mercoledì 15 ottobre 2008

09.10.2008
Pagamento sistematico di "tangenti" e fattispecie corruttiva
Nel pagamento sistematico di "tangenti" da parte di imprenditori per aggiudicarsi pubbliche commesse è ravvisabile la corruzione e non la concussione "ambientale".
Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 19/09/2008, n. 36154

Interessante sentenza della Cassazione che coglie l’esatto discrimine tra la corruzione e la concussione.
Secondo la Corte, integra la fattispecie della corruzione (articolo 319 c.p.), e non quella della concussione anche cosiddetta "ambientale" (articolo 317 c.p.), una situazione in cui si apprezzi il sistematico pagamento di tangenti da parte di imprenditori di opere pubbliche, nella quale, in un contesto di costante flusso delle commesse, vengano privilegiati gli imprenditori che si siano opportunamente organizzati a tal fine, con conseguente disattivazione dei meccanismi propri della libera concorrenza.
Infatti, argomenta il giudice di legittimità, l’inserimento in un sistema nel quale il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della "tangente" siano costanti, non è agevole cogliere nella parte privata, specie se identificabile con un gruppo imprenditoriale ben attrezzato sotto il profilo organizzativo e sotto quello economico, lo stato di soggezione, indispensabile per la configurazione della concussione, anche ambientale, posto che, in tale situazione, detta parte mira principalmente ad assicurarsi vantaggi al di fuori degli schemi legali, approfittando proprio dei meccanismi criminosi e divenendo protagonista del sistema illecito.
In effetti, non sempre è facile distinguere, in concreto, tra corruzione e concussione.
La difficoltà, anzi, si accentua allorchè si discuta della possibile configurabilità della concussione "ambientale", giacchè soprattutto in questo caso non è sempre semplice cogliere i profili del rapporto intersoggettivo che si determina tra il privato e il pubblico ufficiale e, conseguentemente, il ruolo -di vittima o, alternativamente, di concorrente necessario- del primo.
In realtà, l'elemento fondamentale per distinguere tra la corruzione e la concussione è da individuare nell'apprezzamento del rapporto tra le volontà dei soggetti.
Nella corruzione il rapporto è paritario: vi è, in sostanza, una situazione di par condicio in forza della quale entrambe le parti si accordano liberamente e senza condizionamenti, mercanteggiando l'attività d'ufficio ciascuno per una finalità di profitto proprio.
Nella concussione manca questo rapporto paritario. Il privato, infatti, anche se non sempre si trova in una condizione addirittura di timore o di paura (il c.d. metus publicae potestatis) nei confronti del pubblico ufficiale, sicuramente sempre versa in una situazione di assoggettamento psicologico conseguente alla condotta abusiva del pubblico ufficiale che lo induce o costringe alla prestazione o alla promessa di prestazione solo per evitare un danno.
Peraltro, l'apprezzamento del rapporto -paritetico o no- tra le parti non è sempre immediatamente percepibile, anche perché non è facile la ricostruzione processuale degli stati d'animo psicologici, quali sono l'assoggettamento alla volontà altrui o, per converso, la piena libertà di autodeterminazione.
Occorre, quindi, ricercare nella fattispecie concreta tutti gli elementi indiziari che possano contribuire a fare chiarezza.
In questa prospettiva, utili elementi indiziari possono essere ricavati, come nella fattispecie esaminata dalla Cassazione, dai "rapporti di forza" esistenti tra il pubblico ufficiale e il privato.
Non è infatti discutibile che, nell'apprezzamento del requisito della par condicio, inteso nei termini suesposti, notevole spessore indiziario dovrà ascriversi alla disamina dei contatti tra le parti e dei reciproci "rapporti di forza" (rilevante sarà il giudizio sul "potere economico" del privato, di norma direttamente proporzionale alla capacità di resistenza rispetto ad un'ipotizzabile pretesa illecita del pubblico agente), estendendosi, laddove possibile, la considerazione anche alle condotte antecedenti e susseguenti l'attività incriminata (per riferimenti, cfr. anche Cassazione, Sezione VI, 19 ottobre 2001, Berlusconi; Sezione VI, 3 novembre 2003, PG ed altro in proc. Di Giacomo).
A nostro avviso, poi, fondamentale elemento indiziario, utile per cogliere l’esatto discrimine tra le fattispecie di che trattasi, è costituito anche dall'apprezzamento della "finalità" che ha mosso il privato, giacchè questa finalità può fornire un contributo essenziale per ricostruire la posizione del privato rispetto a quella del pubblico ufficiale: se il privato si è mosso per perseguire un vantaggio indebito che non avrebbe potuto ottenere se non "pagando", non sembra dubitabile che debba ravvisarsi la corruzione; diverso discorso occorre fare, invece, dovendosi qualificare il fatto come concussione, nell'ipotesi in cui il privato abbia "pagato" solo per avere ciò di cui aveva diritto o addirittura per evitare un maggior danno prospettatogli, direttamente o indirettamente, dal pubblico ufficiale.
Di ciò vi è traccia anche nella sentenza in esame, laddove la Corte ha apprezzato nella vicenda, come ricostruita in sede di merito, che gli imprenditori si erano mossi a pagare sistematicamente sì da potersi aggiudicare le commesse pubbliche "disattivando" i meccanismi della libera concorrenza.

Giuseppe Amato, Procuratore della Repubblica di PineroloTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008
09.10.2008
Pagamento sistematico di "tangenti" e fattispecie corruttiva
Nel pagamento sistematico di "tangenti" da parte di imprenditori per aggiudicarsi pubbliche commesse è ravvisabile la corruzione e non la concussione "ambientale".
Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 19/09/2008, n. 36154

