martedì 17 marzo 2009

Gli accordi indennitari decadono se non è emanato il decreto di esproprio Corte Cost. 24-2009


Espropriazione per pubblica utilità, accordi indennitari (C.Cost.)


sabato 14 marzo 2009
Corte Costituzionale, sentenza n. 24 del 30 gennaio 2009


ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’
ACCORDI INDENNITARI
-Legge 26 febbraio 2007, n. 17-


[Corte Costituzionale, sentenza n. 24 del 30 gennaio 2009]
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(tratto da: www.cortecostituzionale.it)
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LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. dell'art. 3, comma 3, del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17.
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SENTENZA N. 24 - ANNO 2009
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
Giovanni Maria FLICK Presidente
Francesco AMIRANTE Giudice
Ugo DE SIERVO "
Paolo MADDALENA "
Alfio FINOCCHIARO "
Alfonso QUARANTA "
Franco GALLO "
Luigi MAZZELLA "
Gaetano SILVESTRI "
Sabino CASSESE "
Maria Rita SAULLE "
Giuseppe TESAURO "
Paolo Maria NAPOLITANO "
Giuseppe FRIGO "
Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, promossi con ordinanze del 28 giugno e del 10 maggio 2007 dal Tribunale di Napoli nei procedimenti civili vertenti tra Di Lorenzo Carmine ed altra e Paduano Michele ed altre e il Consorzio Cooperative Costruzioni ed altri, iscritte ai nn. 209 e 210 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visti gli atti di costituzione di Di Lorenzo Carmine ed altra e di Paduano Michele ed altre e del Consorzio Cooperative Costruzioni nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 2 dicembre 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;
uditi gli avvocati Raffaele Fattoruso per Di Lorenzo Carmine ed altra e per Paduano Michele ed altre, Felice Laudadio e Carlo Russo per il Consorzio Cooperative Costruzioni e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1. Nel corso della causa civile avente ad oggetto la determinazione dell'indennità di occupazione di terreni sottoposti a procedura espropriativa nel quadro degli interventi per la ricostruzione delle zone terremotate, ai sensi del titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 19 marzo 1981, n. 75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti), il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 28 giugno 2007 (r. o. n. 209 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del d.l. 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, per violazione dell'art. 3, secondo comma, dell'art. 42, secondo e terzo comma, della Costituzione, anche in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche in relazione all'art. 6, primo comma, della suddetta Convenzione.
La norma censurata dispone che «i verbali di concordamento dell'indennità di espropriazione e di rinuncia a qualunque pretesa connessa alla procedura di esproprio, relativi alla realizzazione degli interventi di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, conservano la loro efficacia indipendentemente dall'emanazione del decreto di espropriazione».
Nel giudizio a quo gli attori, proprietari di suoli assoggettati a procedura espropriativa per la realizzazione degli interventi nelle zone terremotate, pur avendo stipulato a suo tempo verbali di concordamento, pretendono l'indennità di occupazione, assumendo che la mancata emanazione nei termini del decreto di esproprio, ha determinato la caducazione dell'accordo e, quindi, anche della rinuncia, che in esso era compresa, ad ogni azione giudiziaria per l'indennità. La scadenza dell'occupazione, in data 18 novembre 1998, avrebbe comportato la perdita della proprietà dei privati e l'acquisizione pubblica per l'irreversibile trasformazione del fondo con destinazione ad opera pubblica (cosiddetta occupazione appropriativa o accessione invertita), restando inefficaci le proroghe legislative dell'occupazione, successivamente intervenute.
Assume il rimettente che la sopravvenuta disposizione determina irragionevolmente (e quindi con violazione dell'art. 3, secondo comma, Cost.) la reviviscenza degli effetti delle dichiarazioni dei proprietari (di accettazione dell'indennità offerta e rinuncia alle azioni indennitarie), ormai caducate dalla mancata tempestiva adozione del decreto di espropriazione, in modo da conferire all'atto dismissivo del diritto all'indennità un carattere aleatorio, venendo scisso l'atto abdicativo del proprietario dalla condizione sua propria, quella del sopravvenire di un atto espropriativo, che invece è mancato, con lesione dell'affidamento del cittadino che abbia compiuto una valutazione in termini di convenienza economica della propria rinuncia.
La volontà legislativa di emanare leggi retroattive deve essere in primo luogo non irragionevole e non lesiva di valori costituzionalmente protetti.
La norma, ad avviso del rimettente, sarebbe altresì lesiva del diritto di proprietà, perché verrebbe a legittimare a posteriori un nuovo modo di perdita della proprietà che, rendendo irrilevante sia la mancata sopravvenienza del decreto di esproprio, sia l'effetto traslativo dell'accessione invertita, crea un'incertezza ben maggiore di quella che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha censurato riguardo all'occupazione appropriativa in sé.
Da ultimo, intervenendo la norma censurata nei giudizi in corso, già istruiti dal rimettente in base all'esplicita adesione all'orientamento della Cassazione sulla ratio e gli effetti dell'art. 9 d.lgs. 20 settembre 1999, n. 354 (sentenza n. 7544 del 2005) – secondo cui la proroga dell'occupazione da questa norma disposta è inapplicabile alle fattispecie in cui sia già maturata l'occupazione appropriativa –, il mutamento in corsa delle regole del gioco comporterebbe violazione dei principi del giusto processo, in particolare delle condizioni di parità delle parti (artt. 111, primo e secondo comma, Cost.; art. 6 Convenzione dei diritti dell'uomo).
Sotto il profilo della rilevanza, il Tribunale di Napoli assume che ove cadesse la norma censurata, la domanda risulterebbe fondata, non potendosi riconoscere al verbale di concordamento, in assenza della tempestiva emissione di decreto di esproprio, effetto abdicativo del diritto di agire per il conseguimento dell'indennità di occupazione legittima.
1.1. – Nel giudizio incidentale si sono costituiti i soggetti privati che hanno agito per ottenere l'indennità di occupazione, dichiarando di condividere le deduzioni del giudice rimettente, con ampia riserva di ulteriori deduzioni e memorie.
1.2. – Si è costituito anche il Consorzio Cooperativa Costruzioni, CCC soc. cooperativa, parte convenuta nel giudizio a quo, il quale ha dedotto l'inammissibilità e l'infondatezza della questione.
Secondo quest'ultimo, il Tribunale muove dall'erroneo presupposto dell'inapplicabilità della proroga disposta dall'art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 354 del 1999, e prolungata dall'art. 1 del d.l. 26 ottobre 2001, n. 390, mentre la giurisprudenza del Tar Campania e della Corte d'appello di Napoli ritengono correttamente che la norma, non facendo riferimento alle occupazioni in corso alla data della sua entrata in vigore, ma incidendo direttamente sui termini di efficacia degli iniziali decreti di occupazione di urgenza, li dilatano fino a comprendere un ulteriore biennio dalla primitiva scadenza degli stessi: il chiarimento interpretativo contenuto nel comma 3-bis dell'art. 3 d.l. 300 del 2006 (che non è oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale), conferma l'applicabilità della proroga di cui sopra alle occupazioni preordinate all'espropriazione, come nella fattispecie del giudizio a quo.
Ma l'irrilevanza della questione discende chiaramente da quanto ritenuto dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, in fattispecie analoga alla presente (sentenza n. 9038 del 2008), secondo cui «la rituale conclusione del procedimento espropriativo, mediante la tempestiva emissione di decreto di esproprio, è condizione di efficacia dell'atto di accordo sull'indennità solo riguardo all'indennità di espropriazione (non essendo questa dovuta ove la procedura non si sia conclusa), ma non anche per l'indennità di occupazione legittima, in quanto la conclusione irrituale del procedimento, per via dell'irreversibile trasformazione del fondo in assenza di tempestivo decreto di esproprio, non esclude la legittimità dell'occupazione fino alla sua scadenza», sicché «l'irrilevanza della conclusione del procedimento rispetto all'accordo sull'indennità di occupazione rende superflua ogni questione di applicabilità, e di legittimità costituzionale, relativamente allo ius superveniens, costituito dall'art. 3, comma 3, d.l. 300 del 2006, conv. in l. 17 del 2007, che riconosce comunque efficacia vincolante agli accordi sull'indennità, indipendentemente dall'emanazione del decreto di esproprio».
Secondo la parte, la questione è comunque infondata atteso il carattere interpretativo della norma censurata. Questa perviene a risolvere un contrasto giurisprudenziale riguardo all'applicazione dell'art. 9, comma 2, d.lgs. 354 del 1999, stabilendo ora chiaramente che la proroga prevista da tale disposizione si riferisce alle occupazioni d'urgenza, e i verbali di concordamento dell'indennità mantengono efficacia a prescindere dalla tempestiva emanazione del decreto di occupazione.
Tale disciplina non può esser considerata irragionevole, potendo la legge avere efficacia retroattiva per sua stessa previsione esplicita o implicita, specie ove si tratti di chiarire il senso di norme preesistenti, o di imporre una delle possibili varianti di significato compatibile con il tenore letterale, non solo ove esista contrasto giurisprudenziale, ma anche in presenza di indirizzi omogenei, purché non si ponga un problema di stabilità delle pronunce passate in giudicato.
Neppure potrebbe dirsi violato l'art. 42 Cost., giacché non si vede come la norma censurata avrebbe introdotto un nuovo modo di perdita della proprietà, in ragione del concordamento amichevole (la cessione volontaria del bene è prevista legislativamente, e nella fattispecie è stata corrisposta agli espropriandi una maggiorazione del settanta per cento dell'indennità). Né il giudice rimettente spiega come ciò possa rilevare nel giudizio a quo, in cui si fa questione della spettanza dell'indennità di occupazione legittima.
Non può neppure ravvisarsi la violazione dei principi del giusto processo, posto che il limite alla possibilità di emanare norme retroattive, ravvisabile nella tutela dell'affidamento, è dettato dalla rispondenza o meno a criteri di ragionevolezza del regolamento d'interessi, innovativo rispetto a quello preesistente. L'accordo, a suo tempo stipulato dai proprietari espropriandi, ha natura transattiva, e la sua applicazione s'impone con la forza dei contratti. Inoltre, nessun mutamento radicale ha posto il legislatore con la norma censurata, limitandosi semplicemente a dirimere un contrasto giurisprudenziale.
1.3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che chiede dichiararsi l'infondatezza della questione.
La censura, secondo la difesa erariale, si risolve in una critica inammissibile alle scelte discrezionali del legislatore, che ha effettuato una comparazione di interessi in chiave di bilanciamento di posizioni contrapposte.
Nella relazione al disegno di legge di conversione del d.l. 300 del 2006, si richiama l'art. 9, comma 2, d.lgs. 354 del 1999, che, proponendosi di condurre a termine le procedure espropriative in corso nel quadro del completamento dell'opera di ricostruzione avviata con la legge 219 del 1981, aveva disposto la protrazione per due anni del termine di efficacia dei decreti di occupazione d'urgenza emanati per la realizzazione degli interventi previsti da quella normativa.
La Cassazione aveva originariamente interpretato la norma come estensiva ab origine dei termini di occupazione, e quindi come sanatoria generalizzata delle occupazioni ai fini dell'esproprio. L'efficacia dei decreti di occupazione era prorogata da successivi interventi normativi (fino al 31 dicembre 2005, per effetto dell'art. 1, comma 1, d.l. 390 del 2001, convertito con modificazioni dalla legge 21 dicembre 2001, n. 444, e per effetto dell'art. 6-quater del d.l. 30 dicembre 2004, n. 314, convertito con modificazioni dalla legge 1° marzo 2005, n. 26), ma la Suprema Corte maturava un diverso orientamento, nel senso di escludere l'efficacia della proroga postuma, ove alla scadenza fosse già maturata l'acquisizione pubblica del fondo per via dell'irreversibile trasformazione.
