venerdì 3 settembre 2010

Le modifiche al codice della strada

Codice della strada, una circolare spiega le novità in vigore dal 30 luglio

Circolare Ministero Interno 30.07.2010

La Polizia di Stato fornisce indicazioni operative sulle prime norme già in vigore della legge n. 120/2010 (le altre sono dicventate operative il 13 agosto 2010).
 
Per agevolare gli operatori di Polizia, il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno ha diramato una circolare con le prime disposizioni operative relative alle norme già in vigore, di cui la circolare stessa fornisce schede riepilogative con il testo coordinato dell'articolo di legge, le novità introdotte e la loro spiegazione.
Sono operative dal 30 luglio alcune delle norme che modificano il Codice della strada introdotte recentemente dalla legge 29 luglio 2010, n. 120 ('Disposizioni in materia di sicurezza stradale'), che è entrata in vigore il 13 agosto 2010.
Si tratta, in sintesi, delle disposizioni che più incidono, attraverso l'inasprimento delle sanzioni, sui livelli di sicurezza stradale e sul fronte di prevenzione degli incidenti: sono quelle sulla guida sotto l'influenza di alcool o in stato di alterazione per uso di sostanze stupefacenti, sulla revoca della patente, sulla circolazione dei ciclomotori, sull'uso delle cinture di sicurezza, sull'utilizzo di lenti o altri apparecchi durante la guida (modifiche agli articoli 97, 126-bis, 172, 173, 186, 186-bis, 187, 219,e 219-bis del Codice della strada).
Tra le novità di maggiore impatto già in vigore, c'è la tolleranza zero sull'assunzione di alcool da parte di neopatentati (con patente da meno di 3 anni), minori di 21 anni e persone che svolgono a livello professionale attività di trasporto di persone o cose. Inoltre, non potrà più ottenere la patente chi per due volte ha causato un incidente con una lesione colposa. Il 50% delle entrate delle sanzioni per eccesso di velocità dovranno essere utilizzate per la manutenzione delle strade.


da Altalex, 24 agosto 2010. Nota di Cesira Cruciani.



MINISTERO DELL'INTERNO, CIRCOLARE 30 luglio 2010
DIPARTIMENTO DELLA PUBBLICA SICUREZZA
DIREZIONE CENTRALE PER LA POLIZIA STRADALE, FERROVIARIA, DELLE COMUNICAZIONI E Dipartimento Pubblica Sicurezza PER I REPARTI SPECIALI DELLA POLIZIA DI STATO


OGGETTO: Legge 29 luglio 2010, n. 120 recante "Disposizioni in materia di sicurezza stradale". Modifiche agli articoli 97, 172, 173, 186, 186-bis, 187, 219 e 219-bis del Codice della Strada, in vigore dal 30 luglio 2010. Prime disposizioni operative.

A ...omissis...

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 175 del 29.7.2010 -Suppl. Ordinario n.171, è stata pubblicata la legge 29.7.2010, n.120, recante "Disposizioni in materia di sicurezza stradale."



La nuova normativa, che ha lo scopo di introdurre misure volte a migliorare la sicurezza della circolazione stradale, sia attraverso l'aggravamento delle sanzioni per violazioni delle norme del codice, sia mediante disposizioni volte alla prevenzione ed all'incremento della messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e viarie, nonché della segnaletica stradale, prevede significative modifiche a numerose disposizioni del Codice della Strada e di alcune norme correlate.
Salvo quelle per cui è stato previsto che l'entrata in vigore sia differita nel tempo, anche in ragione della necessità di emanazione di specifiche norme attuative, le disposizioni della legge in argomento entreranno in vigore, dal prossimo 13 agosto 2010.
Tuttavia, per alcune di esse (1), in ragione della particolare rilevanza per il miglioramento dei livelli di sicurezza stradale che sono destinate ad apportare, è stata prevista l'entrata in vigore a decorrere dal gIOrno successivo a quello della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Pertanto, per fornire con tempestività agli operatori di polizia una visione complessiva degli interventi normativi, in vigore dal 30 luglio 2010, sono state predisposte e allegate alla presente circolare schede riepilogative delle principali novità corredate, per facilità di consultazione, del testo degli articoli del codice della strada in oggetto indicati, coordinato con le modifiche intervenute (all. 1).
Si fa riserva di fornire, con successiva circolare, le necessarie istruzioni per le altre norme del codice della strada e delle leggi correlate, oggetto di interventi di modifica con la legge 120/20 l O, che entreranno in vigore dal 13 agosto p.v..

1. Interventi relativi alla guida di ciclomotori

Le disposizioni degli articoli 14 e 28 della L. 120/20 l O prevedono un generale inasprimento del trattamento sanzionatorio per i conducenti dei quadricicli leggeri (c.d. minicar) e degli altri ciclomotori che tengono condotte di guida scorrette.
In particolare, l'art. 14 della L. 120/2010, intervenendo sull'articolo 97 C.d.S., ha aumentato le sanzioni pecuniarie per chi fabbrica, produce, pone in commercio o vende ciclomotori che sviluppino una velocità superiore a quella attualmente prevista e per chi circola con un ciclomotore alterato ovvero munito di una targa i cui dati non siano chiaramente visibili.
L'art. 28 della L.120/2010, modificando l'articolo 172 C.d.S., ha esteso al conducente e al passeggero di quadricicli leggeri dotati di carrozzeria chiusa (c.d. minicar) l'obbligo di allacciare la cintura di sicurezza. La disposizione si applica solo ai soggetti a bordo di tali veicoli, dotati sin dall' origine di cinture di sicurezza secondo le prescrizioni di cui alla direttiva 2002/24/CE del 18 marzo 2002.
L'art. 29 della L.1201201 O, che interviene sull'articolo 173 C.d.S., ha stabilito che i conducenti di ciclomotori per i quali, al momento del rilascio del certificato di idoneità alla guida per ciclomotori, siano previsti adattamenti o protesi, debbano fame uso durante la guida, estendendo ad essi le sanzioni già previste per i conducenti di veicoli con simili prescrizioni iscritte sulla patente di guida.
 
2. INTERVENTI IN MATERIA DI GUIDA IN STATO DI EBBREZZA ALCOLICA
 
L'articolo 33 della L. 120/2010 ha apportato significative modifiche all' articolo 186 C.d. S. (guida in stato di ebbrezza alcolica) ed ha introdotto una nuova fattispecie che punisce chi guida dopo aver assunto bevande alcoliche (art. 186-bis C.d.S) da parte di alcune categorie di conducenti più esposte a rischio d'incidente.
 
2.1. Guida dopo aver assunto bevande alcoliche da parte di alcune categorie di conducenti (art. 186-bis C.d.S)

Il nuovo articolo 186-bis, comma 1, C.d.S. ha affermato il principio secondo cui ad alcune categorie di conducenti è vietato guidare dopo aver assunto bevande alcoliche:

a) giovani di età inferiore a 21 anni, anche se alla guida di veicoli che non richiedono la patente di guida;

b) neopatentati nei primi tre anni dal conseguimento della patente B;

c) conducenti che esercitino di professione l'attività di trasporto di persone o cose su strada in servizio di piazza, taxi ovvero di noleggio con conducente;

d) tutti coloro che si trovino alla guida di veicoli con massa superiore a 3,5 tonnellate, di autobus e di altri autoveicoli destinati al trasporto di persone il cui numero di posti a sedere, escluso quello del conducente, è superiore a otto, nonché di autoarticolati e di autosnodati;

e) conducenti di autoveicoli, comprese le autovetture, che effettuino il traino di un rimorchio (esclusi i carrelli appendice di cui all'articolo 56, comma 4, C.d. S.), quando la massa complessiva del complesso veicolare così formato superi il peso di kg 3.500. La previsione normativa è estesa, perciò, anche ai conducenti che effettuino il traino di caravan o di rimorchi T.A.T.S. di cui all'articolo 56, comma 2, lettere e) ed f), C.d.S. quando la massa del complesso veicolare superi tale limite.