Interessante sentenza della Cassazione che coglie l’esatto discrimine tra la corruzione e la concussione.
Secondo la Corte, integra la fattispecie della corruzione (articolo 319 c.p.), e non quella della concussione anche cosiddetta "ambientale" (articolo 317 c.p.), una situazione in cui si apprezzi il sistematico pagamento di tangenti da parte di imprenditori di opere pubbliche, nella quale, in un contesto di costante flusso delle commesse, vengano privilegiati gli imprenditori che si siano opportunamente organizzati a tal fine, con conseguente disattivazione dei meccanismi propri della libera concorrenza.
Infatti, argomenta il giudice di legittimità, l’inserimento in un sistema nel quale il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della "tangente" siano costanti, non è agevole cogliere nella parte privata, specie se identificabile con un gruppo imprenditoriale ben attrezzato sotto il profilo organizzativo e sotto quello economico, lo stato di soggezione, indispensabile per la configurazione della concussione, anche ambientale, posto che, in tale situazione, detta parte mira principalmente ad assicurarsi vantaggi al di fuori degli schemi legali, approfittando proprio dei meccanismi criminosi e divenendo protagonista del sistema illecito.
In effetti, non sempre è facile distinguere, in concreto, tra corruzione e concussione.
La difficoltà, anzi, si accentua allorchè si discuta della possibile configurabilità della concussione "ambientale", giacchè soprattutto in questo caso non è sempre semplice cogliere i profili del rapporto intersoggettivo che si determina tra il privato e il pubblico ufficiale e, conseguentemente, il ruolo -di vittima o, alternativamente, di concorrente necessario- del primo.
In realtà, l'elemento fondamentale per distinguere tra la corruzione e la concussione è da individuare nell'apprezzamento del rapporto tra le volontà dei soggetti.
Nella corruzione il rapporto è paritario: vi è, in sostanza, una situazione di par condicio in forza della quale entrambe le parti si accordano liberamente e senza condizionamenti, mercanteggiando l'attività d'ufficio ciascuno per una finalità di profitto proprio.
Nella concussione manca questo rapporto paritario. Il privato, infatti, anche se non sempre si trova in una condizione addirittura di timore o di paura (il c.d. metus publicae potestatis) nei confronti del pubblico ufficiale, sicuramente sempre versa in una situazione di assoggettamento psicologico conseguente alla condotta abusiva del pubblico ufficiale che lo induce o costringe alla prestazione o alla promessa di prestazione solo per evitare un danno.
Peraltro, l'apprezzamento del rapporto -paritetico o no- tra le parti non è sempre immediatamente percepibile, anche perché non è facile la ricostruzione processuale degli stati d'animo psicologici, quali sono l'assoggettamento alla volontà altrui o, per converso, la piena libertà di autodeterminazione.
Occorre, quindi, ricercare nella fattispecie concreta tutti gli elementi indiziari che possano contribuire a fare chiarezza.
In questa prospettiva, utili elementi indiziari possono essere ricavati, come nella fattispecie esaminata dalla Cassazione, dai "rapporti di forza" esistenti tra il pubblico ufficiale e il privato.
Non è infatti discutibile che, nell'apprezzamento del requisito della par condicio, inteso nei termini suesposti, notevole spessore indiziario dovrà ascriversi alla disamina dei contatti tra le parti e dei reciproci "rapporti di forza" (rilevante sarà il giudizio sul "potere economico" del privato, di norma direttamente proporzionale alla capacità di resistenza rispetto ad un'ipotizzabile pretesa illecita del pubblico agente), estendendosi, laddove possibile, la considerazione anche alle condotte antecedenti e susseguenti l'attività incriminata (per riferimenti, cfr. anche Cassazione, Sezione VI, 19 ottobre 2001, Berlusconi; Sezione VI, 3 novembre 2003, PG ed altro in proc. Di Giacomo).
A nostro avviso, poi, fondamentale elemento indiziario, utile per cogliere l’esatto discrimine tra le fattispecie di che trattasi, è costituito anche dall'apprezzamento della "finalità" che ha mosso il privato, giacchè questa finalità può fornire un contributo essenziale per ricostruire la posizione del privato rispetto a quella del pubblico ufficiale: se il privato si è mosso per perseguire un vantaggio indebito che non avrebbe potuto ottenere se non "pagando", non sembra dubitabile che debba ravvisarsi la corruzione; diverso discorso occorre fare, invece, dovendosi qualificare il fatto come concussione, nell'ipotesi in cui il privato abbia "pagato" solo per avere ciò di cui aveva diritto o addirittura per evitare un maggior danno prospettatogli, direttamente o indirettamente, dal pubblico ufficiale.
Di ciò vi è traccia anche nella sentenza in esame, laddove la Corte ha apprezzato nella vicenda, come ricostruita in sede di merito, che gli imprenditori si erano mossi a pagare sistematicamente sì da potersi aggiudicare le commesse pubbliche "disattivando" i meccanismi della libera concorrenza.

Giuseppe Amato, Procuratore della Repubblica di PineroloTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008
09.10.2008
Falso innocuo: ovverossia, per la Cassazione quasi mai

La Cassazione consolida la sua giurisprudenza in ordine al falso c.d. "innocuo", affermando che la lesività del falso va valutata con riferimento all'interesse protetto, che è la fede pubblica, e non all'interesse economico o di altra natura "materiale", eventualmente collegato all'utilizzo dell'atto falso.

