incarichi soggiacciono agli stessi principi che presiedono all’assegnazione dei contratti di appalto, per cui giustamente l’Autorità ha ritenuto li ha ricompresi nel proprio ambito di cognizione.4. Infine, l’appellante contesta l’esattezza dei rilievi formulati dall’Autorità.La tesi non può essere condivisa.In base all’art. 17 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, le stazioni appaltanti potevano affidare gli incarichi di cui si tratta (oltre che con alcuni sistemi che ora interessano) a propri dipendenti ovvero a professionisti esterni, con disciplina diversa quanto ai meccanismi di affidamento e quanto alla remunerazione.Infatti, i rapporti con professionisti esterni vengono instaurati secondo procedimenti da pubblicizzare adeguatamente ed ai quali possono partecipare tutti i soggetti in possesso della qualificazione necessaria; la remunerazione è stabilita in base alle tariffe professionali vigenti, ed è oggetto di confronto concorrenziale.Gli incarichi interni vengono affidati qualora venga riscontrata l’esistenza dei presupposti di cui all’art. 17, quarto comma, della legge 109, più volte citata, e sono retribuiti secondo la disciplina di cui all’art. 18.Nel caso di specie il Comune appellante ha affidato ad un professionista incardinato, sebbene a termine, nella propria struttura un incarico professionale che poi ha retribuito secondo il regime proprio dei rapporti con i professionisti esterni alla struttura.Il Comune ha quindi confuso i due regimi, giungendo ad affidare contratti di rilevanza esterna con la libertà di scelta che gli è propria nell’ambito delle decisioni interne alla gestione della propria struttura.Il Comune nega che l’incaricato ai sensi dell’art. 110 del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, possa essere assoggettato al regime proprio dei dipendenti, ed afferma che comunque tale valutazione non rientra nei compiti dell’Autorità.Quest’ultima osservazione deve essere disattesa in quanto l’Autorità ha delibato la configurazione del rapporto intercorrente fra il professionista di cui ora si discute ed il Comune come presupposto incidentale delle proprie valutazioni in ordine all’attività di gestione dei lavori pubblici.Nel merito, l’osservazione dell’Autorità deve essere condivisa.Nel caso di specie il Comune appellante ha conferito al professionista di cui si discute l’incarico di responsabile dell’Ufficio Tecnico, e quindi lo ha incardinato nell’ambito della propria struttura, attribuendogli i compiti, le responsabilità ed i poteri propri di tale collocazione.Giustamente quindi l’Autorità ha affermato che l’affidamento di incarichi di progettazione e direzione nei confronti del suddetto professionista deve avvenire nel rispetto della normativa dettata per l’affidamento dei suddetti incarichi a dipendenti dell’ente e gli stessi devono essere retribuiti secondo il sistema normativo proprio dei dipendenti.Il Comune, come già sottolineato, ha affidato gli incarichi in questione utilizzando l’ampia sfera di discrezionalità riconosciuta dall’art. 17 quando intenda avvalersi dei propri dipendenti, ed anzi nemmeno afferma di avere esplicitato le valutazioni richieste dall’art. 17; gli incarichi in parola sono stati poi pagati sulla base della tariffa professionale, senza impostare alcun raffronto fra professionisti.La suddetta confusione di procedimenti ha quindi portato a conferire incarichi esterni sulla base di un mero intuitus personae.Le osservazioni dell’Autorità devono, pertanto, essere condivise.5. L’appello deve, in conclusione, essere respinto.Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello indicato in epigrafe.
Condanna la parte appellante al pagamento, in favore dell’appellata, di spese ed onorari del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 5.000,00 oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

venerdì 23 gennaio 2009

L'occupazione acquisitiva non esiste più

Non può ritenersi vigente l’istituto della c.d. occupazione acquisitiva
TAR Sicilia-Palermo, sez. III, sentenza 08.01.2009 n° 10

I Giudici siciliani, con l’arresto in esame, ribadiscono il tramonto dell’istituto, di creazione giurisprudenziale, noto come occupazione acquisitiva o occupazione espropriativa (od ancora come accessione invertita).
Sulla scia di quanto recentemente affermato dai colleghi di Palazzo Spada, il TAR Sicilia- Palermo ritiene che la mera trasformazione di un bene, seppur finalizzata al suo uso pubblico, non ne comporta l’acquisizione al patrimonio dell’ente pubblico che lo utilizza, il quale può divenirne proprietario esclusivamente ove esperisca il particolare procedimento previsto ex art. 43
d.P.R. n. 327/2001 (cfr. Cons.di Stato. A.P. n. 2/2005; Cons. di Stato, IV, n. 5830/2007 e Cons. di Stato, IV, n. 3752/2007).
I Giudici di prime cure richiamano testualmente le parole del Supremo Consesso: "L'istituto giurisprudenziale dell'occupazione espropriativa - secondo il quale, anche in assenza di un atto di natura ablatoria, l'amministrazione acquisirebbe a titolo originario la proprietà dell'area altrui, quando su di essa ha realizzato in tutto o in parte un'opera pubblica, in attuazione della dichiarazione della pubblica utilità, con conseguente decorso, dalla data in cui si verifica tale acquisto, del termine quinquennale per il risarcimento del danno - non può ritenersi vigente, sia in quanto non è conforme ai principi della convenzione europea del diritti dell'uomo e del diritto comunitario, che precludono di ravvisare un'espropriazione "indiretta" o "sostanziale" in assenza di un idoneo titolo legale, sia in quanto è incompatibile con l'art. 43
d.P.R. 327/2001, che attribuisce all'amministrazione il potere discrezionale di acquisire in sanatoria, con atto ablativo formale, la proprietà delle aree occupate nell'interesse pubblico in carenza di titolo, escludendo così che una simile acquisizione possa avvenire in via di mero fatto" (Consiglio Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582).
Il TAR, inoltre, afferma che rientra nella giurisdizione esclusiva del G.A., ai sensi dell’art. 34 del
d.lgs. 80/1998, come modificato dall’art. 7, legge 205/2000 - sul punto non inciso dalla sentenza della Consulta n. 204/2004 - un’azione promossa dai proprietari di un’area occupata dalla P.A. nell’ambito di una procedura espropriativa, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di p.u. .
Il Collegio, successivamente, alla luce dei principi testé esposti, specifica che, nella fattispecie de qua, non è intervenuto alcun acquisto da parte del Comune dei terreni di proprietà dei ricorrenti, oggetto di causa, in conseguenza delle opere di trasformazione realizzate su tali beni.
Pertanto, non può essere accolta la domanda diretta ad ottenere il risarcimento danni per la c.d. "occupazione acquisitiva", in assenza dell’avvenuta acquisizione dei terreni dei ricorrenti in favore del Comune (rectius in mancanza di apposito provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43,
T.U. espropriazioni per p.u.).
Tuttavia, proprio alla luce della richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato è, invece, fondata la domanda, proposta in via alternativa a quella risarcitoria, di restituzione dei beni di loro proprietà, illegittimamente occupati e detenuti sine titulo dall’amministrazione resistente.
Va, altresì, accolta la domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dell’area da parte dell’ amministrazione, a decorrere dalla data di immissione in possesso, atteso che, a seguito dell’annullamento in s.g. degli atti del procedimento espropriativo - segnatamente del decreto di occupazione di tali terreni - è venuto meno il titolo che legittimava il Comune a detenere l’area; conseguentemente la sua detenzione, senza titolo, è fonte di un credito risarcitorio in favore dei proprietari che sono stati ingiustamente privati dell’uso degli stessi terreni.
(Altalex, 15 gennaio 2009. Nota di Francesco Logiudice)