Per regolare tale situazione, suscettibile di determinare pesantissimi oneri per le Amministrazioni locali, è stato emanato l'art. 3, comma 3, d.l. 300 del 2006, finalizzato ad attribuire perdurante efficacia agli accordi già perfezionati sulle indennità espropriative.
Venendo ai profili di costituzionalità della norma in discussione, l'Avvocatura esclude che la legge retroattiva sia di per sé irragionevole, avendo essa realizzato un equilibrato componimento degli interessi in gioco, in relazione alla natura ed al carattere eccezionale della disposizione, anche al fine di salvaguardare la finanza pubblica in vista degli impegni assunti anche in sede comunitaria: è nota la peculiarità della procedura espropriativa contemplata dalla legge n. 219 del 1981, emanata per fronteggiare situazioni di emergenza conseguenti a gravi calamità naturali.
Per la difesa erariale non c'è violazione del diritto di proprietà, la cui funzione sociale, costituzionalmente sancita, investe il legislatore del perseguimento del fine pubblico a seconda delle condizioni socio-economiche e delle scelte di politica del diritto, con l'unico limite che le scelte discrezionali devono essere guidate dal canone della ragionevolezza, identificabile nella plausibile idoneità del mezzo impiegato rispetto al fine da perseguire e nella proporzionalità tra l'interesse da tutelare e lo strumento prescelto.
Da ultimo, l'art. 111 Cost. non tocca le prerogative del legislatore, e non contiene alcun divieto esplicito di leggi retroattive fuori della materia penale.
2. – Nel corso di analoga causa civile, il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 10 maggio 2007 (r. o. n. 210 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, d.l. 28 dicembre 2006 n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, per violazione degli artt. 3, secondo comma, 42, secondo e terzo comma, Cost., anche in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche in relazione all'art. 6, primo comma, della suddetta Convenzione.
Il rimettente svolge considerazioni del tutto coincidenti con quelle dell'ordinanza n. 209, sopra richiamata.
2.1. – Nel giudizio costituzionale si sono costituiti gli attori del giudizio a quo, dichiarando di condividere le deduzioni del giudice rimettente, con ampia riserva di ulteriori deduzioni e memorie.
2.2. – Si è costituito anche il Consorzio Cooperativa Costruzioni, CCC soc. cooperativa, convenuto nel giudizio principale, il quale deduce l'inammissibilità e l'infondatezza della dedotta questione e svolge argomentazioni conformi alla memoria, sopra esaminata, relativa all'ordinanza n. 209.
2.3. – Anche il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio costituzionale, chiede dichiararsi l'infondatezza della questione in base alle stesse testuali argomentazioni svolte nella parallela procedura.
3. – Nell'imminenza dell'udienza pubblica entrambe le parti di ciascuno dei giudizi a quibus hanno presentato memorie.
Il Consorzio Cooperativa Costruzioni insiste perché sia dichiarata l'inammissibilità e l'infondatezza della dedotta questione. Conferma che a differenza di quanto sostiene controparte, il verbale di concordamento non può considerarsi inefficace, non solo alla luce della norma impugnata, ma, prima ancora, per effetto della proroga del termine di occupazione legittima con il d.lgs. n. 354 del 1999.
Le parti private sostengono invece l'illegittimità costituzionale della norma, giacché a loro dire, il Tribunale di Napoli ha correttamente applicato il principio per cui i verbali di concordamento perdono efficacia se non interviene il decreto di esproprio. Con la norma censurata il legislatore, consapevole della perdita di efficacia dell'accordo una volta scaduta l'occupazione senza l'emissione di decreto di esproprio, ha alterato la natura giuridica degli istituti, configurando un singolare acquisto-perdita della proprietà, che vanifica e sostituisce, indietro nel tempo, quelli precedenti. L'art. 3, comma 3, d.l. n. 300 del 2006, convertito in legge n. 17 del 2007, non è norma interpretativa, e lo si desume dal diverso carattere, dichiaratamente interpretativo, del successivo comma 3-bis, che esclude dalla proroga le occupazioni non presiedute da dichiarazione d'indifferibilità e urgenza.
Secondo le parti, i lavori parlamentari per la conversione del decreto tradiscono il vero intento governativo di salvare il concessionario Consorzio Cooperative Costruzioni da un esborso stimabile in 10 milioni di euro, perpetrando un abuso clamoroso a danno dei proprietari, con grave interferenza nelle cause in corso.
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Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Napoli – con due ordinanze identiche, come sono identici gli scritti difensivi delle parti costituite e intervenute nel giudizio innanzi alla Corte – ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, d.l. 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17.
Osserva il Tribunale che la suddetta disposizione determina la reviviscenza dei verbali di concordamento dell'indennità, nell'ambito di procedure espropriative per gli interventi nelle zone terremotate, di cui alla legge 14 maggio 1981, n. 219. Diversamente, questi sarebbero stati da considerare inefficaci per la mancata emanazione dei decreti di esproprio entro il termine di scadenza delle occupazioni. La norma censurata – a parere del giudice a quo – vanificherebbe qualsiasi pretesa indennitaria dei proprietari, in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3, secondo comma, della Costituzione), introdurrebbe un nuovo modo di perdita del diritto di proprietà, in ragione del concordamento amichevole dell'indennità, in contrasto con l'art. 42, secondo e terzo comma, Cost., anche in riferimento all'art. 1 del I Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e risolverebbe giudizi in corso in senso deliberatamente favorevole all'amministrazione, in contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche in riferimento all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
2. – In via preliminare deve essere disposta la riunione dei due giudizi aventi ad oggetto la stessa questione.
3. – Non può essere accolta l'eccezione di inammissibilità avanzata dal Consorzio Cooperativa Costruzioni, che assume l'inapplicabilità all'accordo sull'indennità di espropriazione della condizione di efficacia, costituita dall'emanazione del decreto di esproprio nei termini.
Pur essendo corretto l'assunto da cui muove la parte costituita, per cui l'emanazione del decreto di espropriazione è condizione di efficacia dell'accordo indennitario solo per l'indennità di espropriazione, ma non per l'indennità di occupazione, che è comunque dovuta, anche se la procedura espropriativa degeneri, e si concluda con l'occupazione appropriativa (così la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, n. 9038 del 2008), nella specie, risulta che le parti, in sede di concordamento, avevano previsto un'indennità onnicomprensiva, senza distinzioni, e dunque, essendo inefficace l'accordo riguardo alla parte di essa concernente l'espropriazione del bene, la somma, forfetariamente concordata nel suo intero ammontare, rimarrebbe comunque priva di giustificazione.
La recuperata azionabilità della complessiva pretesa indennitaria dei proprietari, che conseguirebbe alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata che ha reso efficaci gli accordi in cui gli stessi proprietari avevano rinunciato ad azionare tali pretese, rende rilevante la questione sollevata.
4. – La questione è fondata.
L'art. 3, comma 3, del d.l. n. 300 del 2006 determina la reviviscenza degli effetti di dichiarazioni a suo tempo rese dai proprietari, annullando la rilevanza della mancata adozione del decreto di esproprio.
Senza voler ripercorrere tutta la vicenda normativa e giurisprudenziale relativa ai verbali di concordamento delle indennità espropriative nel quadro degli interventi di ricostruzione delle zone terremotate (legge n. 219 del 1981), la norma censurata appare come il tentativo di sottrarre quegli accordi indennitari all'inefficacia cui li condannerebbe la mancata conclusione rituale della procedura ablatoria.
Già l'art. 9 del d.lgs. 20 settembre 1999, n. 354 (Disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della L. 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, a norma dell'articolo 42, comma 6, della L. 17 maggio 1999, n. 144), si proponeva di rendere possibile, attraverso la proroga delle occupazioni, l'emanazione tardiva dei decreti di esproprio, in modo da assicurare l'efficacia degli atti di concordamento dell'indennità. Di quella norma, però, prevalse l'interpretazione costituzionalmente orientata, secondo cui qualsiasi proroga dell'occupazione, stabilita in via legislativa per dar modo al decreto di esproprio di intervenire utilmente (giacché, diversamente, l'avvenuto compimento dell'opera in assenza di decreto di esproprio fa acquisire il bene alla mano pubblica per effetto dell'occupazione appropriativa), deve intervenire prima della scadenza del periodo di occupazione legittima (Cass. n. 3966 del 2004 e n. 7544 del 2005).
L'art. 3, comma 3, del d.l. n. 300 del 2006, convertito dalla legge n. 17 del 2007, oggetto di censura, interviene ora direttamente a sancire l'efficacia degli accordi indennitari, a prescindere dall'emanazione del decreto di espropriazione.
L'irragionevolezza dell'intervento legislativo è palese, ove si pensi che, nella specie, i proprietari degli immobili assoggettati al procedimento espropriativo furono indotti a concordare l'indennità, peraltro cumulativamente determinata, da una valutazione di convenienza riferita a quel momento specifico della procedura. Nella valutazione dei motivi per la stipulazione dell'accordo non poteva non essere presente la consapevolezza della disciplina vigente in tema di accordi, ivi compresa l'eventualità di una loro inefficacia ove la procedura non fosse pervenuta a compimento.
Il decreto di esproprio non venne emanato tempestivamente. La disposizione censurata, ad oltre venti anni da quella vicenda, è intervenuta a salvaguardare l'efficacia dell'accordo (con l'intento di incidere sulle liti in corso), quando sono venute meno le condizioni che avevano contribuito, allora, a determinare la volontà negoziale della parte.
L'intervento legislativo diretto a regolare situazioni pregresse è legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali di ragionevolezza e i principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 74 del 2008 e n. 376 del 1995), anche al fine di assegnare a determinate disposizioni un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (sentenze n. 234 del 2007 e n. 224 del 2006). La norma successiva non può, però, tradire l'affidamento del privato sull'avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali (sentenze n. 156 del 2007 e n. 416 del 1999), pur se dettata dalla necessità di riduzione del contenzioso o di contenimento della spesa pubblica (sentenza n. 374 del 2002) o per far fronte ad evenienze eccezionali (sentenza n. 419 del 2000).
La norma censurata non è interpretativa ma innovativa. La sua portata precettiva non è compatibile, come possibile opzione interpretativa, con la disciplina previgente, che, anzi, deponeva, al contrario, nel senso dell'inefficacia dell'accordo, se non fosse tempestivamente emanato il decreto di esproprio. Essa interviene su situazioni in cui si è consolidato l'affidamento del privato riguardo alla regolamentazione giuridica del rapporto, dettando una disciplina con esso contrastante, e sbilanciandone l'equilibrio a favore di una parte (quella pubblica, o del privato assuntore dell'opera, comunque tenuto a sopportare le conseguenze economiche dell'espropriazione), e a svantaggio dell'altra (il proprietario).
La dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata in riferimento al canone della ragionevolezza assorbe gli ulteriori profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. dell'art. 3, comma 3, del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17.
Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009.
F.to:
Giovanni Maria FLICK, Presidente
Alfio FINOCCHIARO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA

Gli accordi indennitari decadono se non è emanato il decreto di esproprio Corte Cost. 24-2009


Espropriazione per pubblica utilità, accordi indennitari (C.Cost.)


sabato 14 marzo 2009
Corte Costituzionale, sentenza n. 24 del 30 gennaio 2009


ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’
ACCORDI INDENNITARI
-Legge 26 febbraio 2007, n. 17-


[Corte Costituzionale, sentenza n. 24 del 30 gennaio 2009]
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(tratto da: www.cortecostituzionale.it)
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LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. dell'art. 3, comma 3, del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17.
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SENTENZA N. 24 - ANNO 2009
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
Giovanni Maria FLICK Presidente
Francesco AMIRANTE Giudice
Ugo DE SIERVO "
Paolo MADDALENA "
Alfio FINOCCHIARO "
Alfonso QUARANTA "
Franco GALLO "
Luigi MAZZELLA "
Gaetano SILVESTRI "
Sabino CASSESE "
Maria Rita SAULLE "
Giuseppe TESAURO "
Paolo Maria NAPOLITANO "
Giuseppe FRIGO "
Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, promossi con ordinanze del 28 giugno e del 10 maggio 2007 dal Tribunale di Napoli nei procedimenti civili vertenti tra Di Lorenzo Carmine ed altra e Paduano Michele ed altre e il Consorzio Cooperative Costruzioni ed altri, iscritte ai nn. 209 e 210 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visti gli atti di costituzione di Di Lorenzo Carmine ed altra e di Paduano Michele ed altre e del Consorzio Cooperative Costruzioni nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 2 dicembre 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;
uditi gli avvocati Raffaele Fattoruso per Di Lorenzo Carmine ed altra e per Paduano Michele ed altre, Felice Laudadio e Carlo Russo per il Consorzio Cooperative Costruzioni e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1. Nel corso della causa civile avente ad oggetto la determinazione dell'indennità di occupazione di terreni sottoposti a procedura espropriativa nel quadro degli interventi per la ricostruzione delle zone terremotate, ai sensi del titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 19 marzo 1981, n. 75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti), il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 28 giugno 2007 (r. o. n. 209 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del d.l. 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, per violazione dell'art. 3, secondo comma, dell'art. 42, secondo e terzo comma, della Costituzione, anche in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche in relazione all'art. 6, primo comma, della suddetta Convenzione.
La norma censurata dispone che «i verbali di concordamento dell'indennità di espropriazione e di rinuncia a qualunque pretesa connessa alla procedura di esproprio, relativi alla realizzazione degli interventi di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, conservano la loro efficacia indipendentemente dall'emanazione del decreto di espropriazione».
Nel giudizio a quo gli attori, proprietari di suoli assoggettati a procedura espropriativa per la realizzazione degli interventi nelle zone terremotate, pur avendo stipulato a suo tempo verbali di concordamento, pretendono l'indennità di occupazione, assumendo che la mancata emanazione nei termini del decreto di esproprio, ha determinato la caducazione dell'accordo e, quindi, anche della rinuncia, che in esso era compresa, ad ogni azione giudiziaria per l'indennità. La scadenza dell'occupazione, in data 18 novembre 1998, avrebbe comportato la perdita della proprietà dei privati e l'acquisizione pubblica per l'irreversibile trasformazione del fondo con destinazione ad opera pubblica (cosiddetta occupazione appropriativa o accessione invertita), restando inefficaci le proroghe legislative dell'occupazione, successivamente intervenute.
Assume il rimettente che la sopravvenuta disposizione determina irragionevolmente (e quindi con violazione dell'art. 3, secondo comma, Cost.) la reviviscenza degli effetti delle dichiarazioni dei proprietari (di accettazione dell'indennità offerta e rinuncia alle azioni indennitarie), ormai caducate dalla mancata tempestiva adozione del decreto di espropriazione, in modo da conferire all'atto dismissivo del diritto all'indennità un carattere aleatorio, venendo scisso l'atto abdicativo del proprietario dalla condizione sua propria, quella del sopravvenire di un atto espropriativo, che invece è mancato, con lesione dell'affidamento del cittadino che abbia compiuto una valutazione in termini di convenienza economica della propria rinuncia.
La volontà legislativa di emanare leggi retroattive deve essere in primo luogo non irragionevole e non lesiva di valori costituzionalmente protetti.
La norma, ad avviso del rimettente, sarebbe altresì lesiva del diritto di proprietà, perché verrebbe a legittimare a posteriori un nuovo modo di perdita della proprietà che, rendendo irrilevante sia la mancata sopravvenienza del decreto di esproprio, sia l'effetto traslativo dell'accessione invertita, crea un'incertezza ben maggiore di quella che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha censurato riguardo all'occupazione appropriativa in sé.
Da ultimo, intervenendo la norma censurata nei giudizi in corso, già istruiti dal rimettente in base all'esplicita adesione all'orientamento della Cassazione sulla ratio e gli effetti dell'art. 9 d.lgs. 20 settembre 1999, n. 354 (sentenza n. 7544 del 2005) – secondo cui la proroga dell'occupazione da questa norma disposta è inapplicabile alle fattispecie in cui sia già maturata l'occupazione appropriativa –, il mutamento in corsa delle regole del gioco comporterebbe violazione dei principi del giusto processo, in particolare delle condizioni di parità delle parti (artt. 111, primo e secondo comma, Cost.; art. 6 Convenzione dei diritti dell'uomo).
Sotto il profilo della rilevanza, il Tribunale di Napoli assume che ove cadesse la norma censurata, la domanda risulterebbe fondata, non potendosi riconoscere al verbale di concordamento, in assenza della tempestiva emissione di decreto di esproprio, effetto abdicativo del diritto di agire per il conseguimento dell'indennità di occupazione legittima.
1.1. – Nel giudizio incidentale si sono costituiti i soggetti privati che hanno agito per ottenere l'indennità di occupazione, dichiarando di condividere le deduzioni del giudice rimettente, con ampia riserva di ulteriori deduzioni e memorie.
1.2. – Si è costituito anche il Consorzio Cooperativa Costruzioni, CCC soc. cooperativa, parte convenuta nel giudizio a quo, il quale ha dedotto l'inammissibilità e l'infondatezza della questione.
Secondo quest'ultimo, il Tribunale muove dall'erroneo presupposto dell'inapplicabilità della proroga disposta dall'art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 354 del 1999, e prolungata dall'art. 1 del d.l. 26 ottobre 2001, n. 390, mentre la giurisprudenza del Tar Campania e della Corte d'appello di Napoli ritengono correttamente che la norma, non facendo riferimento alle occupazioni in corso alla data della sua entrata in vigore, ma incidendo direttamente sui termini di efficacia degli iniziali decreti di occupazione di urgenza, li dilatano fino a comprendere un ulteriore biennio dalla primitiva scadenza degli stessi: il chiarimento interpretativo contenuto nel comma 3-bis dell'art. 3 d.l. 300 del 2006 (che non è oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale), conferma l'applicabilità della proroga di cui sopra alle occupazioni preordinate all'espropriazione, come nella fattispecie del giudizio a quo.
Ma l'irrilevanza della questione discende chiaramente da quanto ritenuto dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, in fattispecie analoga alla presente (sentenza n. 9038 del 2008), secondo cui «la rituale conclusione del procedimento espropriativo, mediante la tempestiva emissione di decreto di esproprio, è condizione di efficacia dell'atto di accordo sull'indennità solo riguardo all'indennità di espropriazione (non essendo questa dovuta ove la procedura non si sia conclusa), ma non anche per l'indennità di occupazione legittima, in quanto la conclusione irrituale del procedimento, per via dell'irreversibile trasformazione del fondo in assenza di tempestivo decreto di esproprio, non esclude la legittimità dell'occupazione fino alla sua scadenza», sicché «l'irrilevanza della conclusione del procedimento rispetto all'accordo sull'indennità di occupazione rende superflua ogni questione di applicabilità, e di legittimità costituzionale, relativamente allo ius superveniens, costituito dall'art. 3, comma 3, d.l. 300 del 2006, conv. in l. 17 del 2007, che riconosce comunque efficacia vincolante agli accordi sull'indennità, indipendentemente dall'emanazione del decreto di esproprio».
Secondo la parte, la questione è comunque infondata atteso il carattere interpretativo della norma censurata. Questa perviene a risolvere un contrasto giurisprudenziale riguardo all'applicazione dell'art. 9, comma 2, d.lgs. 354 del 1999, stabilendo ora chiaramente che la proroga prevista da tale disposizione si riferisce alle occupazioni d'urgenza, e i verbali di concordamento dell'indennità mantengono efficacia a prescindere dalla tempestiva emanazione del decreto di occupazione.
Tale disciplina non può esser considerata irragionevole, potendo la legge avere efficacia retroattiva per sua stessa previsione esplicita o implicita, specie ove si tratti di chiarire il senso di norme preesistenti, o di imporre una delle possibili varianti di significato compatibile con il tenore letterale, non solo ove esista contrasto giurisprudenziale, ma anche in presenza di indirizzi omogenei, purché non si ponga un problema di stabilità delle pronunce passate in giudicato.
Neppure potrebbe dirsi violato l'art. 42 Cost., giacché non si vede come la norma censurata avrebbe introdotto un nuovo modo di perdita della proprietà, in ragione del concordamento amichevole (la cessione volontaria del bene è prevista legislativamente, e nella fattispecie è stata corrisposta agli espropriandi una maggiorazione del settanta per cento dell'indennità). Né il giudice rimettente spiega come ciò possa rilevare nel giudizio a quo, in cui si fa questione della spettanza dell'indennità di occupazione legittima.
Non può neppure ravvisarsi la violazione dei principi del giusto processo, posto che il limite alla possibilità di emanare norme retroattive, ravvisabile nella tutela dell'affidamento, è dettato dalla rispondenza o meno a criteri di ragionevolezza del regolamento d'interessi, innovativo rispetto a quello preesistente. L'accordo, a suo tempo stipulato dai proprietari espropriandi, ha natura transattiva, e la sua applicazione s'impone con la forza dei contratti. Inoltre, nessun mutamento radicale ha posto il legislatore con la norma censurata, limitandosi semplicemente a dirimere un contrasto giurisprudenziale.
1.3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che chiede dichiararsi l'infondatezza della questione.
La censura, secondo la difesa erariale, si risolve in una critica inammissibile alle scelte discrezionali del legislatore, che ha effettuato una comparazione di interessi in chiave di bilanciamento di posizioni contrapposte.
Nella relazione al disegno di legge di conversione del d.l. 300 del 2006, si richiama l'art. 9, comma 2, d.lgs. 354 del 1999, che, proponendosi di condurre a termine le procedure espropriative in corso nel quadro del completamento dell'opera di ricostruzione avviata con la legge 219 del 1981, aveva disposto la protrazione per due anni del termine di efficacia dei decreti di occupazione d'urgenza emanati per la realizzazione degli interventi previsti da quella normativa.
La Cassazione aveva originariamente interpretato la norma come estensiva ab origine dei termini di occupazione, e quindi come sanatoria generalizzata delle occupazioni ai fini dell'esproprio. L'efficacia dei decreti di occupazione era prorogata da successivi interventi normativi (fino al 31 dicembre 2005, per effetto dell'art. 1, comma 1, d.l. 390 del 2001, convertito con modificazioni dalla legge 21 dicembre 2001, n. 444, e per effetto dell'art. 6-quater del d.l. 30 dicembre 2004, n. 314, convertito con modificazioni dalla legge 1° marzo 2005, n. 26), ma la Suprema Corte maturava un diverso orientamento, nel senso di escludere l'efficacia della proroga postuma, ove alla scadenza fosse già maturata l'acquisizione pubblica del fondo per via dell'irreversibile trasformazione.
Per regolare tale situazione, suscettibile di determinare pesantissimi oneri per le Amministrazioni locali, è stato emanato l'art. 3, comma 3, d.l. 300 del 2006, finalizzato ad attribuire perdurante efficacia agli accordi già perfezionati sulle indennità espropriative.
Venendo ai profili di costituzionalità della norma in discussione, l'Avvocatura esclude che la legge retroattiva sia di per sé irragionevole, avendo essa realizzato un equilibrato componimento degli interessi in gioco, in relazione alla natura ed al carattere eccezionale della disposizione, anche al fine di salvaguardare la finanza pubblica in vista degli impegni assunti anche in sede comunitaria: è nota la peculiarità della procedura espropriativa contemplata dalla legge n. 219 del 1981, emanata per fronteggiare situazioni di emergenza conseguenti a gravi calamità naturali.
Per la difesa erariale non c'è violazione del diritto di proprietà, la cui funzione sociale, costituzionalmente sancita, investe il legislatore del perseguimento del fine pubblico a seconda delle condizioni socio-economiche e delle scelte di politica del diritto, con l'unico limite che le scelte discrezionali devono essere guidate dal canone della ragionevolezza, identificabile nella plausibile idoneità del mezzo impiegato rispetto al fine da perseguire e nella proporzionalità tra l'interesse da tutelare e lo strumento prescelto.
Da ultimo, l'art. 111 Cost. non tocca le prerogative del legislatore, e non contiene alcun divieto esplicito di leggi retroattive fuori della materia penale.
2. – Nel corso di analoga causa civile, il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 10 maggio 2007 (r. o. n. 210 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, d.l. 28 dicembre 2006 n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, per violazione degli artt. 3, secondo comma, 42, secondo e terzo comma, Cost., anche in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche in relazione all'art. 6, primo comma, della suddetta Convenzione.
Il rimettente svolge considerazioni del tutto coincidenti con quelle dell'ordinanza n. 209, sopra richiamata.
2.1. – Nel giudizio costituzionale si sono costituiti gli attori del giudizio a quo, dichiarando di condividere le deduzioni del giudice rimettente, con ampia riserva di ulteriori deduzioni e memorie.
2.2. – Si è costituito anche il Consorzio Cooperativa Costruzioni, CCC soc. cooperativa, convenuto nel giudizio principale, il quale deduce l'inammissibilità e l'infondatezza della dedotta questione e svolge argomentazioni conformi alla memoria, sopra esaminata, relativa all'ordinanza n. 209.
2.3. – Anche il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio costituzionale, chiede dichiararsi l'infondatezza della questione in base alle stesse testuali argomentazioni svolte nella parallela procedura.
3. – Nell'imminenza dell'udienza pubblica entrambe le parti di ciascuno dei giudizi a quibus hanno presentato memorie.
Il Consorzio Cooperativa Costruzioni insiste perché sia dichiarata l'inammissibilità e l'infondatezza della dedotta questione. Conferma che a differenza di quanto sostiene controparte, il verbale di concordamento non può considerarsi inefficace, non solo alla luce della norma impugnata, ma, prima ancora, per effetto della proroga del termine di occupazione legittima con il d.lgs. n. 354 del 1999.
Le parti private sostengono invece l'illegittimità costituzionale della norma, giacché a loro dire, il Tribunale di Napoli ha correttamente applicato il principio per cui i verbali di concordamento perdono efficacia se non interviene il decreto di esproprio. Con la norma censurata il legislatore, consapevole della perdita di efficacia dell'accordo una volta scaduta l'occupazione senza l'emissione di decreto di esproprio, ha alterato la natura giuridica degli istituti, configurando un singolare acquisto-perdita della proprietà, che vanifica e sostituisce, indietro nel tempo, quelli precedenti. L'art. 3, comma 3, d.l. n. 300 del 2006, convertito in legge n. 17 del 2007, non è norma interpretativa, e lo si desume dal diverso carattere, dichiaratamente interpretativo, del successivo comma 3-bis, che esclude dalla proroga le occupazioni non presiedute da dichiarazione d'indifferibilità e urgenza.
Secondo le parti, i lavori parlamentari per la conversione del decreto tradiscono il vero intento governativo di salvare il concessionario Consorzio Cooperative Costruzioni da un esborso stimabile in 10 milioni di euro, perpetrando un abuso clamoroso a danno dei proprietari, con grave interferenza nelle cause in corso.
.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Napoli – con due ordinanze identiche, come sono identici gli scritti difensivi delle parti costituite e intervenute nel giudizio innanzi alla Corte – ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, d.l. 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17.
Osserva il Tribunale che la suddetta disposizione determina la reviviscenza dei verbali di concordamento dell'indennità, nell'ambito di procedure espropriative per gli interventi nelle zone terremotate, di cui alla legge 14 maggio 1981, n. 219. Diversamente, questi sarebbero stati da considerare inefficaci per la mancata emanazione dei decreti di esproprio entro il termine di scadenza delle occupazioni. La norma censurata – a parere del giudice a quo – vanificherebbe qualsiasi pretesa indennitaria dei proprietari, in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3, secondo comma, della Costituzione), introdurrebbe un nuovo modo di perdita del diritto di proprietà, in ragione del concordamento amichevole dell'indennità, in contrasto con l'art. 42, secondo e terzo comma, Cost., anche in riferimento all'art. 1 del I Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e risolverebbe giudizi in corso in senso deliberatamente favorevole all'amministrazione, in contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche in riferimento all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
2. – In via preliminare deve essere disposta la riunione dei due giudizi aventi ad oggetto la stessa questione.
3. – Non può essere accolta l'eccezione di inammissibilità avanzata dal Consorzio Cooperativa Costruzioni, che assume l'inapplicabilità all'accordo sull'indennità di espropriazione della condizione di efficacia, costituita dall'emanazione del decreto di esproprio nei termini.
Pur essendo corretto l'assunto da cui muove la parte costituita, per cui l'emanazione del decreto di espropriazione è condizione di efficacia dell'accordo indennitario solo per l'indennità di espropriazione, ma non per l'indennità di occupazione, che è comunque dovuta, anche se la procedura espropriativa degeneri, e si concluda con l'occupazione appropriativa (così la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, n. 9038 del 2008), nella specie, risulta che le parti, in sede di concordamento, avevano previsto un'indennità onnicomprensiva, senza distinzioni, e dunque, essendo inefficace l'accordo riguardo alla parte di essa concernente l'espropriazione del bene, la somma, forfetariamente concordata nel suo intero ammontare, rimarrebbe comunque priva di giustificazione.
La recuperata azionabilità della complessiva pretesa indennitaria dei proprietari, che conseguirebbe alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata che ha reso efficaci gli accordi in cui gli stessi proprietari avevano rinunciato ad azionare tali pretese, rende rilevante la questione sollevata.
4. – La questione è fondata.
L'art. 3, comma 3, del d.l. n. 300 del 2006 determina la reviviscenza degli effetti di dichiarazioni a suo tempo rese dai proprietari, annullando la rilevanza della mancata adozione del decreto di esproprio.
Senza voler ripercorrere tutta la vicenda normativa e giurisprudenziale relativa ai verbali di concordamento delle indennità espropriative nel quadro degli interventi di ricostruzione delle zone terremotate (legge n. 219 del 1981), la norma censurata appare come il tentativo di sottrarre quegli accordi indennitari all'inefficacia cui li condannerebbe la mancata conclusione rituale della procedura ablatoria.
Già l'art. 9 del d.lgs. 20 settembre 1999, n. 354 (Disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della L. 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, a norma dell'articolo 42, comma 6, della L. 17 maggio 1999, n. 144), si proponeva di rendere possibile, attraverso la proroga delle occupazioni, l'emanazione tardiva dei decreti di esproprio, in modo da assicurare l'efficacia degli atti di concordamento dell'indennità. Di quella norma, però, prevalse l'interpretazione costituzionalmente orientata, secondo cui qualsiasi proroga dell'occupazione, stabilita in via legislativa per dar modo al decreto di esproprio di intervenire utilmente (giacché, diversamente, l'avvenuto compimento dell'opera in assenza di decreto di esproprio fa acquisire il bene alla mano pubblica per effetto dell'occupazione appropriativa), deve intervenire prima della scadenza del periodo di occupazione legittima (Cass. n. 3966 del 2004 e n. 7544 del 2005).
L'art. 3, comma 3, del d.l. n. 300 del 2006, convertito dalla legge n. 17 del 2007, oggetto di censura, interviene ora direttamente a sancire l'efficacia degli accordi indennitari, a prescindere dall'emanazione del decreto di espropriazione.
L'irragionevolezza dell'intervento legislativo è palese, ove si pensi che, nella specie, i proprietari degli immobili assoggettati al procedimento espropriativo furono indotti a concordare l'indennità, peraltro cumulativamente determinata, da una valutazione di convenienza riferita a quel momento specifico della procedura. Nella valutazione dei motivi per la stipulazione dell'accordo non poteva non essere presente la consapevolezza della disciplina vigente in tema di accordi, ivi compresa l'eventualità di una loro inefficacia ove la procedura non fosse pervenuta a compimento.
Il decreto di esproprio non venne emanato tempestivamente. La disposizione censurata, ad oltre venti anni da quella vicenda, è intervenuta a salvaguardare l'efficacia dell'accordo (con l'intento di incidere sulle liti in corso), quando sono venute meno le condizioni che avevano contribuito, allora, a determinare la volontà negoziale della parte.
L'intervento legislativo diretto a regolare situazioni pregresse è legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali di ragionevolezza e i principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 74 del 2008 e n. 376 del 1995), anche al fine di assegnare a determinate disposizioni un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (sentenze n. 234 del 2007 e n. 224 del 2006). La norma successiva non può, però, tradire l'affidamento del privato sull'avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali (sentenze n. 156 del 2007 e n. 416 del 1999), pur se dettata dalla necessità di riduzione del contenzioso o di contenimento della spesa pubblica (sentenza n. 374 del 2002) o per far fronte ad evenienze eccezionali (sentenza n. 419 del 2000).
La norma censurata non è interpretativa ma innovativa. La sua portata precettiva non è compatibile, come possibile opzione interpretativa, con la disciplina previgente, che, anzi, deponeva, al contrario, nel senso dell'inefficacia dell'accordo, se non fosse tempestivamente emanato il decreto di esproprio. Essa interviene su situazioni in cui si è consolidato l'affidamento del privato riguardo alla regolamentazione giuridica del rapporto, dettando una disciplina con esso contrastante, e sbilanciandone l'equilibrio a favore di una parte (quella pubblica, o del privato assuntore dell'opera, comunque tenuto a sopportare le conseguenze economiche dell'espropriazione), e a svantaggio dell'altra (il proprietario).
La dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata in riferimento al canone della ragionevolezza assorbe gli ulteriori profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. dell'art. 3, comma 3, del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17.
Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009.
F.to:
Giovanni Maria FLICK, Presidente
Alfio FINOCCHIARO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA

Prospettive di riforma: Ampliare le competenze del Giudice di Pace

COMPETENZE CIVILI DEL GIUDICE DI PACE
E LE ATTESE DELLA CATEGORIA


di
Alfonso di Nuzzo

in www.iussit.eu


______________________________


Col d.d.l. 1082/A, il Senato della Repubblica ha approvato con modificazioni il d.d.l. 1441-bis, già approvato dalla Camera dei Deputati il 2 ottobre 2008. Il testo dell’art. 7 del C.P.C., per quanto più direttamente riguarda la giurisdizione del giudici di pace, approvato dai senatori e che ritorna, per la definitiva approvazione a Montecitorio, è il seguente:

1. All’articolo 7 del codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «lire cinque milioni» sono sostituite dalle seguenti: «cinquemila euro»;

b) al secondo comma, le parole: «lire trenta milioni» sono sostituite dalle seguenti: «ventimila euro»;

b-bis) al terzo comma, e` aggiunto, in fine, il seguente numero: «3-bis) per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali».

1-bis. Nelle cause di cui all’articolo 7, terzo comma, numero 3-bis), del codice di procedura civile, si applicano le disposizioni sul procedimento davanti al giudice di pace di cui al libro II, titolo II, del codice di procedura civile.

Ovviamente, ben vengano questi aumenti di competenze che rappresentano comunque un rafforzamento della fiducia delle istituzioni nella giurisdizione dei giudici di pace; dal ritenerli, però, un progresso verso la soluzione delle istanze di fondo della categoria, ce ne corre.

Per quanto possono ritenersi dei segnali - piuttosto timidi, invero - che annunciano la riforma della magistratura di pace non sono tuttavia queste le premesse di metodo; una cosa sono i provvedimenti del legislatore intesi a fluidificare il sistema giudiziario, altro è l’individuazione delle caratteristiche di funzionalità di un’articolazione del sistema giudiziario qual’è la giurisdizione del giudice di pace.