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 19/09/2008, n. 36000

L’imputato, utilizzando la carta intestata ed i timbri di un istituto di istruzione, falsifica la firma del direttore e forma un falso attestato che produce in un pubblico concorso. Condannato per i reati di cui agli artt. 477, 482 e 61 n. 2 c.p. (falsità materiale commessa dal privato in certificati od autorizzazioni amministrative, aggravata dal nesso teleologico), ricorre per cassazione rilevando, fra l’altro, che il maggior punteggio attribuitigli da tale falsa attestazione non aveva influito sulla sua posizione di primarietà nella graduatoria del concorso in oggetto, in quanto, anche togliendo tale aggiuntivo punteggio, egli comunque, dato il divario rispetto a quello del successivo candidato, sarebbe risultato vincitore: donde l’irrilevanza dell’uso di tale documento falso e, pertanto, l’innocuità del falso stesso, con la conseguente richiesta di proscioglimento.
La Cassazione, invece, sul tema del falso c.d. "innocuo" è di diverso avviso. Richiamando la sua giurisprudenza sul tema, sostiene che la lesività o meno del falso va rapportata all’interesse protetto, id est la fede pubblica, a nulla rilevando l’interesse, di tipo economico o materiale, collegato all’utilizzo del falso stesso. Nella fattispecie il documento prodotto possedeva tale idoneità ingannatoria, tant’è che aveva comportato l’indebita assegnazione di un ulteriore punteggio al soggetto. Pertanto, conclude il Supremo Collegio, deve considerarsi del tutto irrilevante la circostanza, emersa solo a posteriori, che gli altri concorrenti non avrebbero superato l’imputato anche se questi non avesse ottenuto quel punteggio aggiuntivo, che nulla veniva a togliere alla potenzialità della falsificazione ad ingannare l’affidamento sulla genuinità del documento.
Premessa la distinzione (non sempre rilevata o ben chiara) fra il falso "grossolano", ossia quello macroscopicamente rilevabile e, quindi, non in grado di ingannare nessuno, e quello "innocuo", ossia esistente, ma non lesivo del bene protetto, appare opportuno insistere su tale ultima definizione,
Certo, non pare revocabile in dubbio che l’oggetto giuridico del reato di falso sia la pubblica fede, ma è anche vero che il falso non è quasi mai fine a se stesso, in quanto "non si falsifica per falsificare, ma per conseguire un risultato che sta al di là della falsificazione" (Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. II, 15a ed. a cura di Grosso, Milano, 2008, p. 69): donde la natura plurioffensiva di tali fattispecie. D’altra parte, anche chi nega tale specifica connotazione giuridica (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, 4 a ed., Bologna, 2007, p. 543 s.) denuncia l’estremo rigore repressivo nel campo della "falsità di atti", ove "la giurisprudenza è arrivata persino a sostenere che la lesione della pubblica fede è implicata in qualsivoglia falsificazione di atto pubblico". E, d’altra parte, senza scomodare lo storico precedente del codice Zanardelli, che puniva il falso solo ove ne potesse "derivare pubblico o privato nocumento" (art. 275), la stessa Relazione ministeriale veniva ad escludere, più che la punibilità, l’essenza stessa della falsitas "quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere": in definitiva, le ipotesi del falso grossolano, di quello innocuo o di quello inutile.
In tema di falso innocuo la giurisprudenza lo ha ricondotto al caso in cui esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere: in altri termini, la innocuità deve correlarsi alla funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere e non all’uso che dell’atto falso venga fatto (Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2007, D. e altro, Ced n. 238876; nello stesso senso: Cass. pen., sez. V, 30 settembre 1997, Brasola, in Giust. pen., 1998, II, c. 504). Nel solco di tale impostazione, dal negare l’innocuità del falso documentale di per sé (Cass. pen., sez. V, 19 maggio 2004, B. e altro, in Cass. pen., 2006, p. 118; Cass. pen., sez. V, 9 febbraio 2001, Stipa, Ced. n. 218393, Cass. pen., sez. V, 4 novembre 1993, Buraccini, in Giust. pen., 1997, II, c. 274) è breve il passo dall’affermare che la lesione della fede pubblica e, quindi, il concreto pregiudizio del bene giuridico tutelato nei reati di falso, è insita indefettibilmente nelle falsità in documenti pubblici, sicché in ordine a questi non è mai concepibile un falso innocuo, se non nel caso in cui incida su un documento inesistente o assolutamente nullo (Cass. pen., sez. V, 3 novembre 1988, Valicenti, in Giur. it., 1990, II, c. 100), ovvero, in ultima istanza, che il falso c.d. innocuo è irrilevante (Cass. pen., sez. un., 10 ottobre 1981, Di Carlo, in Arch. giur. circ., 1982, p. 387).
Unica eccezione, una criticata pronuncia, secondo la quale, pur ammettendo che il registro di classe costituisce atto pubblico e perciò le false attestazioni in esso contenute integrano gli estremi del falso ideologico, tuttavia nel caso in cui il registro di classe sia stato sottoscritto dall’insegnante incaricato dell’insegnamento mentre questo in effetti sia stato svolto da altro docente in possesso dei requisiti richiesti, il falso deve ritenersi innocuo ed escludersi la responsabilità penale (Cass. pen., sez. V, 20 novembre 1996, Scaricabarozzi, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 594, con nota di Monteverde, Insegnanti di scuole pareggiate: attestazioni infedeli nei registri).
La decisione della Suprema Corte in oggetto, in ogni caso, appare condivisibile, specie laddove sottolinea la necessità di rilevare la potenzialità ingannatoria del falso una sorta di giudizio ex ante, ossia indipendentemente dell’efficacia o meno che esso abbia avuto nell’uso poi fattone: se, dunque, falsitas non nocuit, ciononostante apta nocere erat.

Paolo Pittaro, Professore associato di Diritto penale nell'Università di TriesteTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008
09.10.2008
Falso innocuo: ovverossia, per la Cassazione quasi mai