Il controllo del tasso alcolemico può essere effettuato, nei riguardi dei conducenti sopra citati, secondo le procedure e con gli strumenti indicati dall'articolo 186, commi 3, 4 e 5, C.d.S..
Nelle more della fornitura di strumenti precursori in grado di rilevare tassi alcolemici inferiori a 0,5 glI, i controlli etilometrici nei riguardi dei conducenti che appartengono alle categorie di cui all'art. 186-bis, comma 1, C.d.S. saranno effettuati utilizzando gli etilometri in dotazione. Sarà necessario, però, che al termine della prima prova, che rileva e quantifica la presenza di alcol nell'aria espirata, si proceda a successive due prove con il medesimo strumento, secondo le prescrizioni già oggi in vigore per l'impiego dell'etilometro a fini di raccolta della prova.
La conduzione di un veicolo, da parte di uno dei soggetti sopraindindicati, dopo aver ingerito bevande alcoliche in quantità tale da determinare un tasso alcolemico compreso tra 0,0 e 0,5 glI, costituisce illecito amministrativo e comporta l'applicazione della sanzione pecuniaria da Euro 155,00 a Euro 624,00 (art.l86-bis, c.2, C.d.S.). La stessa viene raddoppiata, qualora il conducente abbia provocato un incidente stradale. È ammesso il pagamento in misura ridotta, ai sensi dell'art. 202 C.d.S.; non è prevista l'applicazione di sanzioni amministrative accessorie ed è prevista la decurtazione di 5 punti dalla patente.
Il veicolo condotto da uno dei soggetti sopraindindicati, poiché riscontrati con tasso alcolemico inferiore a 0,5 glI, non viene sottratto alla disponibilità del conducente.
2.2. Rifiuto di sottoporsi agli accertamenti per i conducenti di cui all'articolo 186-bis C.d.S.
 
Quando uno dei soggetti richiamati dall'art. 186-bis C.d.S. rifiuti di effettuare le prove o gli accertamenti sulla persona di cui all' art. 186, commi 3, 4 o 5, C.d.S., è punito con le sanzioni penali di cui all'art. 186, comma 2, letto c), C.d.S. (ammenda da Euro 1.500 a Euro 6.000, arresto da sei mesi ad un anno), aumentate da un terzo alla metà, nonché con la sospensione amministrativa accessoria della patente di guida da sei mesi a due anni e la confisca del veicolo. Diversamente da quanto previsto per tutti gli altri conducenti che rifiutino l'accertamento alcolimetrico (art. 186, c.7, C.d.S.), qualora la confisca non possa essere applicata perché il veicolo appartiene a persona estranea al reato, la durata della sospensione della patente di guida è raddoppiata.
Anche per tale illecito, come previsto per il reato di cui all'art. 186, c.7, C.d.S, il Prefetto, con l'ordinanza con cui applica la sospensione provvisoria della patente ai sensi dell'art.223 C.d.S., dispone l'obbligo per il conducente di sottoporsi a visita medica ai sensi dell'articolo 119, cA, C.d.S. che deve avvenire nel tennine di sessanta giorni, secondo le prescrizioni del comma 8 dell'art. 186 C.d.S.
Il rifiuto di sottoporsi agli accertamenti previsti per i casi di cui all'art.186-bis C.d.S. non detennina la decurtazione di punti dalla patente di guida.
 
2.3. Divieto di conseguire la patente per i conducenti minorenni

Ai conducenti minori di anni diciotto, trovati alla guida di un veicolo dopo aver assunto bevande alcoliche, fenna restando la loro irresponsabilità per gli illeciti amministrativi correlati alla violazione degli artt. 186-bis ed 186 comma 1, lett. a), C.d.S., dei quali rispondono il genitore o il tutore secondo le regole generali dell'articolo 2 della L. 689/1981, è stata prevista l'applicazione di una misura interdittiva del rilascio della patente di guida.
Infatti, l'accertamento dell'assunzione di alcolici comporta, per questi conducenti, un ritardo nel conseguimento della patente di categoria B: il conducente non potrà conseguire la patente prima del compimento del diciannovesimo anno di età, qualora sia stato accertato un tasso alcolemico superiore a 0,0 (zero) e non superiore a 0,5 g/l; il termine si sposta al compimento del ventunesimo anno di età, qualora sia stato accertato un tasso alcolemico superiore a 0,5 g/l.
Per consentire la concreta applicazione, di tale misura l'accertamento definitivo degli illeciti amministrativi o dei reati di cui agli artt.186 e 186bis C.d.S. deve essere segnalato al competente Ufficio del Dipartimento dei Trasporti Terrestri per l'adozione dei provvedimenti conseguenti. La procedura e le modalità di trasmissione di tale segnalazione saranno oggetto di disposizioni operative concordate con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
 
2.4. Novità in tema di guida in stato di ebbrezza (art. 186 C.d. S.)

Con la modifica apportata alla letto a) del comma 2 dell'art. 186 C.d.S., viene depenalizzata la condotta di chi guida con tasso alcolemico superiore a 0,5 glI e non oltre 0,8 glI, prevedendo la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 500 a Euro 2.000, della quale è ammesso il pagamento in misura ridotta ai sensi dell'art.202 C.d.S.
La sanzione amministrativa è aumentata di un terzo se l'illecito è commesso da uno dei soggetti indicati dall'art. 186-bis C.d.S..
All'accertamento della violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi e la decurtazione di lO punti dalla patente.
Sono state, inoltre, inasprite le sanzioni previste per chi guida un veicolo con tasso alcolemico superiore a 0,8 glI. In particolare:

• è aumentato (da tre a sei mesi) il minimo editale della pena, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l;

• è raddoppiato il periodo di fermo amminIstrativo del veicolo, se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale;

• è disposta la revoca della patente di guida quando sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 glI ed il conducente abbia provocato un incidente stradale;

• per i conducenti di cui all'art. 186-bis C.d.S. che hanno provocato incidenti stradali, le pene previste dall'art. 186, comma 2, lett. b) e c) sono aumentate da un terzo alla metà;

• nei confronti dei conducenti di veicoli commerciali di cui alla letto d) dell'art. 186-bis, c.2, C.d.S., è sempre disposta la revoca della patente di guida quando sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l.
 
2.5. Confisca del veicolo in caso di guida in stato di ebbrezza con tasso aIcolemico oltre 1,5 g/l o in caso di rifiuto di accertamenti.

Conformemente alle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.196 del 26.5.20 l 0, la confisca del veicolo prevista per i casi di guida in stato di ebbrezza con tasso alcoolico oltre 1,5 g/l, di cui all'art.186, comma 2, letto c), C.d.S., nonché per il rifiuto di effettuare accertamenti di cui all'art. 186, comma 7, e art. 186-bis, comma 6, C.d.S. non è più qualificata come misura di sicurezza patrimoniale.
Tale circostanza, unitamente all'espresso rinvio alle nuove disposizioni dell'art.224-ter C.d. S., introdotto dall'articolo 44 della L. 120/2010 conseguente alla nuova formulazione dell'art. 186, comma 2, letto c), C.d.S., induce a ritenere che la confisca di cui si parla abbia assunto la natura di sanzione amministrativa accessoria degli illeciti penali sopraindicati.
Di conseguenza, nei casi soprarichiamati, ai fini del sequestro del veicolo, trovano applicazione le procedure di cui all'art.213 C.d.S, in quanto compatibili. Tuttavia, per espressa previsione dell'ultimo periodo del comma l dell'art. 224-ter C.d.S, diversamente da quanto previsto dalle disposizioni dell'art. 213 C.d.S, che consentono l'affidamento della custodia del veicolo sequestrato al trasgressore, gli operatori di polizia che accertano gli illeciti in argomento dovranno sempre provvedere ad affidarlo ad uno dei soggetti di cui all'art. 214-bis C.d.S. (custodi-acquirenti), ovvero, in mancanza, ad uno dei soggetti autorizzati dal Prefetto ad effettuare la custodia amministrativa ai sensi del D.P.R. 571/1982.
Dopo la condanna per i reati sopraindicati, secondo le disposizioni dell'art. 224-ter C.d.S., il veicolo sequestrato è oggetto di confisca con provvedimento del Prefetto.
 
2.6 Applicazione del fermo amministrativo in caso di guida in stato di ebbrezza.

L'art.186, comma 2 bis, C.d.S. prevede che sia disposto il fermo amministrativo del veicolo condotto dal conducente in stato di ebbrezza alcolica che abbia provocato un incidente stradale.
Per effetto delle nuove disposizioni del citato art. 224-ter C.d.S, è stato previsto al momento dell'accertamento dell'illecito possa provvedere all'applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo del veicolo. A tal fine, l'art. 224-ter, stabilisce che l'operatore di polizia stradale provveda a disporre il fermo provvisorio del veicolo per 30 giorni mentre il restante periodo di fermo sarà disposto dal giudice con la sentenza di condanna.
Il fermo amministrativo provvisorio è disposto secondo le procedure dell'art. 214 C.d.S, in quanto compatibili. Tuttavia, anche in questo caso, diversamente da quanto previsto dalle disposizioni dell'art. 214 C.d.S, non potrà essere disposto l'affidamento della custodia del veicolo al trasgressore ma gli operatori di polizia che accertano l'illecito in argomento dovranno sempre provvedere ad affidarlo ad uno dei soggetti di cui all'art. 214-bis C.d.S. (custodi-acquirenti), ovvero, in mancanza, ad uno dei soggetti autorizzati dal Prefetto ad effettuare la custodia amministrativa ai sensi del D.P.R. 571/1982.