T.A.R.
Sicilia - Palermo
Sezione III
Sentenza 8 gennaio 2009, n. 10
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 4264 del 2004, proposto da:
C. M. (nata il ****), C. Maria (nata il ****), C. A., C. F. e C. L., rappresentati e difesi dall'avv. Franco Lupo, con domicilio eletto in Palermo, piazza G. Amendola 43 presso lo studio dell’avv. Tommaso Raimondo;
contro
Comune di Bagheria, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Angela Rizzo, elettivamente domiciliato in Palermo, via Caltanissetta N.1 presso lo studio dell’avv. Massimo Fricano;
quanto al ricorso principale:
richiesta risarcimento danni per illecito acquisto di terreno a seguito di accessione invertita, nonché per l’illegittima reiterazione del vincolo destinato all’esproprio;
quanto ai motivi aggiunti:
richiesta di rilascio dei fondi in questione, in alternativa al già richiesto risarcimento;
richiesta risarcimento per l’illegittima occupazione dei fondi in questione a far data dall’agosto 2002.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti i motivi aggiunti;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Bagheria;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20/11/2008 il dott. Nicola Maisano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Con ricorso notificato in data 19.7.2004 e depositato il successivo 21.7 i ricorrenti hanno chiesto che il Comune di Bagheria venisse condannato al risarcimento, in loro favore dei danni conseguenti all’illecito acquisto da parte del Comune, del terreno di loro proprietà sito in Bagheria, via ****, a seguito di accessione invertita, nonché per l’illegittima reiterazione del vincolo destinato all’esproprio su detto terreno.
Il Comune si è costituito in giudizio, replicando con memoria alle tesi articolate in ricorso e chiedendo che venga dichiarato inammissibile o comunque respinto.
Successivamente con motivi aggiunti, notificati e depositati nel giugno 2008 i ricorrenti hanno modificato le domande originariamente proposte in quanto: hanno chiesto la restituzione dei terreni indebitamente occupati dal Comune di Bagheria, in alternativa al risarcimento danni per occupazione acquisitiva degli stessi; hanno espressamente rinunziato alla domanda di risarcimento danni per l’illegittima reiterazione del vincolo destinato all’esproprio; hanno chiesto il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dei terreni in questione a far data dall’agosto 2002.
All’udienza fissata per la trattazione del ricorso i procuratori delle parti hanno insistito nelle rispettive posizioni ed il ricorso è stato posto in decisione.
DIRITTO
La presente controversia trova origine da un procedimento di espropriazione posto in essere dal Comune di Bagheria, con riguardo ad alcuni terreni dei ricorrenti, per la realizzazione di un parcheggio, in esecuzione delle prescrizioni del p.r.g. - adottato con delibera del commissario ad acta n. 238 del 23.11.1998 ed approvato con decreto dell’Assessore Regionale Territorio ed Ambiente dell’8 aprile 2002 - nonchè del piano parcheggi del Comune.
Sia gli atti di carattere programmatorio che quelli esecutivi dell’espropriazione sono stati impugnati dagli odierni ricorrenti, in via giurisdizionale, ed annullati da questo Tribunale con sentenza, divenuta definitiva, n. 1159/2003.
A seguito di quest’ultima pronunzia i ricorrenti hanno quindi proposto l’attuale controversia con la quale hanno chiesto, con l’iniziale ricorso, il risarcimento del danno conseguente all’occupazione acquisitiva del loro terreno da parte del Comune di Bagheria, nonché di quello derivante dalla reiterazione dei vincoli espropriativi; con i motivi aggiunti hanno poi modificato le domande già proposte, chiedendo la restituzione dei terreni indebitamente occupati dal Comune di Bagheria, in alternativa al risarcimento danni per occupazione acquisitiva degli stessi, nonchè il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dei terreni in questione a far data dall’agosto 2002.
In via preliminare, anche con riferimento alla relativa eccezione sollevata dalla difesa del Comune di Bagheria, deve essere chiarito che la presente controversia rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo, in virtù dell’art. 34 del D.Lvo. n. 80/1998 come modificato dall’art. 5 della legge n. 205/2000, sul punto non inciso dalla pronunzia della Corte Costituzionale n. 204/2004.
Invero l’occupazione dei terreni dei ricorrenti è comunque conseguente ad una dichiarazione di p.u., poi annullata in sede giurisdizionale (cfr. Cons. di Stato, IV 3.9.2008 n. 4112, Cons. di Stato, IV, 16.11.2007 n. 5830), ed anche a seguito dell’assetto conseguente all’intervento del Giudice delle leggi, tali casi rientrano nella giurisdizione del Giudice Amministrativo (Cons. di Stato A. P. n. 2/2006).
Ciò precisato, le domande proposte dai ricorrenti con i motivi aggiunti sono fondate e devono essere accolte, nei sensi che verranno precisati.
Il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che “L'istituto giurisprudenziale dell'occupazione espropriativa - secondo il quale, anche in assenza di un atto di natura ablatoria, l'amministrazione acquisirebbe a titolo originario la proprietà dell'area altrui, quando su di essa ha realizzato in tutto o in parte un'opera pubblica, in attuazione della dichiarazione della pubblica utilità, con conseguente decorso, dalla data in cui si verifica tale acquisto, del termine quinquennale per il risarcimento del danno - non può ritenersi vigente, sia in quanto non è conforme ai principi della convenzione europea del diritti dell'uomo e del diritto comunitario, che precludono di ravvisare un'espropriazione "indiretta" o "sostanziale" in assenza di un idoneo titolo legale, sia in quanto è incompatibile con l'art. 43 d.P.R. 327/2001, che attribuisce all'amministrazione il potere discrezionale di acquisire in sanatoria, con atto ablativo formale, la proprietà delle aree occupate nell'interesse pubblico in carenza di titolo, escludendo così che una simile acquisizione possa avvenire in via di mero fatto” (Consiglio Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582).
Conseguentemente la mera trasformazione di un bene, seppur finalizzata al suo uso pubblico, non ne comporta la sua acquisizione al patrimonio dell’ente pubblico che lo utilizza, che ne può divenire proprietario solo ove esperisca il particolare procedimento previsto dall’art. 43 D.P.R. n. 327/2001 (Cons.di Stato. A.P. n. 2/2005; Cons. di Stato, IV, 16.11.2007 n. 5830 e Cons. di Stato, IV, 27.6.2007 n. 3752).
Alla luce di tali principi che il Collegio ritiene condivisibili, e dai quali non ritiene pertanto di doversi discostare, nella fattispecie per cui è causa non è intervenuto alcun acquisto da parte del Comune di Bagheria dei terreni di proprietà dei ricorrenti, oggetto di causa, in conseguenza dalle opere di trasformazione realizzate su tali beni.
Conseguentemente non può essere accolta la domanda diretta ad ottenere il risarcimento danni per la così detta“occupazione acquisitiva”, in assenza dell’avvenuta acquisizione dei terreni dei ricorrenti in favore del Comune di Bagheria.
Proprio alla luce della richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato, è invece fondata la domanda, proposta in via alternativa a quella risarcitoria, di restituzione dei beni di loro proprietà, illegittimamente occupati e detenuti sine titulo dall’amministrazione resistente.
Invero non risulta che il Comune abbia attivato il particolare procedimento previsto dall’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001, volto all’acquisizione dei beni occupati e trasformati, neanche dopo che i ricorrenti hanno avanzato nel presente giudizio – con i motivi aggiunti notificati nel giugno 2008 – espressa domanda di restituzione dei terreni di loro proprietà, oggetto di controversia.
Peraltro, sembra utile precisare, proprio al fine di non pregiudicare le eventuali iniziative di spettanza del Comune resistente, è stata differita la trattazione del presente ricorso, che era già fissata per il 1° luglio 2008, prima che fossero maturati i termini di difesa per tale amministrazione, con riferimento alla proposizione dei motivi aggiunti.
In definitiva è fondata la domanda avanzata dagli odierni ricorrenti di restituzione dei beni in questione di cui sono sempre rimasti proprietari.
Altresì fondata è la domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione di tali terreni da parte del Comune di Bagheria a decorrere dall’agosto 2002.
Infatti a seguito dell’annullamento giurisdizionale degli atti del procedimento espropriativo intentato dall’amministrazione resistente, e segnatamente del decreto di occupazione di tali terreni, è venuto meno il titolo che legittimava Comune di Bagheria a detenerli; conseguentemente la loro detenzione, senza titolo, è fonte di un credito risarcitorio in favore dei proprietari che sono stati ingiustamente privati dell’uso degli stessi terreni.
La quantificazione del risarcimento spettante ai ricorrenti, sulla base del valore venale dell’utilità sottratta ai proprietari, dovrà essere effettuato dal Comune di Bagheria, ai sensi del secondo comma dell’art. 35 del D.Lvo n. 80/1998, come modificato dall’art. 7 della legge n. 205/2000, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.
In conclusione le pretese azionate dai ricorrenti con il ricorso in epigrafe possono essere accolte, nei sensi indicati.
Le spese seguono la soccombenza e devono essere liquidate, in favore dei ricorrenti nella misura di €. 2.500,00 oltre I.V.A. e c.p.a.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione terza, accoglie il ricorso in epigrafe, nei sensi indicati in motivazione.
Pone a carico dell’amministrazione intimata le spese del giudizio, che liquida, in favore dei ricorrenti, nella misura di €. 2.500,00, oltre I.V.A. e c.p.a.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 20/11/2008 con l'intervento dei Magistrati:
Calogero Adamo, Presidente
Nicola Maisano, Primo Referendario, Estensore
Maria Cappellano, Referendario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 08/01/2009.