La Cassazione consolida la sua giurisprudenza in ordine al falso c.d. "innocuo", affermando che la lesività del falso va valutata con riferimento all'interesse protetto, che è la fede pubblica, e non all'interesse economico o di altra natura "materiale", eventualmente collegato all'utilizzo dell'atto falso.

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 19/09/2008, n. 36000

L’imputato, utilizzando la carta intestata ed i timbri di un istituto di istruzione, falsifica la firma del direttore e forma un falso attestato che produce in un pubblico concorso. Condannato per i reati di cui agli artt. 477, 482 e 61 n. 2 c.p. (falsità materiale commessa dal privato in certificati od autorizzazioni amministrative, aggravata dal nesso teleologico), ricorre per cassazione rilevando, fra l’altro, che il maggior punteggio attribuitigli da tale falsa attestazione non aveva influito sulla sua posizione di primarietà nella graduatoria del concorso in oggetto, in quanto, anche togliendo tale aggiuntivo punteggio, egli comunque, dato il divario rispetto a quello del successivo candidato, sarebbe risultato vincitore: donde l’irrilevanza dell’uso di tale documento falso e, pertanto, l’innocuità del falso stesso, con la conseguente richiesta di proscioglimento.
La Cassazione, invece, sul tema del falso c.d. "innocuo" è di diverso avviso. Richiamando la sua giurisprudenza sul tema, sostiene che la lesività o meno del falso va rapportata all’interesse protetto, id est la fede pubblica, a nulla rilevando l’interesse, di tipo economico o materiale, collegato all’utilizzo del falso stesso. Nella fattispecie il documento prodotto possedeva tale idoneità ingannatoria, tant’è che aveva comportato l’indebita assegnazione di un ulteriore punteggio al soggetto. Pertanto, conclude il Supremo Collegio, deve considerarsi del tutto irrilevante la circostanza, emersa solo a posteriori, che gli altri concorrenti non avrebbero superato l’imputato anche se questi non avesse ottenuto quel punteggio aggiuntivo, che nulla veniva a togliere alla potenzialità della falsificazione ad ingannare l’affidamento sulla genuinità del documento.
Premessa la distinzione (non sempre rilevata o ben chiara) fra il falso "grossolano", ossia quello macroscopicamente rilevabile e, quindi, non in grado di ingannare nessuno, e quello "innocuo", ossia esistente, ma non lesivo del bene protetto, appare opportuno insistere su tale ultima definizione,
Certo, non pare revocabile in dubbio che l’oggetto giuridico del reato di falso sia la pubblica fede, ma è anche vero che il falso non è quasi mai fine a se stesso, in quanto "non si falsifica per falsificare, ma per conseguire un risultato che sta al di là della falsificazione" (Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. II, 15a ed. a cura di Grosso, Milano, 2008, p. 69): donde la natura plurioffensiva di tali fattispecie. D’altra parte, anche chi nega tale specifica connotazione giuridica (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, 4 a ed., Bologna, 2007, p. 543 s.) denuncia l’estremo rigore repressivo nel campo della "falsità di atti", ove "la giurisprudenza è arrivata persino a sostenere che la lesione della pubblica fede è implicata in qualsivoglia falsificazione di atto pubblico". E, d’altra parte, senza scomodare lo storico precedente del codice Zanardelli, che puniva il falso solo ove ne potesse "derivare pubblico o privato nocumento" (art. 275), la stessa Relazione ministeriale veniva ad escludere, più che la punibilità, l’essenza stessa della falsitas "quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere": in definitiva, le ipotesi del falso grossolano, di quello innocuo o di quello inutile.
In tema di falso innocuo la giurisprudenza lo ha ricondotto al caso in cui esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere: in altri termini, la innocuità deve correlarsi alla funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere e non all’uso che dell’atto falso venga fatto (Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2007, D. e altro, Ced n. 238876; nello stesso senso: Cass. pen., sez. V, 30 settembre 1997, Brasola, in Giust. pen., 1998, II, c. 504). Nel solco di tale impostazione, dal negare l’innocuità del falso documentale di per sé (Cass. pen., sez. V, 19 maggio 2004, B. e altro, in Cass. pen., 2006, p. 118; Cass. pen., sez. V, 9 febbraio 2001, Stipa, Ced. n. 218393, Cass. pen., sez. V, 4 novembre 1993, Buraccini, in Giust. pen., 1997, II, c. 274) è breve il passo dall’affermare che la lesione della fede pubblica e, quindi, il concreto pregiudizio del bene giuridico tutelato nei reati di falso, è insita indefettibilmente nelle falsità in documenti pubblici, sicché in ordine a questi non è mai concepibile un falso innocuo, se non nel caso in cui incida su un documento inesistente o assolutamente nullo (Cass. pen., sez. V, 3 novembre 1988, Valicenti, in Giur. it., 1990, II, c. 100), ovvero, in ultima istanza, che il falso c.d. innocuo è irrilevante (Cass. pen., sez. un., 10 ottobre 1981, Di Carlo, in Arch. giur. circ., 1982, p. 387).
Unica eccezione, una criticata pronuncia, secondo la quale, pur ammettendo che il registro di classe costituisce atto pubblico e perciò le false attestazioni in esso contenute integrano gli estremi del falso ideologico, tuttavia nel caso in cui il registro di classe sia stato sottoscritto dall’insegnante incaricato dell’insegnamento mentre questo in effetti sia stato svolto da altro docente in possesso dei requisiti richiesti, il falso deve ritenersi innocuo ed escludersi la responsabilità penale (Cass. pen., sez. V, 20 novembre 1996, Scaricabarozzi, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 594, con nota di Monteverde, Insegnanti di scuole pareggiate: attestazioni infedeli nei registri).
La decisione della Suprema Corte in oggetto, in ogni caso, appare condivisibile, specie laddove sottolinea la necessità di rilevare la potenzialità ingannatoria del falso una sorta di giudizio ex ante, ossia indipendentemente dell’efficacia o meno che esso abbia avuto nell’uso poi fattone: se, dunque, falsitas non nocuit, ciononostante apta nocere erat.