3. INTERVENTI IN MATERIA DI GUIDA IN STATO DI ALTERAZIONE PER USO DI STUPEFACENTI
 
Anche in materia di guida in stato di alterazione psico-fisica dopo aver assunto stupefacenti, si registrano numerose novità.
In particolare:
• è aumentato (da tre a sei mesi) il minimo editale della pena prevista per chi guida in stato di alterazione dopo aver assunto stupefacenti;

• è disposta la revoca della patente di guida quando il conducente in stato di alterazione abbia provocato un incidente stradale;

• per i conducenti di cui all'art. 186-bis C.d.S. le pene previste dall'art.187 C.d.S. sono aumentate da un terzo alla metà;

• nei confronti dei conducenti di veicoli commerciali di cui alla letto d) dell'art. 186-bis C.d.S., è sempre disposta la revoca della patente di guida.

3.1 Accertamento dello stato di alterazione dopo aver assunto stupefacenti
Significative novità in materia di accertamenti analitici sono state introdotte con la nuova previsione dell'art. 187, comma 2 bis, C.d.S. per rilevare chi guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti.
La nuova norma ha infatti previsto che, qualora le prove non invasive forniscano esito positivo, ovvero quando si abbia altrimenti ragionevole motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l'effetto conseguente all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, i conducenti, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l'integrità fisica, possono essere sottoposti ad accertamenti clinico-tossico logici e strumentali ovvero analitici su campioni di mucosa del cavo orale ovvero su campioni di fluido del cavo orale prelevati a cura di personale sanitario nominato ausiliario di polizia giudiziaria degli organi di polizia stradale procedenti.
La nuova disposizione sarà operativa solo dopo l'emanazione di un Decreto interministeriale che determini le caratteristiche degli apparecchi per l'analisi dei campioni prelevati, nonché le modalità di effettuazione delle stesse.
Per effetto della completa riformulazione del comma 3 dell'art. 187 C.d.S, qualora non sia possibile effettuare il prelievo a cura del personale sanitario ausiliario, ovvero qualora il conducente rifiuti di sottoporsi a tale prelievo, gli agenti accompagnano il conducente presso strutture sanitarie fisse o mobili afferenti ai suddetti organi di polizia stradale ovvero presso le strutture sanitarie pubbliche o presso quelle accreditate o comunque a tali fini equiparate, per il prelievo di campioni di liquidi biologici ai fini dell' effettuazione degli esami necessari ad accertare la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope.
La nuova previsione, perciò, che ha escluso la necessità di una visita medica correlata al prelievo di liquidi biologici, prevista dalla precedente formulazione della norma, lascia intendere che lo stato di alterazione dopo l'assunzione di sostanze stupefacenti possa essere provato anche solo sulla base dei positivi riscontri analitici di laboratorio sui campioni prelevati.
 
3.2 Confisca del veicolo in caso di guida in stato di alterazione o in caso di rifiuto di accertamenti.
 
Come accade per gli illeciti puniti dall'art. 186 C.d.S. richiamati al punto 2.3. della presente circolare, anche in caso di guida in stato di alterazione dopo aver assunto stupefacenti, ovvero in caso di rifiuto dei relativi accertamenti, la confisca del veicolo appartenente al conducente, che ha commesso gli illeciti indicati, ha assunto la natura di sanzione amministrativa accessoria. Per il relativo sequestro, perciò, trovano applicazione le disposizioni dell'art. 224-ter C.d.S., secondo le modalità di cui al richiamato punto 2.3 della presente.

4. APPLICAZIONE DELL'ART. 219-BIS C.D.S. AI CONDUCENTI DI VEICOLI CHE NON RICHIEDONO LA PATENTE.

L'articolo 43 della L. 120/2010, modificando l'art. 219-bis C.d.S, ha soppresso la previsione contenuta nella precedente formulazione della stessa norma, secondo la quale le misure della sospensione, della revoca o del ritiro della patente nonché la decurtazione di punti, potevano essere applicate al conducente titolare di patente anche quando la violazione da cui le misure discendevano era stata commessa alla guida di un veicolo che non richiede la patente di guida.
Le Prefetture - Uffici Territoriali del Governo sono pregate di voler estendere il contenuto della presente ai Corpi o Servizi di Polizia Municipale e Provinciale.

per IL CAPO DELLA POLIZIA DIRETTORE GENERALE DELLA PUBBLICA SICUREZZA
*****
...omissis...
______________

(1) Si tratta delle modifiche che riguardano gli articoli 97, 126-bis (limitatamente alla decurtazione dei punti per artt. 186, 186-bis e 187), 172, 173, 186, 187, 219 e 219-bis C.d.S. Interessato dall'immediata entrata in vigore è, altresì, la nuova disposizione dell'art. 186-bis C.d.S. (guida in stato di ebbrezza per alcune categorie di conducenti).



martedì 31 agosto 2010

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo: Il modello F24 - istruzioni per la compilazione

a cura di Antonio Gigliotti


 
La Circolare 29/E del 3 Giugno 2010



La Circolare n. 29/E del 3 giugno 2010 dell’Agenzia delle Entrate, da istruzioni per procedere correttamente alla compilazione del modello F24. Nello specifico, vengono date istruzioni per l'indicazione dei dati nei casi particolari di compensazione dell'Iva, come nell'ipotesi di adesione al regime di tassazione di gruppo o in presenza di operazioni straordinarie. Nella circolare vengono inoltre affrontate altre problematiche in merito alle compensazioni, in quanto per accedere alle stesse è fondamentale non compiere errori.






Limiti di compensabilità


Compensazioni “Interne” o “Esterne”


Ai fini del raggiungimento dei limiti di compensabilità di 10.000 e 15.000 euro, (fissati dall'articolo 10 del d. l. n. 78 del 2009), non si computano le compensazioni utilizzate per i versamenti Iva periodici, in acconto e a saldo (compensazioni cc. dd. “interne"). Il quesito che viene posto è se, ai fini del raggiungimento dei predetti limiti di compensabilità, le compensazioni proposte nei seguenti esempi possano esse re considerate "interne" oppure, diversamente, debbano essere considerate "esterne”.
Secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate, ai fini del raggiungimento dei limiti di 10mila e 1 5mila euro non si tiene conto delle compensazioni interne (lo chiarisce anche la circolare n.1/2010) se la loro esposizione nel modello F24 è solo una modalità alternativa per esercitare la detrazione, evidenziabile nella dichiarazione annuale.

Pertanto, rilevano nel computo, le compensazioni in cui il credito utilizzato è relativo a un periodo successivo a quello del debito, per le quali non c'è la possibilità di indicazione nella dichiarazione.


Esempio n. 1


6037 – 2010 a credito (Credito iva II Trimestre)


6001- 2010 a debito versato in ritardo con ravvedimento


- Nell’esempio, il credito relativo al secondo trimestre del 2010 è relativo ad un periodo successivo rispetto al debito periodico riferito al mese di gennaio dello stesso anno.


Esempio n. 2


6036 - 2010 a credito (credito Iva I trimestre)


6099 – 2009 a debito versato in ritardo con ravvedimento


- In questo esempio, il credito relativo al primo trimestre del 2010 è relativo ad un periodo successivo rispetto al debito riferito all'imposta dovuta a saldo per l'anno 2009.


Per tale tipo di compensazioni non esiste la possibilità di esposizione in dichiarazione, pertanto esse devono necessariamente essere eseguite tramite modello F24. Ne consegue che, entrambe, rilevano ai fini del raggiungimento dei limiti di compensabilità di 10.000 e 15.000 euro.


Possibilità di configurare una compensazione interna per il codice 6099.


Compensazione interna


Non concorrerebbe invece al raggiungimento dei predetti limiti l'utilizzo in compensazione, tramite modello F24, del credito annuale relativo al 2009 (codice tributo 6099, anno di riferimento 2009) per il pagamento del saldo annuale relativo all'anno successivo (codice tributo 6099, anno di riferimento 2010).
Tale forma di "detrazione" troverebbe infatti esposizione alternativa nel quadro VL della dichiarazione Iva 2011.

