mercoledì 21 gennaio 2015

I DIRITTI DELLA FAMIGLIA DI FATTO

Autore: Germano Palmieri in www.giuffrè.it
I diritti della famiglia di fatto

Il denaro e gli altri beni - Gli acquisti - Il lavoro e la casa – Gli alimenti e il mantenimento - Se muore un convivente -  La convivenza more uxorio del coniuge separato o divorziato – Il PACS e il patto di convivenza – Gli aspetti penali

Un fenomeno sociale in costante aumento, vuoi per scelta vuoi per ragioni economiche o d’altra natura,  è quello della convivenza senza matrimonio, ossia di persone che, pur senza essere sposate, o essendolo state in passato, vivono more uxorio (dal latino mos, che significa usanza, costume, e uxor, che significa moglie), ossia come se fossero marito e moglie. Questo tipo di unione, correntemente denominato famiglia di fatto e che secondo l’ISTAT interessava nel 2012 circa 972.000 famiglie, non è disciplinata dal diritto, anche se diverse amministrazioni locali,  e soprattutto la giurisprudenza, si sono da tempo mosse nella direzione di un sia pur limitato riconoscimento di questa diffusa realtà; da diverse parti sociali e politiche, infatti, si caldeggia l’introduzione di istituti giuridici che consentano di regolare la convivenza more uxorio, in molti casi costituita da persone dello stesso sesso; fra questi il PACS   (patto civile di solidarietà), una sorta di via di mezzo fra il matrimonio e la famiglia di fatto; si tratta infatti del legame giuridico che potrebbe unire i componenti di una coppia  di fatto, sia eterosessuale che omosessuale, qualora venisse legalmente riconosciuto.  Al vuoto legislativo può in parte sopperire il cosiddetto patto di convivenza, con gli interessati che, assistiti da  un notaio e assumendosene  il relativo costo, concordano le regole destinate a disciplinare alcuni aspetti della convivenza: per es. misura e modalità di partecipazione alle spese comuni, gestione della casa, attribuzione della proprietà dei beni acquistati durante la convivenza, effetti economici conseguenti all’eventuale cessazione della stessa, mantenimento in caso di bisogno, designazione reciproca alla funzione di amministratore di sostegno in caso d’infermità o di menomazione fisica o psichica (la nomina dev’essere però  formalizzata davanti al giudice tutelare). Si tratta comunque di accordi-tampone, in attesa che il  Legislatore si decida a recepire, come da tempo avvenuto in altri Paesi (primo fra questi la Svezia), una serie di raccomandazioni formulate dal Parlamento Europeo.
Nell’ambito  della rete  di protezione apprestata dai giudici alla famiglia di fatto è stato considerato valido ed efficace il contratto di costituzione di usufrutto d’immobile stipulato tra due conviventi more uxorio, senza corrispettivo alcuno, nel presupposto che esso trovava il suo fondamento nella convivenza stessa e nell’assetto che i conviventi intendevano dare ai loro rapporti (Trib. Savona 7/3/2001). In precedenza il Tribunale di Roma (sentenza del 10/10/1985) aveva però stabilito che la convivenza more uxorio si risolve in una situazione caratterizzata da un complesso di rapporti unificati, sotto il profilo personale, dall’affectio coniugalis, e sotto il profilo economico dall’animus donandi; di conseguenza questo tipo di convivenza non può essere fonte di obbligazioni, non potendo considerarsi né un contratto né un fatto illecito. S’inquadra in questa ottica la sentenza della Cassazione (n. 9786 del 14/6/2012), per la quale il convivente more uxorio con il proprietario dell’abitazione in cui risiede la famiglia di fatto non ha il compossesso dell’abitazione ma la semplice detenzione, per cui non può acquistarne la proprietà per usucapione.
Degna di nota è la pronuncia della Corte Costituzionale n. 203 del 26/6/1997, per la quale il genitore extracomunitario di un minore che risieda legalmente in Italia con l’altro genitore ha il diritto di ricongiungersi ad essi nel nostro Paese, anche se padre e madre non sono sposati, a condizione che possa godere di normali condizioni di vita. A proposito di figli, in presenza di un conflitto tra conviventi more uxorio, pregiudizievole per i figli minori, il Tribunale per i minorenni può disporre l’affidamento degli stessi alla madre, attribuendo a quest’ultima il godimento esclusivo dell’abitazione familiare di cui è coinquilina, con conseguente allontanamento dell’altro genitore, tenuto a provvedere al mantenimento dei figli e, per la metà, alle spese di locazione di detta abitazione (Trib. minorenni Bari 11/6/1982). Per il Tribunale di Genova (sentenza del 23/2/2004, n. 845), una volta cessata la convivenza more uxorio, il convivente proprietario esclusivo dell’immobile precedentemente destinato alla convivenza ha il diritto di ottenerne il rilascio da parte dell’altro convivente, il quale non ha alcun titolo per continuare a utilizzarlo. Da ultimo la Cassazione (sentenza n. 109 del 5/1/2006) ha equiparato la coppia di fatto alla coppia sposata in materia  di gratuito patrocinio, statuendo che, per essere ammessi a questo beneficio, si deve tenere conto della somma dei redditi facenti capo all’interessato e agli altri familiari conviventi, compreso il convivente more uxorio.
Il denaro e gli altri beni
I conviventi more uxorio, nella maggior parte dei casi, mettono in comune i rispettivi beni mobili, dando così luogo, relativamente ad essi, al rapporto giuridico tecnicamente indicato come comunione. Trattasi però di comunione diversa da quella che caratterizza i rapporti economici intercorrenti fra coniugi, per cui il regime della comunione legale tra coniugi (art. 177 e segg. c.c.) non è applicabile ai conviventi more uxorio. In particolare, i beni apportati dai conviventi more uxorio in vista del futuro matrimonio devono considerarsi conferiti a titolo  di comunione pro indiviso, per cui se cessa la convivenza viene meno anche la comunione e ciascuno dei “comunisti” (è questa la denominazione tecnica di chi sta in comunione insieme ad altri) ha diritto, ai sensi dell’art. 1111 c.c., alla quota in natura da lui conferita, stimata al valore esistente al momento della cessazione della convivenza  e quindi della comunione (Pret. Torino, 17/3/1988).

Se i conviventi intrattengano un rapporto di conto corrente cointestato, alla cessazione della convivenza le somme a credito nel conto devono considerarsi appartenenti in parti uguali a ciascuno dei conviventi: ciò anche nel caso in cui si dimostri che soltanto l’uomo aveva originariamente la proprietà delle somme via via depositate, mentre la donna, durante la convivenza, si era completamente dedicata alla famiglia di fatto, come casalinga, poiché le somme risparmiate e come sopra depositate  devono considerarsi destinate alle spese riguardanti la famiglia stessa, secondo gli usi (Trib. Bolzano, 20/1/2000).

Gli acquisti
L’inapplicabilità, ai conviventi more uxorio,  del regime di comunione legale fra coniugi, è stata ribadita dal Tribunale di Pisa (sentenza del 20/1/1988), sul presupposto che la famiglia fondata sul matrimonio gode di netta  supremazia, anche costituzionale, rispetto alla  famiglia di fatto, e che non è di conseguenza sostenibile un’equiparazione tra le due forme di convivenza; alla luce di ciò i giudici pisani hanno stabilito che,  qualora uno dei conviventi more uxorio abbia acquistato un immobile solo a proprio nome, il partner non può, allo scioglimento del rapporto, considerarsi contitolare pro indiviso del bene, salvo il caso in cui venga data esauriente e rituale prova della sussistenza di una donazione indiretta, o di un’interposizione reale di persona, o dell’adempimento spontaneo e consapevole di un’obbligazione naturale. Né assume rilievo, ai fini della possibilità di divenire comproprietario del bene, che il convivente abbia falsamente dichiarato nel rogito di essere coniugato con l’acquirente (App. Firenze, 12/2/1991). Questa stessa sentenza ha escluso che, in ordine agli incrementi patrimoniali  verificatisi durante la convivenza more uxorio in capo a un convivente, il partner abbandonato possa vantare un diritto (di credito) per conguagli o rimborsi; trattasi però, come si comprende, di situazioni che vanno esaminate caso per caso.

Il lavoro
Al fine di stabilire se le prestazioni lavorative svolte nell’ambito di una convivenza more uxorio diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato o non siano piuttosto riconducibili allo schema della comunione tacita familiare di cui all’art. 230-bis c.c., è possibile escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi, che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto (Cass. 13/12/1986, n. 7486, e 19/12/1994, n. 10927); altrimenti, infatti, è da ritenere che ci si trovi in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto della convivente (è la donna, di regola, a trovarsi in questa condizione) ad esigere il relativo trattamento economico e previdenziale.
Il Tribunale di Milano  (sentenza del 5/10/1988) ha precisato che la convivenza more uxorio costituisce titolo idoneo a fondare una presunzione di gratuità delle prestazioni di lavoro rese dalla convivente solo quando la convivenza preveda un’equa ed effettiva partecipazione agli incrementi patrimoniali della famiglia di fatto; fuori di tale ipotesi la prestazione di lavoro, se non retribuita, è astrattamente idonea a configurare un depauperamento del prestatore e un arricchimento senza causa del convivente, con conseguente diritto a promuovere le opportune iniziative giudiziarie volte al recupero del dovuto.