Paolo Pittaro, Professore associato di Diritto penale nell'Università di TriesteTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

domenica 12 ottobre 2008

Decreto Ingiuntivo dell'Amministratore di Condominio: si può chiedere anche sulla base del bilancio preventivo


Morosità condominiale: per il recupero l'amministratore può chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche sulla base del bilancio preventivo



di Gianfranco Di Rago
Per il recupero della morosità condominiale l'amministratore può chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche sulla base del bilancio preventivo. Lo ha confermato in maniera espressa la Corte di Cassazione, sezione seconda civile, con la sentenza n. 24299, depositata lo scorso 29 settembre 2008, con la quale è stato chiarito in maniera definitiva quello che la Suprema Corte ha definito un "principio informatore della gestione condominiale".Il fatto. Nel caso in questione due condomini in ritardo nel pagamento degli oneri condominiali avevano presentato opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso contro di loro dal Giudice di Pace su richiesta dell'amministratore per un credito di € 759,29. L'istanza in questione era stata presentata sulla scorta di quanto previsto dall'art. 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice Civile che, com'è noto, concede all'amministratore la facoltà di chiedere la tutela monitoria, peraltro con decreto immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, per la riscossione dei contributi "in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea".Tra i motivi di opposizione presentati al Giudice di Pace dai condomini morosi figurava l'eccezione relativa al fatto che l'amministratore, nel chiedere la concessione del decreto ingiuntivo, aveva fatto riferimento ai crediti risultanti dal bilancio preventivo. Secondo i ricorrenti in opposizione avrebbe invece dovuto farsi applicazione del bilancio consuntivo che, all'epoca del deposito del ricorso del condominio, non era stato ancora approvato. Sorprendentemente, il Giudice di Pace di Roma, con sentenza n. 51696/2003, aveva accolto il ricorso in opposizione, dichiarando la nullità del decreto ingiuntivo proprio perché fondato sul bilancio condominiale preventivo invece che su quello consuntivo. La motivazione redatta a sostegno della sentenza recitava testualmente che "dalla documentazione depositata dalle parti si evince che il decreto ingiuntivo è stato richiesto a eccezione di euro 116,91 con riferimento all'esercizio del 2001, il cui consuntivo al momento della richiesta del decreto, come è provato per tabulas, non era ancora stato approvato". Vista la singolarità della decisione, il condominio, per quanto creditore di una somma davvero esigua, aveva deciso di portare la questione al vaglio della Suprema Corte. La decisione. Grazie alla pervicacia dei difensori del condominio la Suprema Corte ha così potuto chiarire una questione che, per quanto possa apparire scontata, non trova una conferma decisiva nella lettera dell'art. 63 Disp. att. c.c., il quale riveste comunque una certa importanza nell'economia processuale, visto l'elevato numero di decreti ingiuntivi che ogni anno vengono emessi nei confronti dei condomini morosi. Avallare una decisione quale quella adottata dal Giudice di Pace di Roma avrebbe significato una vera e propria rivoluzione nell'ambito del diritto condominiale, con ovvia gioia dei condomini morosi e degli avvocati che, per il gioco delle parti, si trovano a coltivare questo tipo di opposizioni, ma con danni enormi per la corretta gestione dei condomini italiani, tanto da mettere in serie allarme gli amministratori, i quali non avrebbero più potuto contare sull'incasso immediato delle somme indicate nel bilancio preventivo, dovendo necessariamente attendere la deliberazione a consuntivo da parte dell'assemblea. "Tale principio, se applicato", si legge nella sentenza n. 24299/2008 della Suprema Corte, "renderebbe impossibile la riscossione degli oneri - e, quindi, inciderebbe sulla possibilità stessa di gestione del condominio - per tutto il tempo intercorrente tra la scadenza dell'esercizio e l'approvazione del consuntivo". Invero, l'art. 63 Disp. Att. c.c. si limita a fare riferimento alla necessità di fondare la riscossione in via monitoria dei contributi condominiali sullo "stato di ripartizione approvato dall'assemblea", senza specificare se sia sufficiente l'approvazione assembleare del bilancio preventivo o se, al contrario, si necessario attendere la deliberazione del bilancio consuntivo. Che la questione non sia di poco conto ne è prova un altro recente precedente della Suprema Corte (che si è pronunciata raramente su una materia del genere, anche per la particolarità del sistema di impugnazione delle sentenze del Giudice di Pace, questione alla quale si accennerà a breve). Infatti la medesima seconda sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3435 dell'8 marzo 2001, ha avuto modo di sottolineare che i requisiti per l'emissione del decreto ingiuntivo per il recupero degli oneri condominiali di cui all'art. 63 Disp. Att. c.c. non devono essere confusi con quanto previsto in via generale dagli artt. 633 c.p.c.. Fatta questa doverosa premessa, i supremi giudici hanno avuto modo di chiarire che il ricorso da parte dell'amministratore di condominio al procedimento monitorio ai sensi dell'art. 63 Disp. Att. c.c. nei confronti del condomino moroso postula la ricorrenza dell'approvazione del bilancio, preventivo o consuntivo, da parte dell'assemblea. Un altro precedente di legittimità richiamato nella medesima sentenza n. 3435/2001, ovvero la sentenza n. 1789 del 12 febbraio 1993, aveva invece chiarito che "per la riscossione dei contributi condominiali l'amministratore può chiedere il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, ai sensi dell'art. 63 disp. attuaz. c.c., nei confronti del condomino moroso, in base al preventivo delle spese approvato dall'assemblea, soltanto fino a che l'esercizio cui tali spese si riferiscono non sia terminato, dovendo altrimenti agire in base al consuntivo della gestione annuale". Ebbene, con la sentenza in commento la Suprema Corte, parlando espressamente di "principio basilare e ineliminabile per la corretta gestione del condominio", e stigmatizzando così la decisione del Giudice di Pace di Roma, ha chiarito definitivamente che la tutela monitoria degli oneri condominiali è azionabile anche in presenza del solo bilancio preventivo, purché regolarmente adottato dall'assemblea, spiegando che la riferita interpretazione dell'art. 63 Disp. Att. c.c. appare la più corretta per salvaguardare la regolare gestione del condominio. Si sottolinea, altresì, come una volta approvato il bilancio consuntivo l'amministratore debba però agire esclusivamente sulla base di quest'ultimo e non più in forza del bilancio preventivo. Infine, meritano di essere sottolineate le motivazioni con le quali la Suprema Corte, vista l'abnormità del decisum del Giudice di Pace di Roma, ha giustificato la legittimità del proprio intervento correttivo. Nella specie si trattava, infatti, di una decisione secondo equità, ex art. 113 c.p.c.. Com'è noto, la norma in questione consente al Giudice di Pace, relativamente alle liti di valore inferiore a € 1.100,00, di discostarsi motivatamente dalle norme di diritto, cercando di individuare una soluzione di buon senso della controversia. Questo tipo di decisioni, proprio perché prescindono dalla pedissequa applicazione delle norme di diritto, possono essere impugnate soltanto per la violazione di norme costituzionali o di norme comunitarie di rango superiore a quelle ordinarie, nonché delle norme processuali, ai sensi dell'art. 311 c.p.c.. Ebbene, la Suprema Corte si è comunque ritenuta competente a conoscere della questione sul presupposto che quella denunciata dal condominio ricorrente fosse una questione attinente a un principio informatore della disciplina della gestione condominiale, con conseguente obbligo di applicazione generalizzata, secondo quanto previsto dalla sentenza n. 206 del 6 luglio 2004 della Corte Costituzionale (la quale, chiamata a giudicare della legittimità dell'art. 113, comma 2, c.p.c., ha avuto modo di osservare che il giudizio di equità del Giudice di Pace deve appunto svolgersi nel rispetto dei principi informatori della materia in cui ricade la specifica controversia, rendendo quindi possibile il ricorso in Cassazione avverso le sentenze che se ne discostino, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
Gianfranco Di Rago
Avvocato in Milano
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Decreto Ingiuntivo dell'Amministratore di Condominio: si può chiedere anche sulla base del bilancio preventivo


Morosità condominiale: per il recupero l'amministratore può chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche sulla base del bilancio preventivo