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo: Il modello F24 - istruzioni per la compilazione

a cura di Antonio Gigliotti

 
La Circolare 29/E del 3 Giugno 2010

La Circolare n. 29/E del 3 giugno 2010 dell’Agenzia delle Entrate, da istruzioni per procedere correttamente alla compilazione del modello F24. Nello specifico, vengono date istruzioni per l'indicazione dei dati nei casi particolari di compensazione dell'Iva, come nell'ipotesi di adesione al regime di tassazione di gruppo o in presenza di operazioni straordinarie. Nella circolare vengono inoltre affrontate altre problematiche in merito alle compensazioni, in quanto per accedere alle stesse è fondamentale non compiere errori.



Limiti di compensabilità

Compensazioni “Interne” o “Esterne”

Ai fini del raggiungimento dei limiti di compensabilità di 10.000 e 15.000 euro, (fissati dall'articolo 10 del d. l. n. 78 del 2009), non si computano le compensazioni utilizzate per i versamenti Iva periodici, in acconto e a saldo (compensazioni cc. dd. “interne"). Il quesito che viene posto è se, ai fini del raggiungimento dei predetti limiti di compensabilità, le compensazioni proposte nei seguenti esempi possano esse re considerate "interne" oppure, diversamente, debbano essere considerate "esterne”.
Secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate, ai fini del raggiungimento dei limiti di 10mila e 1 5mila euro non si tiene conto delle compensazioni interne (lo chiarisce anche la circolare n.1/2010) se la loro esposizione nel modello F24 è solo una modalità alternativa per esercitare la detrazione, evidenziabile nella dichiarazione annuale.
Pertanto, rilevano nel computo, le compensazioni in cui il credito utilizzato è relativo a un periodo successivo a quello del debito, per le quali non c'è la possibilità di indicazione nella dichiarazione.

Esempio n. 1

6037 – 2010 a credito (Credito iva II Trimestre)

6001- 2010 a debito versato in ritardo con ravvedimento

- Nell’esempio, il credito relativo al secondo trimestre del 2010 è relativo ad un periodo successivo rispetto al debito periodico riferito al mese di gennaio dello stesso anno.

Esempio n. 2

6036 - 2010 a credito (credito Iva I trimestre)

6099 – 2009 a debito versato in ritardo con ravvedimento

- In questo esempio, il credito relativo al primo trimestre del 2010 è relativo ad un periodo successivo rispetto al debito riferito all'imposta dovuta a saldo per l'anno 2009.

Per tale tipo di compensazioni non esiste la possibilità di esposizione in dichiarazione, pertanto esse devono necessariamente essere eseguite tramite modello F24. Ne consegue che, entrambe, rilevano ai fini del raggiungimento dei limiti di compensabilità di 10.000 e 15.000 euro.

Possibilità di configurare una compensazione interna per il codice 6099.

Compensazione interna

Non concorrerebbe invece al raggiungimento dei predetti limiti l'utilizzo in compensazione, tramite modello F24, del credito annuale relativo al 2009 (codice tributo 6099, anno di riferimento 2009) per il pagamento del saldo annuale relativo all'anno successivo (codice tributo 6099, anno di riferimento 2010).
Tale forma di "detrazione" troverebbe infatti esposizione alternativa nel quadro VL della dichiarazione Iva 2011.

venerdì 30 luglio 2010

Danno allacasalinga: Quantum est??? Dice la Cassazione .....

Cassazione Civile: risarcimento del danno patito dalla casalinga





Richiamando alcune precedenti pronunce, la Cassazione ha elaborato due principi in materia di risarcimento del danno della casalinga:

1) "Il pregiudizio economico che subisce una casalinga menomata nell'espletamento della sua attività in conseguenza di lesioni subite è pecuniariamente valutabile come danno emergente, ex art.1223 cod civ. (richiamato "in parte qua" dal successivo art.2056) e può essere liquidato, pur in via equitativa, anche nell'ipotesi in cui la stessa sia solita avvalersi di collaboratori domestici, perché comunque i suoi compiti risultano di maggiore ampiezza, intensità, responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente" (Cass. Sentenza n. 19387 del 28/09/2004);

2) "Nella liquidazione del danno alla persona, il criterio di determinazione della misura del reddito previsto dall'art. 4 della legge 26 febbraio 1977, n. 39 (triplo della pensione sociale), pur essendo applicabile esclusivamente nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti può essere utilizzato dal giudice, nell'esercizio del suo potere di liquitazione equitativa del danno patrimoniale, conseguente all'invalidità, che è danno diverso da quello biologico, quale generico parametro di riferimento per la valutazione del reddito figurativo della casalinga (Cass. Sentenza n. 15823 del 28/07/2005).


(Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 20 luglio 2010, n.16896: Risarcimento danni)

Danno allacasalinga: Quantum est??? Dice la Cassazione .....

Cassazione Civile: risarcimento del danno patito dalla casalinga


Richiamando alcune precedenti pronunce, la Cassazione ha elaborato due principi in materia di risarcimento del danno della casalinga:
1) "Il pregiudizio economico che subisce una casalinga menomata nell'espletamento della sua attività in conseguenza di lesioni subite è pecuniariamente valutabile come danno emergente, ex art.1223 cod civ. (richiamato "in parte qua" dal successivo art.2056) e può essere liquidato, pur in via equitativa, anche nell'ipotesi in cui la stessa sia solita avvalersi di collaboratori domestici, perché comunque i suoi compiti risultano di maggiore ampiezza, intensità, responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente" (Cass. Sentenza n. 19387 del 28/09/2004);
2) "Nella liquidazione del danno alla persona, il criterio di determinazione della misura del reddito previsto dall'art. 4 della legge 26 febbraio 1977, n. 39 (triplo della pensione sociale), pur essendo applicabile esclusivamente nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti può essere utilizzato dal giudice, nell'esercizio del suo potere di liquitazione equitativa del danno patrimoniale, conseguente all'invalidità, che è danno diverso da quello biologico, quale generico parametro di riferimento per la valutazione del reddito figurativo della casalinga (Cass. Sentenza n. 15823 del 28/07/2005).

(Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 20 luglio 2010, n.16896: Risarcimento danni)

venerdì 23 luglio 2010

RIORDINO PROCESSO AMMINISTRATIVO
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 156 del 7.7.2010 –supplemento ordinario n. 148- il Decreto Legislativo 2 luglio 2010 n. 104 avente ad oggetto il riordino delle norme sul processo amministrativo. Il testo ufficiale e completo è qui disponibile:
RIORDINO PROCESSO AMMINISTRATIVO
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 156 del 7.7.2010 –supplemento ordinario n. 148- il Decreto Legislativo 2 luglio 2010 n. 104 avente ad oggetto il riordino delle norme sul processo amministrativo. Il testo ufficiale e completo è qui disponibile:

mercoledì 21 luglio 2010

La mediazione familiare alla luce del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28


Articolo di Rossana Novati
di Rossana Novati


Questo contributo costituisce un tentativo di verificare se e in quale misura la mediazione di cui al Decreto Legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, possa trovare applicazione in tema di diritto di famiglia, e con quali conseguenze.




Sommario: 1. La cornice normativa - 2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio - 3. Conseguenze - 4. L’obbligo di informativa di cui all’art. 4 comma 3 del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.