La casa
Un aspetto molto sentito è quella della successione del convivente nel contratto di locazione stipulato dall’altro ed avente per oggetto la casa familiare. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 404 del 7/4/1988, ha sancito l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 6 della L. 27/7/1978, n. 392 (cosiddetta legge dell’equo canone), nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione in caso di morte del conduttore, in aggiunta al coniuge, agli eredi, e ai parenti ed affini con lui abitualmente conviventi,  il convivente more uxorio (il diritto di subentrare spetta al convivente indipendentemente dal fatto che manchino eredi legittimi del conduttore, Cass. 8/6/1994, n. 5544). La Suprema Corte (sentenza n. 3548 del 12/12/2012) ha ammesso il subentro nel contratto di locazione anche del convivente di una persona, poi deceduta, che era subentrata nel contratto all’originario conduttore.
L’abituale convivenza con il conduttore defunto va accertata alla data del decesso di questi, a nulla rilevando che gli aventi diritto alla successione nel contratto siano o meno rimasti nell’alloggio locato dopo la morte del dante causa, poiché la successione mortis causa nel contratto di locazione è fatto giuridico istantaneo che si realizza (o non si realizza) all’atto stesso della morte del conduttore, restando insensibile agli accadimenti successivi (Cass. 1/8/2000, n. 10034). Non è quindi necessario che la convivenza preesistesse al contratto, né che il locatore fosse a conoscenza della convivenza stessa (Cass, 10/10/1997, n. 9868); quest’ultima sentenza ha riconosciuto al convivente il diritto di subentrare nel contratto di locazione al convivente-conduttore anche nel caso di allontanamento di questi dall’immobile locato. A proposito di allontanamento, in presenza di una relazione di fatto non transitoria e tale da realizzare una stabile convivenza, il convivente more uxorio è legittimato ad agire in reintegrazione contro l’altro convivente che lo abbia estromesso dall’abitazione comune (Trib. Perugia  22/9/1997). Il diritto di subentrare nel contratto di locazione spetta al convivente anche nel caso in cui il defunto fosse contitolare del rapporto insieme ad altri (Cass. 17/6/1995, n. 6910).
Per quanto riguarda il pagamento del canone di locazione, il Tribunale di Firenze (sentenza del 4/12/1992) ha stabilito che  non sussiste una responsabilità solidale, o sussidiaria, in capo all’originario conduttore (e quindi in capo ai suoi eredi), in relazione all’inadempimento dell’obbligo contrattuale di pagare il corrispettivo della locazione gravante sul convivente more uxorio succeduto nel contratto di locazione ex art. 6 L. n. 392/1978: del pagamento, quindi, risponde soltanto  quest’ultimo dal momento in cui subentra nel contratto.
Qualora la casa sia stata assegnata ai conviventi in comodato da un terzo, questi, in presenza di figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, in caso di rottura della convivenza non può esigere l’immediata restituzione del bene ai sensi del secondo comma dell’art. 1809 c.c.; con la fine della convivenza, infatti, al pari di quanto previsto per il caso di crisi matrimoniale, il contratto dev’essere considerato tacitamente assoggettato a termine, per il periodo normalmente necessario affinché il comodatario si serva della cosa secondo l’uso pattuito, ai sensi della seconda parte del primo comma del citato articolo (Trib. Roma 6/11/2009, n. 21565). Può accadere che un convivente abbia provveduto a pagare gli importi dovuti alla cooperativa edilizia di cui era socio l’altro per la prenotazione di un appartamento; verificandosi un’evenienza del genere egli può chiedere all’altro la restituzione delle somme pagate nel suo interesse (Trib. Genova, 27/3/1998), provando che non si tratta di obbligazione naturale (non essendo state le erogazioni destinate ai bisogni della vita della famiglia di fatto), di liberalità d’uso (ossia che non sussiste una sostanziale equivalenza economica tra le dazioni del convivente e i servizi allo stesso resi dalla beneficiaria nel corso della coabitazione) o di altro tipo di liberalità (dimostrando che manca la prova dell’animus donandi, non potendo questa presumersi per il mero fatto della convivenza).
Se la casa familiare appartiene ad entrambi i conviventi, e vi sono figli minori, in caso di cessazione della convivenza, in applicazione analogica dell’art. 155, quarto comma, c.c., essa può essere assegnata a quello che sia affidatario dei figli minori (Trib. Palermo 20/7/1993). Sempre nell’interesse preminente della prole, il Tribunale di Firenze (sentenza del 28/6/1998) ha stabilito che il genitore affidatario del figlio minore, o maggiorenne non economicamente autosufficiente, nato durante la convivenza more uxorio e riconosciuto da entrambi i genitori, ha diritto all’assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva dell’altro genitore, affinché  il figlio possa usufruire dell’ambiente domestico in cui è vissuto e possa limitare il disagio e le difficoltà conseguenti alla cessazione della convivenza fra i genitori.
Non è raro che un convivente  esegua dei lavori di ristrutturazione e/o ampliamento nella casa di proprietà dell’altro; in tal caso egli, in quanto assimilabile a un ospite (Trib. Larino 21/10/1994), non ha diritto al pagamento di una somma corrispondente all’incremento di valore fatto registrare dal fabbricato di proprietà dell’altro, a meno che non provi che le sue dazioni eccedono l’assolvimento dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c. Sulla stessa linea interpretativa il Tribunale di Roma, che con sentenza del 30/10/1991 ha stabilito che le somme spese da un convivente more uxorio attraverso l’impresa edile di cui era titolare, per ristrutturare la casa di proprietà esclusiva del partner, nella quale la coppia aveva abitato, non sono ripetibili, considerata la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra partner conviventi, presunzione che può essere vinta solo dalla rigorosa prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso, tra le parti, o dall’accordo per una ripetizione delle somme impiegate per i lavori effettuati. Una  successiva decisione della Cassazione (n. 3713 del 13/3/2003) ha infine stabilito che la presunzione di gratuità delle prestazioni rese da una parte nei confronti dell’altra viene meno allorquando risulti che la prestazione stessa esula dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e alle condizioni sociali delle parti, ma si configuri come mera operazione economica che abbia determinato un inspiegabile e illogico arricchimento del convivente con proprio ingiusto danno (nel caso di specie il convivente aveva acquistato i materiali e lavorato nel tempo libero per costruire due edifici sul terreno di proprietà della donna, con conseguente, ingiusto arricchimento a beneficio di questa).
Se la convivenza  cessa con l’allontanamento di uno dei conviventi dalla casa, di proprietà comune, dove entrambi vivevano con la prole, rimasta nell’alloggio con l’altro genitore, viene meno la situazione di compossesso che caratterizzava la precedente situazione di fatto; essendo pertanto  il possesso esclusivo dell’abitazione  rimasto ad uno solo dei conviventi, questi può cambiare la serratura (e relative chiavi) della porta d’ingresso della casa ed esperire l’azione di reintegrazione nei confronti dell’ex partner che, con uno stratagemma violento e clandestino, si sia impossessato delle nuove chiavi al fine di potere rientrare nell’abitazione a suo piacimento (Pret. Torino 11/11/1991). Non commette invece spoglio il convivente  che, dopo la morte del partner, impedisca all’erede l’accesso nell’immobile già abitazione della coppia (Pret. Venezia-Mestre 16/4/1996). Cass. n. 10102  del 26/5/2004 ha esteso all’ipotesi della convivenza more uxorio il diritto di continuare ad abitare la casa familiare in favore del genitore non proprietario di essa, cui siano stati affidati i figli minorenni, o che conviva con figli maggiorenni non ancora autosufficienti per motivi indipendenti dalla loro volontà.
Infine, qualora, per effetto della tensione venutasi a determinare tra i conviventi, la prosecuzione della convivenza divenga fonte di pericolo, il convivente che ha in proprietà o in locazione la casa familiare può ottenere dal giudice un provvedimento d’urgenza che ordini all’altro di abbandonarla, essendo da escludere la sussistenza di un rapporto di sublocazione (Pret. Milano 31/3/1990); sublocazione esclusa, con riferimento alla convivenza more uxorio, anche dal Tribunale di Roma (sentenza del 20/11/1982), per cui il locatore non è legittimato a chiedere la risoluzione del contratto deducendo che il conduttore ha sublocato l’immobile al convivente. Se invece il rapporto affettivo si esaurisce senza traumi particolari, il proprietario della casa non può estromettere il convivente su due piedi ma deve dargli il tempo di trovare un’altra sistemazione  (Cass. 21/3/2013, n. 7214).

Gli alimenti e il mantenimento
Gli alimenti (art. 433 c.c.) si fondano sul vincolo di solidarietà che lega, o almeno dovrebbe legare, le persone fra le quali corre taluno dei rapporti indicati dalla legge: per es. coniugio, parentela e affinità entro certi gradi. Qualora si verifichi lo stato di bisogno dell’avente diritto (si deve trattare di persona compresa fra quelle indicate dalla legge e comunque non in grado di provvedere a se stessa), l’obbligato  -o, se vi sono più obbligati, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze- può scegliere fra il corrispondere all’alimentando un assegno a questo titolo, oppure accoglierlo e mantenerlo nella propria casa. L’obbligo di somministrare gli alimenti viene meno, fra l’altro, se muore l’obbligato o se cessa lo stato di bisogno dell’avente diritto. Il diritto agli alimenti ha natura patrimoniale (ossia ha un contenuto economicamente valutabile), ma a differenza degli altri diritti patrimoniali non è cedibile, essendo intimamente connesso, come già detto, allo stato di bisogno del titolare. Concetto più ampio di alimenti è quello di mantenimento, consistente non nel somministrare all’avente diritto di che vivere, ma nell’assicurargli un tenore di vita proporzionato alla propria condizione economica; rientrano così nel concetto, per esempio, l’abbigliamento, l’istruzione, i mezzi di trasporto e di comunicazione (Cass. 11/12/2008, n. n. 45809).
Il convivente more uxorio non ha diritto agli alimenti, e tantomeno al mantenimento, poiché la convivenza concretizza una situazione di fatto, caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale, cui non si ricollegano diritti e doveri se non di carattere morale (Trib. Napoli 8/7/1999); è invece legittimato a chiedere un contributo per il mantenimento di eventuali figli avuti dal convivente, trattandosi di richiesta fondata sull’obbligo dei genitori di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati.

Se muore un convivente
Particolarmente pesanti possono essere le conseguenze economiche (a parte ovviamente quelle affettive) in caso di morte di un convivente. Se l’evento è stato provocato da terzi,  si pone il problema  se il convivente della vittima possa agire nei confronti del responsabile per il risarcimento del danno. La Cassazione (sentenza n. 23725 del 16/9/2008, n. 23725) ha stabilito che il  diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto -sia con riguardo al danno morale che a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato- anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. Il Tribunale di Milano (sentenza n. 9965 del 12/9/2011) ha esteso il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito al convivente more uxorio dello stesso sesso, mentre il Tribunale di Verona (sentenza del 26/9/2013) ha sancito il  risarcimento del danno non patrimoniale in capo al convivente anche nel caso in cui l’altro abbia riportato una lesione all’apparato sessuale per negligenza o imperizia medica.  Per  il Tribunale di Roma (sentenza del 9/7/1991)  il diritto al risarcimento del danno patrimoniale ed extrapatrimoniale compete sia a causa del trauma psichico subìto, sia per la privazione di sostegno morale, sia, infine, per la perdita di un’entrata che si sarebbe ragionevolmente presunta come duraturo contributo economico proveniente dall’attività lavorativa del defunto, a nulla rilevando il fatto della convivenza con quest’ultimo o la qualità di erede di colui cui spetta tale risarcimento; alla luce di questo criterio i giudici romani hanno pertanto stabilito che, qualora il defunto, sposato con figli legittimi, abbia convissuto more uxorio con un’altra donna, il suddetto diritto compete sia ai componenti  della famiglia legittima che a quelli della famiglia di fatto; fermo restando che, mentre il diritto al risarcimento del danno morale dev’essere riconosciuto a tutti costoro, il ristoro del danno patrimoniale dev’essere  negato ai componenti della famiglia legittima qualora una serie di circostanze (quali il difetto di prova in ordine alla sistematica corresponsione di assegni da parte del defunto, la mancanza della convivenza, il carico della famiglia di fatto e le condizioni finanziarie del defunto)  non consentano ragionevoli presunzioni di perdite economiche. In tema di risarcimento del danno occorso a un convivente da un sinistro stradale, se questo è stato  provocato dall’altro, egli, per il Tribunale di Piacenza (sentenza del 20/7/1985), è assimilabile al coniuge ai fini dell’esclusione dal novero dei terzi che usufruiscono dei benefici derivanti dal contratto di assicurazione; la ratio dell’esclusione di alcune categorie, come stabilite dall’art. 4 della L. n. 990/1969, dai suddetti benefici, va infatti ricercata sia nell’unicità della sfera patrimoniale tra danneggiato e danneggiante, che potrebbe comportare, qualora fosse riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, un indebito arricchimento dell’assicurato in danno dell’assicuratore, sia nella possibilità di facili collusioni tra soggetti legati da stretti vincoli di parentela o da vincoli di convivenza o di dipendenza economica.
Se uno o entrambi i conviventi hanno alle spalle un matrimonio per il quale non sia ancora intervenuto divorzio, e non si vuole, in caso di morte improvvisa, favorire il coniuge separato, può essere  prudente fare testamento in favore del convivente, avendo però cura di non ledere la quota che la legge riserva allo stesso coniuge separato, ai figli e, ricorrendone i presupposti, agli ascendenti legittimi.