L'occupazione acquisitiva non esiste più

Non può ritenersi vigente l’istituto della c.d. occupazione acquisitiva
TAR Sicilia-Palermo, sez. III, sentenza 08.01.2009 n° 10

I Giudici siciliani, con l’arresto in esame, ribadiscono il tramonto dell’istituto, di creazione giurisprudenziale, noto come occupazione acquisitiva o occupazione espropriativa (od ancora come accessione invertita).
Sulla scia di quanto recentemente affermato dai colleghi di Palazzo Spada, il TAR Sicilia- Palermo ritiene che la mera trasformazione di un bene, seppur finalizzata al suo uso pubblico, non ne comporta l’acquisizione al patrimonio dell’ente pubblico che lo utilizza, il quale può divenirne proprietario esclusivamente ove esperisca il particolare procedimento previsto ex art. 43
d.P.R. n. 327/2001 (cfr. Cons.di Stato. A.P. n. 2/2005; Cons. di Stato, IV, n. 5830/2007 e Cons. di Stato, IV, n. 3752/2007).
I Giudici di prime cure richiamano testualmente le parole del Supremo Consesso: "L'istituto giurisprudenziale dell'occupazione espropriativa - secondo il quale, anche in assenza di un atto di natura ablatoria, l'amministrazione acquisirebbe a titolo originario la proprietà dell'area altrui, quando su di essa ha realizzato in tutto o in parte un'opera pubblica, in attuazione della dichiarazione della pubblica utilità, con conseguente decorso, dalla data in cui si verifica tale acquisto, del termine quinquennale per il risarcimento del danno - non può ritenersi vigente, sia in quanto non è conforme ai principi della convenzione europea del diritti dell'uomo e del diritto comunitario, che precludono di ravvisare un'espropriazione "indiretta" o "sostanziale" in assenza di un idoneo titolo legale, sia in quanto è incompatibile con l'art. 43
d.P.R. 327/2001, che attribuisce all'amministrazione il potere discrezionale di acquisire in sanatoria, con atto ablativo formale, la proprietà delle aree occupate nell'interesse pubblico in carenza di titolo, escludendo così che una simile acquisizione possa avvenire in via di mero fatto" (Consiglio Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582).
Il TAR, inoltre, afferma che rientra nella giurisdizione esclusiva del G.A., ai sensi dell’art. 34 del
d.lgs. 80/1998, come modificato dall’art. 7, legge 205/2000 - sul punto non inciso dalla sentenza della Consulta n. 204/2004 - un’azione promossa dai proprietari di un’area occupata dalla P.A. nell’ambito di una procedura espropriativa, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di p.u. .
Il Collegio, successivamente, alla luce dei principi testé esposti, specifica che, nella fattispecie de qua, non è intervenuto alcun acquisto da parte del Comune dei terreni di proprietà dei ricorrenti, oggetto di causa, in conseguenza delle opere di trasformazione realizzate su tali beni.
Pertanto, non può essere accolta la domanda diretta ad ottenere il risarcimento danni per la c.d. "occupazione acquisitiva", in assenza dell’avvenuta acquisizione dei terreni dei ricorrenti in favore del Comune (rectius in mancanza di apposito provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43,
T.U. espropriazioni per p.u.).
Tuttavia, proprio alla luce della richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato è, invece, fondata la domanda, proposta in via alternativa a quella risarcitoria, di restituzione dei beni di loro proprietà, illegittimamente occupati e detenuti sine titulo dall’amministrazione resistente.
Va, altresì, accolta la domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dell’area da parte dell’ amministrazione, a decorrere dalla data di immissione in possesso, atteso che, a seguito dell’annullamento in s.g. degli atti del procedimento espropriativo - segnatamente del decreto di occupazione di tali terreni - è venuto meno il titolo che legittimava il Comune a detenere l’area; conseguentemente la sua detenzione, senza titolo, è fonte di un credito risarcitorio in favore dei proprietari che sono stati ingiustamente privati dell’uso degli stessi terreni.
(Altalex, 15 gennaio 2009. Nota di Francesco Logiudice)