1. La cornice normativa


1.1. Il libro verde europeo della mediazione
Nel 2002 la Commissione Europea pubblicava il “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale”.
Con il “Libro verde” la Commissione si prefiggeva lo scopo di rispondere al mandato politico del Consiglio di: “fare il punto della situazione esistente e per lanciare un'ampia consultazione ai fini della preparazione delle misure concrete“.[1]
Alla nota 4 del paragrafo 1.1 del Libro verde, si legge:
[4] Sono escluse dall'ambito di applicazione del presente Libro verde le questioni relative ai diritti indisponibili e che interessano l'ordine pubblico, quali un certo numero di disposizioni del diritto delle persone e di famiglia, del diritto della concorrenza, del diritto del consumo, che in effetti non possono costituire oggetto di ADR.
Tale previsione sottolinea da subito come l’ADR in tema di diritto di famiglia debba necessariamente limitarsi a quelle questioni che rientrino nella libera disponibilità delle parti. Ma la previsione indica anche che il legislatore non ritiene affatto inapplicabile l’ADR ai conflitti familiari, ne circoscrive solamente l’operatività.
A conferma di tale osservazione il “Libro verde” contiene il paragrafo 2.2.2 , intitolato “Sfruttare le iniziative prese nel campo del diritto di famiglia” ove a più riprese si insiste sulla promozione dell’ADR in materia familiare. Possiamo concludere affermando che il Libro Verde consideri la mediazione familiare come una species del genus mediazione, comunque ricompresa nella “categoria” delle ADR.
1.2. Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale
Raccolte ed esaminate le osservazioni degli Stati membri il Parlamento europeo e il Consiglio emanavano la Direttiva 2008/52/CE.
Al punto 10 delle premesse della direttiva in esame si legge:
“La presente direttiva dovrebbe applicarsi (omissis) in materia civile e commerciale, ma non ai diritti e agli obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile. Tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia e del lavoro.”
Di nuovo la norma lascia uno spazio di ambiguità e cautela ove, da un lato riconosce che siano frequenti nel diritto di famiglia diritti e obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole, dall’altro lato non si spinge a raccomandare che la direttiva non venga applicata alla materia del diritto di famiglia.
1.3. Art. 60, Legge 18 giugno 2009, n. 69 - Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile.
L’Italia recepiva la direttiva europea con l’emanazione dell’art .60 della Legge 18.6.2009, n. 69, con il quale conferiva al Governo la Delega in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali. In detto articolo nessun riferimento veniva fatto alla mediazione nel diritto di famiglia, né nel senso dell’esclusione di esso dalla disciplina, né nel senso di un’eventuale inclusione per gli aspetti relativi ai diritti disponibili. La norma si limitava a disporre che nell’esercizio della delega il Governo si attenesse al seguente principio:
“che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;”
1.4. Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28. Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Come ultimo atto normativo in data 4 marzo 2010 viene pubblicata la legge che istituisce la mediazione per le controversie civili e commerciali.
Innanzitutto la legge, all’art.1, fornisce la definizione della mediazione come segue:
“mediazione: l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa;”
Non è questa la sede ove soffermarsi criticamente sull’enfasi data dalla definizione alla “formulazione di una proposta”, che, a detta di tutti gli operatori di diritto e ancor più degli operatori della mediazione, costituisce il punto dolente dell’intera normativa, e rischia di snaturare l’istituto.
Va solo notato, ai fini di questa breve analisi, che la scelta operata dal legislatore per la definizione della mediazione non appare in alcun modo essere incompatibile con la mediazione familiare.
La portata generale della definizione viene consolidata dall’art. 2 della Legge stessa, che, nel definire le controversie oggetto di mediazione, recita:
“Chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, secondo le disposizioni del presente decreto”.
Ed ecco che il solo limite posto dal legislatore alle materie che possono essere oggetto di mediazione é quello dei diritti indisponibili. Peraltro diversamente non avrebbe potuto essere, e non solo in tema di diritto di famiglia
Ma il legislatore Italiano si é spinto ben oltre, identificando una sere di materie per le quali entrerà in vigore (con decorrenza dal marzo 2011) l’obbligo di esperire il procedimento di mediazione, quale condizione di procedibilità della relativa domanda giudiziale.
Tra le materie oggetto dell’obbligo troviamo le successioni ereditarie e i patti di famiglia. Si ritiene di sottolineare queste due specifiche materie, poiché esse sono sempre e necessariamente in correlazione diremmo ontologica con le relazioni familiari.
Ma ancor più attenta riflessione merita il fatto che il legislatore abbia incluso, nelle materie per le quali l’esperimento del procedimento di mediazione sarà obbligatorio, la divisione.
Nel corso del procedimento di separazione e divorzio raramente l’avvocato o il mediatore familiare non si trovano ad affrontare il tema della divisione dei beni, coincidendo la separazione con lo scioglimento della comunione legale, o comunque coincidendo con essa l’opportunità o la volontà dei coniugi di sciogliere la comunione ordinaria. Si pensi al caso frequentissimo ove i coniugi abbiano acquistato insieme la casa coniugale in comunione ordinaria, o che l’acquisto sia caduto ex lege in comunione legale.
Dobbiamo concludere, sic stantibus rebus, che accanto a una separazione o divorzio giudiziali (frequentemente non preceduti da esperimento di mediazione familiare) quei coniugi, che, da soli o con l’assistenza dei legali, non saranno riusciti a trovare accordi per la separazione o il divorzio consensuali, dovranno da un lato sottoporre al Giudice ogni decisione relativa all’affidamento, collocamento e mantenimento della prole, al mantenimento del coniuge e all’assegnazione della casa coniugale, ma dovranno poi necessariamente incontrarsi nella stanza della mediazione, per procedere alla sola divisione dei beni comuni, con tutto il carico simbolico che detti beni portano con sé.
Le implicazioni teoriche e pratiche della suddetta constatazione sono molte e complesse, e non vi è in questo breve intervento lo spazio per approfondirle.
2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio
Dalle considerazioni di cui sopra dobbiamo necessariamente concludere che ai sensi del D.Lgs. n. 28 oggetto di possibile mediazione civile nell’ambito del diritto di famiglia possano essere tutti i diritti disponibili connessi al procedimento di separazione e di divorzio. Se proviamo a enucleare quali siano i diritti disponibili in gioco non possiamo non prendere nota del fatto che la giurisprudenza, con orientamento ormai consolidato, riconosca una negoziabilità molto estesa alle vicende familiari e di conseguenza a quelle separative o divorziali.
Citiamo in proposito alcuni passi della Sentenza 5.11.99 della Corte di Appello di Bari (pres. Dini Ciacci, cons. est. Carone, cons. Santoro)[2], al cui testo integrale si rinvia, che ha il pregio di aver ricostruito con accuratezza l’iter giurisprudenziale della Suprema Corte sul punto dell’autonomia negoziale dei coniugi in materia di separazione e divorzio:
“Negoziabilità che si esprime anche nella separazione consensuale, sicché l’apice del procedimento va collocato nell'accordo dei coniugi, mentre l'omologazione è semplicemente uno strumento di controllo di tipo garantistico, diretto, da un lato, a salvaguardare gli interessi non disponibili delle parti, dall'altro, a tutelare gli interessi dei figli minori.”
Del resto anche le altre modifiche inerenti il regime della separazione dimostrano come il mutato clima sociale avesse indotto il legislatore ad esaltare la volontà dei coniugi, prima subordinata al concetto di superiore interesse della famiglia e della società.
Queste modifiche, nel loro complesso, evidenziano il maggior riconoscimento e l'accresciuta valorizzazione dell’autonomia negoziale dei coniugi in tema di separazione, derivanti dall'introduzione di un nuovo modello di famiglia costituito da una comunità di eguali. Ne consegue il potenziamento dell'accordo dei coniugi, nel segno della privatizzazione del diritto di famiglia e del superamento delle precedenti concezioni pubblicistiche e autoritarie, nelle quali veniva sacrificato il momento consensuale a vantaggio di valori super-indíviduali o di interessi superiori.”
Da quanto sopra consegue che, alla luce della vigente normativa, i coniugi in occasione della separazione possono esperire la mediazione, secondo la disciplina della nuova normativa, in temi quali l’assegnazione della casa coniugale, l’ammontare dei contributi al mantenimento, la collocazione dei figli, il tempo che i figli trascorreranno con i genitori, e in generale tutte quelle vicende che vedono normalmente impegnato il mediatore familiare e l’avvocato.
Certo l’accordo frutto della mediazione dovrà poi essere sottoposto al vaglio dell’Omologazione da parte del Tribunale, né più né meno di come accade oggi, quando l’accordo trovato dai coniugi viene formalizzato in un ricorso per la separazione consensuale.