La convivenza more uxorio del coniuge separato o divorziato
Accade di frequente che un coniuge separato o  divorziato vada a convivere more uxorio con un’altra persona. In tal caso la convivenza, se acquista carattere di stabilità e affidabilità, e incide positivamente sulla situazione economica del coniuge separato o divorziato, annullandone o riducendone lo stato di bisogno, e risolvendosi quindi in una fonte effettiva e costante di reddito, anche se non comporta per i conviventi alcun diritto al mantenimento reciproco, può incidere sull’ammontare dell’assegno di mantenimento fissato in sede di separazione o di divorzio, legittimando la parte obbligata a  corrisponderlo a chiederne, a seconda delle circostanze, la riduzione (Cass. 22/4/1993, n. 4761) o la sospensione (Trib. Genova 2/6/1990, Cass. 4/4/1998, n. 3503). Per il Tribunale di Lamezia Terme (decreto dell’1/12/2011) la convivenza di fatto dell’ex moglie e la nascita di un figlio dal nuovo partner fanno venir meno il diritto  all’assegno di mantenimento.
La prova della convivenza e, soprattutto, del miglioramento delle condizioni economiche del coniuge separato o divorziato, è ovviamente a carico del coniuge tenuto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento e dev’essere inequivocabile: i giudici, per esempio (Cass. 2/9/2004, n. 17684), hanno stabilito che la targhetta sull'ingresso di casa, con i nomi dell’ex moglie e del nuovo compagno, le foto attestanti il parcheggio dell'auto della stessa presso l'abitazione del compagno  e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la collaborazione lavorativa con il convivente, non costituiscono circostanze tali da poter essere  considerate, da sole, prova sufficiente a dimostrare la stabile convivenza more uxorio dell’ex moglie e il connesso miglioramento delle condizioni economiche della stessa, con conseguente giustificazione della richiesta di riduzione dell’assegno di mantenimento in capo all’ex marito; la convivenza more uxorio, infatti, ha natura intrinsecamente precaria, non determina obblighi di mantenimento e non ha quella stabilità giuridica, propria del matrimonio, presupposta dalla definitiva cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile (Cass. 26/1/2006, n. 1546). Questa stessa sentenza ha però escluso che l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile possa risorgere in caso di cessazione della convivenza, poiché è prevista la cessazione e non la mera sospensione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile. Con sentenza n. 17195 dell’11/8/2011 la Suprema Corte ha mutato orientamento, avendo stabilito che, in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuato da uno degli ex coniugi, rescinde  sia ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale, sia il diritto, in capo al destinatario, di ricevere l’assegno divorzile, assegno che entra però in uno stato di quiescenza, salvo rivivere in caso di cessazione della convivenza.

Gli aspetti penali
Alla famiglia di fatto riserva sempre più frequente attenzione il giudice penale. La Cassazione, per esempio (sentenza n. 32190 del 21/5/2009),  ha considerato non punibile il furto commesso in danno del convivente more uxorio, assimilandolo cosi al coniuge non separato ex art. 649 c.p.: questa norma, infatti, sancisce la non punibilità di alcuni reati (tra questi l’appropriazione indebita, la truffa e, appunto, il furto) se commessi in danno di taluna delle persone in esso indicate, tra cui il coniuge non legalmente separato  (la differenza tra furto e appropriazione indebita risiede nel fatto che, mentre nel furto l’oggetto del reato si trova nella sfera d’azione del derubato, nell’appropriazione indebita si trova nella sfera d’azione di chi commette il reato). La Suprema Corte ha invece considerato punibile, ma soltanto a querela dell’offeso, il furto commesso in danno dell’ex convivente more uxorio, privilegiando così, in entrambi i casi, l’intento di favorire la riconciliazione rispetto alla punizione del responsabile.  Sotto il profilo civilistico, il convivente more uxorio che sia stato spogliato del bene ad opera del partner è legittimato ad esercitare l’azione di reintegrazione in quanto - sia pure con altra persona - possiede un interesse proprio  non paragonabile a quello dell’ospite o della persona di servizio (Pret. Perugia, 29/9/1994). In  precedenza la Corte Costituzionale (sentenza n. 352 del 25/07/2000)  aveva stabilito che la  non punibilità dei reati contro il patrimonio commessi in danno del coniuge non legalmente separato non si estende al convivente more uxorio, poiché questo tipo di convivenza, “mancando dei caratteri di stabilità e certezza”, non è assimilabile al vincolo coniugale al fine di desumerne un’esigenza costituzionale di parificazione del trattamento;  ciò anche se  “stabilità e certezza” di molte coppie di fatto superano di gran lunga quella di altrettante coppie unite in matrimonio.
Il Pretore di Savona (sentenza del 27/11/1992) ha stabilito che chi s’introduce nell’abitazione dalla quale l’ex convivente more uxorio lo ha allontanato  rimuovendone  tutti gli effetti personali, convinto  di rientrare a “casa sua”, non pone in essere il reato di violazione di domicilio ex art. 614 c.p., ma quello meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ai sensi dell’art. 392 c.p. Al convivente more uxorio che abbia commesso il reato di favoreggiamento personale in favore dell’altro, invece, la Suprema Corte  (sentenza n. 2082 del 17/2/2009) non ha ritenuto applicabile la causa di non punibilità di cui al primo comma dell’art. 384 c.p., operante per il coniuge, né, con riferimento alla ricettazione,  la causa  di esclusione della punibilità prevista per il coniuge dal citato art. 649 c.p. (sentenza n. 44047 del 13/10/2009).
Altre fattispecie portate all’attenzione del giudice penale. E’ stato ritenuto responsabile del reato di sfruttamento della prostituzione il convivente more uxorio a conoscenza del fatto che i proventi che la donna gli erogava per il sostentamento derivavano dall’esercizio della prostituzione (Cass. 17/7/1987). La Corte d’Assise di Milano (sentenza del 9/7/2009)  ha statuito che il reato di cui all’art. 591 c.p. (abbandono di persone minori o incapaci) è configurabile anche a carico di chi abbandoni il convivente more uxorio in stato d’incapacità di provvedere a se stesso, mentre la Cassazione (sentenza n. 40727 del 2/10/2009) ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona convivente more uxorio, quando vi sia un rapporto tendenzialmente stabile.  La stessa  Suprema Corte, infine (sentenza n. 109 del 5/1/2006), ha equiparato la coppia di fatto alla coppia sposata in materia  di gratuito patrocinio.

giovedì 15 gennaio 2015

UTILITA': COME CONTESTARE LE BOLLETTE DI LUCE E GAS (in www.giuffré.it) NEW






Come contestare le bollette di luce e gas










di Paola Vitaletti


Il processo di liberalizzazione del servizio di fornitura per gli utenti privati del gas metano, prima, e dell’energia poi, avviato in attuazione delle direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2003/55/CE e n. 2003/54/CE, in linea generale ha prodotto una serie di vantaggi. La questione se ciò si sia anche tradotto in concreti benefici a favore dei consumatori però è ancora aperta. Ancora alto il grido di allarme delle associazioni dei consumatori che lamentano in moltissimi casi addirittura l’aumento dei costi a carico degli utenti, alle prese con offerte non agevoli da valutare.




Attualmente le citate direttive sono state abrogate dal D.Lgs. 01/06/2011 n. 93 (di attuazione delle Direttive 2009/72/CE e 2009/72/CE inerenti norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica, del gas naturale e la procedura comunitaria sulla trasparenza dei prezzi al consumatore finale industriale id gas e di energia elettrica) il cui art. 22 disciplina gli obblighi relativi al servizio pubblico e la tutela dei c.d. clienti vulnerabili.




Certamente ancora lunga è la strada da percorrere nel senso della semplificazione della gestione del rapporto contrattuale con i fornitori, della trasparenza nei sistemi di calcolo dei consumi, delle tariffe e dell’elaborazione delle fatture, spesso di difficile lettura, che complicano la verifica della correttezza dei dati ivi riportati.




Parimenti può non risultare agevole districarsi tra le diverse procedure per contestare le fatture senza rivolgersi all’autorità giudiziaria. Nel concreto infatti il percorso da intraprendere in tal caso è tutt’altro che in discesa. Spesso l’esiguità degli importi erroneamente computati nelle fatture al cospetto della complessità del procedimento di contestazione, scoraggia l’utente sul quale torna a gravare l’onere di essere parte debole contrattualmente. Diversi sono comunque gli strumenti normativi ed informativi a


disposizione dei consumatori, cui questi possono accedere per acquisire maggiore consapevolezza nella scelta del fornitore di luce e gas che meglio risponde alle esigenze dell’utente. Un utile strumento per comprendere come "interpretare" le voci di spesa e servizi riportati nelle fatture, per esempio, è rappresentato dal Glossario pubblicato sul sito dell’Autorità per l’energia, per il gas ed il sistema idrico (http://www.autorita.energia.it/it/glossario/indice-termini.htm). Sul sito dell’Autorità dell’energia e del gas è anche pubblicata la Carta Verde dei consumatori di energia, redatta dalla Commissione Europea, dove sono elencati in modo semplice e chiaro i principali diritti fondamentali dei consumatori, che ha lo scopo di "tutelare attivamente gli interessi dei consumatori perché possano sfruttare appieno i vantaggi dell’apertura dei mercati energetici".




Cerchiamo dunque di fare luce sul percorso da seguire per far valere i propri diritti, senza aggravio di costi o a costi contenuti, nonostante le carenze del sistema rilevate dalla stessa Autorità dell’energia del gas e del sistema idrico ed a cui la stessa Autorità sta cercando di ovviare (cfr. documento di consultazione del 30/10/14 n. 528/2014/A, ove nel determinare le linee strategiche dell’Autorità per il periodo 2015-2018 determina gli obiettivi in tema di riorganizzazione e sviluppo degli strumenti di assistenza ai clienti finali, di accountability, trasparenza ed efficienza dell’azione volta al miglioramento delle procedure di reclamo (1)), tenuto conto delle nuove disposizioni a tutela dei consumatori introdotte dal D.Lgs. 21/02/2014 n. 21, di attuazione della Direttiva 2011/83/UE (G.U. 11/03/2014 n. 58). Modifiche che hanno determinato un aggiornamento del Codice del Consumo (in particolare artt. 45-67), rafforzato le tutele dei consumatori nella fase precontrattuale imponendo maggiori informazioni alle imprese, principalmente, nel caso dei contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali; esteso il diritto di ripensamento entro 14 giorni e non più 10 e, in mancanza di informativa sul ripensamento, la facoltà di recedere








fino a 12 mesi dalla conclusione del contratto o consegna del bene; divieto di aumento dei costi in caso di pagamento con bancomat o carte di credito.


I soggetti cui è affidato il controllo del sistema, ancora "in bilico" tra libero mercato e mercato regolato: Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico - Acquirente Unico S.p.A.