T.A.R.
Sicilia - Palermo
Sezione III
Sentenza 8 gennaio 2009, n. 10
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 4264 del 2004, proposto da:
C. M. (nata il ****), C. Maria (nata il ****), C. A., C. F. e C. L., rappresentati e difesi dall'avv. Franco Lupo, con domicilio eletto in Palermo, piazza G. Amendola 43 presso lo studio dell’avv. Tommaso Raimondo;
contro
Comune di Bagheria, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Angela Rizzo, elettivamente domiciliato in Palermo, via Caltanissetta N.1 presso lo studio dell’avv. Massimo Fricano;
quanto al ricorso principale:
richiesta risarcimento danni per illecito acquisto di terreno a seguito di accessione invertita, nonché per l’illegittima reiterazione del vincolo destinato all’esproprio;
quanto ai motivi aggiunti:
richiesta di rilascio dei fondi in questione, in alternativa al già richiesto risarcimento;
richiesta risarcimento per l’illegittima occupazione dei fondi in questione a far data dall’agosto 2002.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti i motivi aggiunti;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Bagheria;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20/11/2008 il dott. Nicola Maisano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Con ricorso notificato in data 19.7.2004 e depositato il successivo 21.7 i ricorrenti hanno chiesto che il Comune di Bagheria venisse condannato al risarcimento, in loro favore dei danni conseguenti all’illecito acquisto da parte del Comune, del terreno di loro proprietà sito in Bagheria, via ****, a seguito di accessione invertita, nonché per l’illegittima reiterazione del vincolo destinato all’esproprio su detto terreno.
Il Comune si è costituito in giudizio, replicando con memoria alle tesi articolate in ricorso e chiedendo che venga dichiarato inammissibile o comunque respinto.
Successivamente con motivi aggiunti, notificati e depositati nel giugno 2008 i ricorrenti hanno modificato le domande originariamente proposte in quanto: hanno chiesto la restituzione dei terreni indebitamente occupati dal Comune di Bagheria, in alternativa al risarcimento danni per occupazione acquisitiva degli stessi; hanno espressamente rinunziato alla domanda di risarcimento danni per l’illegittima reiterazione del vincolo destinato all’esproprio; hanno chiesto il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dei terreni in questione a far data dall’agosto 2002.
All’udienza fissata per la trattazione del ricorso i procuratori delle parti hanno insistito nelle rispettive posizioni ed il ricorso è stato posto in decisione.
DIRITTO
La presente controversia trova origine da un procedimento di espropriazione posto in essere dal Comune di Bagheria, con riguardo ad alcuni terreni dei ricorrenti, per la realizzazione di un parcheggio, in esecuzione delle prescrizioni del p.r.g. - adottato con delibera del commissario ad acta n. 238 del 23.11.1998 ed approvato con decreto dell’Assessore Regionale Territorio ed Ambiente dell’8 aprile 2002 - nonchè del piano parcheggi del Comune.
Sia gli atti di carattere programmatorio che quelli esecutivi dell’espropriazione sono stati impugnati dagli odierni ricorrenti, in via giurisdizionale, ed annullati da questo Tribunale con sentenza, divenuta definitiva, n. 1159/2003.
A seguito di quest’ultima pronunzia i ricorrenti hanno quindi proposto l’attuale controversia con la quale hanno chiesto, con l’iniziale ricorso, il risarcimento del danno conseguente all’occupazione acquisitiva del loro terreno da parte del Comune di Bagheria, nonché di quello derivante dalla reiterazione dei vincoli espropriativi; con i motivi aggiunti hanno poi modificato le domande già proposte, chiedendo la restituzione dei terreni indebitamente occupati dal Comune di Bagheria, in alternativa al risarcimento danni per occupazione acquisitiva degli stessi, nonchè il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione dei terreni in questione a far data dall’agosto 2002.
In via preliminare, anche con riferimento alla relativa eccezione sollevata dalla difesa del Comune di Bagheria, deve essere chiarito che la presente controversia rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo, in virtù dell’art. 34 del D.Lvo. n. 80/1998 come modificato dall’art. 5 della legge n. 205/2000, sul punto non inciso dalla pronunzia della Corte Costituzionale n. 204/2004.
Invero l’occupazione dei terreni dei ricorrenti è comunque conseguente ad una dichiarazione di p.u., poi annullata in sede giurisdizionale (cfr. Cons. di Stato, IV 3.9.2008 n. 4112, Cons. di Stato, IV, 16.11.2007 n. 5830), ed anche a seguito dell’assetto conseguente all’intervento del Giudice delle leggi, tali casi rientrano nella giurisdizione del Giudice Amministrativo (Cons. di Stato A. P. n. 2/2006).
Ciò precisato, le domande proposte dai ricorrenti con i motivi aggiunti sono fondate e devono essere accolte, nei sensi che verranno precisati.
Il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che “L'istituto giurisprudenziale dell'occupazione espropriativa - secondo il quale, anche in assenza di un atto di natura ablatoria, l'amministrazione acquisirebbe a titolo originario la proprietà dell'area altrui, quando su di essa ha realizzato in tutto o in parte un'opera pubblica, in attuazione della dichiarazione della pubblica utilità, con conseguente decorso, dalla data in cui si verifica tale acquisto, del termine quinquennale per il risarcimento del danno - non può ritenersi vigente, sia in quanto non è conforme ai principi della convenzione europea del diritti dell'uomo e del diritto comunitario, che precludono di ravvisare un'espropriazione "indiretta" o "sostanziale" in assenza di un idoneo titolo legale, sia in quanto è incompatibile con l'art. 43 d.P.R. 327/2001, che attribuisce all'amministrazione il potere discrezionale di acquisire in sanatoria, con atto ablativo formale, la proprietà delle aree occupate nell'interesse pubblico in carenza di titolo, escludendo così che una simile acquisizione possa avvenire in via di mero fatto” (Consiglio Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582).
Conseguentemente la mera trasformazione di un bene, seppur finalizzata al suo uso pubblico, non ne comporta la sua acquisizione al patrimonio dell’ente pubblico che lo utilizza, che ne può divenire proprietario solo ove esperisca il particolare procedimento previsto dall’art. 43 D.P.R. n. 327/2001 (Cons.di Stato. A.P. n. 2/2005; Cons. di Stato, IV, 16.11.2007 n. 5830 e Cons. di Stato, IV, 27.6.2007 n. 3752).
Alla luce di tali principi che il Collegio ritiene condivisibili, e dai quali non ritiene pertanto di doversi discostare, nella fattispecie per cui è causa non è intervenuto alcun acquisto da parte del Comune di Bagheria dei terreni di proprietà dei ricorrenti, oggetto di causa, in conseguenza dalle opere di trasformazione realizzate su tali beni.
Conseguentemente non può essere accolta la domanda diretta ad ottenere il risarcimento danni per la così detta“occupazione acquisitiva”, in assenza dell’avvenuta acquisizione dei terreni dei ricorrenti in favore del Comune di Bagheria.
Proprio alla luce della richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato, è invece fondata la domanda, proposta in via alternativa a quella risarcitoria, di restituzione dei beni di loro proprietà, illegittimamente occupati e detenuti sine titulo dall’amministrazione resistente.
Invero non risulta che il Comune abbia attivato il particolare procedimento previsto dall’art. 43 del D.P.R. n. 327/2001, volto all’acquisizione dei beni occupati e trasformati, neanche dopo che i ricorrenti hanno avanzato nel presente giudizio – con i motivi aggiunti notificati nel giugno 2008 – espressa domanda di restituzione dei terreni di loro proprietà, oggetto di controversia.
Peraltro, sembra utile precisare, proprio al fine di non pregiudicare le eventuali iniziative di spettanza del Comune resistente, è stata differita la trattazione del presente ricorso, che era già fissata per il 1° luglio 2008, prima che fossero maturati i termini di difesa per tale amministrazione, con riferimento alla proposizione dei motivi aggiunti.
In definitiva è fondata la domanda avanzata dagli odierni ricorrenti di restituzione dei beni in questione di cui sono sempre rimasti proprietari.
Altresì fondata è la domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima occupazione di tali terreni da parte del Comune di Bagheria a decorrere dall’agosto 2002.
Infatti a seguito dell’annullamento giurisdizionale degli atti del procedimento espropriativo intentato dall’amministrazione resistente, e segnatamente del decreto di occupazione di tali terreni, è venuto meno il titolo che legittimava Comune di Bagheria a detenerli; conseguentemente la loro detenzione, senza titolo, è fonte di un credito risarcitorio in favore dei proprietari che sono stati ingiustamente privati dell’uso degli stessi terreni.
La quantificazione del risarcimento spettante ai ricorrenti, sulla base del valore venale dell’utilità sottratta ai proprietari, dovrà essere effettuato dal Comune di Bagheria, ai sensi del secondo comma dell’art. 35 del D.Lvo n. 80/1998, come modificato dall’art. 7 della legge n. 205/2000, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.
In conclusione le pretese azionate dai ricorrenti con il ricorso in epigrafe possono essere accolte, nei sensi indicati.
Le spese seguono la soccombenza e devono essere liquidate, in favore dei ricorrenti nella misura di €. 2.500,00 oltre I.V.A. e c.p.a.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione terza, accoglie il ricorso in epigrafe, nei sensi indicati in motivazione.
Pone a carico dell’amministrazione intimata le spese del giudizio, che liquida, in favore dei ricorrenti, nella misura di €. 2.500,00, oltre I.V.A. e c.p.a.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 20/11/2008 con l'intervento dei Magistrati:
Calogero Adamo, Presidente
Nicola Maisano, Primo Referendario, Estensore
Maria Cappellano, Referendario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 08/01/2009.

martedì 23 dicembre 2008

Giurisprudenza Amministrativa


Appalti: illegittima l'esclusione dalla gara dell'impresa che non sia costituita sotto forma di società di capitali (Cons. Stato, n. 4242/2008)
R. Corapi (Nota a sentenza 12/12/2008)

Consiglio di Stato, sez. V, 8 settembre 2008, n. 4242
Non può essere vietata la partecipazione alle gare di appalto per la gestione dei servizi pubblici locali ai soggetti costituiti in forma diversa dalla società di capitali, in quanto una disposizione del genere deve ritenersi contraria alle prescrizioni del diritto comunitario. Lo ha chiarito la quinta sezione del Consiglio di stato con la sentenza n. 4242 dell'8 settembre 2008. La fattispecie in esame riguardava il ricorso presentato da un'impresa avverso il provvedimento con cui un'amministrazione comunale l'aveva esclusa dalla procedura di gara per l'affidamento dei servizi di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani, sul presupposto che la stessa, in quanto costituita con la forma giuridica della società in nome collettivo, non fosse abilitata a partecipare alle gare per il cui accesso l'art. 113 del Testo Unico degli enti locali prescrive la forma della società di capitali. A seguito della sentenza di rigetto ottenuta in primo grado, la società decideva di proporre appello, deducendo la violazione dell'art. 113 del Tuel, la violazione della direttiva comunitaria n. 75/442/CEE e l'eccesso di potere per difetto di istruttoria. Dopo aver esaminato la questione i giudici della quinta sezione del Consiglio di stato hanno però deciso di accogliere il primo motivo di appello, rigettando gli altri. Il collegio ha infatti spiegato che il giudice di primo grado aveva respinto il ricorso richiamandosi alla prevalente interpretazione dell'art. 113 del Testo unico degli enti locali, approvato con il d.lgs. n. 267/2000, che prevede il conferimento della titolarità di servizi pubblici locali esclusivamente alle società di capitali e esclude che le società in nome collettivo siano abilitate a ottenere l'affidamento di tali servizi. Nelle more dell'appello era però sopravvenuta la sentenza n. 357 del 18 dicembre 2007 della Corte di giustizia, alla quale il Giudice nazionale è tenuto ad attenersi, e secondo cui, diversamente da quanto in precedenza affermato, alle gare di appalto per l'affidamento della gestione dei servizi pubblici locali deve poter concorrere qualsivoglia soggetto, anche costituito in forma diversa dalla società di capitali. In tale sentenza la Corte Ue ha infatti stabilito che l'art. 26, n. 1 e 2, della direttiva del Consiglio n. 92/50/Ce osta all'applicazione di alcune disposizioni nazionali italiane, come quelle costituite dagli art. 113, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, art. 198, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 e art. 2, comma 6, della legge regionale Lombardia n. 26/2003, che impediscono agli operatori economici di partecipare agli appalti pubblici ove non rivestano la forma giuridica della società di capitali.In questi casi, come evidenziato dalla quinta sezione del Consiglio di stato, quando una norma interna risulti contraria al diritto comunitario, il giudice nazionale è obbligato a fornire un'interpretazione e un'applicazione della stessa conforme alle prescrizioni del diritto comunitario e, qualora ciò non sia possibile, a disapplicare ogni disposizione contraria a tali prescrizioni. In ragione di tali considerazioni bisogna dunque ritenere che il discrimine della forma societaria non operi nei riguardi dell'impresa partecipante a una gara quando la stessa concerna la gestione di un servizio al cui affidamento può concorrere qualsivoglia soggetto, anche costituito in forma diversa dalla società di capitali.