3. Conseguenze
3.1. La mediazione familiare negli istituendi organismi di mediazione?
La proposta interpretazione della norma, sulla quale un dibattito pare urgente e auspicabile, reca con sé conseguenze pratiche e giuridiche di portata considerevole, alle quali qui ci si limita ad accennare.
La mancanza di una legislazione che definisca in Italia la figura del mediatore familiare, e che gli riservi la trattazione della delicata materia, implica oggi, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 28/10, un potenziale giuridico di notevole pericolosità.
La collocazione della mediazione familiare nel più vasto ambito della mediazione civile porta con sé come conseguenza minima e positiva quella di estendere ai coniugi i benefici fiscali di cui all’art. 20 del D.Lgs. 28/10, benefici ai quali i coniugi, altrimenti, non potrebbero accedere.
In coerenza con la lettura offerta delle norme, non ci si dovrà quindi stupire se negli istituendi Organismi di mediazione di cui all’art. 16 del D.Lgs. 28/10 si assisterà alla creazione e alla promozione di sezioni specializzate in mediazione familiare, o se, ancora, si creeranno Organismi specializzati nella mediazione familiare.
Tuttavia in tal modo, ove non intervengano opportuni correttivi da parte del legislatore, la mediazione familiare correrà anche il rischio di essere trattata da mediatori privi della necessaria formazione, visto che la formazione del mediatore civile e commerciale non avrà affatto i requisiti minimi di cui agli standard europei[3] per la formazione del mediatore familiare, ai quali si conformano i più seri corsi di formazione disponibili oggi in Italia.
Sul punto il Ministero della Giustizia dovrà pronunciarsi a mezzo degli emanandi decreti di cui all’art.16 del D.Lgs. 28/10.
4. L’obbligo di informativa di cui all’art.4 comma 3 del D. L.vo 4 marzo 2010, n. 28
L’art.4 del D.Lgs. n. 28/10 recita:
3. All'atto del conferimento dell'incarico, l'avvocato e' tenuto a informare l'assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L'avvocato informa altresì l'assistito dei casi in cui l'esperimento del procedimento di mediazione e' condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l'avvocato e l'assistito e' annullabile. Il documento che contiene l'informazione e' sottoscritto dall'assistito e deve essere allegato all'atto introduttivo dell'eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell'articolo 5, comma 1, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Date le articolate premesse non pare a chi scrive che possa escludersi che l’obbligo di informativa, già in vigore da marzo 2010, riguardi anche i procedimenti di separazione e divorzio giudiziali. Di conseguenza, laddove a tale obbligo l’avvocato non abbia adempiuto, non pare possa conseguentemente escludersi che il Giudice sia tenuto a informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Sul punto, e in senso contrario, si segnala l’Ordinanza del Tribunale di Varese 3/6 aprile 2010 (Pres. Paganini - Rel. Buffone)[4].
Si riporta un passo della citata Ordinanza, con la quale si esclude la necessità dell’informativa:
“Un’ulteriore conferma dell’esclusione qui sostenuta è esplicita nella direttiva europea già citata (n. 52 del 21 maggio 2008), relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale (che attrae le controversie transfrontaliere): il decimo considerando della suddetta direttiva, espressamente prevede che essa non trovi applicazione riguardo “ai diritti ed agli obblighi su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile; tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia”.
Detta interpretazione, a parere di chi scrive, opera una forzatura interpretativa, poiché se é vero che la Direttiva esaminata sottolinea il fatto che nella materia disciplinata dal diritto di famiglia siano frequenti i diritti e gli obblighi “su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole”, (i c.d. diritti indisponibili), non dice affatto che in tali materie la mediazione non possa trovare applicazione. Per ulteriori argomentazioni si rivedano i paragrafi 1 e 2 del presente contributo.
________________
[1] tratto da: “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile commerciale” (www.eur-lex.europa.eu).
[3] Standard del European Forum Training and Research in Family Mediation.
[4] cfr. Mediazione civile: no all'obbligo di informativa in materia di persone e famiglia di Adriana Capozzoli.










La mediazione familiare alla luce del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28

Articolo di Rossana Novati
di Rossana Novati

Questo contributo costituisce un tentativo di verificare se e in quale misura la mediazione di cui al Decreto Legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, possa trovare applicazione in tema di diritto di famiglia, e con quali conseguenze.


Sommario: 1. La cornice normativa - 2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio - 3. Conseguenze - 4. L’obbligo di informativa di cui all’art. 4 comma 3 del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

1. La cornice normativa

1.1. Il libro verde europeo della mediazione
Nel 2002 la Commissione Europea pubblicava il “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale”.
Con il “Libro verde” la Commissione si prefiggeva lo scopo di rispondere al mandato politico del Consiglio di: “fare il punto della situazione esistente e per lanciare un'ampia consultazione ai fini della preparazione delle misure concrete“.[1]
Alla nota 4 del paragrafo 1.1 del Libro verde, si legge:
[4] Sono escluse dall'ambito di applicazione del presente Libro verde le questioni relative ai diritti indisponibili e che interessano l'ordine pubblico, quali un certo numero di disposizioni del diritto delle persone e di famiglia, del diritto della concorrenza, del diritto del consumo, che in effetti non possono costituire oggetto di ADR.
Tale previsione sottolinea da subito come l’ADR in tema di diritto di famiglia debba necessariamente limitarsi a quelle questioni che rientrino nella libera disponibilità delle parti. Ma la previsione indica anche che il legislatore non ritiene affatto inapplicabile l’ADR ai conflitti familiari, ne circoscrive solamente l’operatività.
A conferma di tale osservazione il “Libro verde” contiene il paragrafo 2.2.2 , intitolato “Sfruttare le iniziative prese nel campo del diritto di famiglia” ove a più riprese si insiste sulla promozione dell’ADR in materia familiare. Possiamo concludere affermando che il Libro Verde consideri la mediazione familiare come una species del genus mediazione, comunque ricompresa nella “categoria” delle ADR.
1.2. Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale
Raccolte ed esaminate le osservazioni degli Stati membri il Parlamento europeo e il Consiglio emanavano la Direttiva 2008/52/CE.
Al punto 10 delle premesse della direttiva in esame si legge:
“La presente direttiva dovrebbe applicarsi (omissis) in materia civile e commerciale, ma non ai diritti e agli obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile. Tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia e del lavoro.”
Di nuovo la norma lascia uno spazio di ambiguità e cautela ove, da un lato riconosce che siano frequenti nel diritto di famiglia diritti e obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole, dall’altro lato non si spinge a raccomandare che la direttiva non venga applicata alla materia del diritto di famiglia.
1.3. Art. 60, Legge 18 giugno 2009, n. 69 - Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile.
L’Italia recepiva la direttiva europea con l’emanazione dell’art .60 della Legge 18.6.2009, n. 69, con il quale conferiva al Governo la Delega in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali. In detto articolo nessun riferimento veniva fatto alla mediazione nel diritto di famiglia, né nel senso dell’esclusione di esso dalla disciplina, né nel senso di un’eventuale inclusione per gli aspetti relativi ai diritti disponibili. La norma si limitava a disporre che nell’esercizio della delega il Governo si attenesse al seguente principio:
“che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;”
1.4. Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28. Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Come ultimo atto normativo in data 4 marzo 2010 viene pubblicata la legge che istituisce la mediazione per le controversie civili e commerciali.
Innanzitutto la legge, all’art.1, fornisce la definizione della mediazione come segue:
“mediazione: l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa;”
Non è questa la sede ove soffermarsi criticamente sull’enfasi data dalla definizione alla “formulazione di una proposta”, che, a detta di tutti gli operatori di diritto e ancor più degli operatori della mediazione, costituisce il punto dolente dell’intera normativa, e rischia di snaturare l’istituto.
Va solo notato, ai fini di questa breve analisi, che la scelta operata dal legislatore per la definizione della mediazione non appare in alcun modo essere incompatibile con la mediazione familiare.
La portata generale della definizione viene consolidata dall’art. 2 della Legge stessa, che, nel definire le controversie oggetto di mediazione, recita:
“Chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, secondo le disposizioni del presente decreto”.
Ed ecco che il solo limite posto dal legislatore alle materie che possono essere oggetto di mediazione é quello dei diritti indisponibili. Peraltro diversamente non avrebbe potuto essere, e non solo in tema di diritto di famiglia
Ma il legislatore Italiano si é spinto ben oltre, identificando una sere di materie per le quali entrerà in vigore (con decorrenza dal marzo 2011) l’obbligo di esperire il procedimento di mediazione, quale condizione di procedibilità della relativa domanda giudiziale.
Tra le materie oggetto dell’obbligo troviamo le successioni ereditarie e i patti di famiglia. Si ritiene di sottolineare queste due specifiche materie, poiché esse sono sempre e necessariamente in correlazione diremmo ontologica con le relazioni familiari.
Ma ancor più attenta riflessione merita il fatto che il legislatore abbia incluso, nelle materie per le quali l’esperimento del procedimento di mediazione sarà obbligatorio, la divisione.
Nel corso del procedimento di separazione e divorzio raramente l’avvocato o il mediatore familiare non si trovano ad affrontare il tema della divisione dei beni, coincidendo la separazione con lo scioglimento della comunione legale, o comunque coincidendo con essa l’opportunità o la volontà dei coniugi di sciogliere la comunione ordinaria. Si pensi al caso frequentissimo ove i coniugi abbiano acquistato insieme la casa coniugale in comunione ordinaria, o che l’acquisto sia caduto ex lege in comunione legale.
Dobbiamo concludere, sic stantibus rebus, che accanto a una separazione o divorzio giudiziali (frequentemente non preceduti da esperimento di mediazione familiare) quei coniugi, che, da soli o con l’assistenza dei legali, non saranno riusciti a trovare accordi per la separazione o il divorzio consensuali, dovranno da un lato sottoporre al Giudice ogni decisione relativa all’affidamento, collocamento e mantenimento della prole, al mantenimento del coniuge e all’assegnazione della casa coniugale, ma dovranno poi necessariamente incontrarsi nella stanza della mediazione, per procedere alla sola divisione dei beni comuni, con tutto il carico simbolico che detti beni portano con sé.
Le implicazioni teoriche e pratiche della suddetta constatazione sono molte e complesse, e non vi è in questo breve intervento lo spazio per approfondirle.
2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio
Dalle considerazioni di cui sopra dobbiamo necessariamente concludere che ai sensi del D.Lgs. n. 28 oggetto di possibile mediazione civile nell’ambito del diritto di famiglia possano essere tutti i diritti disponibili connessi al procedimento di separazione e di divorzio. Se proviamo a enucleare quali siano i diritti disponibili in gioco non possiamo non prendere nota del fatto che la giurisprudenza, con orientamento ormai consolidato, riconosca una negoziabilità molto estesa alle vicende familiari e di conseguenza a quelle separative o divorziali.
Citiamo in proposito alcuni passi della Sentenza 5.11.99 della Corte di Appello di Bari (pres. Dini Ciacci, cons. est. Carone, cons. Santoro)[2], al cui testo integrale si rinvia, che ha il pregio di aver ricostruito con accuratezza l’iter giurisprudenziale della Suprema Corte sul punto dell’autonomia negoziale dei coniugi in materia di separazione e divorzio:
“Negoziabilità che si esprime anche nella separazione consensuale, sicché l’apice del procedimento va collocato nell'accordo dei coniugi, mentre l'omologazione è semplicemente uno strumento di controllo di tipo garantistico, diretto, da un lato, a salvaguardare gli interessi non disponibili delle parti, dall'altro, a tutelare gli interessi dei figli minori.”
Del resto anche le altre modifiche inerenti il regime della separazione dimostrano come il mutato clima sociale avesse indotto il legislatore ad esaltare la volontà dei coniugi, prima subordinata al concetto di superiore interesse della famiglia e della società.
Queste modifiche, nel loro complesso, evidenziano il maggior riconoscimento e l'accresciuta valorizzazione dell’autonomia negoziale dei coniugi in tema di separazione, derivanti dall'introduzione di un nuovo modello di famiglia costituito da una comunità di eguali. Ne consegue il potenziamento dell'accordo dei coniugi, nel segno della privatizzazione del diritto di famiglia e del superamento delle precedenti concezioni pubblicistiche e autoritarie, nelle quali veniva sacrificato il momento consensuale a vantaggio di valori super-indíviduali o di interessi superiori.”
Da quanto sopra consegue che, alla luce della vigente normativa, i coniugi in occasione della separazione possono esperire la mediazione, secondo la disciplina della nuova normativa, in temi quali l’assegnazione della casa coniugale, l’ammontare dei contributi al mantenimento, la collocazione dei figli, il tempo che i figli trascorreranno con i genitori, e in generale tutte quelle vicende che vedono normalmente impegnato il mediatore familiare e l’avvocato.
Certo l’accordo frutto della mediazione dovrà poi essere sottoposto al vaglio dell’Omologazione da parte del Tribunale, né più né meno di come accade oggi, quando l’accordo trovato dai coniugi viene formalizzato in un ricorso per la separazione consensuale.