di Gianfranco Di Rago
Per il recupero della morosità condominiale l'amministratore può chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo anche sulla base del bilancio preventivo. Lo ha confermato in maniera espressa la Corte di Cassazione, sezione seconda civile, con la sentenza n. 24299, depositata lo scorso 29 settembre 2008, con la quale è stato chiarito in maniera definitiva quello che la Suprema Corte ha definito un "principio informatore della gestione condominiale".Il fatto. Nel caso in questione due condomini in ritardo nel pagamento degli oneri condominiali avevano presentato opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso contro di loro dal Giudice di Pace su richiesta dell'amministratore per un credito di € 759,29. L'istanza in questione era stata presentata sulla scorta di quanto previsto dall'art. 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice Civile che, com'è noto, concede all'amministratore la facoltà di chiedere la tutela monitoria, peraltro con decreto immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, per la riscossione dei contributi "in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea".Tra i motivi di opposizione presentati al Giudice di Pace dai condomini morosi figurava l'eccezione relativa al fatto che l'amministratore, nel chiedere la concessione del decreto ingiuntivo, aveva fatto riferimento ai crediti risultanti dal bilancio preventivo. Secondo i ricorrenti in opposizione avrebbe invece dovuto farsi applicazione del bilancio consuntivo che, all'epoca del deposito del ricorso del condominio, non era stato ancora approvato. Sorprendentemente, il Giudice di Pace di Roma, con sentenza n. 51696/2003, aveva accolto il ricorso in opposizione, dichiarando la nullità del decreto ingiuntivo proprio perché fondato sul bilancio condominiale preventivo invece che su quello consuntivo. La motivazione redatta a sostegno della sentenza recitava testualmente che "dalla documentazione depositata dalle parti si evince che il decreto ingiuntivo è stato richiesto a eccezione di euro 116,91 con riferimento all'esercizio del 2001, il cui consuntivo al momento della richiesta del decreto, come è provato per tabulas, non era ancora stato approvato". Vista la singolarità della decisione, il condominio, per quanto creditore di una somma davvero esigua, aveva deciso di portare la questione al vaglio della Suprema Corte. La decisione. Grazie alla pervicacia dei difensori del condominio la Suprema Corte ha così potuto chiarire una questione che, per quanto possa apparire scontata, non trova una conferma decisiva nella lettera dell'art. 63 Disp. att. c.c., il quale riveste comunque una certa importanza nell'economia processuale, visto l'elevato numero di decreti ingiuntivi che ogni anno vengono emessi nei confronti dei condomini morosi. Avallare una decisione quale quella adottata dal Giudice di Pace di Roma avrebbe significato una vera e propria rivoluzione nell'ambito del diritto condominiale, con ovvia gioia dei condomini morosi e degli avvocati che, per il gioco delle parti, si trovano a coltivare questo tipo di opposizioni, ma con danni enormi per la corretta gestione dei condomini italiani, tanto da mettere in serie allarme gli amministratori, i quali non avrebbero più potuto contare sull'incasso immediato delle somme indicate nel bilancio preventivo, dovendo necessariamente attendere la deliberazione a consuntivo da parte dell'assemblea. "Tale principio, se applicato", si legge nella sentenza n. 24299/2008 della Suprema Corte, "renderebbe impossibile la riscossione degli oneri - e, quindi, inciderebbe sulla possibilità stessa di gestione del condominio - per tutto il tempo intercorrente tra la scadenza dell'esercizio e l'approvazione del consuntivo". Invero, l'art. 63 Disp. Att. c.c. si limita a fare riferimento alla necessità di fondare la riscossione in via monitoria dei contributi condominiali sullo "stato di ripartizione approvato dall'assemblea", senza specificare se sia sufficiente l'approvazione assembleare del bilancio preventivo o se, al contrario, si necessario attendere la deliberazione del bilancio consuntivo. Che la questione non sia di poco conto ne è prova un altro recente precedente della Suprema Corte (che si è pronunciata raramente su una materia del genere, anche per la particolarità del sistema di impugnazione delle sentenze del Giudice di Pace, questione alla quale si accennerà a breve). Infatti la medesima seconda sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3435 dell'8 marzo 2001, ha avuto modo di sottolineare che i requisiti per l'emissione del decreto ingiuntivo per il recupero degli oneri condominiali di cui all'art. 63 Disp. Att. c.c. non devono essere confusi con quanto previsto in via generale dagli artt. 633 c.p.c.. Fatta questa doverosa premessa, i supremi giudici hanno avuto modo di chiarire che il ricorso da parte dell'amministratore di condominio al procedimento monitorio ai sensi dell'art. 63 Disp. Att. c.c. nei confronti del condomino moroso postula la ricorrenza dell'approvazione del bilancio, preventivo o consuntivo, da parte dell'assemblea. Un altro precedente di legittimità richiamato nella medesima sentenza n. 3435/2001, ovvero la sentenza n. 1789 del 12 febbraio 1993, aveva invece chiarito che "per la riscossione dei contributi condominiali l'amministratore può chiedere il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, ai sensi dell'art. 63 disp. attuaz. c.c., nei confronti del condomino moroso, in base al preventivo delle spese approvato dall'assemblea, soltanto fino a che l'esercizio cui tali spese si riferiscono non sia terminato, dovendo altrimenti agire in base al consuntivo della gestione annuale". Ebbene, con la sentenza in commento la Suprema Corte, parlando espressamente di "principio basilare e ineliminabile per la corretta gestione del condominio", e stigmatizzando così la decisione del Giudice di Pace di Roma, ha chiarito definitivamente che la tutela monitoria degli oneri condominiali è azionabile anche in presenza del solo bilancio preventivo, purché regolarmente adottato dall'assemblea, spiegando che la riferita interpretazione dell'art. 63 Disp. Att. c.c. appare la più corretta per salvaguardare la regolare gestione del condominio. Si sottolinea, altresì, come una volta approvato il bilancio consuntivo l'amministratore debba però agire esclusivamente sulla base di quest'ultimo e non più in forza del bilancio preventivo. Infine, meritano di essere sottolineate le motivazioni con le quali la Suprema Corte, vista l'abnormità del decisum del Giudice di Pace di Roma, ha giustificato la legittimità del proprio intervento correttivo. Nella specie si trattava, infatti, di una decisione secondo equità, ex art. 113 c.p.c.. Com'è noto, la norma in questione consente al Giudice di Pace, relativamente alle liti di valore inferiore a € 1.100,00, di discostarsi motivatamente dalle norme di diritto, cercando di individuare una soluzione di buon senso della controversia. Questo tipo di decisioni, proprio perché prescindono dalla pedissequa applicazione delle norme di diritto, possono essere impugnate soltanto per la violazione di norme costituzionali o di norme comunitarie di rango superiore a quelle ordinarie, nonché delle norme processuali, ai sensi dell'art. 311 c.p.c.. Ebbene, la Suprema Corte si è comunque ritenuta competente a conoscere della questione sul presupposto che quella denunciata dal condominio ricorrente fosse una questione attinente a un principio informatore della disciplina della gestione condominiale, con conseguente obbligo di applicazione generalizzata, secondo quanto previsto dalla sentenza n. 206 del 6 luglio 2004 della Corte Costituzionale (la quale, chiamata a giudicare della legittimità dell'art. 113, comma 2, c.p.c., ha avuto modo di osservare che il giudizio di equità del Giudice di Pace deve appunto svolgersi nel rispetto dei principi informatori della materia in cui ricade la specifica controversia, rendendo quindi possibile il ricorso in Cassazione avverso le sentenze che se ne discostino, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
Gianfranco Di Rago
Avvocato in Milano
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giovedì 9 ottobre 2008

Il giudicato copre il dedotto ed il deducibile: Ambito e portata del principio

02.10.2008

Estensione del giudicato alle questioni deducibili

Nell'ambito della giurisdizione esclusiva il giudicato sul rapporto controverso si estende, oltre che sulle questioni effettivamente proposte in giudizio, anche quelle su quelle deducibili in via di azione ed eccezione (deducibile), che costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari.
Consiglio di Stato Sentenza 08/09/2008, n. 4288
Con sentenza n. 612 del 2006, la Sezione sesta del Consiglio di Stato confermava la sentenza n. 13085 del 2004 con la quale il T.A.R. del Lazio, dichiarava in parte inammissibili ed in parte infondati i ricorsi proposti da due docenti universitari per l’’annullamento del provvedimento del 19 settembre 2003, con il quale il commissario straordinario dell’azienda Policlinico Umberto I li aveva rimossi dall’esercizio delle funzioni assistenziali di dirigente medico di secondo livello da loro al momento espletate.
Peraltro, la Sezione, nella parte motiva, dichiarava che i due docenti avevano diritto allo svolgimento delle funzioni assistenziali presso una struttura dell’università di pari livello presso la quale erano precedentemente incardinati salvo l’eventuale risarcimento dei danni.
I ricorrenti, rilevato che l’amministrazione non aveva dato soddisfazione all’indicato diritto, facevano istanza per l’ottemperanza al giudicato.
L’Amministrazione eccepiva la carenza di interesse al ricorso e, nel merito, escludeva che l’ottemperanda decisione contenesse statuizioni implicanti alcuna pronuncia di accertamento ovvero di condanna nei suoi confronti.
Con sentenza n. 4288 del 2008, la sesta Sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso per l’ottemperanza.
A sostegno della decisione, detto giudice ha richiamato il principio secondo il quale, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il giudicato copre il dedotto ed il deducibile ed inoltre che, alla stregua del novellato art. 111 della Costituzione, è ammesso il ricorso in questione al fine di determinare le condizioni per ottemperare ai precetti contenuti nella decisione.
Guido Salemi,
Consigliere di Stato,
Giudice al Tribunale superiore delle acque pubbliche e
Componente della Commissione tributaria centrale
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