Magistrato che, anzitutto, deve spogliarsi dall’onorarietà per vestire i panni del professionista legale che smette la toga dell’avvocato per indossare quella del magistrato complementare al sistema giudiziario. Va da sé, che giudice di pace non dovrà più essere soltanto laureato in giurisprudenza ma proprio avvocato, con qualche lustro d’esperienza forense alle spalle, iscritto all’ordine e alla cassa previdenziale per non rischiare di perdere, ai fini pensionistici, gli anni spesi nella funzione di giudice. L’obiettivo non è irraggiungibile; lo diventa se si abbandona la strada maestra della riforma dell’istituzione “giudice di pace”, ovvero il professionista del diritto che si presta su una base contrattuale rinnovabile, previo parere positivo del competente consiglio giudiziario, per inseguire il rimedio tampone del quarto mandato sic et simpliciter senza soluzione di continuità.

Se questi sono i segnali, insomma, questa legislatura forse sarà quella che scriverà il testo della riforma del giudice di pace.



Maddaloni, marzo 2009

Alfonso di Nuzzo

Giudice di Pace

V. Pres. A.N.MA.P.

Prospettive di riforma: Ampliare le competenze del Giudice di Pace

COMPETENZE CIVILI DEL GIUDICE DI PACE
E LE ATTESE DELLA CATEGORIA


di
Alfonso di Nuzzo

in www.iussit.eu


______________________________


Col d.d.l. 1082/A, il Senato della Repubblica ha approvato con modificazioni il d.d.l. 1441-bis, già approvato dalla Camera dei Deputati il 2 ottobre 2008. Il testo dell’art. 7 del C.P.C., per quanto più direttamente riguarda la giurisdizione del giudici di pace, approvato dai senatori e che ritorna, per la definitiva approvazione a Montecitorio, è il seguente:

1. All’articolo 7 del codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al primo comma, le parole: «lire cinque milioni» sono sostituite dalle seguenti: «cinquemila euro»;

b) al secondo comma, le parole: «lire trenta milioni» sono sostituite dalle seguenti: «ventimila euro»;

b-bis) al terzo comma, e` aggiunto, in fine, il seguente numero: «3-bis) per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali».

1-bis. Nelle cause di cui all’articolo 7, terzo comma, numero 3-bis), del codice di procedura civile, si applicano le disposizioni sul procedimento davanti al giudice di pace di cui al libro II, titolo II, del codice di procedura civile.

Ovviamente, ben vengano questi aumenti di competenze che rappresentano comunque un rafforzamento della fiducia delle istituzioni nella giurisdizione dei giudici di pace; dal ritenerli, però, un progresso verso la soluzione delle istanze di fondo della categoria, ce ne corre.

Per quanto possono ritenersi dei segnali - piuttosto timidi, invero - che annunciano la riforma della magistratura di pace non sono tuttavia queste le premesse di metodo; una cosa sono i provvedimenti del legislatore intesi a fluidificare il sistema giudiziario, altro è l’individuazione delle caratteristiche di funzionalità di un’articolazione del sistema giudiziario qual’è la giurisdizione del giudice di pace.

Magistrato che, anzitutto, deve spogliarsi dall’onorarietà per vestire i panni del professionista legale che smette la toga dell’avvocato per indossare quella del magistrato complementare al sistema giudiziario. Va da sé, che giudice di pace non dovrà più essere soltanto laureato in giurisprudenza ma proprio avvocato, con qualche lustro d’esperienza forense alle spalle, iscritto all’ordine e alla cassa previdenziale per non rischiare di perdere, ai fini pensionistici, gli anni spesi nella funzione di giudice. L’obiettivo non è irraggiungibile; lo diventa se si abbandona la strada maestra della riforma dell’istituzione “giudice di pace”, ovvero il professionista del diritto che si presta su una base contrattuale rinnovabile, previo parere positivo del competente consiglio giudiziario, per inseguire il rimedio tampone del quarto mandato sic et simpliciter senza soluzione di continuità.

Se questi sono i segnali, insomma, questa legislatura forse sarà quella che scriverà il testo della riforma del giudice di pace.



Maddaloni, marzo 2009

Alfonso di Nuzzo

Giudice di Pace

V. Pres. A.N.MA.P.

art. 4 L 77/55 e Diniego di Cancellazione dal registro dei protesti: opposizione al G.O.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA N. 4464 DEL 25 FEBBRAIO 2009


Con la sentenza n. 4464 del 2009 le Sezioni unite si pronunciano per la prima volta sul procedimento di cui all'art. 4 della L. n. 77 del 1955 (come riformato dalla legge n. 235 del 2000), soffermandosi sulla natura giuridica della posizione sottesa in favore del debitore protestato e sull'oggetto della eventuale fase oppositiva, affermando l'attribuzione della cognizione della relativa controversia in favore del giudice ordinario. Di talché, è qualificabile come diritto soggettivo pieno la posizione giuridica del debitore che, provvedendo al pagamento della cambiale o del vaglia cambiario protestati nel rispetto dei tempi e degli adempimenti prescritti dalla disciplina prevista nell'art. 4 della legge n. 77 del 1955 (come sostituito dall'art. 2 della legge n. 235 del 2000), proponga istanza, in sede amministrativa, al responsabile dirigente dell'ufficio protesti della competente Camera di commercio per ottenere la cancellazione del proprio nominativo dal registro informatico dei protesti, con la conseguente attribuzione al giudice ordinario della cognizione sulla successiva opposizione avverso il provvedimento di diniego o l'omessa pronuncia da parte del suddetto responsabile amministrativo, senza che rilevi in senso ostativo il generale divieto per il giudice ordinario di sostituirsi nell'esercizio di un'attività amministrativa, ricadendosi, nel caso di specie, in una di quelle ipotesi eccezionali il cui al predett
o giudice è riconosciuta la legittimazione ad attuare la tutela giurisdizionale piena e completa del diritto soggettivo leso dal provvedimento amministrativo, attraverso non soltanto la disapplicazione, ma anche la sua diretta caducazione.


Sentenza n. 4464 del 25 febbraio 2009
(Sezioni Unite Civili, Presidente G. Prestipino, Relatore S. Salvago)

art. 4 L 77/55 e Diniego di Cancellazione dal registro dei protesti: opposizione al G.O.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA N. 4464 DEL 25 FEBBRAIO 2009


Con la sentenza n. 4464 del 2009 le Sezioni unite si pronunciano per la prima volta sul procedimento di cui all'art. 4 della L. n. 77 del 1955 (come riformato dalla legge n. 235 del 2000), soffermandosi sulla natura giuridica della posizione sottesa in favore del debitore protestato e sull'oggetto della eventuale fase oppositiva, affermando l'attribuzione della cognizione della relativa controversia in favore del giudice ordinario. Di talché, è qualificabile come diritto soggettivo pieno la posizione giuridica del debitore che, provvedendo al pagamento della cambiale o del vaglia cambiario protestati nel rispetto dei tempi e degli adempimenti prescritti dalla disciplina prevista nell'art. 4 della legge n. 77 del 1955 (come sostituito dall'art. 2 della legge n. 235 del 2000), proponga istanza, in sede amministrativa, al responsabile dirigente dell'ufficio protesti della competente Camera di commercio per ottenere la cancellazione del proprio nominativo dal registro informatico dei protesti, con la conseguente attribuzione al giudice ordinario della cognizione sulla successiva opposizione avverso il provvedimento di diniego o l'omessa pronuncia da parte del suddetto responsabile amministrativo, senza che rilevi in senso ostativo il generale divieto per il giudice ordinario di sostituirsi nell'esercizio di un'attività amministrativa, ricadendosi, nel caso di specie, in una di quelle ipotesi eccezionali il cui al predett
o giudice è riconosciuta la legittimazione ad attuare la tutela giurisdizionale piena e completa del diritto soggettivo leso dal provvedimento amministrativo, attraverso non soltanto la disapplicazione, ma anche la sua diretta caducazione.


Sentenza n. 4464 del 25 febbraio 2009
(Sezioni Unite Civili, Presidente G. Prestipino, Relatore S. Salvago)

lunedì 16 marzo 2009

News dalla Suprema Corte


TRIBUTARIO - ISTANZA DI RIMBORSO RIVOLTA AD UFFICIO INCOMPETENTE
La S.C., innovando rispetto al precedente orientamento, ha affermato che l’ufficio finanziario cui sia presentata una domanda di rimborso è tenuto, ove sia incompetente, a trasmettere la stessa a quello competente, in conformità alle regole di collaborazione tra organi della stessa amministrazione, restando configurabile, in difetto, un silenzio-rifiuto del rimborso medesimo, impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie.


Sentenza n. 4773 del 27 febbraio 2009
(Sezione Quinta Civile, Presidente M. Cicala, Relatore S. Bognanni)

News dalla Suprema Corte


TRIBUTARIO - ISTANZA DI RIMBORSO RIVOLTA AD UFFICIO INCOMPETENTE
La S.C., innovando rispetto al precedente orientamento, ha affermato che l’ufficio finanziario cui sia presentata una domanda di rimborso è tenuto, ove sia incompetente, a trasmettere la stessa a quello competente, in conformità alle regole di collaborazione tra organi della stessa amministrazione, restando configurabile, in difetto, un silenzio-rifiuto del rimborso medesimo, impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie.


Sentenza n. 4773 del 27 febbraio 2009
(Sezione Quinta Civile, Presidente M. Cicala, Relatore S. Bognanni)

fotocopia di fattura inviata a mezzo fax: il costo non è certo

Cassazione, sez. Tributaria, sent. 25 febbraio 2009, n. 4502
"In altri termini, le fotocopie di documenti originali, che non risultino smarrite o distrutte per cause non imputabili al contribuente, non hanno lo stesso valore probatorio degli originali, apparendo anzi come una documentazione sospetta. "
...
"Il ragionamento appare errato perche' non tiene conto del fatto che proprio la irregolarita' della documentazione non consente di ritenere sussistente il requisito della certezza del costo (il cui onere probatorio grava sul contribuente), alla quale segue poi la verifica della inerenza e della competenza."

Fatto
La controversia ha ad oggetto un avviso di accertamento con il quale il competente ufficio finanziario recuperava a tassazione, tra l'altro, costi considerati privi di documentazione, perche' certificati con copie di fatture ricevute via fax, invece che con gli atti originali.
La societa' ... ... spa, destinataria dell'avviso di accertamento ha proposto ricorso vittoriosamente dinanzi alla competente commissione provinciale. La commissione tributaria regionale, invece, accogliendo l'appello dell'Agenzia delle Entrate, ha ritenuto legittimo il recupero effettuato in relazione alle fotocopie dei fax, considerando che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, impone la conservazione degli originali degli atti ricevuti e che le fotocopie non offrono le stesse garanzie dei documenti originali.
Avverso questa decisione ha proposto ricorso la societa' contribuente, sostenuto da due motivi. L'Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Diritto
Il ricorso non puo' trovare accoglimento.
Con il primo motivo, la societa' ricorrente denunciando la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, e vizi di motivazione, sostiene che erroneamente la CTR ha ritenuto che la copia del fax non abbia la stessa efficacia probatoria dell'originale, posto che, comunque, la fattura trasmessa a mezzo fax non e' la fattura originale.
La tesi della ricorrente non e' condivisibile. E' ben vero che il documento che incorpora la fattura trasmessa a mezzo fax e' sostanzialmente una copia dell'originale. Ma e' altrettanto vero che l'originale del fax offre maggiori garanzie perche', non puo' esser frutto di un fotomontaggio, almeno da parte del ricevente. Peraltro, il legislatore, ove mai si fosse trattato di fax trasmesso per mezzo di un personal computer, ha imposto l'obbligo di conservare il supporto elettronico fino al momento della stampa, proprio per evitare il rischio di manipolazioni (a monte come a valle), insito in ogni riproduzione meccanografica non confrontabile con l'originale.
L'obbligo di conservare la documentazione originale, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, e' norma speciale rispetto al regime ordinario della prova documentale dettato dal codice civile, che equipara la copia all'originale se non ci sia espressa contestazione sulla conformita' (art. 2712 c.c.). La diversita' della disciplina trae origine dalla tendenziale indisponibilita' del rapporto tributario e del suo regime probatorio. D'altra parte non risulta che il contribuente abbia giustificato in qualche modo il fatto di non aver conservato gli originali (allegando, ad esempio, la distruzione accidentale o per causa di forza maggiore degli originali), si che la violazione della legge, anche ammesso che le si volesse attribuire un carattere meramente formale, sarebbe comunque sospetta, in relazione al comportamento tenuto dal contribuente. In altri termini, le fotocopie di documenti originali, che non risultino smarrite o distrutte per cause non imputabili al contribuente, non hanno lo stesso valore probatorio degli originali, apparendo anzi come una documentazione sospetta. Specialmente se, come e' accaduto nella specie, non sono allegate valide ragioni che giustifichino la mancata esibizione degli originali.
Con il secondo motivo la societa' ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 TUIR e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, sul rilievo che anche ammesso che la documentazione prodotta non fosse formalmente corretta, la deducibilita' dei costi deve essere comunque riconosciuta in quanto non e' mai stata posta in dubbio la loro effettivita', inerenza e competenza. Il ragionamento appare errato perche' non tiene conto del fatto che proprio la irregolarita' della documentazione non consente di ritenere sussistente il requisito della certezza del costo (il cui onere probatorio grava sul contribuente), alla quale segue poi la verifica della inerenza e della competenza.
Conseguentemente, il ricorso deve essere rigettato. Sussistono giuste ragioni per compensare le spese del giudizio di legittimita', attesa la novita' della questione.