3. Conseguenze
3.1. La mediazione familiare negli istituendi organismi di mediazione?
La proposta interpretazione della norma, sulla quale un dibattito pare urgente e auspicabile, reca con sé conseguenze pratiche e giuridiche di portata considerevole, alle quali qui ci si limita ad accennare.
La mancanza di una legislazione che definisca in Italia la figura del mediatore familiare, e che gli riservi la trattazione della delicata materia, implica oggi, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 28/10, un potenziale giuridico di notevole pericolosità.
La collocazione della mediazione familiare nel più vasto ambito della mediazione civile porta con sé come conseguenza minima e positiva quella di estendere ai coniugi i benefici fiscali di cui all’art. 20 del D.Lgs. 28/10, benefici ai quali i coniugi, altrimenti, non potrebbero accedere.
In coerenza con la lettura offerta delle norme, non ci si dovrà quindi stupire se negli istituendi Organismi di mediazione di cui all’art. 16 del D.Lgs. 28/10 si assisterà alla creazione e alla promozione di sezioni specializzate in mediazione familiare, o se, ancora, si creeranno Organismi specializzati nella mediazione familiare.
Tuttavia in tal modo, ove non intervengano opportuni correttivi da parte del legislatore, la mediazione familiare correrà anche il rischio di essere trattata da mediatori privi della necessaria formazione, visto che la formazione del mediatore civile e commerciale non avrà affatto i requisiti minimi di cui agli standard europei[3] per la formazione del mediatore familiare, ai quali si conformano i più seri corsi di formazione disponibili oggi in Italia.
Sul punto il Ministero della Giustizia dovrà pronunciarsi a mezzo degli emanandi decreti di cui all’art.16 del D.Lgs. 28/10.
4. L’obbligo di informativa di cui all’art.4 comma 3 del D. L.vo 4 marzo 2010, n. 28
L’art.4 del D.Lgs. n. 28/10 recita:
3. All'atto del conferimento dell'incarico, l'avvocato e' tenuto a informare l'assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L'avvocato informa altresì l'assistito dei casi in cui l'esperimento del procedimento di mediazione e' condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l'avvocato e l'assistito e' annullabile. Il documento che contiene l'informazione e' sottoscritto dall'assistito e deve essere allegato all'atto introduttivo dell'eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell'articolo 5, comma 1, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Date le articolate premesse non pare a chi scrive che possa escludersi che l’obbligo di informativa, già in vigore da marzo 2010, riguardi anche i procedimenti di separazione e divorzio giudiziali. Di conseguenza, laddove a tale obbligo l’avvocato non abbia adempiuto, non pare possa conseguentemente escludersi che il Giudice sia tenuto a informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Sul punto, e in senso contrario, si segnala l’Ordinanza del Tribunale di Varese 3/6 aprile 2010 (Pres. Paganini - Rel. Buffone)[4].
Si riporta un passo della citata Ordinanza, con la quale si esclude la necessità dell’informativa:
“Un’ulteriore conferma dell’esclusione qui sostenuta è esplicita nella direttiva europea già citata (n. 52 del 21 maggio 2008), relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale (che attrae le controversie transfrontaliere): il decimo considerando della suddetta direttiva, espressamente prevede che essa non trovi applicazione riguardo “ai diritti ed agli obblighi su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile; tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia”.
Detta interpretazione, a parere di chi scrive, opera una forzatura interpretativa, poiché se é vero che la Direttiva esaminata sottolinea il fatto che nella materia disciplinata dal diritto di famiglia siano frequenti i diritti e gli obblighi “su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole”, (i c.d. diritti indisponibili), non dice affatto che in tali materie la mediazione non possa trovare applicazione. Per ulteriori argomentazioni si rivedano i paragrafi 1 e 2 del presente contributo.
________________
[1] tratto da: “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile commerciale” (www.eur-lex.europa.eu).
[3] Standard del European Forum Training and Research in Family Mediation.
[4] cfr. Mediazione civile: no all'obbligo di informativa in materia di persone e famiglia di Adriana Capozzoli.





L’art. 151 disp. att. c.p.c. e la riunibilità delle “cause seriali”