L'Autorità per l'energia elettrica il gas e il sistema idrico è un organismo indipendente, istituito nel 1995 (Legge n. 481/1995), cui sono state attribuite competenze anche in materia di servizi idrici nel 2011 (DL. N. 201/2011, convertito con L. n. 214/2011), che ha il compito di "garantire la promozione della concorrenza e dell'efficienza" nei settori dell'energia elettrica e del gas, nonché assicurare "la fruibilità e la diffusione [dei servizi] in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, ...". L'Autorità svolge inoltre una funzione consultiva nei confronti di Parlamento e Governo ai quali può formulare segnalazioni e proposte; presenta una Relazione Annuale sullo stato dei servizi e sull'attività svolta (cfr. http://www.autorita.energia.it/it/che_cosa/presentazione.htm). Altri compiti svolti, di diretto interesse per i consumatori, sono: assicurare la pubblicità e la trasparenza delle condizioni di servizio; aggiornare trimestralmente le condizioni economiche di riferimento per i clienti che non hanno scelto il mercato libero.




Acquirente Unico S.p.A. è una società pubblica (2) che opera in base delle direttive del Ministero dello Sviluppo Economico e delle delibere dell'Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas. Svolge per legge una serie di attività correlate alle azioni a difesa dei consumatori, tra le quali: acquistare dell’elettricità per le famiglie e le piccole-medie imprese rimaste nell’ambito del mercato tutelato (c.d. Sistema Unico di Acquisto); favorire il processo di




liberalizzazione del mercato elettrico e del gas; gestire lo Sportello del Consumatore di Energia per conto dell'Authority.








Le norme a tutela dei "clienti vulnerabili" alle prese con la scelta del fornitore di energia elettrica e gas naturale e la non agevole gestione del rapporto


Sono considerati "clienti vulnerabili (art. 22 D.Lgs. 93/2011): i clienti domestici, le utenze relative ad attività di servizio pubblico (ospedali, case di cura e di riposo, carceri, scuole, e altre strutture pubbliche e private che svolgono un'attività riconosciuta di assistenza), nonché i clienti civili e non civili con consumo non superiore a 50.000 metri cubi annui.




In favore di tale categoria di consumatori la legge impone una serie di obblighi a carico dell’Autorità per l’energia e il gas. L’art. 22, co. 4, D.Lgs. 93/2011, stabilisce inoltre che l'Autorità per l'energia elettrica e il gas provveda affinché:




a) il cliente che intende cambiare fornitore, nel rispetto delle condizioni contrattuali, possa ottenere il cambiamento entro tre settimane assicurando comunque che l'inizio della fornitura coincida con il primo giorno del mese;




b) i clienti ricevano i dati di consumo, obbligando le società di distribuzione a rendere disponibili i dati di consumo dei clienti alle società di vendita, garantendo la qualità e la tempestività dell'informazione fornita;




c) qualora un cliente finale connesso alla rete di distribuzione si trovi senza un fornitore di gas naturale e non sussistano i requisiti per l'attivazione del fornitore di ultima istanza, l'impresa di distribuzione territorialmente competente intervenga come previsto dalla legge, garantendogli una adeguata remunerazione dell'attività svolta e la copertura dei costi sostenuti.




L'Autorità per l'energia elettrica e il gas, avvalendosi della società Acquirente unico SpA (art. 27, co. 2, L. 23/07/2009 n. 99), gestisce inoltre gli Sportelli Unici che hanno il




compito di mettere a disposizione dei clienti tutte le informazioni concernenti i loro diritti, la normativa in vigore e le modalità di risoluzione delle controversie di cui dispongono.


Gli strumenti per contestare le "bollette che non tornano" senza ricorrere al giudice.


Tra i diritti tutelati dalla Carta europea dei consumatori di energia vi è quello di poter contare su sistemi semplici e poco costosi in caso di controversia, il cui valore nella generalità dei casi è di importo contenuto. A prescindere dall’oggetto specifico della contestazione, la procedura da seguire da parte dei consumatori di elettricità e gas per uso domestico può così sintetizzarsi:


1) primo passo la contestazione al fornitore: il consumatore che ritiene errata la fattura deve in primo luogo presentare un reclamo al proprio fornitore, indicando l’errore che ha rilevato ovvero l’anomalia rispetto alla quale chiede spiegazioni. Ciò è possibile via e-mail ovvero on line, agli appositi indirizzi o form disponibili sui siti internet del fornitore. In alternativa, si può richiedere telefonicamente l’apertura di una procedura di reclamo mediante l’apposito numero verde messo a disposizione dei fornitori per i propri clienti; laddove tale reclamo rimanesse inevaso meglio inviarne uno scritto o comunque tracciabile. In molti casi il fornitore riporta nella fattura l’indirizzo di casella postale cui poter inviare la contestazione a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno.








In ogni caso, se non si riceve alcuna risposta da parte del fornitore oppure si ritiene che la risposta fornita è insoddisfacente, il consumatore ha due strade: la via giudiziaria ricorrendo al Giudice di Pace competente in base alla residenza del consumatore (se il valore della contestazione non è superiore ad € 5.000,00); oppure attivare uno degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie (noti con l’acronimo, dalla definizione inglese, ADR-Alternative Dispute Resolution), che per tali tipologie di




controversie è volontaria (dunque non è condizione di procedibilità per l’azione giudiziaria).


2) Gli strumenti di composizione della controversia, alternativi a quello giudiziario, che è possibile attivare in caso di contestazioni inerenti rapporti di fornitura o vendita di energia o gas sono:




a) servizio conciliazione clienti energia dell’Autorità: è un servizio gratuito, che può essere attivato, personalmente o tramite un delegato, non prima di cinquanta giorni dall’invio del reclamo al fornitore/venditore di luce o gas ma non oltre sei mesi dalla data in cui si riceve la risposta al reclamo, o entro un anno se non si riceve alcuna risposta. Possono ricorre a tale servizio:




per il settore elettrico: tutti i clienti domestici e clienti non domestici se connessi in bassa tensione (BT) aventi meno di 50 dipendenti e fatturato annuo o totale di bilancio non superiore a 10 milioni di euro;




per il settore gas: tutti i clienti domestici; il condominio uso domestico con consumi non superiori a 200.000 metri cubi annui; i clienti non domestici con consumi non superiori a 50.000 metri cubi annui.









Non è possibile presentare domanda di conciliazione quando, per la stessa controversia, si è già fatto ricorso all'autorità giudiziaria, oppure sia stata avviata o svolta un’altra procedura di risoluzione alternativa della controversia, oppure un’altra procedura di conciliazione clienti energia dell’Autorità. La domanda di avvio si presenta compilando l’apposito form (modello) presente sul sito dell’Autorità e si svolge completamente on line. Gli incontri tra le parti ed il conciliatore avvengono in chat-room o in video-conferenza; se ciò non è possibile attraverso l'utilizzo del telefono (c.d. call conference, da fisso o cellulare). La procedura prevede il coinvolgimento del cliente con il venditore e/o il distributore di energia ed il conciliatore in veste di facilitatore dell'accordo. Il conciliatore, esperto in materia di mediazione e conoscitore del funzionamento del settore, non decide




la controversia, non interviene per giudicare ma per aiutare le parti a raggiungere un accordo per risolvere la problematica portata in conciliazione. Se le parti lo richiedono concordemente, il conciliatore può anche formulare una proposta di soluzione che le parti sono libere di accettare o rifiutare. Se le parti trovano una soluzione per la controversia, sottoscrivono un verbale di accordo che ha valore di transazione (contratto di transazione). Se l’accordo non si raggiunge la procedura si chiude e viene archiviata. Il consumatore, fatta salva l’eventuale prescrizione, può ancora ricorrere all’autorità giudiziaria. La procedura deve concludersi in 90 giorni.


b) procedura di conciliazione paritetica: diverse aziende del settore su invito dell’Autorità dell’energia e del gas hanno aderito a protocolli di intesa stilati con diverse associazioni dei consumatori per mettere a disposizione dei propri clienti procedure di conciliazioni paritetiche volte ad attuare "un tentativo di fare incontrare le parti per aiutarle a trovare una soluzione basata sul consenso" (in conformità alle Raccomandazioni della Comunità Europea, in particolare n. 2001/310/CE). In tal caso, lo svolgimento della procedura è indicato nell’apposito Regolamento che ciascuna azienda deve portare a conoscenza dell’utenza. Il Regolamento deve ispirarsi ai principi di semplicità di accesso e di svolgimento, riservatezza dei dati e delle questioni trattate, gratuità, riconoscimento di idoneo indennizzo per i disservizi oggetto della controversia. Possono farvi ricorso i medesimi soggetti abilitati ad avviare il "servizio di conciliazione clienti energia dell’Autorità". Si caratterizza per essere una procedura gestita dalla stessa azienda contro cui si agisce, la quale organizza l’Ufficio di conciliazione che se ne occupa. In luogo del conciliatore unico, in tali casi, vi sono almeno due soggetti che svolgono tale funzione (Commissione di conciliazione) da scegliere nell’ambito dei soggetti abilitati iscritti nell’elenco all’uopo predisposto dall’Ufficio di conciliazione dell’azienda, di cui uno è indicato dalla stessa azienda e l’altro dall’Associazione che assiste l’utente che ha avviato la procedura. L’Associazione dei consumatori è indicata dal cliente, tra quelle firmatarie








del Protocollo, o individuata dall’azienda se l’utente non ha espresso una preferenza. La procedura, anche in tal caso può essere avviata trascorsi 40 giorni dall’invio del reclamo all’azienda fornitrice o venditrice e questa non ha risposto, ovvero la risposta non è considerata soddisfacente. Gli incontri di conciliazione avvengono di persona su convocazione della segreteria di mediazione (importante verificare la sede dell’Ufficio di conciliazione e degli incontri, spesso diversi dal luogo di residenza dell’utente che si avvale di tale strumento). Il ruolo della Commissione di conciliazione è sempre quella di agevolare l’accordo, dunque la sottoscrizione del verbale di conciliazione (che ha valore il valore di transazione). Se non si raggiunge l’accordo la procedura si archivia, senza pregiudizi per il cliente di rivolgersi al giudice. I regolamenti di regola prevedono che la procedura si chiuda, in genere, nel termine di 60/90 giorni circa dall’avvio della procedura.


c) procedura di mediazione civile (3) (regolata dal D.Lgs. 28/2010 come modificato dal c.d. decreto del fare, D.L. 69/2013 e relativa legge di conversione n. 98/2013 (4)). Si tratta sempre di un procedimento volto a favorire l’accordo amichevole per risolvere la controversia mediante la figura del conciliatore, che in tal caso però è un terzo imparziale. Si avvia presentando la richiesta ad uno degli Organismi di mediazione (pubblici o privati) da scegliere tra quelli iscritti nell’apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia, che abbia sedi autorizzate a svolgere la mediazione nel luogo di residenza del consumatore (c.d. foro del consumatore, coincidente al criterio di determinazione del giudice territorialmente competente in caso di controversie che coinvolgono i consumatori). Le controversie aventi ad oggetto le contestazioni di fatture relative ai consumi di energia elettrica e gas non rientrano tra le mediazioni obbligatorie per legge (vale a dire quelle che sono condizione di procedibilità del contenzioso giudiziario). Non sono gratuite ed i costi da sostenere (posti a carico di chi richiede la








mediazione e di chi è convocato in mediazione) si determinano in ragione dei seguenti elementi:




- spese di avvio, stabilite in misura fissa ed unitaria, (€48,80 comprensivi di IVA) dovute alla presentazione della domanda di mediazione ed a prescindere dalla prosecuzione della procedura;




- compenso per l’attività del mediatore, predeterminato e conoscibile anticipatamente, in base al valore della controversia (es. importo della fattura che si contesta). Il compenso è dovuto se, dopo il primo incontro finalizzato a verificare la disponibilità delle parti a tentare di mediare la lite, si accede alla fase di mediazione vera e propria (uno o più incontri successivi), anche se non si raggiunge l’accordo. I Costi ed i regolamenti di procedura osservati dai diversi Organismi di mediazione sono pubblicati sui siti internet degli Organismi stessi (in genere non sono dissimili tra loro, dovendo rispondere a criteri imposti ex lege);




- compenso del legale da cui la parte si fa assistere durante la mediazione (concordati con il professionista dal consumatore). Per le mediazioni non obbligatorie (come quelle scaturenti dai contratti di fornitura o vendita di energia elettrica e gas) l’assistenza del legale non è obbligatoria. Si tenga conto che: l’accordo firmato anche da tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte costituisce titolo esecutivo. Se una delle parti non è assistita dal legale l’accordo deve essere omologato con decreto del Presidente del Tribunale (per controllo regolarità formale). E’ possibile farsi assistere dal legale nella sola fase finale della procedura. In ogni caso, rispetto alle altre ipotesi di soluzioni conciliative esaminate (gestita da Acquirente Unico SpA per conto dell’Autorità e la conciliazione paritetica), il verbale di mediazione positiva anche in tal caso ha una diversa e maggiore valenza. Quanto alla durata, il procedimento di mediazione deve avere una durata non superiore a tre mesi ed il primo incontro di mediazione deve essere fissato non oltre trenta giorni dal deposito della domanda.