P.Q.M.

La Corte:
Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimita'.
Cosi' deciso in Roma, il 2 dicembre 2008.

fotocopia di fattura inviata a mezzo fax: il costo non è certo

Cassazione, sez. Tributaria, sent. 25 febbraio 2009, n. 4502
"In altri termini, le fotocopie di documenti originali, che non risultino smarrite o distrutte per cause non imputabili al contribuente, non hanno lo stesso valore probatorio degli originali, apparendo anzi come una documentazione sospetta. "
...
"Il ragionamento appare errato perche' non tiene conto del fatto che proprio la irregolarita' della documentazione non consente di ritenere sussistente il requisito della certezza del costo (il cui onere probatorio grava sul contribuente), alla quale segue poi la verifica della inerenza e della competenza."

Fatto
La controversia ha ad oggetto un avviso di accertamento con il quale il competente ufficio finanziario recuperava a tassazione, tra l'altro, costi considerati privi di documentazione, perche' certificati con copie di fatture ricevute via fax, invece che con gli atti originali.
La societa' ... ... spa, destinataria dell'avviso di accertamento ha proposto ricorso vittoriosamente dinanzi alla competente commissione provinciale. La commissione tributaria regionale, invece, accogliendo l'appello dell'Agenzia delle Entrate, ha ritenuto legittimo il recupero effettuato in relazione alle fotocopie dei fax, considerando che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, impone la conservazione degli originali degli atti ricevuti e che le fotocopie non offrono le stesse garanzie dei documenti originali.
Avverso questa decisione ha proposto ricorso la societa' contribuente, sostenuto da due motivi. L'Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Diritto
Il ricorso non puo' trovare accoglimento.
Con il primo motivo, la societa' ricorrente denunciando la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, e vizi di motivazione, sostiene che erroneamente la CTR ha ritenuto che la copia del fax non abbia la stessa efficacia probatoria dell'originale, posto che, comunque, la fattura trasmessa a mezzo fax non e' la fattura originale.
La tesi della ricorrente non e' condivisibile. E' ben vero che il documento che incorpora la fattura trasmessa a mezzo fax e' sostanzialmente una copia dell'originale. Ma e' altrettanto vero che l'originale del fax offre maggiori garanzie perche', non puo' esser frutto di un fotomontaggio, almeno da parte del ricevente. Peraltro, il legislatore, ove mai si fosse trattato di fax trasmesso per mezzo di un personal computer, ha imposto l'obbligo di conservare il supporto elettronico fino al momento della stampa, proprio per evitare il rischio di manipolazioni (a monte come a valle), insito in ogni riproduzione meccanografica non confrontabile con l'originale.
L'obbligo di conservare la documentazione originale, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, e' norma speciale rispetto al regime ordinario della prova documentale dettato dal codice civile, che equipara la copia all'originale se non ci sia espressa contestazione sulla conformita' (art. 2712 c.c.). La diversita' della disciplina trae origine dalla tendenziale indisponibilita' del rapporto tributario e del suo regime probatorio. D'altra parte non risulta che il contribuente abbia giustificato in qualche modo il fatto di non aver conservato gli originali (allegando, ad esempio, la distruzione accidentale o per causa di forza maggiore degli originali), si che la violazione della legge, anche ammesso che le si volesse attribuire un carattere meramente formale, sarebbe comunque sospetta, in relazione al comportamento tenuto dal contribuente. In altri termini, le fotocopie di documenti originali, che non risultino smarrite o distrutte per cause non imputabili al contribuente, non hanno lo stesso valore probatorio degli originali, apparendo anzi come una documentazione sospetta. Specialmente se, come e' accaduto nella specie, non sono allegate valide ragioni che giustifichino la mancata esibizione degli originali.
Con il secondo motivo la societa' ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 TUIR e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, sul rilievo che anche ammesso che la documentazione prodotta non fosse formalmente corretta, la deducibilita' dei costi deve essere comunque riconosciuta in quanto non e' mai stata posta in dubbio la loro effettivita', inerenza e competenza. Il ragionamento appare errato perche' non tiene conto del fatto che proprio la irregolarita' della documentazione non consente di ritenere sussistente il requisito della certezza del costo (il cui onere probatorio grava sul contribuente), alla quale segue poi la verifica della inerenza e della competenza.
Conseguentemente, il ricorso deve essere rigettato. Sussistono giuste ragioni per compensare le spese del giudizio di legittimita', attesa la novita' della questione.

P.Q.M.

La Corte:
Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimita'.
Cosi' deciso in Roma, il 2 dicembre 2008.

Il danno da ritardo e la giurisprudenza 2009 del Consiglio di Stato

Consiglio di Stato
sentenza 1162 del 2 marzo 2009
IL DANNO DA RITARDO, TRA DRITTO AMMINISTRATIVO E CIVILE
Il danno da ritardo, quindi, non ha un’autonomia strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui scaturisce, dato che è legato inscindibilmente alla positiva finalizzazione di quest’ultima; né si presenta a guisa di una ordinaria ipotesi di riparazione per equivalente, tenuto conto che si associa il più delle volte (quando non vi ostano circostanze fattuali sopravvenute) alla riparazione in forma specifica dell’effettivo rilascio (sia pur tardivo) del provvedimento favorevole.

REPUBBLICA ITALIANA
N.1162/09 REG.DEC.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N. 7818 REG:RIC.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione
ANNO 2007
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 7818/07 proposto da