Articolo di Cataldo Bevacqua 19.01.2010 
Cataldo Bevacqua
L’art. 151 disp. att. c.p.c. e la riunibilità delle "cause seriali"
di Cataldo Bevacqua
In base all’art. 151 disp. att. c.p.c., per come novellato dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, “la riunione, ai sensi dell'articolo 274 del codice, dei procedimenti relativi a controversie in materia di lavoro e di previdenza e di assistenza e a controversie dinanzi al giudice di pace, connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione, deve essere sempre disposta dal giudice, tranne nelle ipotesi che essa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo. In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e motivate ragioni, è, comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello. Le competenze e gli onorari saranno ridotti in considerazione dell'unitaria trattazione delle controversie riunite”.
La Relazione allo schema del Decreto Legislativo su citato, il quale ha modificato il primo comma dell’articolo in esame, ci offre un interessante indirizzo interpretativo della novellata disposizione codicistica.
“E’ prevista”, afferma la Relazione,” la modifica dell'art. 151, modifica finalizzata ad estendere alle controversie davanti al giudice di pace la previsione che impone oggi al giudice, nelle controversie in materia di lavoro, di previdenza e di assistenza, la riunione dei procedimenti aventi carattere seriale o comunque connessi anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende la decisione”.
”Anche questa innovazione”, continua la Relazione “ha dunque come obiettivo quello di preservare la funzione nomofilattica, nel senso di contenere quantitativamente l'accesso alla Corte. Detta soluzione, sperimentata efficacemente nel processo del lavoro, oltre ad evitare, anche per le cause promosse davanti al giudice di pace, la spesso fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti, consentirà infatti la proposizione di un più ridotto numero di ricorsi per cassazione”.
”L'intervento sull'art. 151 disp. att. c.p.c.”, conclude la Relazione, “è poi completato con altre due nuove previsioni: l'una rende più cogente l'obbligo di riunione, prevedendo che la facoltà del giudice di non disporre la riunione quando essa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo, non possa essere esercitata, salve gravi e motivate ragioni, quando le controversie da riunire si trovino nella medesima fase processuale; l'altra, che estende l'obbligo di riunione al giudizio d'appello”.
La finalità sottesa all’intervento legislativo è, quindi, duplice: contenere “la fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti”, “anche per le cause promosse davanti al giudice di pace”; preservare la funzione nomofilattica della Suprema Corte, limitando numericamente le possibilità di ricorrere in Cassazione.
Al fine di rendere particolarmente penetrante l’obbligo di riunire i procedimenti connessi, il legislatore, inoltre, prevede innovativamente che il giudice di pace (come anche il giudice del lavoro) possa denegare la riunione dei procedimenti seriali che si trovino nella stessa fase processuale solo ove sussistano “gravi e motivate ragioni”, a differenza di quanto avveniva durante la previgente normativa, allorquando (e soltanto per i procedimenti instaurati dinanzi al Tribunale del lavoro) al giudice era offerta la possibilità di non disporre la riunione in tutti quei casi la stessa rendesse troppo gravoso o comunque ritardasse eccessivamente il processo.
Non solo. In base alla novella l’obbligo di riunione è esteso anche al giudizio di appello, di talchè il giudice del gravame, ove si presentino al suo cospetto più cause connesse anche soltanto per identità delle questioni da risolvere preventivamente, è tenuto a disporne la riunione, secondo le condizioni e i limiti, già esaminati, imposti ai giudici di pace ed ai tribunali del lavoro.
Un particolare profilo di interesse per le parti è rappresentato dall’altro precetto contenuto nel citato art. 151 disp. att. c.p.c. (oggi, a seguito della novella, applicabile anche ai giudizi seriali incardinati dinanzi al giudice di pace) secondo il quale, in caso di riunione, le competenze e gli onorari sono ridotti in considerazione dell’unitaria trattazione delle cause. Quindi, mentre - ove i diversi procedimenti restino separati - la parte soccombente va condannata al rimborso delle spese processuali calcolate per intero per ciascuna causa, a seguito della riunione la stessa parte è condannata al pagamento di spese processuali per un ammontare ridotto rispetto a quella che sarebbe la somma delle singole liquidazioni per ogni singola controversia, con un evidente risparmio dei costi.
L’art. 151 disp. att. c.p.c. va necessariamente coordinato con l’art. 274 c.p.c., al quale rimanda.
In base alla generale regola dettata dall’art. 274 c.p.c., se più procedimenti connessi pendono dinanzi allo stesso giudice questi, anche d’ufficio, può disporne la riunione; nel caso in cui, poi, cause connesse pendano davanti a giudici diversi appartenenti allo stesso ufficio giudiziario, il dirigente dell’ufficio - debitamente notiziato -, sentite le parti, può ordinare con decreto che le cause siano chiamate davanti allo stesso giudice per i provvedimenti opportuni (che oggi, quanto meno per i giudizi cd. seriali incardinati dinanzi al giudice di pace ed al giudice del lavoro, non possono che essere rappresentati obbligatoriamente da ordinanze riunitive, tranne che, nell’ipotesi in cui i diversi procedimenti non si situino nella stessa fase processuale, la riunione renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo, oppure ancora, nel caso in cui i procedimenti si trovino nella medesima fase processuale, vi siano gravi e motivate ragioni che ostino all’emanazione di un provvedimento teso a disporne la riunione).
Appare interessante, in subiecta materia, leggere quanto è scritto nella relazione “Le verifiche e i controlli preliminari della fase introduttiva”, a firma Mauro Criscuolo, presentata in occasione dell’incontro di studi “ Il punto sul rito civile” , organizzato dal C.S.M., Nona Commissione - Tirocinio e Formazione Professionale: “Occorre oggi fare i conti con il novellato art. 151 disp. att. c.p.c., così come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006… E’ evidente che la norma impone la riunione anche in appello degli appelli avverso le sentenze del giudice di pace aventi ad oggetto questioni seriali (si pensi ad esempio al contenzioso in tema di diritto al compenso in favore dei messi comunali per la consegna dei certificati elettorali, ovvero al rimborso dei premi assicurativi, o ancora alla determinazione dell’aliquota IVA per il consumo di gas destinato ad uso promiscuo). Occorre chiedersi se, soprattutto nel caso di contenzioso che veda introdotte cause in numero rilevante, per la riunione occorra avere riguardo alle cause pendenti innanzi ad un singolo giudice ovvero all’ufficio giudiziario nel suo complesso, in quanto sebbene la norma sembri deporre in quest’ultimo senso, ciò potrebbe determinare dei seri problemi circa l’effettiva gestione di una sorta di maxi-processo”.
Un serio ostacolo ad una efficace applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo art. 151 disp. att. c.p.c., è costituito dal fatto che la normativa non prevede (analogamente a quanto succedeva sotto la vigenza del previgente art. 151 disp. att.) sanzioni di nullità processuale degli atti successivi in caso di mancata riunione.
Sul punto, bisogna rifarsi alla costante giurisprudenza in subiecta materia, vigente la vecchia formulazione dell’art. 151 disp. att. c.p.c..
Cassazione civile, sez. lav., sentenza 21 dicembre 2001, n. 16152 così sentenzia: “La mancata riunione di cause in materia di lavoro o previdenza o assistenza obbligatorie connesse anche soltanto per identità delle questioni, a norma dell'art. 151 disp. att. c.p.c., non e' deducibile di per sé in cassazione sia perché la mancata osservanza della disposizione non è prevista dalla legge come causa di nullità processuale estesa agli atti successivi, sia perché la decisione relativa alla riunione implica valutazioni discrezionali relativamente alla prevista esclusione dell'obbligo di riunione nell'ipotesi in cui questa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo (che, come tale, non richiede espressa e specifica motivazione). D'altra parte va considerato che le finalità cui e' diretta la citata norma - di economia processuale e di uniformità delle decisioni relative a casi identici - possono utilmente essere perseguite anche attraverso la trattazione di più cause riunibili nella medesima udienza e davanti allo stesso giudice, verificandosi in tale evenienza una situazione sostanzialmente assimilabile a quella del simultaneus processus in senso tecnico”.
Vi è, però, che oggi, grazie alla novella legislativa, è radicalmente cambiata la ratio legis sottesa alla disciplina in materia di riunione di procedimenti connessi.
Uno degli obiettivi prioritari cui è indirizzata la normativa ex art. 151 disp. att. c.p.c., appare essere ictu oculi il contenimento del ricorso alle cause seriali, obiettivo che il legislatore vuole pre-posto anche alle esigenze di celerità e di economia processuale.
Suffragano tale interpretazione il riferimento, contenuto nella citata Relazione illustrativa, alla “fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti”, chiaramente evocativo del fenomeno delle cause seriali, ed il fatto che, nell’attuale disciplina, il giudice deve necessariamente disporre la riunione, ove i procedimenti si trovino nella medesima fase processuale, anche se la stessa possa rendere troppo gravoso o comunque ritardare eccessivamente il processo
E infatti, se tra le finalità cui è indirizzata la norma oggi vigente, vi è quella di raggiungere un sensibile decremento del numero delle cause seriali, essa finalità verrebbe sostanzialmente vulnerata e vanificata ove i giudici di pace e del lavoro, in ossequio all’indirizzo interpretativo espresso dalla succitata sentenza della Suprema Corte nella vigenza della vecchia formulazione dell’art. 151 disp. att. c.p.c., decidessero di non disporre la riunione, limitandosi ad ordinare la trattazione nella medesima udienza, davanti allo stesso giudice, di più cause riunibili, in quanto, in siffatte evenienze, il numero di procedimenti in corso rimarrebbe del tutto invariato e non si raggiungerebbe affatto l’obiettivo di produrre una sensibile deflazione delle cause seriali.
V’è da dire, inoltre, che il forte restringimento dell’area discrezionale a disposizione dei giudici nelle decisioni riguardanti le riunioni dei procedimenti, e l’obbligatorietà della motivazione (“gravi e motivate ragioni”) in caso di provvedimenti denegativi assunti pur sussistendo il requisito previsto della identità della fase processuale, potrebbero determinare la sottoponibilità delle statuizioni dei giudici di merito (anche d’appello, in base alla novella) a censure dinanzi alla Corte di Cassazione.






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