Note:


(1) http://www.autorita.energia.it/allegati/docs/14/528-14.pdf




(2) Acquirente Unico S.p.A. Società pubblica interamente partecipata da Gestore dei Servizi Energetici – GSE S.p.a. (società costituita ai sensi dell’articolo 3, co. 4, D.Lgs. 79/1999 n. 79 di attuazione Dir. 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica, e dell’articolo 1, co. 1, lett. a, b e c e 3, D.P.C.M. 11 maggio 2004; http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/99079dl.htm)




(3) http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_7_11.wp




(4) Si veda anche la Circolare 27 novembre 2013 - Entrata in vigore dell’art. 84 del d.l. 69/2013 come convertito dalla l. 98/2013 recante disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia, che modifica il d.lgs. 28/2010. Primi chiarimenti, emanata dal Dipartimento per gli affari di giustizia Ufficio III Reparto mediazione, a firma del Direttore Generale della Giustizia civile, reperibile alla pagina web: http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.wp?facetNode_1=4_10&previsiousPage=mg_1_8&contentId=SDC971358











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Come contestare le bollette di luce e gas




di Paola Vitaletti
Il processo di liberalizzazione del servizio di fornitura per gli utenti privati del gas metano, prima, e dell’energia poi, avviato in attuazione delle direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2003/55/CE e n. 2003/54/CE, in linea generale ha prodotto una serie di vantaggi. La questione se ciò si sia anche tradotto in concreti benefici a favore dei consumatori però è ancora aperta. Ancora alto il grido di allarme delle associazioni dei consumatori che lamentano in moltissimi casi addirittura l’aumento dei costi a carico degli utenti, alle prese con offerte non agevoli da valutare.

Attualmente le citate direttive sono state abrogate dal D.Lgs. 01/06/2011 n. 93 (di attuazione delle Direttive 2009/72/CE e 2009/72/CE inerenti norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica, del gas naturale e la procedura comunitaria sulla trasparenza dei prezzi al consumatore finale industriale id gas e di energia elettrica) il cui art. 22 disciplina gli obblighi relativi al servizio pubblico e la tutela dei c.d. clienti vulnerabili.

Certamente ancora lunga è la strada da percorrere nel senso della semplificazione della gestione del rapporto contrattuale con i fornitori, della trasparenza nei sistemi di calcolo dei consumi, delle tariffe e dell’elaborazione delle fatture, spesso di difficile lettura, che complicano la verifica della correttezza dei dati ivi riportati.

Parimenti può non risultare agevole districarsi tra le diverse procedure per contestare le fatture senza rivolgersi all’autorità giudiziaria. Nel concreto infatti il percorso da intraprendere in tal caso è tutt’altro che in discesa. Spesso l’esiguità degli importi erroneamente computati nelle fatture al cospetto della complessità del procedimento di contestazione, scoraggia l’utente sul quale torna a gravare l’onere di essere parte debole contrattualmente. Diversi sono comunque gli strumenti normativi ed informativi a
disposizione dei consumatori, cui questi possono accedere per acquisire maggiore consapevolezza nella scelta del fornitore di luce e gas che meglio risponde alle esigenze dell’utente. Un utile strumento per comprendere come "interpretare" le voci di spesa e servizi riportati nelle fatture, per esempio, è rappresentato dal Glossario pubblicato sul sito dell’Autorità per l’energia, per il gas ed il sistema idrico (http://www.autorita.energia.it/it/glossario/indice-termini.htm). Sul sito dell’Autorità dell’energia e del gas è anche pubblicata la Carta Verde dei consumatori di energia, redatta dalla Commissione Europea, dove sono elencati in modo semplice e chiaro i principali diritti fondamentali dei consumatori, che ha lo scopo di "tutelare attivamente gli interessi dei consumatori perché possano sfruttare appieno i vantaggi dell’apertura dei mercati energetici".

Cerchiamo dunque di fare luce sul percorso da seguire per far valere i propri diritti, senza aggravio di costi o a costi contenuti, nonostante le carenze del sistema rilevate dalla stessa Autorità dell’energia del gas e del sistema idrico ed a cui la stessa Autorità sta cercando di ovviare (cfr. documento di consultazione del 30/10/14 n. 528/2014/A, ove nel determinare le linee strategiche dell’Autorità per il periodo 2015-2018 determina gli obiettivi in tema di riorganizzazione e sviluppo degli strumenti di assistenza ai clienti finali, di accountability, trasparenza ed efficienza dell’azione volta al miglioramento delle procedure di reclamo (1)), tenuto conto delle nuove disposizioni a tutela dei consumatori introdotte dal D.Lgs. 21/02/2014 n. 21, di attuazione della Direttiva 2011/83/UE (G.U. 11/03/2014 n. 58). Modifiche che hanno determinato un aggiornamento del Codice del Consumo (in particolare artt. 45-67), rafforzato le tutele dei consumatori nella fase precontrattuale imponendo maggiori informazioni alle imprese, principalmente, nel caso dei contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali; esteso il diritto di ripensamento entro 14 giorni e non più 10 e, in mancanza di informativa sul ripensamento, la facoltà di recedere



fino a 12 mesi dalla conclusione del contratto o consegna del bene; divieto di aumento dei costi in caso di pagamento con bancomat o carte di credito.
I soggetti cui è affidato il controllo del sistema, ancora "in bilico" tra libero mercato e mercato regolato: Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico - Acquirente Unico S.p.A.
L'Autorità per l'energia elettrica il gas e il sistema idrico è un organismo indipendente, istituito nel 1995 (Legge n. 481/1995), cui sono state attribuite competenze anche in materia di servizi idrici nel 2011 (DL. N. 201/2011, convertito con L. n. 214/2011), che ha il compito di "garantire la promozione della concorrenza e dell'efficienza" nei settori dell'energia elettrica e del gas, nonché assicurare "la fruibilità e la diffusione [dei servizi] in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, ...". L'Autorità svolge inoltre una funzione consultiva nei confronti di Parlamento e Governo ai quali può formulare segnalazioni e proposte; presenta una Relazione Annuale sullo stato dei servizi e sull'attività svolta (cfr. http://www.autorita.energia.it/it/che_cosa/presentazione.htm). Altri compiti svolti, di diretto interesse per i consumatori, sono: assicurare la pubblicità e la trasparenza delle condizioni di servizio; aggiornare trimestralmente le condizioni economiche di riferimento per i clienti che non hanno scelto il mercato libero.

Acquirente Unico S.p.A. è una società pubblica (2) che opera in base delle direttive del Ministero dello Sviluppo Economico e delle delibere dell'Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas. Svolge per legge una serie di attività correlate alle azioni a difesa dei consumatori, tra le quali: acquistare dell’elettricità per le famiglie e le piccole-medie imprese rimaste nell’ambito del mercato tutelato (c.d. Sistema Unico di Acquisto); favorire il processo di

liberalizzazione del mercato elettrico e del gas; gestire lo Sportello del Consumatore di Energia per conto dell'Authority.



Le norme a tutela dei "clienti vulnerabili" alle prese con la scelta del fornitore di energia elettrica e gas naturale e la non agevole gestione del rapporto
Sono considerati "clienti vulnerabili (art. 22 D.Lgs. 93/2011): i clienti domestici, le utenze relative ad attività di servizio pubblico (ospedali, case di cura e di riposo, carceri, scuole, e altre strutture pubbliche e private che svolgono un'attività riconosciuta di assistenza), nonché i clienti civili e non civili con consumo non superiore a 50.000 metri cubi annui.

In favore di tale categoria di consumatori la legge impone una serie di obblighi a carico dell’Autorità per l’energia e il gas. L’art. 22, co. 4, D.Lgs. 93/2011, stabilisce inoltre che l'Autorità per l'energia elettrica e il gas provveda affinché:

a) il cliente che intende cambiare fornitore, nel rispetto delle condizioni contrattuali, possa ottenere il cambiamento entro tre settimane assicurando comunque che l'inizio della fornitura coincida con il primo giorno del mese;

b) i clienti ricevano i dati di consumo, obbligando le società di distribuzione a rendere disponibili i dati di consumo dei clienti alle società di vendita, garantendo la qualità e la tempestività dell'informazione fornita;

c) qualora un cliente finale connesso alla rete di distribuzione si trovi senza un fornitore di gas naturale e non sussistano i requisiti per l'attivazione del fornitore di ultima istanza, l'impresa di distribuzione territorialmente competente intervenga come previsto dalla legge, garantendogli una adeguata remunerazione dell'attività svolta e la copertura dei costi sostenuti.

L'Autorità per l'energia elettrica e il gas, avvalendosi della società Acquirente unico SpA (art. 27, co. 2, L. 23/07/2009 n. 99), gestisce inoltre gli Sportelli Unici che hanno il

compito di mettere a disposizione dei clienti tutte le informazioni concernenti i loro diritti, la normativa in vigore e le modalità di risoluzione delle controversie di cui dispongono.
Gli strumenti per contestare le "bollette che non tornano" senza ricorrere al giudice.
Tra i diritti tutelati dalla Carta europea dei consumatori di energia vi è quello di poter contare su sistemi semplici e poco costosi in caso di controversia, il cui valore nella generalità dei casi è di importo contenuto. A prescindere dall’oggetto specifico della contestazione, la procedura da seguire da parte dei consumatori di elettricità e gas per uso domestico può così sintetizzarsi:
1) primo passo la contestazione al fornitore: il consumatore che ritiene errata la fattura deve in primo luogo presentare un reclamo al proprio fornitore, indicando l’errore che ha rilevato ovvero l’anomalia rispetto alla quale chiede spiegazioni. Ciò è possibile via e-mail ovvero on line, agli appositi indirizzi o form disponibili sui siti internet del fornitore. In alternativa, si può richiedere telefonicamente l’apertura di una procedura di reclamo mediante l’apposito numero verde messo a disposizione dei fornitori per i propri clienti; laddove tale reclamo rimanesse inevaso meglio inviarne uno scritto o comunque tracciabile. In molti casi il fornitore riporta nella fattura l’indirizzo di casella postale cui poter inviare la contestazione a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno.