Comune di Roma, in persona del sindaco e legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso in giudizio dall’avv. Rosalda Rocchi dell’avvocatura del Comune di Roma ed elettivamente domiciliato in Roma alla via del Tempio di Giove, n. 21 negli uffici dell’Avvocatura comunale;
CONTRO
la sig.ra Daniela ..., rappresentata e difesa in giudizio dall’avv. Loredana Serva ed elettivamente domiciliata in Roma alla via delle Coppelle n. 16;
PER L’ANNULLAMENTO
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II ter, n. 6687/2007, pubblicata in data 18 luglio 2007, non notificata, con la quale in accoglimento del ricorso n. 11047/2003 proposto da Daniela ... il Comune di Roma è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della ricorrente, danni da quantificarsi a mezzo di CTU contestualmente disposta;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’appellata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti delle due cause;
Relatore alla pubblica udienza del 28 ottobre 2008, il Consigliere Giulio Castriota Scanderbeg;
Uditi gli avv. Rosalda Rocchi per il Comune di Roma e l’avv. Loredana Serva per la parte appellata;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Con l’appello all’esame è gravata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II ter, n. 6687/2007, pubblicata in data 18 luglio 2007, non notificata, con la quale, in accoglimento del ricorso n. 11047/2003, il Comune di Roma è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della ricorrente, sig.ra ..., danni da quantificarsi a mezzo di CTU contestualmente disposta con la stessa pronuncia definitiva.
L’Amministrazione comunale appellante premette in fatto che il presente giudizio risarcitorio prende le mosse da altro pregresso giudizio nel quale la sig.ra ... aveva vittoriosamente impugnato dinanzi al Tar del Lazio il silenzio dell’amministrazione comunale su una sua istanza volta ad ottenere l’autorizzazione alla vendita di quotidiani e periodici in via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4; nella pronuncia (n. 649/97), non impugnata, resa all’esito di quel giudizio il Tar aveva dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi esplicitamente sull’istanza dopo che, con due decisioni interlocutorie, lo stesso giudice aveva disposto incombenti volti ad acclarare la localizzazione del sito (via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4) prescelto dalla ... e, per l’effetto, la autorizzabilità della sua istanza, tenuto conto delle distanze minime che devono intercorrere tra esercizi di rivendita di giornali ai sensi della disciplina normativa di settore.
Verificata la impossibilità di assentire la prima istanzaa causa della localizzazione prescelta, attesa la autorizzazione medio-tempore accordata ad altro esercente avente diritto di precedenza, l’Amministrazione comunale in ottemperanza al giudicato formatosi sulla sentenza n. 649/97 invitava la sig.ra ... ad effettuare altra scelta localizzativa, che cadeva finalmente su viale Quattro Venti 110/112, dopo che precedenti siti individuati dalla interessata erano stati ritenuti inadeguati in quanto non rispettosi della distanza minima tra edicole. Ottenuta finalmente, con determinazione dirigenziale n. 160 del 25 maggio 1998, l’autorizzazione agognata, la ricorrente interponeva il giudizio risarcitorio definito in primo grado dalla pronuncia di accoglimento qui oggetto di gravame.
Deduce l’appellante a fondamento dell’impugnazione che il giudice di prime cure nella adozione della decisione non avrebbe tenuto conto di espresse disposizioni di legge (art. 7 LR n.3/1985) e, più in generale, della disciplina complessiva della materia, oltreché dei principi giurisprudenziali acquisiti in tema di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi pretensivi. In particolare, deduce il Comune di Roma che ai sensi dell’art. 7 della LR n. 3 del 1985, la domanda dell’interessato per l’esercizio di rivendita di giornali in posti fissi si intende respinta qualora il sindaco non deliberi su di essa nel termine di 90 giorni dalla sua presentazione e che, pertanto, la prima istanza della interessata, proposta nel 1990 e dai contenuti estremamente generici in ordine alla individuazione del sito prescelto, aveva trovato risposta, sia pur in un provvedimento tacito di diniego; d’altronde, il provvedimento favorevole accordato dalla Amministrazione nel 1998 era invece da considerarsi, nella prospettazione del Comune, accessivo ad altra successiva istanza della interessata, di tal che non era assolutamente configurabile nella specie, sempre a dire dell’appellante, un nesso causale tra gli atti, anche impliciti, ascrivibili alla Amministrazione ed i pretesi danni subiti dalla ricorrente in primo grado; inoltre, non era ravvisabile l’indefettibile elemento della colpa.
Ripropone inoltre l’appellante, deducendolo quale specifico motivo d’appello, il tema della prescrizione del diritto fatto valere dalla ..., atteso che nel 2003, epoca della proposizione del giudizio di primo grado, a suo dire era sicuramente prescritta l’azione risarcitoria conseguente alla illegittimità del silenzio-rigetto formatosi sulla prima istanza, non potendosi configurare quali validi atti interruttivi della prescrizione – avuto riguardo al contenuto generico degli stessi - le due lettere inviate dalla interessata nel corso del 2001.
Da ultimo, la appellante amministrazione contesta la sussistenza di un danno risarcibile in capo alla ..., che al più avrebbe dovuto essere provato nel suo preciso ammontare dalla interessata e non già a mezzo della consulenza tecnica disposta erroneamente dal giudice di prime cure, di cui in ogni caso sarebbero errati i parametri di riferimento offerti dal giudicante per la quantificazione del danno; vieppiù considerando, sempre a giudizio dell’appellante, che la parte appellata avrebbe ceduto il 4 novembre 1998 l’autorizzazione ottenuta, locupletando ingiustamente dalla vendita di un titolo giuridico non ancora legato sul piano materiale ad un’azienda in esercizio.
Conclude per l’annullamento della gravata pronuncia e per il ristoro delle spese e competenze del giudizio.
Si costituisce in giudizio la sig.ra ... la quale, nel contestare la fondatezza dei motivi dell’appello, chiede la reiezione del gravame con la conferma della gravata pronuncia.
Alla pubblica udienza del 28 ottobre 2008 la causa è passata in decisione.
DIRITTO
L’appello è solo in parte fondato, nei limiti di cui si dirà appresso.
Come ricordato in fatto, col primo motivo di gravame il Comune di Roma contesta la sussistenza stessa degli elementi costitutivi della responsabilità civile ascritta a suo carico nella gravata pronuncia, sul presupposto che la legge regionale laziale n. 3 del 1985 (art. 7 u.c.) avrebbe attribuito un significato legale tipico al silenzio amministrativo serbato per un periodo di 90 giorni dalla presentazione della istanza di autorizzazione alla rivendita di giornali e periodici. Di qui l’inesistenza, sempre nella prospettiva dell’appellante, di un’inerzia colpevole suscettibile di rilevare ai fini risarcitori, vertendosi invece nella distinta ipotesi del provvedimento tacito di diniego, formatosi dopo lo spirare dello spatium deliberandi di 90 giorni; peraltro, sempre a giudizio del Comune di Roma, tale atto tacito di diniego non avrebbe potuto qualificarsi come illegittimo, dato che la istanza originaria della interessata si sarebbe dimostrata poco puntuale nella indicazione della localizzazione dell’edicola (la originaria indicazione di via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4, sarebbe stata, solo dopo indagini istruttorie ed a seguito del successivo completamento della toponomastica cittadina, più correttamente individuata come via del Pellaio , altezza civico 57).
La censura non merita condivisione.
Trascura l’appellante di considerare che il silenzio serbato dal Comune di Roma sulla originaria istanza della interessata, ancorchè connotato da valore legale tipico di diniego in base alla richiamata disposizione di legge regionale, ha formato oggetto di scrutinio giurisdizionale culminato con l’adozione della citata sentenza del TAR Lazio n.649 del10 aprile 1997, passata in giudicato. In tale alveo giurisdizionale è stata acclarata definitivamente, con statuizione sul punto intangibile anche per questo Giudice, la illegittimità del silenzio amministrativo, essendosi accertato che, salva la verifica dei requisiti soggettivi, l’amministrazione comunale aveva l’obbligo di provvedere sulla istanza della sig.ra .... Le vicende procedimentali successive al predetto giudicato, ed anzitutto il rilascio nel 1998 del provvedimento favorevole all’interessata (sia pur per la nuova sede di viale dei Quattro Venti) e, ancor più, il rilascio ad altro soggetto avente diritto di preferenza dell’autorizzazione in via del Pellaio 57 (corrispondente alla indicazione topografica di via Lucrezia Romana fornita originariamente dalla ...), hanno poi dimostrato che la ricorrente in primo grado non solo aveva titolo a conseguire fin dall’inizio l’autorizzazione per la rivendita di giornali e periodici, ma che tale interesse pretensivo della appellata, se tempestivamente soddisfatto, avrebbe potuto giovarsi della primigenia localizzazione prescelta dalla interessata.
Tale ultima considerazione, peraltro, elide ogni profilo di rilevanza della questione, pur dedotta come autonoma articolazione di doglianza, della intervenuta variazione dell’oggetto materiale della richiesta della interessata, dapprima focalizzata sulla localizzazione di via Lucrezia Romana e di poi finalmente soddisfatta in relazione al diverso indirizzo di viale Quattro Venti. E’ indubbio infatti che tale variazione spaziale dell’oggetto della originaria istanza per un verso non è ascrivibile a responsabilità della sig.ra ... (ma semmai al fatto oggettivo che il tempo necessario all’accertamento del suo diritto aveva fatto maturare medio-tempore una posizione poziore di altro interessato), per altro verso non autorizza sul piano giuridico l’affrettata conclusione dell’appellante secondo cui, essendo mutato il bene materiale oggetto di tutela, tale circostanza avrebbe reciso il nesso di causalità giuridica, tipico della sede risarcitoria, tra fatto materiale ed evento dannoso.
A parte il già rilevato e dirimente profilo della non imputabilità alla ... di tale variazione parziale dell’oggetto materiale della sua iniziale richiesta, non appare corretta, su un piano ancor più generale, la stessa deduzione secondo cui sarebbe medio-tempore mutato il bene della vita inizialmente fatto valere con l’attivazione della istanza di autorizzazione commerciale rispetto a quello in concreto soddisfatto a mezzo del definitivo rilascio dell’autorizzazione nel 1998; è evidente, infatti, che il bene giuridico perseguito nel tempo dalla interessata, rappresentato in concreto dall’esercizio dell’attività economica di rivendita di giornali in Roma, è rimasto il medesimo, essendone mutata, per ragioni indipendenti dalla volontà dell’interesssata, soltanto la localizzazione.
Con altro motivo il Comune appellante ripropone la questione della pretesa prescrizione dell’azione risarcitoria, già sollevata in primo grado e disattesa dal giudice di prime cure.
Anche tale questione è infondata.
Va premesso che nel nostro diritto positivo non è previsto allo stato attuale della legislazione un meccanismo riparatore dei danni causati dal ritardo procedimentale in sé e per sé considerato. L’inerzia amministrativa, per essere sanzionabile in sede risarcitoria, postula non soltanto il previo accertamento giurisdizionale della sua illegittimità ma vieppiù il concreto esercizio della funzione amministrativa, ove ancora possibile e di interesse per il cittadino istante, in senso favorevole all’interessato (ovvero il suo esercizio virtuale, in sede di giudizio prognostico da parte del giudicante investito della richiesta risarcitoria).
Il danno da ritardo, quindi, non ha un’autonomia strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui scaturisce, dato che è legato inscindibilmente alla positiva finalizzazione di quest’ultima; né si presenta a guisa di una ordinaria ipotesi di riparazione per equivalente, tenuto conto che si associa il più delle volte (quando non vi ostano circostanze fattuali sopravvenute) alla riparazione in forma specifica dell’effettivo rilascio (sia pur tardivo) del provvedimento favorevole.
Tali conclusioni sono pienamente in linea con quanto precisato dall’Adunanza Plenaria di questo Consesso n. 5 del 15 settembre 2005; in tale pronuncia si è ribadito che, allo stato attuale della legislazione, non è risarcibile il danno da ritardo , cioè disancorato dalla dimostrazione giudiziale della meritevolezza di tutela dell’interesse pretensivo fatto valere e che, pertanto, l’eventuale danno non è risarcibile quando l’Amministrazione abbia adottato, ancorchè con notevole ritardo, un provvedimento (rimasto inoppugnato) dal contenuto negativo per l’interessato.
Alla luce di tali brevi premesse ricostruttive della responsabilità civile della amministrazione per ritardato o omesso rilascio di provvedimento favorevole, correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto che nella specie non fosse maturata la prescrizione della pretesa risarcitoria avanzata dalla ricorrente ... nel corso dell’anno 2003.
Tenuto conto infatti che soltanto nel 1997 si è concluso, con la prefata pronuncia n. 649/97, il giudizio di accertamento della illegittimità del silenzio, con conseguente statuizione sull’obbligo di provvedere e che nel 1998 è stato finalmente rilasciato il provvedimento favorevole invocato dalla interessata, in nessun modo potrebbe ritenersi nella specie prescritta l’azione risarcitoria proposta dalla ricorrente di primo grado; ed infatti, nel settembre e nell’ottobre del 2001, la ... ha inviato – come correttamente rilevato dal TAR- due distinte lettere raccomandate con le quali ha inequivocabilmente richiesto di essere reintegrata dei danni subiti per effetto del ritardato rilascio del provvedimento favorevole, di tal che a ragione il primo giudicante, investito della decisione del ricorso notificato nel corso del 2003, ha ritenuto non integrata la fattispecie estintiva correlata al mancato esercizio dell’azione nel quinquennio.
Condivisibili risultano poi le considerazioni svolte dal primo giudice in ordine alla fissazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dal passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato l’illegittimità del silenzio ed il correlativo obbligo giuridico di provvedere anzichè, come vorrebbe l’appellante, dalla scadenza del termine legale fissato per l’adozione dell’atto ovvero dalla scadenza del termine assegnato dalla parte istante a mezzo della prescritta diffida alla Amministrazione (necessaria, prima della modifica dell’art. 2 L. 241/90 ad opera dell’art. 6 bis dl 35/2005, convertito nella l. 80/2005, ai fini della formazione del silenzio-rifiuto). Si è già detto, infatti, che l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del silenzio, unitamente al nuovo esercizio della funzione amministrativa in senso favorevole all’interessato, rappresentano nella riparazione del danno da ritardato rilascio di provvedimento favorevole elementi costitutivi della fattispecie dannosa; da ciò discende la pregiudizialità, in senso logico prima ancora che in senso processuale, del giudizio di accertamento della illegittimità del silenzio, e conseguentemente l’inesigibilità giuridica (ostativa al decorso del termine prescrizionale ai sensi dell’art.2935 cod. civ. ) della incardinazione dell’azione finalizzata alla riparazione del danno da ritardo prima della positiva conclusione di quella parentesi giurisdizionale.