Dott.ssa Rossella Corapircorapi@studiolegaledirago.it

Giurisprudenza Amministrativa


Appalti: illegittima l'esclusione dalla gara dell'impresa che non sia costituita sotto forma di società di capitali (Cons. Stato, n. 4242/2008)
R. Corapi (Nota a sentenza 12/12/2008)

Consiglio di Stato, sez. V, 8 settembre 2008, n. 4242
Non può essere vietata la partecipazione alle gare di appalto per la gestione dei servizi pubblici locali ai soggetti costituiti in forma diversa dalla società di capitali, in quanto una disposizione del genere deve ritenersi contraria alle prescrizioni del diritto comunitario. Lo ha chiarito la quinta sezione del Consiglio di stato con la sentenza n. 4242 dell'8 settembre 2008. La fattispecie in esame riguardava il ricorso presentato da un'impresa avverso il provvedimento con cui un'amministrazione comunale l'aveva esclusa dalla procedura di gara per l'affidamento dei servizi di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani, sul presupposto che la stessa, in quanto costituita con la forma giuridica della società in nome collettivo, non fosse abilitata a partecipare alle gare per il cui accesso l'art. 113 del Testo Unico degli enti locali prescrive la forma della società di capitali. A seguito della sentenza di rigetto ottenuta in primo grado, la società decideva di proporre appello, deducendo la violazione dell'art. 113 del Tuel, la violazione della direttiva comunitaria n. 75/442/CEE e l'eccesso di potere per difetto di istruttoria. Dopo aver esaminato la questione i giudici della quinta sezione del Consiglio di stato hanno però deciso di accogliere il primo motivo di appello, rigettando gli altri. Il collegio ha infatti spiegato che il giudice di primo grado aveva respinto il ricorso richiamandosi alla prevalente interpretazione dell'art. 113 del Testo unico degli enti locali, approvato con il d.lgs. n. 267/2000, che prevede il conferimento della titolarità di servizi pubblici locali esclusivamente alle società di capitali e esclude che le società in nome collettivo siano abilitate a ottenere l'affidamento di tali servizi. Nelle more dell'appello era però sopravvenuta la sentenza n. 357 del 18 dicembre 2007 della Corte di giustizia, alla quale il Giudice nazionale è tenuto ad attenersi, e secondo cui, diversamente da quanto in precedenza affermato, alle gare di appalto per l'affidamento della gestione dei servizi pubblici locali deve poter concorrere qualsivoglia soggetto, anche costituito in forma diversa dalla società di capitali. In tale sentenza la Corte Ue ha infatti stabilito che l'art. 26, n. 1 e 2, della direttiva del Consiglio n. 92/50/Ce osta all'applicazione di alcune disposizioni nazionali italiane, come quelle costituite dagli art. 113, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, art. 198, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 e art. 2, comma 6, della legge regionale Lombardia n. 26/2003, che impediscono agli operatori economici di partecipare agli appalti pubblici ove non rivestano la forma giuridica della società di capitali.In questi casi, come evidenziato dalla quinta sezione del Consiglio di stato, quando una norma interna risulti contraria al diritto comunitario, il giudice nazionale è obbligato a fornire un'interpretazione e un'applicazione della stessa conforme alle prescrizioni del diritto comunitario e, qualora ciò non sia possibile, a disapplicare ogni disposizione contraria a tali prescrizioni. In ragione di tali considerazioni bisogna dunque ritenere che il discrimine della forma societaria non operi nei riguardi dell'impresa partecipante a una gara quando la stessa concerna la gestione di un servizio al cui affidamento può concorrere qualsivoglia soggetto, anche costituito in forma diversa dalla società di capitali.

Dott.ssa Rossella Corapircorapi@studiolegaledirago.it

lunedì 30 giugno 2008

Nuove prospettive per il diritto di accesso agli atti delle procedure di gara
Corte di Giustizia UE , sez. II, sentenza 14.02.2008 n° C-450/06 (
Alessandro Del Dotto)