In ogni caso, se non si riceve alcuna risposta da parte del fornitore oppure si ritiene che la risposta fornita è insoddisfacente, il consumatore ha due strade: la via giudiziaria ricorrendo al Giudice di Pace competente in base alla residenza del consumatore (se il valore della contestazione non è superiore ad € 5.000,00); oppure attivare uno degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie (noti con l’acronimo, dalla definizione inglese, ADR-Alternative Dispute Resolution), che per tali tipologie di

controversie è volontaria (dunque non è condizione di procedibilità per l’azione giudiziaria).
2) Gli strumenti di composizione della controversia, alternativi a quello giudiziario, che è possibile attivare in caso di contestazioni inerenti rapporti di fornitura o vendita di energia o gas sono:

a) servizio conciliazione clienti energia dell’Autorità: è un servizio gratuito, che può essere attivato, personalmente o tramite un delegato, non prima di cinquanta giorni dall’invio del reclamo al fornitore/venditore di luce o gas ma non oltre sei mesi dalla data in cui si riceve la risposta al reclamo, o entro un anno se non si riceve alcuna risposta. Possono ricorre a tale servizio:

per il settore elettrico: tutti i clienti domestici e clienti non domestici se connessi in bassa tensione (BT) aventi meno di 50 dipendenti e fatturato annuo o totale di bilancio non superiore a 10 milioni di euro;

per il settore gas: tutti i clienti domestici; il condominio uso domestico con consumi non superiori a 200.000 metri cubi annui; i clienti non domestici con consumi non superiori a 50.000 metri cubi annui.



Non è possibile presentare domanda di conciliazione quando, per la stessa controversia, si è già fatto ricorso all'autorità giudiziaria, oppure sia stata avviata o svolta un’altra procedura di risoluzione alternativa della controversia, oppure un’altra procedura di conciliazione clienti energia dell’Autorità. La domanda di avvio si presenta compilando l’apposito form (modello) presente sul sito dell’Autorità e si svolge completamente on line. Gli incontri tra le parti ed il conciliatore avvengono in chat-room o in video-conferenza; se ciò non è possibile attraverso l'utilizzo del telefono (c.d. call conference, da fisso o cellulare). La procedura prevede il coinvolgimento del cliente con il venditore e/o il distributore di energia ed il conciliatore in veste di facilitatore dell'accordo. Il conciliatore, esperto in materia di mediazione e conoscitore del funzionamento del settore, non decide

la controversia, non interviene per giudicare ma per aiutare le parti a raggiungere un accordo per risolvere la problematica portata in conciliazione. Se le parti lo richiedono concordemente, il conciliatore può anche formulare una proposta di soluzione che le parti sono libere di accettare o rifiutare. Se le parti trovano una soluzione per la controversia, sottoscrivono un verbale di accordo che ha valore di transazione (contratto di transazione). Se l’accordo non si raggiunge la procedura si chiude e viene archiviata. Il consumatore, fatta salva l’eventuale prescrizione, può ancora ricorrere all’autorità giudiziaria. La procedura deve concludersi in 90 giorni.
b) procedura di conciliazione paritetica: diverse aziende del settore su invito dell’Autorità dell’energia e del gas hanno aderito a protocolli di intesa stilati con diverse associazioni dei consumatori per mettere a disposizione dei propri clienti procedure di conciliazioni paritetiche volte ad attuare "un tentativo di fare incontrare le parti per aiutarle a trovare una soluzione basata sul consenso" (in conformità alle Raccomandazioni della Comunità Europea, in particolare n. 2001/310/CE). In tal caso, lo svolgimento della procedura è indicato nell’apposito Regolamento che ciascuna azienda deve portare a conoscenza dell’utenza. Il Regolamento deve ispirarsi ai principi di semplicità di accesso e di svolgimento, riservatezza dei dati e delle questioni trattate, gratuità, riconoscimento di idoneo indennizzo per i disservizi oggetto della controversia. Possono farvi ricorso i medesimi soggetti abilitati ad avviare il "servizio di conciliazione clienti energia dell’Autorità". Si caratterizza per essere una procedura gestita dalla stessa azienda contro cui si agisce, la quale organizza l’Ufficio di conciliazione che se ne occupa. In luogo del conciliatore unico, in tali casi, vi sono almeno due soggetti che svolgono tale funzione (Commissione di conciliazione) da scegliere nell’ambito dei soggetti abilitati iscritti nell’elenco all’uopo predisposto dall’Ufficio di conciliazione dell’azienda, di cui uno è indicato dalla stessa azienda e l’altro dall’Associazione che assiste l’utente che ha avviato la procedura. L’Associazione dei consumatori è indicata dal cliente, tra quelle firmatarie



del Protocollo, o individuata dall’azienda se l’utente non ha espresso una preferenza. La procedura, anche in tal caso può essere avviata trascorsi 40 giorni dall’invio del reclamo all’azienda fornitrice o venditrice e questa non ha risposto, ovvero la risposta non è considerata soddisfacente. Gli incontri di conciliazione avvengono di persona su convocazione della segreteria di mediazione (importante verificare la sede dell’Ufficio di conciliazione e degli incontri, spesso diversi dal luogo di residenza dell’utente che si avvale di tale strumento). Il ruolo della Commissione di conciliazione è sempre quella di agevolare l’accordo, dunque la sottoscrizione del verbale di conciliazione (che ha valore il valore di transazione). Se non si raggiunge l’accordo la procedura si archivia, senza pregiudizi per il cliente di rivolgersi al giudice. I regolamenti di regola prevedono che la procedura si chiuda, in genere, nel termine di 60/90 giorni circa dall’avvio della procedura.
c) procedura di mediazione civile (3) (regolata dal D.Lgs. 28/2010 come modificato dal c.d. decreto del fare, D.L. 69/2013 e relativa legge di conversione n. 98/2013 (4)). Si tratta sempre di un procedimento volto a favorire l’accordo amichevole per risolvere la controversia mediante la figura del conciliatore, che in tal caso però è un terzo imparziale. Si avvia presentando la richiesta ad uno degli Organismi di mediazione (pubblici o privati) da scegliere tra quelli iscritti nell’apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia, che abbia sedi autorizzate a svolgere la mediazione nel luogo di residenza del consumatore (c.d. foro del consumatore, coincidente al criterio di determinazione del giudice territorialmente competente in caso di controversie che coinvolgono i consumatori). Le controversie aventi ad oggetto le contestazioni di fatture relative ai consumi di energia elettrica e gas non rientrano tra le mediazioni obbligatorie per legge (vale a dire quelle che sono condizione di procedibilità del contenzioso giudiziario). Non sono gratuite ed i costi da sostenere (posti a carico di chi richiede la



mediazione e di chi è convocato in mediazione) si determinano in ragione dei seguenti elementi:

- spese di avvio, stabilite in misura fissa ed unitaria, (€48,80 comprensivi di IVA) dovute alla presentazione della domanda di mediazione ed a prescindere dalla prosecuzione della procedura;

- compenso per l’attività del mediatore, predeterminato e conoscibile anticipatamente, in base al valore della controversia (es. importo della fattura che si contesta). Il compenso è dovuto se, dopo il primo incontro finalizzato a verificare la disponibilità delle parti a tentare di mediare la lite, si accede alla fase di mediazione vera e propria (uno o più incontri successivi), anche se non si raggiunge l’accordo. I Costi ed i regolamenti di procedura osservati dai diversi Organismi di mediazione sono pubblicati sui siti internet degli Organismi stessi (in genere non sono dissimili tra loro, dovendo rispondere a criteri imposti ex lege);

- compenso del legale da cui la parte si fa assistere durante la mediazione (concordati con il professionista dal consumatore). Per le mediazioni non obbligatorie (come quelle scaturenti dai contratti di fornitura o vendita di energia elettrica e gas) l’assistenza del legale non è obbligatoria. Si tenga conto che: l’accordo firmato anche da tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte costituisce titolo esecutivo. Se una delle parti non è assistita dal legale l’accordo deve essere omologato con decreto del Presidente del Tribunale (per controllo regolarità formale). E’ possibile farsi assistere dal legale nella sola fase finale della procedura. In ogni caso, rispetto alle altre ipotesi di soluzioni conciliative esaminate (gestita da Acquirente Unico SpA per conto dell’Autorità e la conciliazione paritetica), il verbale di mediazione positiva anche in tal caso ha una diversa e maggiore valenza. Quanto alla durata, il procedimento di mediazione deve avere una durata non superiore a tre mesi ed il primo incontro di mediazione deve essere fissato non oltre trenta giorni dal deposito della domanda.

Note:
(1) http://www.autorita.energia.it/allegati/docs/14/528-14.pdf

(2) Acquirente Unico S.p.A. Società pubblica interamente partecipata da Gestore dei Servizi Energetici – GSE S.p.a. (società costituita ai sensi dell’articolo 3, co. 4, D.Lgs. 79/1999 n. 79 di attuazione Dir. 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica, e dell’articolo 1, co. 1, lett. a, b e c e 3, D.P.C.M. 11 maggio 2004; http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/99079dl.htm)

(3) http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_7_11.wp

(4) Si veda anche la Circolare 27 novembre 2013 - Entrata in vigore dell’art. 84 del d.l. 69/2013 come convertito dalla l. 98/2013 recante disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia, che modifica il d.lgs. 28/2010. Primi chiarimenti, emanata dal Dipartimento per gli affari di giustizia Ufficio III Reparto mediazione, a firma del Direttore Generale della Giustizia civile, reperibile alla pagina web: http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.wp?facetNode_1=4_10&previsiousPage=mg_1_8&contentId=SDC971358