Inoltre va soggiunto, pur se la considerazione esula dalla ratio decidendi, che tale argomento in ordine al carattere pregiudiziale del giudizio sul silenzio risulta vieppiù avvalorato a seguito della introduzione del nuovo modello processuale previsto nei giudizi sul silenzio (art. 21 bis L. 1034/71, come introdotto dall’art. 2 della l. 205/2000) (in questi termini, Adunanza plenaria n. 1/2002).
Con distinto motivo di appello il Comune ricorrente ha contestato la sussistenza nella specie dell’elemento indefettibile della colpa, al fine di ritenere integrata la responsabilità aquiliana della amministrazione.
Anche tale censura non coglie nel segno.
E’ pacifico, per giurisprudenza ormai costante (a partire da Cass. SS. UU. 22 luglio 1999, n. 500; ma v. anche Corte Cost. 7 aprile 2006, n. 146; e di recente Consiglio di Stato, V sez., 8 settembre 2008, n. 4242), che non è sufficiente la illegittimità del provvedimento o dell’inerzia amministrativa per ritenere integrata una fattispecie di responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, essendo essenziale ad integrare la fattispecie il giudizio di imputabilità soggettiva, quantomeno a titolo di colpa dell’apparato, che vale a legare il fatto alla amministrazione procedente.
Ora, la Sezione è persuasa che nella specie sia pienamente predicabile la colpa dell’apparato amministrativo, da intendersi nello specifico quale violazione delle regole di buona fede, leale collaborazione e di trasparenza. Le vicende processuali e procedimentali presupposte all’azione risarcitoria oggetto di esame nell’ambito del presente giudizio hanno dato ampia dimostrazione riguardo alle seguenti circostanze: 1) che il silenzio amministrativo serbato sulla originaria istanza della ... è risultato illegittimo, per come accertato con decisione inoppugnabile nella competente parentesi giurisdizionale; 2) che la sig.ra ... aveva titolo fin dall’inizio ad ottenere l’autorizzazione alla rivendita di giornali e periodici e che tuttavia la sede alla quale la stessa ambiva è stata assegnata, nelle more della definizione del giudizio, ad altro richiedente.
A ciò aggiungasi che l’Amministrazione comunale, se avesse improntato la sua azione ai canoni della buona fede e della leale collaborazione con l’interessata, avrebbe ben potuto individuare da subito, anche attraverso una interlocuzione di istruttoria procedimentale, l’esatta ubicazione del sito ove la ... intendeva allocare l’edicola, di modo da evitare il prolungarsi di una situazione di fatto che si è rivelata di pregiudizio per gli interessi della odierna parte appellata. Peraltro, neppure durante i lunghi anni di pendenza del giudizio sul silenzio, l’Amministrazione comunale si è resa parte attiva per soddisfare l’interesse pretensivo della parte istante (ciò che era pienamente ammissibile, essendo ius receptum che l’introduzione del giudizio sul silenzio non priva l’amministrazione del potere/dovere di provvedere). In un tale contesto fattuale, non appare revocabile in dubbio che il Comune di Roma, nel non rilasciare alla parte appellata l’invocata autorizzazione amministrativa, abbia violato quei doveri di buona fede e fattiva collaborazione che devono connotare i rapporti tra privati e amministrazione e la cui elusione è elemento sufficiente per ritenere sussistente la colpa dell’apparato amministrativo (in tali sensi, tra le più recenti, Consiglio di Stato, VI, 9 giugno 2008, n. 2750).
Per quanto fin qui detto, non par dubbio, sull’an della pretesa risarcitoria azionata dalla ... col ricorso di primo grado, che la stessa è stata correttamente ritenuta fondata dal giudice di prima istanza e che nessuno dei motivi di appello sul punto articolati meritano condivisione, per le ragioni brevemente richiamate.
Venendo al tema della quantificazione del danno, va ricordato che anche su tale punto l’appellante Comune di Roma ha articolato motivi di censura avverso la sentenza dei primi giudici.
In particolare, l’Amministrazione capitolina si duole della pretesa violazione, da parte della ricorrente di primo grado, dell’onere processuale della prova in relazione al pregiudizio in concreto sofferto per il mancato tempestivo rilascio in suo favore della rivendicata autorizzazione.
Tale motivo di gravame, ridondante in specifica censura avverso la sentenza, viene peraltro declinato dall’appellante in abbinata alla doglianza inerente la pretesa violazione delle regole processuali sulla prova, in virtù delle quali - anche nel processo amministrativo - la consulenza tecnica d’ufficio non può mai surrogare l’adempimento dell’onere probatorio, che incombe sulla parte, non trattandosi propriamente di uno strumento di prova quanto invece di un mezzo di corretta valutazione del materiale probatorio già acquisito al processo. Inoltre, l’appellante ha censurato sotto distinto profilo la congruità dei criteri prescelti dal giudice di primo grado al fine di modulare l’entità del danno, giudicati inadatti, a suo dire, a realizzare l’effetto riparatore per equivalente, avuto riguardo all’entità del pregiudizio asseritamente risentito dalla parte appellata per effetto del ritardo.
Il primo profilo di censura non merita condivisione.
E’ vero, in linea generale, che nella materia risarcitoria il modello istruttorio di tipo dispositivo-acquisitivo, proprio della giurisdizione amministrativa di legittimità, non ha ragione di sovrapporsi a quello improntato al principio dispositivo della prova (di stampo processualcivilistico) nella sua declinazione più piena. Ed infatti, la relativa impermeabilità di taluni ambiti della sfera d’azione dei pubblici poteri, la quale giustifica, ove oggetto precipuo di scrutinio è la funzione amministrativa autoritativa, l’estensione dell’area di acquisizione ufficiosa della prova ad opera del giudice amministrativo, non potrebbe rappresentare valido argomento per predicare analogo spazio di intervento al giudice del risarcimento del danno, una volta che sia stata definitivamente acclarata l’illegittimità dell’atto amministrativo nella propedeutica parentesi processuale cognitoria ovvero quando, sempre nella presupposta fase giurisdizionale, sia stato accertata la illegittimità del comportamento inerziale (produttivo del danno al bene della vita sotteso all’atto omesso o non tempestivamente adottato).
La incontestabilità di tale premessa generale non vale tuttavia ad inferire che nel caso all’esame la ricorrente in primo grado si sia sottratta dall’assolvere compiutamente l’onere probatorio, secondo il richiamato principio dispositivo, nei limiti di quanto fosse in concreto esigibile da parte sua. La stessa ha infatti allegato al ricorso di primo grado una perizia nella quale ha quantificato i danni sofferti per effetto della mancata attivazione nei termini della rivendita di giornali, sia pur adottando, come parametro di riferimento, il fatturato dell’edicola di viale Quattro Venti (in relazione alla quale soltanto la stessa ha definitivamente ottenuto, nel 1998, il titolo abilitativo) anziché quello di via del Pellaro 57 (ove ab origine doveva essere insediata la sua attività).
Non va d’altra parte sottaciuta la obiettiva difficoltà per la ricorrente in primo grado di fornire indicazioni più precise sul piano della quantificazione del danno da mancato guadagno, se solo si considera che la sede inizialmente prescelta dalla ... è rimasta vacante fino al 1994 e che, dopo questa data, è stata occupata da altro soggetto da cui, stante la non provata conoscenza personale, difficilmente la odierna appellata avrebbe potuto attingere informazioni sui dati di fatturato spendibili in sede processuale.
Né, d’altro canto, può mettersi in dubbio, su un piano generale, la legittimità del ricorso ad opera del giudice di primo grado allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, se si eccettua il profilo (peraltro non contestato) della sua adozione a mezzo di sentenza definitiva ed in congiunzione ad un inusitato dispositivo di condanna generica al risarcimento del danno. Basti al proposito osservare che la consulenza tecnica è tipico mezzo istruttoria per la quantificazione del danno nei giudizi di responsabilità civile e non contrasta col principio dispositivo, le quante volte la parte danneggiata abbia allegato elementi fattuali da cui inequivocabilmente desumere che un danno effettivamente vi sia stato (come nel caso all’esame, in cui la ... ha dimostrato di essere rimasta priva per lungo tempo dell’autorizzazione alla rivendita dei giornali per fatto ascrivibile dell’amministrazione).
Piuttosto, a parer del Collegio, la difficoltà di individuare parametri appropriati cui commisurare l’ammontare del danno da liquidare alla odierna parte appellata assume, in questo giudizio, una valenza oggettiva, che trascende il tema della congruità dello strumento istruttorio funzionale allo scopo.
Sotto tal riguardo vanno accolti, a parer del Collegio, i profili di censura incentrati sulla incongruità dei criteri di determinazione del danno prescelti dal primo giudice, e per conseguenza, va riformata la determinazione di affidare al consulente tecnico la concreta modulazione di quei criteri a mezzo della traduzione degli stessi in termini quantitativi. In disparte il generico riferimento – che si legge nella gravata pronuncia-ai proventi degli esercizi viciniori per la quantificazione dei danni antecedenti il 1994 (alla vendita dei giornali può essere associata una gamma più o meno vasta di prodotti di altro genere con un effetto trainante di intensità variabile per il fatturato relativo ai giornali) nonché la oggettiva difficoltà, per il periodo successivo al 1994, di attingere ai dati di fatturato dello stesso esercizio posto nel luogo ove avrebbe voluto installare l’edicola la odierna appellata (attesa la necessaria e non prevedibile collaborazione di soggetti terzi), resta da dire che i dati di fatturato sono comunque strumenti inadeguati di valutazione del danno, avuto riguardo alle seguenti circostanze: a) il reddito di impresa dipende essenzialmente dalle capacità imprenditoriali del titolare dell’azienda e dal piano degli investimenti programmati, e quindi ha un grado di volatilità dipendente da tali fattori soggettivi; 2) deve in ogni caso tenersi conto che la appellata ... ha potuto disimpegnare aliunde le proprie energie lavorative nel lungo lasso temporale (1990-1998) in cui è rimasta illegittimamente priva di titolo abilitativo alla rivendita di giornali; 3) da ultimo, la stessa ... ha ceduto, il 4 novembre 1998, alienandolo unitamente all’azienda, il titolo abilitativo conseguito all’esito del tormentato iter procedimentale, ed ha ricevuto in corrispettivo la somma di Lire 80.000.000. Tenuto conto del fatto che all’epoca della cessione la ... non aveva neppure ritirato la concessione di suolo pubblico per la realizzazione dell’edicola, è facile desumere che il compendio aziendale constava, all’epoca della cessione, essenzialmente dell’autorizzazione commerciale. Né è a dire, come erroneamente ritenuto dal primo giudicante, che della evenienza dell’alienazione del titolo non potrebbe tenersi conto in questa sede risarcitoria, in quanto fatto successivo all’eventus damni; si è già detto, al contrario, che il risarcimento del danno da ritardata adozione di provvedimento favorevole non ha struttura autonoma ma accede, con funzione complementare, alla riparazione in forma specifica ottenuta dall’interessato a mezzo del rilascio del provvedimento ampliativo.
Sicchè è tutt’altro che implausibile che, come prospettato dal Comune appellante, in una fattispecie risarcitoria, quale quella in esame, di danno da ritardata adozione del provvedimento, si tenga anche conto dell’utilità che dal provvedimento favorevole abbia immediatamente tratto l’interessata, consistita nella specie nell’averlo subito negoziato con profitto, prima ancora della sua naturale destinazione in funzione propedeutica all’avviamento dell’attività d’impresa.
Alla luce delle considerazioni appena svolte, ritiene la Sezione, in riforma sul punto della gravata pronuncia, che alla quantificazione del danno nel caso all’esame si deve ragionevolmente pervenire attingendo allo strumento sussidiario della valutazione equitativa previsto dall’art. 1226 cod. civ. (per come espressamente richiamato, nell’ambito della disciplina della responsabilità aquiliana, dall’art. 2056 cod. civ.); si verte, infatti, in una tipica ipotesi in cui il danno non può essere accertato nel suo preciso ammontare.
In tale ambito, tenuto conto di tutte le suindicate circostanze, il Collegio è persuaso che una valutazione congrua del danno risentito dalla ... possa essere contenuta nella misura di Euro 15.000,00 (quindicimila). Alla liquidazione di tale somma, da intendersi espressa ai valori attuali della moneta e quindi non suscettibile di essere ulteriormente incrementata per rivalutazione ed interessi fino alla data della presente decisione, il Comune di Roma provvederà in favore della ... nel termine di 90 giorni, decorrenti dalla comunicazione in via amministrativa ovvero dalla notificazione della presente decisione.
In conclusione, l’appello va solo parzialmente accolto con conseguenziale riforma, nei limiti anzidetti, della gravata pronuncia.
Le spese di entrambi i gradi di giudizio possono essere integralmente compensate fra le parti, ricorrendo giusti motivi.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. V), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo accoglie in parte e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, liquida il danno nei termini di cui in motivazione e condanna il Comune di Roma, a titolo di risarcimento del danno in favore della sig.ra Daniela ..., al pagamento della somma di Euro 15.000,00 (quindicimila/00), da liquidarsi nel termine di gg. 90 dalla notificazione ovvero dalla comunicazione in via amministrativa della presente pronuncia.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 28 ottobre 2008, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. V), riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei signori:
Stefano Baccarini Presidente.
Aldo Fera Consigliere
Filoreto D’Agostino Consigliere
Vito Poli Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg Consigliere est.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Giulio Castriota Scanderbeg f.to Stefano Baccarini
IL SEGRETARIO
f.to Agatina Maria Vilardo
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il................02/03/09.................
(Art. 55. L. 27/4/1982, n. 186)
IL DIRIGENTE
f.to Antonio Natale

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