La “legge di Good” e il “nocciolo della questione” – Arthur Bloch, noto umorista statunitense, rammenta come la “Legge di Good” costituisca una norma “naturale” fondamentale: «se hai un problema che deve essere risolto da una burocrazia, ti conviene cambiare problema».
1. Mi rendo conto che, ai “massimalisti” del diritto e, in specie, alle “vestali” del diritto amministrativo, simile citazione possa risultare sconveniente, un pò approssimativa e magari troppo profana.
Non è mia intenzione, tuttavia, urtare la sensibilità di alcuno; anzi, il tentativo è quello di porre un accento “meno amaro” su una realtà che, talora, più che lasciare – ritraendosi – stupiti e disorientati, finisce – agendo – per gettare nello sconcerto più assoluto.
Ecco, allora, che niente più della citazione sopra riportata è capace di esprimere il senso che, di fondo, tratteggia l’animo di chi si confronta – soprattutto a livello operativo più che teorico – con la vigente disciplina in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e con le relative regole dell’evidenza pubblica.
Le continue variazioni normative, le diverse indicazioni pratiche dei giudici e delle autorità (Ministeri, Autorità di vigilanza, etc.) rendono spesso impossibile all’operatore affrontare con serenità lo svolgimento di una gara e l’indizione di una procedura ad evidenza pubblica.
E se questa è un’osservazione che vale per tutto il Codice (si rammentano: i tre decreti “correttivi”, la finanziaria, la sentenza della Corte costituzionale 401/2007 e, da poco, la procedura di infrazione – la quale ultima, pur senza effetti modificativi diretti, giustifica e prefigura l’ennesimo intervento di modificazione normativa da parte dell’insediando XV legislatore), ci si trova, in questa sede, nuovamente all’esame di un ulteriore aspetto critico della normativa.
Nella recentissima pronuncia che qui si annota, di fatti, ad essere posto in discussione è – ora – il meccanismo dell’accesso agli atti o, quanto meno, l’accesso agli atti “all’italiana” che – stando ad una pronuncia della Corte di Giustizia, pur relativamente all’assetto legislativo prescelto da un altro Stato membro – potrebbe non risultare particolarmente rispettoso dei principi e delle regole della trasparenza (almeno, nell’accezione che di quest’ultima hanno le istituzioni comunitarie).
Più nello specifico, ad essere posto nel dubbio di compatibilità con il panorama normativo comunitario è il diritto di accedere alle informazioni e ai dati relativi all’offerta tecnica.
La vicenda è sintetizzabile nel quesito pregiudiziale alla soluzione della controversia, posto dal Giudice del rinvio: l’organo responsabile delle procedure di ricorso (in questo caso, un Giudice) deve garantire la riservatezza e il rispetto dei segreti commerciali contenuti nei fascicoli ad esso trasmessi dalle parti in causa, tra le quali rientra anche l’amministrazione aggiudicatrice, pur avendo esso allo stesso tempo il diritto di venire a conoscenza di siffatte informazioni e di prenderle in considerazione?
In effetti, se – come nel caso oggetto di sindacato – il ricorrente intende accedere agli atti relativi ai dati dell’offerta tecnica e si vede negare tale facoltà dall’amministrazione, viene il dubbio se tale accesso possa concretamente avvenire laddove, pendente il ricorso, sia l’autorità giudiziaria adita a consentire l’accesso ai dati in un primo tempo negati alla visione.
Ciò può, comunque, avvenire soltanto laddove si abbia una chiara nozione dell’oggetto dell’accesso e una idea certa sulla disciplina di questo oggetto; in sintesi, è implicito che, per rispondere alla domanda poc’anzi riportata, vi sia da chiedersi se, comunque, quelle informazioni sono normalmente accessibili oppure no.
2. Il diritto di accesso nel codice dei contratti pubblici – Nel nostro Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006) il diritto di accesso è disciplinato dall’art. 13 (“Accesso agli atti e divieti di divulgazione”); questo articolo, in parte, recepisce alcune delle indicazioni normative preesistenti al Codice, fra le quali l’art. 22 della l. n. 109/1994, l’art. 10 del d.P.R. n. 554/1999 e costituisce il recepimento delle disposizioni dettate sul punto dalla normativa comunitaria (da cui, com’è noto, il Codice ha avuto origine).
Com’è noto, al primo comma del citato articolo il legislatore nazionale inquadra l’istituto nella più generale disciplina dell’accesso agli atti, disposta dalla l. n. 241/1990 e dal relativo regolamento (d.P.R. n. 184/2006; entrambe queste norme sono state recentemente modificate); in tal senso, dunque, il diritto di accesso, per come disciplinato dall’art. 13 del d.lgs. n. 163/2006, costituisce norma speciale rispetto a quella generale della l. n. 241/1990 (artt. 22 e sgg.).
Non disponendo diversamente, dunque, l’articolo 13 – quanto a presupposti e condizioni per poter essere titolari del (e poter esercitare concretamente il) diritto di accesso – fa riferimento alla legge sul procedimento amministrativo.
Una prima serie di deroghe all’ordinaria disciplina della l. n. 241/1990, tuttavia, la si trova già al comma secondo dell’art. 13: sono i casi del c.d. “differimento” dell’accesso.
Ebbene, il potere di differimento è previsto e disciplinato in via generale dall’art. 24, comma 6, della l. n. 241/1990 e dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 184/2006: sostanzialmente, «il differimento dell'accesso è disposto ove sia sufficiente per assicurare una temporanea tutela agli interessi di cui all'articolo 24, comma 6, della legge, o per salvaguardare specifiche esigenze dell'amministrazione, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, in relazione a documenti la cui conoscenza possa compromettere il buon andamento dell'azione amministrativa».
In materia di appalti, comunque, il differimento è previsto in specifici casi e con termini massimi temporali (rectius, termini conclusivi del periodo di differimento) ben delineati e precisi, a seconda del tipo di procedura di selezione del contraente che sia stata selezionata dall’amministrazione procedente:
1) nelle procedure aperte, il diritto di accesso viene temporaneamente sterilizzato fino a che non è spirato il termine per la presentazione delle offerte ma solo in relazione al numero e all’identità dei soggetti che hanno fino a quel momento inviato i propri plichi e, dunque, la propria proposta contrattuale (“all’elenco dei soggetti che hanno presentato offerte”: art. 13, comma 2, lett. a);
2) nelle altre tipologie di procedure concorsuali la disciplina è la medesima (resta fermo il termine ultimo della presentazione delle offerte, n.d.r.) con l’aggiunta che, all’accesso, – oltre al numero e all’identità degli offerenti – sono sottratti anche il numero e i nominativi dei soggetti che hanno presentato istanza di partecipazione e che sono stati invitati ad offrire (tale differimento, tuttavia, è derogato per i soggetti non ammessi ad offrire nonostante abbiano formulato istanza di partecipazione: art. 13, comma 2, lett. b);
3) in ogni caso, il diritto di accesso viene temporaneamente compresso se esercitato per conoscere del contenuto e delle informazioni relative alle offerte, mentre l’interessato potrà tornare a godere pienamente di tale diritto solo dopo l’avvenuta approvazione dell’aggiudicazione (definitiva, n.d.a.: art. 13, comma 2, lett. c).
Siffatto impianto normativo, del resto, non è sconosciuto al nostro ordinamento, nel quale – fra l’altro – si è sempre sostenuto che «limiti speciali in materia di diritto di accesso, orientati, rispettivamente, alla esclusione dell'accesso e al suo differimento possono rinvenirsi soltanto nell'art. 4 d.m. lavori pubblici 14 marzo 2001 n. 292 (il quale si limita a differire l'accesso "...ai sotto elencati documenti sino a quando la conoscenza degli stessi possa impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell'azione amministrativa: a), b), c), d), e), f), (omissis) g) documenti relativi a procedure concorsuali per l'aggiudicazione di lavori e forniture di beni e servizi, nonché atti che possano pregiudicare la sfera di riservatezza dell'impresa o ente in ordine ai propri interessi professionali, finanziari, industriali e commerciali"). L'ultimo comma dell'art. 4 citato precisa, significativamente, che, "per una adeguata tutela degli interessi richiamati, l'accesso è consentito mediante estratto esclusivamente per notizie riguardanti la stessa impresa o ente richiedente, fino alla conclusione delle procedure di scelta del contraente"» (ex multis, T.A.R. Puglia-Bari, sez. I, sentenza 3 settembre 2002, n. 3827).
Solo per precisione, merita rammentare che l’inoltro di una istanza di accesso nelle more di una delle circostanze di cui al comma 2 non legittima l’amministrazione interessata ad opporre un diniego all’accesso agli atti, ma consente soltanto l’attivazione dei poteri di differimento in capo all’ufficio: di modo che, all’istante, potrà comunicarsi che “è possibile accedere solo dopo il ...” e non che “non è possibile accedere” (da sempre, del resto, si sostiene che «non può essere negato il diritto di una impresa che ha partecipato ad una gara di appalto di accedere a tutti i documenti della procedura di gara sulla base dell'esigenza di tutelare la riservatezza delle imprese partecipanti, (in assenza di specifiche disposizioni regolamentari che annettano tutela preminente alla tutela di quella riservatezza), visto che deve senz'altro ammettersi che tale esigenza possa giustificare il solo differimento dell'accesso sino alla conclusione delle procedure di scelta del contraente, ma non anche il diniego di accesso a gara conclusa»: T.A.R. Puglia-Bari, sent. cit.).
Sul differimento, infine, il legislatore ha disposto – sostanzialmente – che chiunque (specie nel caso di cui all’art. 13, comma 2, lett. b) viene a contatto con informazioni che – all’epoca del contatto stesso – non sarebbero accessibili, ha l’obbligo e il dovere di non divulgare tali informazioni (art. 13, commi 3 e 4), cosicché si configura un sistema di responsabilità condivise fra il pubblico ufficiale e il soggetto che espleta l’accesso in una fase tanto particolare.
Una seconda serie di deroghe all’ordinaria disciplina dell’accesso agli atti nelle gare di appalto, poi, è prevista al comma 5 dell’art. 13, relativamente ai casi di esclusione della possibilità di accedere a talune informazioni.
Per chiarezza, si osservi che – stando al dettato normativo – i quattro casi di esclusione vanno, comunque, distinti in casi di “esclusione assoluta” del diritto di accesso e casi di “esclusione relativa”.