© Copyright Dott. A. Giuffrè Editore Spa – 2014

lunedì 12 gennaio 2015

NEWS DALLA SUPREMA CORTE: COMODATO ED ESIGENZE FAMILIARI

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, sentenza 21 novembre 2014, n. 24838 - Presidente
Finocchiaro – Rel. Lanzillo
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 7 settembre 2009 V.A.M. ha chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare
risolto il contratto di comodato avente ad oggetto un appartamento in Roma, di sua proprietà, che
nel 1996 aveva lasciato in uso al figlio, G.D. , che lo abitava con i genitori, allorché si è trasferita
con il marito in (omissis) .
Ha dedotto di avere necessità di abitare personalmente l'immobile, essendo rimasta vedova e non in
condizione di vivere sola in località isolata, ove trovasi la casa in (omissis) , ma di non averne
potuto ottenere la restituzione dal figlio e dalla nuora, T.M.L. , che hanno adibito l'appartamento ad
abitazione coniugale.
I convenuti hanno resistito alla domanda.
Il G. ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva poiché è sopraggiunto provvedimento
del giudice di separazione fra i coniugi, con assegnazione alla moglie della casa coniugale e della
custodia dei figli.
La T. ha eccepito trattarsi di comodato destinato ad un determinato uso (abitazione coniugale), non
soggetto a scioglimento prima della cessazione dell'uso medesimo, non sussistendone le condizioni.
Il Tribunale ha accolto la domanda attrice e ha ordinato il rilascio dell'appartamento.
Proposto appello dalla T. , a cui ha resistito l'appellata ed ha aderito il G. , con sentenza 12 giugno -
4 luglio 2012 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la
domanda di scioglimento del contratto e di restituzione dell'immobile, con la motivazione che il
comodato era stato concesso perché la casa venisse adibita a residenza della famiglia e che le
ragioni addotte dalla V. non giustificano la domanda di restituzione ai sensi dell'art. 1809 cod. civ..
Con atto notificato il 24 gennaio 2013 la V. propone due motivi di ricorso per cassazione, illustrati
da memoria.
Resiste la T. con controricorso.
Il G. non ha depositato difese.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo, denunciando violazione degli art. 1803 e 1809 cod. civ., omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione, la ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia
arbitrariamente ed in mancanza di ogni elemento di prova — ed anzi, in contrasto con le risultanze
probatorie - ritenuto che il comodato sia stato concesso per adibire la casa ad abitazione della
famiglia. Assume essersi invece trattato di un comodato in precario, concesso nel 1996 al solo G.D.
, all'epoca celibe.
Solo nel 1998, dopo il matrimonio con la T. , il comodatario aveva di sua iniziativa adibito
l'immobile a residenza coniugale.
Rileva la ricorrente che la Corte di appello ha dato atto che il rapporto è iniziato nel 1996, due anni
prima che il G. contraesse matrimonio, quando ancora non sussistevano esigenze familiari e che, a
fronte di ciò, sarebbe stato onere dei comodatari dimostrare che l'uso era stato concesso in
previsione del matrimonio: dimostrazione che nella specie è mancata.
2.- Con il secondo motivo denuncia ancora violazione degli art. 1803, 1804, 1809 e 2733 cod. civ.,
115, 116 e 228 cod. proc. civ., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nella
parte in cui la Corte di appello ha escluso la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento del
rapporto, ai sensi dell'art. 1809 2 comma cod. civ., pur nella denegata ipotesi in cui lo si ritenga a
tempo determinato.
3.- Debbono essere preliminarmente disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla
resistente.
Il ricorso è stato tempestivamente proposto con atto notificato il 24 gennaio 2013, entro i sei mesi
dal deposito della sentenza impugnata, dovendosi applicare anche alle cause in tema di locazione e
comodato la sospensione feriale dei termini processuali. La circostanza che le regole processuali
della locazione coincidano (peraltro non del tutto) con quelle che regolano il rito del lavoro non ha
nulla a che fare con le disposizioni sulla sospensione feriale dei termini, sospensione dalla quale
sono esonerate solo le controversie espressamente elencate dall'art. 92 dell'Ordinamento giudiziario
30 gennaio 1941, richiamato dall'art. 3 legge 7 ottobre 1969 n. 742, fra le quali non rientrano quelle
in tema di locazione e comodato.
Neppure è applicabile alla controversia in oggetto, quanto alle denunce di vizio di motivazione, il
nuovo testo dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., introdotto con d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in
legge 7 agosto 2012 n. 134, norma applicabile alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno
successivo a quello dell'entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 54 d.l. cit.),
cioè alle sentenze depositate dal giorno 11 settembre 2012 in avanti, mentre la sentenza impugnata
in questa sede è stata pubblicata il 4 luglio 2012.
5.- Nel merito i due motivi, che vanno congiuntamente esaminati perché connessi, sono fondati.
La motivazione della sentenza impugnata è manifestamente contraddittoria, quindi inidonea a
giustificare la decisione, nella parte in cui ha accertato che la concessione in uso dell'immobile ha
avuto inizio nel 1996 e che il matrimonio del comodatario è stato contratto solo nel dicembre del
1998 (cfr. sentenza, pag. 3 e 5), e ciò nonostante ha ritenuto che il comodato sia stato concesso per
"adibire l'immobile a residenza coniugale", in mancanza di ogni supporto probatorio anche solo
presuntivo a conferma di una tale circostanza: anche in considerazione del fatto che l'uso
dell'abitazione da parte del G. , all'epoca celibe e convivente con i genitori, ha avuto inizio in via di
mero fatto e senza alcuna formalizzazione, a seguito del trasferimento altrove dei genitori stessi.
Il principio per cui il comodatario ha il diritto alla prosecuzione del rapporto per tutto il tempo per
cui si protraggano le esigenze familiari (Cass. civ. S.U. 21 luglio 2004 n. 13603 e successive) si
riferisce ai casi in cui sia certo ed inequivocabile che il rapporto abbia avuto origine in vista di una
tale destinazione: ma nessuna prova del genere è stata menzionata dalla sentenza di appello.
Si ricorda che, con il contratto di comodato, il proprietario concede gratuitamente a terzi il diritto di
uso del bene proprio e che, soprattutto quando si tratti di un immobile, la sussistenza di un'effettiva
volontà di assoggettare il bene a vincoli e a destinazioni d'uso particolarmente gravosi - qual è
quello di cui qui si tratta - non può essere presunta, ma deve essere positivamente accertata.
Nel dubbio, va adottata la soluzione più favorevole alla cessazione del vincolo, considerato anche il
sospetto ed il disfavore con cui l'ordinamento considera i trasferimenti gratuiti di beni e di diritti sui
beni.
Deve essere invece interpretata ed applicata con larghezza la norma che autorizza il comodante a
chiedere la restituzione del bene concesso gratuitamente in uso: soprattutto, si ripete, quando si tratti
di bene immobile e quando vengano prospettate esigenze abitative personali: per di più facenti capo
ad una persona anziana, sola e bisognosa di cure; per di più a fronte di un'utilizzazione gratuita già
protrattasi per anni.
Insufficiente ed illogica è anche la motivazione con cui la Corte di appello ha ritenuto irrilevanti le
esigenze personali della comodante, perché non imprevedibili in quanto legate al progredire dell'età.
Prevedibile è il progredire dell'età. Non le condizioni di salute in cui ci si arriva; non il fatto di
restare vedova; non il fatto di venirsi a trovare in condizioni fisiche tali da non poter vivere sola in
luogo isolato: in una parola, non il peculiare stato di bisogno che nella specie è stato addotto al fine
di giustificare lo scioglimento anticipato del rapporto, ai sensi dell'art. 1809, 2 comma, cod. civ..
6.- La sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio della causa alla Corte di appello di
Roma, in diversa composizione, affinché decida la controversia con congrua e logica motivazione.
7.- La Corte di rinvio deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte
di appello di Roma, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di
cassazione.

NEWS DALLA SUPREMA CORTE: COMODATO ED ESIGENZE FAMILIARI

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, sentenza 21 novembre 2014, n. 24838 - Presidente
Finocchiaro – Rel. Lanzillo
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 7 settembre 2009 V.A.M. ha chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare
risolto il contratto di comodato avente ad oggetto un appartamento in Roma, di sua proprietà, che
nel 1996 aveva lasciato in uso al figlio, G.D. , che lo abitava con i genitori, allorché si è trasferita
con il marito in (omissis) .
Ha dedotto di avere necessità di abitare personalmente l'immobile, essendo rimasta vedova e non in
condizione di vivere sola in località isolata, ove trovasi la casa in (omissis) , ma di non averne
potuto ottenere la restituzione dal figlio e dalla nuora, T.M.L. , che hanno adibito l'appartamento ad
abitazione coniugale.
I convenuti hanno resistito alla domanda.
Il G. ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva poiché è sopraggiunto provvedimento
del giudice di separazione fra i coniugi, con assegnazione alla moglie della casa coniugale e della
custodia dei figli.
La T. ha eccepito trattarsi di comodato destinato ad un determinato uso (abitazione coniugale), non
soggetto a scioglimento prima della cessazione dell'uso medesimo, non sussistendone le condizioni.
Il Tribunale ha accolto la domanda attrice e ha ordinato il rilascio dell'appartamento.
Proposto appello dalla T. , a cui ha resistito l'appellata ed ha aderito il G. , con sentenza 12 giugno -
4 luglio 2012 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la
domanda di scioglimento del contratto e di restituzione dell'immobile, con la motivazione che il
comodato era stato concesso perché la casa venisse adibita a residenza della famiglia e che le
ragioni addotte dalla V. non giustificano la domanda di restituzione ai sensi dell'art. 1809 cod. civ..
Con atto notificato il 24 gennaio 2013 la V. propone due motivi di ricorso per cassazione, illustrati
da memoria.
Resiste la T. con controricorso.
Il G. non ha depositato difese.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo, denunciando violazione degli art. 1803 e 1809 cod. civ., omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione, la ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia
arbitrariamente ed in mancanza di ogni elemento di prova — ed anzi, in contrasto con le risultanze
probatorie - ritenuto che il comodato sia stato concesso per adibire la casa ad abitazione della
famiglia. Assume essersi invece trattato di un comodato in precario, concesso nel 1996 al solo G.D.
, all'epoca celibe.
Solo nel 1998, dopo il matrimonio con la T. , il comodatario aveva di sua iniziativa adibito
l'immobile a residenza coniugale.
Rileva la ricorrente che la Corte di appello ha dato atto che il rapporto è iniziato nel 1996, due anni
prima che il G. contraesse matrimonio, quando ancora non sussistevano esigenze familiari e che, a
fronte di ciò, sarebbe stato onere dei comodatari dimostrare che l'uso era stato concesso in
previsione del matrimonio: dimostrazione che nella specie è mancata.
2.- Con il secondo motivo denuncia ancora violazione degli art. 1803, 1804, 1809 e 2733 cod. civ.,
115, 116 e 228 cod. proc. civ., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nella
parte in cui la Corte di appello ha escluso la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento del
rapporto, ai sensi dell'art. 1809 2 comma cod. civ., pur nella denegata ipotesi in cui lo si ritenga a
tempo determinato.
3.- Debbono essere preliminarmente disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla
resistente.
Il ricorso è stato tempestivamente proposto con atto notificato il 24 gennaio 2013, entro i sei mesi
dal deposito della sentenza impugnata, dovendosi applicare anche alle cause in tema di locazione e
comodato la sospensione feriale dei termini processuali. La circostanza che le regole processuali
della locazione coincidano (peraltro non del tutto) con quelle che regolano il rito del lavoro non ha
nulla a che fare con le disposizioni sulla sospensione feriale dei termini, sospensione dalla quale
sono esonerate solo le controversie espressamente elencate dall'art. 92 dell'Ordinamento giudiziario
30 gennaio 1941, richiamato dall'art. 3 legge 7 ottobre 1969 n. 742, fra le quali non rientrano quelle
in tema di locazione e comodato.
Neppure è applicabile alla controversia in oggetto, quanto alle denunce di vizio di motivazione, il
nuovo testo dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., introdotto con d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in
legge 7 agosto 2012 n. 134, norma applicabile alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno
successivo a quello dell'entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 54 d.l. cit.),
cioè alle sentenze depositate dal giorno 11 settembre 2012 in avanti, mentre la sentenza impugnata
in questa sede è stata pubblicata il 4 luglio 2012.
5.- Nel merito i due motivi, che vanno congiuntamente esaminati perché connessi, sono fondati.
La motivazione della sentenza impugnata è manifestamente contraddittoria, quindi inidonea a
giustificare la decisione, nella parte in cui ha accertato che la concessione in uso dell'immobile ha
avuto inizio nel 1996 e che il matrimonio del comodatario è stato contratto solo nel dicembre del
1998 (cfr. sentenza, pag. 3 e 5), e ciò nonostante ha ritenuto che il comodato sia stato concesso per
"adibire l'immobile a residenza coniugale", in mancanza di ogni supporto probatorio anche solo
presuntivo a conferma di una tale circostanza: anche in considerazione del fatto che l'uso
dell'abitazione da parte del G. , all'epoca celibe e convivente con i genitori, ha avuto inizio in via di
mero fatto e senza alcuna formalizzazione, a seguito del trasferimento altrove dei genitori stessi.
Il principio per cui il comodatario ha il diritto alla prosecuzione del rapporto per tutto il tempo per
cui si protraggano le esigenze familiari (Cass. civ. S.U. 21 luglio 2004 n. 13603 e successive) si
riferisce ai casi in cui sia certo ed inequivocabile che il rapporto abbia avuto origine in vista di una
tale destinazione: ma nessuna prova del genere è stata menzionata dalla sentenza di appello.
Si ricorda che, con il contratto di comodato, il proprietario concede gratuitamente a terzi il diritto di
uso del bene proprio e che, soprattutto quando si tratti di un immobile, la sussistenza di un'effettiva
volontà di assoggettare il bene a vincoli e a destinazioni d'uso particolarmente gravosi - qual è
quello di cui qui si tratta - non può essere presunta, ma deve essere positivamente accertata.
Nel dubbio, va adottata la soluzione più favorevole alla cessazione del vincolo, considerato anche il
sospetto ed il disfavore con cui l'ordinamento considera i trasferimenti gratuiti di beni e di diritti sui
beni.
Deve essere invece interpretata ed applicata con larghezza la norma che autorizza il comodante a
chiedere la restituzione del bene concesso gratuitamente in uso: soprattutto, si ripete, quando si tratti
di bene immobile e quando vengano prospettate esigenze abitative personali: per di più facenti capo
ad una persona anziana, sola e bisognosa di cure; per di più a fronte di un'utilizzazione gratuita già
protrattasi per anni.
Insufficiente ed illogica è anche la motivazione con cui la Corte di appello ha ritenuto irrilevanti le
esigenze personali della comodante, perché non imprevedibili in quanto legate al progredire dell'età.
Prevedibile è il progredire dell'età. Non le condizioni di salute in cui ci si arriva; non il fatto di
restare vedova; non il fatto di venirsi a trovare in condizioni fisiche tali da non poter vivere sola in
luogo isolato: in una parola, non il peculiare stato di bisogno che nella specie è stato addotto al fine
di giustificare lo scioglimento anticipato del rapporto, ai sensi dell'art. 1809, 2 comma, cod. civ..
6.- La sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio della causa alla Corte di appello di
Roma, in diversa composizione, affinché decida la controversia con congrua e logica motivazione.
7.- La Corte di rinvio deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte
di appello di Roma, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di
cassazione.