Il giudicato copre il dedotto ed il deducibile: Ambito e portata del principio

02.10.2008

Estensione del giudicato alle questioni deducibili

Nell'ambito della giurisdizione esclusiva il giudicato sul rapporto controverso si estende, oltre che sulle questioni effettivamente proposte in giudizio, anche quelle su quelle deducibili in via di azione ed eccezione (deducibile), che costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari.
Consiglio di Stato Sentenza 08/09/2008, n. 4288
Con sentenza n. 612 del 2006, la Sezione sesta del Consiglio di Stato confermava la sentenza n. 13085 del 2004 con la quale il T.A.R. del Lazio, dichiarava in parte inammissibili ed in parte infondati i ricorsi proposti da due docenti universitari per l’’annullamento del provvedimento del 19 settembre 2003, con il quale il commissario straordinario dell’azienda Policlinico Umberto I li aveva rimossi dall’esercizio delle funzioni assistenziali di dirigente medico di secondo livello da loro al momento espletate.
Peraltro, la Sezione, nella parte motiva, dichiarava che i due docenti avevano diritto allo svolgimento delle funzioni assistenziali presso una struttura dell’università di pari livello presso la quale erano precedentemente incardinati salvo l’eventuale risarcimento dei danni.
I ricorrenti, rilevato che l’amministrazione non aveva dato soddisfazione all’indicato diritto, facevano istanza per l’ottemperanza al giudicato.
L’Amministrazione eccepiva la carenza di interesse al ricorso e, nel merito, escludeva che l’ottemperanda decisione contenesse statuizioni implicanti alcuna pronuncia di accertamento ovvero di condanna nei suoi confronti.
Con sentenza n. 4288 del 2008, la sesta Sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso per l’ottemperanza.
A sostegno della decisione, detto giudice ha richiamato il principio secondo il quale, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il giudicato copre il dedotto ed il deducibile ed inoltre che, alla stregua del novellato art. 111 della Costituzione, è ammesso il ricorso in questione al fine di determinare le condizioni per ottemperare ai precetti contenuti nella decisione.
Guido Salemi,
Consigliere di Stato,
Giudice al Tribunale superiore delle acque pubbliche e
Componente della Commissione tributaria centrale
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

mercoledì 1 ottobre 2008

I.C.I.: I Giudici del Palazzaccio hanno ribadito che è dovuta anche in relazione ai fabbricati rurali


Tutti i fabbricati rurali pagano il tributo comunale. Questo in sintesi il contenuto delle numerose sentenze con cui la Corte di Cassazione ha chiarito in maniera inequivocabile il principio secondo cui i fabbricati posseduti dalle cooperative agricole, anche se classati in categoria D/10, sono soggetti ad ICI. Principio che, in realtà, coinvolge va oltre il trattamento ICI da riservare ai fabbricati posseduti dalle cooperative agricole, in quanto viene espresso un principio di diritto dirompente, secondo cui tutti i fabbricati rurali pagano il tributo comunale.A tal proposito, è intervenuta l'Anci Emilia Romagna che con la circolare 24 settembre 2008, prot. 117, ha chiarito alcuni concetti fondamentale dell'assoggettabilità all'ICI dei fabbricati rurali. La circolare dell'Anci ha, innanzitutto, evidenziato la normativa in materia ICI che ha condotto i giudici della Suprema Corte a tale conclusione, ed in particolare:
l'art.1, comma 2 del D.Lgs. n.504/1992 individua quale presupposto d'imposta "il possesso di fabbricati (…) a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l'attività dell'impresa"; coerentemente con la natura reale dell'ICI, risulta quindi irrilevante sia la condizione personale del possessore sia l'uso cui è destinato il fabbricato, salve, ovviamente, le deroghe contenute nell'art.7;
l'art.2, comma 1, lettera a) del D.Lgs. n.504/1992 precisa che per "fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano";
alla data di entrata in vigore dell'ICI i fabbricati rurali erano esclusi dal campo di applicazione dell'ICI in quanto questi né erano iscritti al catasto edilizio urbano né erano da iscrivere;
la situazione muta con il D.L. 30 dicembre 1993, n.557, con il cui art.9, comma 1, viene istituito il "catasto dei fabbricati", nel quale vanno iscritti, ad opera del Ministero delle finanze, tutti i fabbricati rurali;
successivamente all'entrata in vigore del D.L. 557/1993, il riferimento contenuto nell'art.2 della normativa ICI al catasto edilizio urbano deve intendersi sostituito dal catasto fabbricati; pertanto diventa soggetto ad ICI il fabbricato iscritto o da iscrivere al "catasto dei fabbricati";
la disciplina delle esenzioni ed agevolazioni ICI non può essere ricavata da altre disposizioni tributarie, come quelle regolanti l'imposizione diretta, ma esclusivamente dalla normativa ICI, la quale non prevede alcun regime di favore per i fabbricati rurali;
gli incisi "agli effetti fiscali" e "ai fini fiscali", contenuti nell'art.9, commi 3 e 3 bis del D.L. n. 557/1993, vanno interpretati nel senso che laddove una specifica disposizione fiscale considera rilevante la natura rurale di un fabbricato, la sussistenza della ruralità va verificata secondo i parametri catalogati nei commi 3 e 3 bis citati; come già rilevato, la normativa ICI non considera rilevante la natura rurale del fabbricato;
anche i nuovi requisiti di ruralità previsti dall'art.9, commi 3 e 3 bis del D.L. n.557/1993, a seguito delle modifiche apportate dall'art.42 bis introdotto dalla legge n.222/2007 di conversione del D.L. n.159/2007, non esplicano alcun effetto in tema di ICI, avendo solo ampliato i casi in cui può essere riconosciuta la ruralità ad un fabbricato, con conseguenze dirette solo sulle modalità di accatastamento dei fabbricati.Dalla lettura della normativa l'Ance ha ritenuto incontestabile la conclusione cui è pervenuta la Suprema Corte, evidenziando però la necessità di effettuare ulteriori riflessioni in merito al regime ICI da applicare ai fabbricati rurali (legittimamente) ancora iscritti al catasto terreni, il divieto al rimborso dell'ICI versata dalle cooperative (disposto dalla legge finanziaria per il 2008), la presenza di circolari ministeriali di segno opposto, le indicazioni contenute nelle istruzioni alla compilazione della dichiarazione ICI.Per quanto concerne i fabbricati rurali costruiti o variati a decorrere dal 1998, il D.M. 2 gennaio 1998, n.28, all'art.2, comma 2 prevede che l'abitazione gli altri immobili strumentali all'esercizio dell'attività agricola costituiscono unità immobiliari da denunciare in catasto autonomamente. Per i fabbricati rurali costruiti o variati dall'11 marzo 1998 occorre, quindi, presentare denuncia di accatastamento con rendita proposta (ex art.5 del D.M. n.28/1998). I fabbricati rurali, iscritti o da iscrivere, debbono corrispondere l'ICI, indipendentemente dal fatto che il titolare del fabbricato rurale non sia ancora oggi obbligato a presentare l'accatastamento, dovendo provvedervi, ai sensi dell'art.9, comma 1 del D.L. n.557/1993, direttamente l'Agenzia del Territorio, in quanto si tratta di fabbricati che, proprio per la norma appena citata, sono da iscrivere al catasto fabbricati, a nulla rilevando il soggetto cui compete l'obbligo di effettuare l'iscrizione. Per quanto riguarda il disposto della legge finanziaria per il 2008 secondo cui è vietato il rimborso dell'ICI pagata dalle cooperative agricole, l'Anci ha chiarito che la finanziaria per il 2008 in questo modo voluto arrestare sul nascere un'eventuale contenzioso fondato sulla supposta natura retroattiva delle modifiche apportate alla normativa disciplinante i requisiti di ruralità ad opera dell'art.42 bis del D.L. n.159/2007 e sulla supposta esenzione dell'ICI per i fabbricati rurali.Sulla contrapposizione della circolare del Ministero delle Finanze n.50/E del 20 marzo 2000 e la circolare dell'Agenzia del Territorio n.7/T del 15 giugno 2007, che in sintesi hanno previsto una esclusione dall'ICI per i fabbricati rurali, l'Anci, riprendendo quanto affermato dalla Suprema Corte, ha chiarito che le due circolari esprimono un parere dell'Amministrazione non vincolante né per il contribuente né per il Giudice tributario e che dunque non scalfisce minimamente il concetto secondo cui i fabbricati rurali debbano essere assoggettati ad ICI.Infine, per quanto concerne le indicazioni contenute nelle istruzioni alla compilazione della dichiarazione ICI ed in particolare l'inserimento di un campo per i casi di esclusione, esenzione o ruralità, l'Anci ha fatto presente che diversi sono i casi in cui le istruzioni alla compilazione della dichiarazione ICI hanno fornito delle indicazioni poi smentite dalla giurisprudenza di legittimità e che, dunque, il decreto di approvazione delle istruzioni e del modello di dichiarazione ICI è viziato da eccesso di potere, in quanto tale esenzione ICI non è prevista nella norma primaria
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I.C.I.: I Giudici del Palazzaccio hanno ribadito che è dovuta anche in relazione ai fabbricati rurali