Fra i primi rientrano quelle fattispecie concrete in cui si chiede di accedere:
1) ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all’applicazione del codice, che siano stati dati per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relativamente alla procedura e al contratto pubblico in questione (art. 13, comma 5, lett. c);
2) alle relazioni riservate del direttore dei lavori e dell’organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto (art. 13, comma 5, lett. d).
Pur concernendo fattispecie evidentemente particolari, appare doveroso specificare che l’esclusione di cui alla lett. c) del comma 5 non appare del tutto condivisibile, quantomeno in riferimento ad un caso particolare che potrebbe, certamente, verificarsi: si pensi all’occasione in cui un’impresa sia stata ammessa in virtù di un parere legale che ha risolto talune incertezze che l’amministrazione procedente aveva riscontrato, e che contro tale ammissione altra impresa (che sarebbe stata vincitrice in caso di non ammissione della prima anzidetta) intenda proporre ricorso; in simile fattispecie, se l’amministrazione – da sola e come spesso accade – non ha palesato le motivazioni dell’ammissione, disposta in sede di gara, ma ha fatto semplicemente rinvio a quanto espresso nel parere legale acquisito, non è illogico ritenere che il parere costituisca ex se motivazione del provvedimento di ammissione, pur restando materialmente e fisicamente distinta da esso, e appare plausibile ritenere che su tale motivazione (parere legale, n.d.a.) il soggetto che intende adire le competenti sedi di tutela non possa vedere compresso il proprio diritto di accesso se non a pena di una (ingiustificabile e incomprensibile) compressione del sotteso diritto, costituzionalmente garantito, di difesa.
Se tali, dunque, sono le esclusioni che abbiamo detto “assolute”, altre sono – invece – quelle “relative”: il riferimento è alle disposizioni di cui all’art. 13, comma 5, lett. a) e b), nelle quali è contemplata, per l’amministrazione, la possibilità di opporre un diniego di accesso ove si cerchi la libera disponibilità
1) di informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che rappresentino, sulla base di una motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali, oppure
2) di ulteriori aspetti riservati delle offerte, da individuarsi in sede di regolamento.
Pur se, ad un primo e sommario esame del testo del d.P.R. 28 gennaio 2008 (recante il nuovo regolamento di attuazione ed esecuzione del Codice dei contratti pubblici, emesso ai sensi dell’art. 5 di quest’ultima norma), la previsione di cui alla lett. b) pare del tutto inadempiuta e – mi si passi il termine – “vuota” (configurando, in tal senso, una norma “aperta” per rinvio ai futuri sviluppi della fonte regolamentare) essa – assieme alla previsione della lett. a) – trova una eccezione nel comma 6 dell’art. 13, a ragione del quale «è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso».
Volendo aprire ad un ragionamento puramente giuridico, se l’accesso è diritto dell’interessato, ammesso in via generale dalla norma della l. n. 241/1990, le compressioni di cui ai commi 2 e 5 dell’art. 13 del d.lgs. n. 163/2006 altro non sono se non norma speciale e, comunque, eccezionale rispetto alla lex generalis, da interpretarsi – come l’operatore ben sa – in modo restrittivo (attenendosi a quanto tassativamente ed espressamente contenuto in esse); mentre le deroghe a tali eccezioni, contenute nel secondo periodo della lett. b), comma 2, dell’art. 13 e nel comma 6 di tale ultima disposizione, consentendo una riespansione e riaffermazione del diritto generalmente riconosciuto nel nostro ordinamento di accedere agli atti, possono ben essere considerate “eccezioni all’eccezione” e, dunque – nuovamente –, regola.
Orbene, è proprio sulla disposizione che crea queste “eccezione all’eccezione”, e cioè sul comma 6 dell’art. 13, che si appuntano le critiche e le censure della sentenza del Giudice comunitario da cui prendono le mosse le riflessioni e le conclusioni cui si cercherà di addivenire in questo scritto: è, in sintesi, su quel diritto di accedere ad informazioni commerciali e tecniche dell’altro offerente, motivato con la volontà di tutelare giurisdizionalmente la propria posizione giuridica, che si concentra la portata della decisione in commento.
3. Il diritto di accesso nelle direttive comunitarie – Prima, però, di cimentarsi nella (forse) risolutiva analisi della questione, preme rammentare – pur brevemente (e con le indispensabili scuse allo studioso) – quali siano le indicazioni in ordine all’espletamento dell’accesso ai documenti e alle informazioni della gara nel quadro normativo comunitario.
La direttiva 2004/18/CE, ad esempio, prevede che “fatte salve le disposizioni della presente direttiva, in particolare quelle relative agli obblighi in materia di pubblicità sugli appalti aggiudicati e di informazione dei candidati e degli offerenti, previsti rispettivamente all’Articolo 35, paragrafo 4, e all’Articolo 41, e conformemente alla legislazione nazionale cui è soggetta l’amministrazione aggiudicatrice, quest’ultima non rivela informazioni comunicate dagli operatori economici e da essi considerate riservate; tali informazioni comprendono in particolare segreti tecnici o commerciali, nonché gli aspetti riservati delle offerte” (art. 6, “Riservatezza”).
In sostanza, dunque, oltre alla disposizione specificamente dettata dall’art. 35, comma 4 (“talune informazioni relative all'aggiudicazione dell'appalto o alla conclusione dell’accordo quadro possono non essere pubblicate qualora la loro divulgazione ostacoli l'applicazione della legge, sia contraria all'interesse pubblico, pregiudichi i legittimi interessi commerciali di operatori economici pubblici o privati oppure possa recare pregiudizio alla concorrenza leale tra questi”) e dall’art. 41 (“le amministrazioni aggiudicatrici possono decidere di non divulgare talune informazioni relative all'aggiudicazione degli appalti, alla conclusione di accordi quadro o all'ammissione ad un sistema dinamico di acquisizione di cui al paragrafo 1, qualora la loro diffusione ostacoli l'applicazione della legge, sia contraria all'interesse pubblico, pregiudichi i legittimi interessi commerciali di operatori economici pubblici o privati oppure possa recare pregiudizio alla concorrenza leale tra questi”), la norma dell’art. 6 – letteralmente simmetrica a quella del comma 5, dell’art. 13 – manifesta una fondamentale apertura delle istituzioni comunitarie ad altre e ulteriori forme di garanzia del rispetto dei diritti e delle prerogative sviluppate da ciascun operatore commerciale nel settore di operatività.
Non risulta, invece, contemplata la “mitigazione” invece contenuta nell’art. 13, comma 6.
Solo in modo alquanto “forzato”, si potrebbero intravedere segnali di un’apertura simile a quella dell’art. 6 nel considerando n. 29 della direttiva 2004/18/CE ove – disponendo che “le specifiche tecniche fissate dai committenti pubblici dovrebbero permettere l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza” e che “a questo scopo deve essere possibile la presentazione di offerte che riflettano la pluralità di soluzioni tecniche. Pertanto le specifiche tecniche devono poter essere fissate in termini di prestazioni e di requisiti funzionali e, in caso di riferimento alla norma europea, o, in mancanza di quest’ultima, alla norma nazionale, le amministrazioni aggiudicatrici devono prendere in considerazione offerte basate su altre soluzioni equivalenti che soddisfano i requisiti delle amministrazioni aggiudicatrici e sono equivalenti in termini di sicurezza” – “per dimostrare l’equivalenza, gli offerenti dovrebbero poter utilizzare qualsiasi mezzo di prova”, non escludendo (almeno apparentemente) il ricorso all’accesso diretto alle informazioni contenute nell’offerta.
Parimenti, da altro contesto, è dato desumere – pur non con gli stessi termini letterali – che la reale incisività del diritto di difesa deve essere sempre garantita: è il caso della c.d. “direttiva ricorsi” (direttiva CEE 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, recante norme di “coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori”, pubblicata nella G.U.C.E. n. L395 del 30 dicembre 1989).
Tale ultima norma, del resto, dispone espressamente che “le decisioni prese dalle autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace” (artt. 1 e 2), tale potendosi ritenere – a parere di chi scrive – non solo un ricorso che sia contenuto nei tempi e negli adempimenti istruttori richiesti ma anche quello che sia ben mirato nei contenuti, con tale ultimo carattere presupponendo la conoscibilità più ampia delle informazioni relative al procedimento di gara e all’offerta e, dunque, l’accessibilità di quest’ultima da parte di chi intende tutelarsi evitando i c.d. “ricorsi al buio”.
4. La discrasia legislativa fra l’Italia e l’Unione – La sentenza della Corte di giustizia, tuttavia, apre uno scenario di assai problematica composizione.
I giudici comunitari, infatti, non paiono aver preso nella benché minima considerazione le riflessioni che, pur brevemente, si sono poc’anzi fatte sulla normativa del contesto comunitario. Anzi.
Nella vicenda concreta, oggetto di sindacato, i Giudici sono giunti ad affermare che, in sostanza, non è importante che il ricorrente abbia libero accesso alle informazioni relative all’offerta del controinteressato (ivi da intendersi in senso atecnico), bensì che tale accesso sia garantito all’organo chiamato a giudicare.
Detto altrimenti, è plausibile negare l’accesso ai dati tecnici di un’offerta.
La base di tale assunto è costituita dal fatto che già l’ex art. 15 della direttiva 93/36/CEE «prevede che le amministrazioni aggiudicatrici hanno l’obbligo di rispettare il carattere confidenziale di qualsiasi informazione fornita dai fornitori» (par. 37, sent. cit.).
Secondo la Corte, infatti, «l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici comprende l’apertura ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri» e «per conseguire tale obiettivo, è necessario che le amministrazioni aggiudicatici non divulghino informazioni relative a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici il cui contenuto potrebbe essere utilizzato per falsare la concorrenza, sia in una procedura di aggiudicazione in corso, sia in procedure di aggiudicazioni successive»; «inoltre, le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, per loro natura e per il sistema di regolamentazione comunitario in materia, sono fondate su un rapporto di fiducia tra le amministrazioni aggiudicatici e gli operatori economici che partecipano ad esse. Questi ultimi devono poter comunicare a tali amministrazioni aggiudicatici qualsiasi informazione utile nell’ambito della procedura di aggiudicazione, senza temere che esse rivelino a terzi elementi di informazione la cui divulgazione potrebbe recare pregiudizio a tali operatori» (parr. 34, 35 e 36, sent. cit.).