venerdì 9 gennaio 2015

Danni da smottamento: è configurabile la responsabilità da omessa custodia?











































Danni da smottamento: è configurabile la responsabilità da omessa
custodia?




Con sentenza n. 24513 del 18 novembre 2014, la
seconda sezione della S.C. si sofferma, in particolare, sulla natura giuridica
della responsabilità di tipo extracontrattuale prevista dall'art. 2051 c.c.
(riconducibile all'omessa vigilanza delle cose tenute in custodia), correlandola
alla peculiare fattispecie concreta dei danni causati da movimenti franosi ad
immobili ubicati in una zona in declivio e sottoposti ad altri.




Cassazione civile Sentenza, Sez. II, 18/11/2014,
n. 24513





Il caso e la soluzioneI proprietari di un
complesso condominiale, sottoposto ad altro immobile nell’ambito di una zona
collinare e, quindi, ubicato in declivio, convenivano in giudizio – con azione
nunciatoria – la titolare della proprietà soprastante per l’ottenimento della
sua condanna all’esecuzione delle opere idonee ad impedire i movimenti franosi
verso il basso ed al risarcimento dei danni ad essi ricollegabili.

All’esito
del giudizio di merito (anticipato da una tutela in via urgente), la domanda
veniva accolta in primo grado con sentenza poi confermata a conclusione del
giudizio di appello.

L’ente soccombente proponeva ricorso per cassazione,
che, tuttavia, veniva rigettato, sulla scorta dell’adeguatezza della motivazione
e della conformità a diritto della sentenza impugnata.     

Impatti
pratico-operativi


La sentenza selezionata è degna di rilievo perché
affronta la tematica della responsabilità da custodia con riferimento ai danni
conseguenti a smottamenti nei rapporti tra immobili costruiti in una zona
pendente.

In via generale occorre ricordare che la responsabilità per i danni
cagionati da una cosa in custodia ex art. 2051 c.c. si fonda non su un
comportamento od un'attività del custode, ma su una relazione intercorrente tra
questi e la cosa dannosa e, poiché il limite della responsabilità risiede
nell'intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene non ad un
comportamento del responsabile ma alle modalità di causazione del danno, si deve
ritenere che, in tema di ripartizione dell'onere della prova, all'attore compete
provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo,
mentre il convenuto, per liberarsi, dovrà provare l'esistenza di un fattore,
estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale e,
cioè, un fattore esterno (che può essere anche il fatto di un terzo o dello
stesso danneggiato) che presenti i caratteri del fortuito e, quindi,
dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità.

Nella sentenza in commento si è,
altresì, sottolineato che l'attività di vigilanza e di prevenzione di eventi
dannosi costituisce il contenuto di un vero e proprio obbligo che il citato art.
2051 c.c. pone a carico di chi ha la disponibilità di una cosa ed a favore dei
consociati, anche con particolare riferimento ai proprietari di immobili
sottostanti ubicati in una zona in declivio, salvo la prova del caso
fortuito.

Pertanto, nella fattispecie concretamente esaminata, essendo
rimasta esclusa tale prova, è stata confermata la sentenza di appello con la
quale era stata adeguatamente accertata la totale assenza di attività
manutentive da parte dell’ente proprietario dell’immobile soprastante, senza
che, oltretutto, potesse riconoscersi alcun concorso causale alla circostanza
che l’immobile degli attori fosse stato realizzato in parziale difformità
rispetto al progetto originariamente approvato, poiché la relativa porzione –
asseritamente illegittima – era risultata insistente su una fascia di terreno
che non aveva subìto dissesti per effetto della realizzazione dell’inerente
costruzione.



Aldo Carrato

Tratto da Il Quotidiano
Giuridico Wolters Kluwer






















Danni da smottamento: è configurabile la responsabilità da omessa custodia?





Danni da smottamento: è configurabile la responsabilità da omessa custodia?
Con sentenza n. 24513 del 18 novembre 2014, la seconda sezione della S.C. si sofferma, in particolare, sulla natura giuridica della responsabilità di tipo extracontrattuale prevista dall'art. 2051 c.c. (riconducibile all'omessa vigilanza delle cose tenute in custodia), correlandola alla peculiare fattispecie concreta dei danni causati da movimenti franosi ad immobili ubicati in una zona in declivio e sottoposti ad altri.
Cassazione civile Sentenza, Sez. II, 18/11/2014, n. 24513
Il caso e la soluzioneI proprietari di un complesso condominiale, sottoposto ad altro immobile nell’ambito di una zona collinare e, quindi, ubicato in declivio, convenivano in giudizio – con azione nunciatoria – la titolare della proprietà soprastante per l’ottenimento della sua condanna all’esecuzione delle opere idonee ad impedire i movimenti franosi verso il basso ed al risarcimento dei danni ad essi ricollegabili.
All’esito del giudizio di merito (anticipato da una tutela in via urgente), la domanda veniva accolta in primo grado con sentenza poi confermata a conclusione del giudizio di appello.
L’ente soccombente proponeva ricorso per cassazione, che, tuttavia, veniva rigettato, sulla scorta dell’adeguatezza della motivazione e della conformità a diritto della sentenza impugnata.     
Impatti pratico-operativi
La sentenza selezionata è degna di rilievo perché affronta la tematica della responsabilità da custodia con riferimento ai danni conseguenti a smottamenti nei rapporti tra immobili costruiti in una zona pendente.
In via generale occorre ricordare che la responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia ex art. 2051 c.c. si fonda non su un comportamento od un'attività del custode, ma su una relazione intercorrente tra questi e la cosa dannosa e, poiché il limite della responsabilità risiede nell'intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene non ad un comportamento del responsabile ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che, in tema di ripartizione dell'onere della prova, all'attore compete provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, mentre il convenuto, per liberarsi, dovrà provare l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale e, cioè, un fattore esterno (che può essere anche il fatto di un terzo o dello stesso danneggiato) che presenti i caratteri del fortuito e, quindi, dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità.
Nella sentenza in commento si è, altresì, sottolineato che l'attività di vigilanza e di prevenzione di eventi dannosi costituisce il contenuto di un vero e proprio obbligo che il citato art. 2051 c.c. pone a carico di chi ha la disponibilità di una cosa ed a favore dei consociati, anche con particolare riferimento ai proprietari di immobili sottostanti ubicati in una zona in declivio, salvo la prova del caso fortuito.
Pertanto, nella fattispecie concretamente esaminata, essendo rimasta esclusa tale prova, è stata confermata la sentenza di appello con la quale era stata adeguatamente accertata la totale assenza di attività manutentive da parte dell’ente proprietario dell’immobile soprastante, senza che, oltretutto, potesse riconoscersi alcun concorso causale alla circostanza che l’immobile degli attori fosse stato realizzato in parziale difformità rispetto al progetto originariamente approvato, poiché la relativa porzione – asseritamente illegittima – era risultata insistente su una fascia di terreno che non aveva subìto dissesti per effetto della realizzazione dell’inerente costruzione.

Aldo Carrato
Tratto da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer


martedì 7 settembre 2010

DANNI DA FAUNA SELVATICA, PAGA LA REGIONE



La fauna selvatica appartiene al patrimonio dello Stato, ma se causa danni la responsabilità è delle Regioni.



La Cassazione (Sentenza 7 aprile 2008, n. 8953) è intervenuta in materia di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici ed in particolare sul caso di un danno patito da un motociclista su una strada statale, invasa da animali selvatici. Per la Suprema Corte, alla Regione sono demandati poteri di gestione, tutela e controllo di tutte le specie della fauna selvatica, trattandosi di una materia devoluta alla competenza regionale e provinciale.

Nel percorrere una strada statale del cuneese, a bordo del proprio veicolo, un motociclista s'era scontrato con due caprioli che gli avevano tagliato la strada, così rovinando al suolo. Il risarcimento non tocca in questo caso al Ministero delle Finanze, bensì alla Regione che ha violato il Codice Civile ( Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno - Risarcimento per fatto illecito Art. 2040)

Infatti, il Collegio, pur partendo dal'assunto che la fauna selvatica appartiene al patrimonio indisponibile dello Stato, rileva che la legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante le "Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio", demanda alle Regioni a statuto ordinario l'emanazione di norme relative alla gestione e alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica e affida alle medesime i poteri di gestione, tutela e controllo, riservando alle province le funzioni amministrative in materia di caccia e di protezione della fauna.


Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...