Insomma, leale e reale concorrenza, prima di ogni altra cosa.
E se anche, come nel caso in esame, sono in questione i caratteri tecnico-qualitativi dell’offerta «il principio del contraddittorio non implica che le parti abbiano un diritto di accesso illimitato e assoluto al complesso delle informazioni relative alla procedura di aggiudicazione dei mercati di cui trattasi che sono state presentate all’organo responsabile del ricorso» (par. 51, sent. cit.); in tal senso, la soluzione suggerita dal Giudice europeo è che, stante che «che l’organismo competente a conoscere dei ricorsi deve necessariamente poter disporre di tutte le informazioni necessarie per essere in grado di decidere con piena cognizione di causa, ivi comprese le informazioni riservate e i segreti commerciali» (par. 53, sent. cit.), «tale organo, prima di comunicare tali informazioni ad una parte nella controversia, deve dare all’operatore economico di cui trattasi la possibilità di opporre il loro carattere riservato o di segreto commerciale» (par. 54, sent. cit.) nonostante che essa debba, comunque, «garantire la riservatezza e il diritto al rispetto dei segreti commerciali con riferimento alle informazioni contenute nei fascicoli che le vengono comunicate dalle parti in causa, in particolare dall’amministrazione aggiudicatrice, pur potendo essa stessa esaminare tali informazioni e tenerne conto» (par. 55, sent. cit.).
Né più né meno un meccanismo simile a quello c.d. “del controinteressato” previsto nel nostro ordinamento con riguardo all’accesso ai dati personali e sensibili (meglio nota come privacy).
Simile meccanismo, però, non sussiste nel caso italiano.
Il Codice dei contratti – a differenza di quanto affermato, in linea di principio, dalla Corte di giustizia – afferma, da un lato, una generale inaccessibilità di talune informazioni e ne prevede, d’altro lato, la (incondizionata, n.d.a.) accessibilità quando, invece, si faccia valere la ragione dell’accesso ad una tutela (“difesa in giudizio”) dei propri diritti e interessi.
Contrariamente proprio a quanto affermato dalla Corte (cfr. parr. 39 e 40), in Italia è sufficiente che un soggetto interessato formuli una richiesta di accesso adducendo, a motivazione, la indispensabilità degli atti domandati ai fini di costituire idonea “difesa in giudizio” che – quasi in via automatica – l’amministrazione è obbligata per legge a concedere l’accesso (ignorando qualsivoglia problematica di leale concorrenza).
Un unico limite poteva essere rappresentato dal fatto che costruire una difesa “in giudizio” avrebbe potuto presupporre la sussistenza dei termini per ricorrere in giudizio, di modo che – ad esempio – se sono spirati i centoventi giorni, l’accesso agli atti potrebbe essere negato perché è in re ipsa che nessun tipo di giudizio può ormai essere attivato: tuttavia, anche siffatta costruzione può entrare in crisi solo ove si pensi all’attuale fermento e dibattito intorno alla eliminazione della c.d. “pregiudiziale amministrativa” (per la quale, in sintesi, l’annullamento dell’atto amministrativo è conditio sine qua non per l’accesso alla successiva tutela risarcitoria); onde per cui, il termine per esercitare il diritto di accesso ancorato a tale motivazione slitterebbe, nei termini, fino a quello ordinario di prescrizione dell’esercizio del diritto al risarcimento del danno.
Almeno in apparenza, dunque, i due ordinamenti (quello comunitario e quello nazionale, n.d.a.) paiono molto meno allineati di quanto non sembri, determinando, in questo senso, l’ennesima situazione di incertezza del diritto ancora una volta sul Codice dei contratti pubblici.
E si tratta, inoltre, di una fattispecie che alimenta anche un’antinomia pure interna all’ordinamento italiano, che da un lato protegge i diritti della proprietà industriale e intellettuale e dall’altro li rende accessibili nel settore dei contratti pubblici; e, se tecnicamente ciò trova una soluzione con il principio di due lex entrambe specialis, ma l’una (contratti pubblici) posterior all’altra (proprietà industriale), ragionando di principi e valori tale soluzione non pare minimamente condivisibile.
5. Possibili soluzioni (per l’operatore e per il legislatore) – Di fronte a tali (ed ennesime) problematiche, si pongono interrogativi non solo per il cultore del diritto, ma anche – e soprattutto – per l’operatore (specie, la P.A.) che di quelle norme su cui grava l’incertezza deve fare applicazione.
Una prima soluzione sta nella lettura “comunitariamente orientata” della norma di cui all’art. 13, comma 6.
Del resto, ove si statuisce che l’accesso è consentito “al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi” non pare impossibile che la locuzione “in giudizio” sia da intendersi quale “giudizio instaurato”, sostanzialmente rendendo la fattispecie del comma 6 simile a quella conclusivamente disposta dal Giudice comunitario, laddove le informazioni – normalmente riservate – sarebbero nella disponibilità di un Giudice che ne regolerebbe modi e quantità di accesso.
A ben vedere, tuttavia, siffatta ricostruzione rischia – però – di palesarsi eccessivamente forzata, in quanto pone in gioco una visione dell’istituto dell’accesso che, sicuramente, non è quella posta alla base del nostro ordinamento in materia.
Una seconda soluzione potrebbe, poi, essere quella di ritenere che si applichi al caso di accesso alle informazioni richiamate nell’art. 13, comma 5, lett. a) l’istituto della chiamata del controinteressato, già conosciuto dalla disciplina dell’ordinario accesso agli atti relativamente alla tutela degli aspetti della riservatezza (sic, Tessaro, Una ulteriore spallata al codice dei contratti in sede europea (stavolta in materia di accesso, in La Gazzetta degli enti locali, 2008, Maggioli ed.).
Tale impostazione, in sostanza, consentirebbe l’accesso ad informazioni rispetto alle quali, pendendo una richiesta, il titolare e produttore di esse è chiamato dalla P.A. (la quale in quel momento dette informazioni detiene) a dare il proprio assenso all’accesso richiesto (il riferimento cade sul fatto che il comma 5, lett. a) dell’art. 13 si richiama a una “motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente” che dichiara sostanzialmente inaccessibile l’offerta ed i suoi elementi); in caso di non prestazione del consenso, la P.A., bilanciando le posizioni (e, comunque, ponderando gli interessi e decidendo quale – fra l’interesse ad accedere e l’interesse a mantenere riservato – prevale), dovrebbe – allora – decidere se far prevalere l’una o l’altra pretesa.
Pure tale soluzione, comunque, mantiene alcuni profili di dubbia percorribilità.
In primo luogo, sostenere tale tesi significa sostenere l’applicabilità in via analogica dell’istituto della “notifica dell’accesso al controinteressato”, il quale – invece – si configura, come noto, quale istituto di eccezionale applicazione nel sistema dell’accesso agli atti (e infatti, lo si ammette solo per la tutela della riservatezza dei dati ex d.lgs. n. 196/2006) che, in Italia, ammette (almeno teoricamente) ben poche eccezioni alla regola generale della più assoluta reperibilità degli atti della P.A.; tale impossibilità di percorrere le vie dell’analogia per risolvere il problema, del resto, la si ricava – ad esempio – dalla ben nota inammissibilità dell’estensione dell’istituto della notifica a fattispecie non espressamente contemplate dall’ordinamento giuridico (si pensi alle frequenti – e illegittime – prassi di estendere lo strumento anche al caso di accesso ad atti quali i permessi di costruire o i titoli edilizi).
In secondo luogo, tale tesi “estensiva” pecca in difetto rispetto alla sentenza, che dichiara come vi siano informazioni totalmente e assolutamente inaccessibili rispetto agli aspetti dell’offerta, mentre nel meccanismo della “notifica al controinteressato” permane un margine di discrezionalità (il titolare delle informazioni cui si intende accedere potrebbe negare l’accessibilità, ma la P.A. potrebbe comunque riconoscere l’accesso) che la Corte di giustizia ha riconosciuto solo ad un giudice e non anche alla P.A., troppo direttamente coinvolta nella decisione sull’accessibilità delle informazioni.
E’, però, vero che tale sistema potrebbe divenire soluzione al problema se espressamente previsto e codificato dal legislatore (con l’ennesima modificazione normativa al Codice dei contratti).
Una terza soluzione – forse maggiormente percorribile e che non impegna, nel breve periodo, il legislatore in alcuna modifica – è quella che, nella pratica, la P.A. – in sede di enumerazione dei documenti necessari alla partecipazione alla gara indetta (e, dunque, in sede di bando) – preveda che l’offerente che stia producendo un’offerta costituente “segreto tecnico o commerciale” ai sensi e per gli effetti dell’art. 13, comma 5, lett. a), alleghi apposita dichiarazione in sede di offerta, nella quale motiva e documenta (motivare e documentare come due autonome e distinte attività, n.d.a.) siffatto carattere di segretezza della propria offerta.
In questo modo, a fronte della richiesta pervenuta, la P.A. potrebbe invocare detta dichiarazione a sostegno di un proprio diniego “giocato” sull’esigenza di tutela di un interesse che trova la propria fonte e il proprio riconoscimento nel contesto internazionale, ad opporsi al quale – giunti a quel punto – avrebbe titolo solo (e davvero, non pretestuosamente, come nei timori della Corte che prefigura scenari in cui si fanno ricorsi a posta per avere informazioni, n.d.a.) un Giudice realmente adito da un soggetto interessato.
Ciò – rispetto a qualsiasi altra soluzione e, comunque, in attesa dell’intervento risolutivo del legislatore – potrebbe almeno per ora “tamponare” questa nuova “falla” che il diritto comunitario ha (di nuovo) aperto nella già compromessa “barca” della legislazione nazionale italiana, semplicemente non risolvendo il conflitto tra P.A. e soggetto istante ma deresponsabilizzando la prima e spostando i problemi dell’istante ad un confronto con chi, quella dichiarazione, l’ha composta e motivata.

Sempre in attesa del provvidenziale, prossimo ed ennesimo “decreto correttivo".

(Altalex, 27 giugno 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)

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