Tutti i fabbricati rurali pagano il tributo comunale. Questo in sintesi il contenuto delle numerose sentenze con cui la Corte di Cassazione ha chiarito in maniera inequivocabile il principio secondo cui i fabbricati posseduti dalle cooperative agricole, anche se classati in categoria D/10, sono soggetti ad ICI. Principio che, in realtà, coinvolge va oltre il trattamento ICI da riservare ai fabbricati posseduti dalle cooperative agricole, in quanto viene espresso un principio di diritto dirompente, secondo cui tutti i fabbricati rurali pagano il tributo comunale.A tal proposito, è intervenuta l'Anci Emilia Romagna che con la circolare 24 settembre 2008, prot. 117, ha chiarito alcuni concetti fondamentale dell'assoggettabilità all'ICI dei fabbricati rurali. La circolare dell'Anci ha, innanzitutto, evidenziato la normativa in materia ICI che ha condotto i giudici della Suprema Corte a tale conclusione, ed in particolare:
l'art.1, comma 2 del D.Lgs. n.504/1992 individua quale presupposto d'imposta "il possesso di fabbricati (…) a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l'attività dell'impresa"; coerentemente con la natura reale dell'ICI, risulta quindi irrilevante sia la condizione personale del possessore sia l'uso cui è destinato il fabbricato, salve, ovviamente, le deroghe contenute nell'art.7;
l'art.2, comma 1, lettera a) del D.Lgs. n.504/1992 precisa che per "fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano";
alla data di entrata in vigore dell'ICI i fabbricati rurali erano esclusi dal campo di applicazione dell'ICI in quanto questi né erano iscritti al catasto edilizio urbano né erano da iscrivere;
la situazione muta con il D.L. 30 dicembre 1993, n.557, con il cui art.9, comma 1, viene istituito il "catasto dei fabbricati", nel quale vanno iscritti, ad opera del Ministero delle finanze, tutti i fabbricati rurali;
successivamente all'entrata in vigore del D.L. 557/1993, il riferimento contenuto nell'art.2 della normativa ICI al catasto edilizio urbano deve intendersi sostituito dal catasto fabbricati; pertanto diventa soggetto ad ICI il fabbricato iscritto o da iscrivere al "catasto dei fabbricati";
la disciplina delle esenzioni ed agevolazioni ICI non può essere ricavata da altre disposizioni tributarie, come quelle regolanti l'imposizione diretta, ma esclusivamente dalla normativa ICI, la quale non prevede alcun regime di favore per i fabbricati rurali;
gli incisi "agli effetti fiscali" e "ai fini fiscali", contenuti nell'art.9, commi 3 e 3 bis del D.L. n. 557/1993, vanno interpretati nel senso che laddove una specifica disposizione fiscale considera rilevante la natura rurale di un fabbricato, la sussistenza della ruralità va verificata secondo i parametri catalogati nei commi 3 e 3 bis citati; come già rilevato, la normativa ICI non considera rilevante la natura rurale del fabbricato;
anche i nuovi requisiti di ruralità previsti dall'art.9, commi 3 e 3 bis del D.L. n.557/1993, a seguito delle modifiche apportate dall'art.42 bis introdotto dalla legge n.222/2007 di conversione del D.L. n.159/2007, non esplicano alcun effetto in tema di ICI, avendo solo ampliato i casi in cui può essere riconosciuta la ruralità ad un fabbricato, con conseguenze dirette solo sulle modalità di accatastamento dei fabbricati.Dalla lettura della normativa l'Ance ha ritenuto incontestabile la conclusione cui è pervenuta la Suprema Corte, evidenziando però la necessità di effettuare ulteriori riflessioni in merito al regime ICI da applicare ai fabbricati rurali (legittimamente) ancora iscritti al catasto terreni, il divieto al rimborso dell'ICI versata dalle cooperative (disposto dalla legge finanziaria per il 2008), la presenza di circolari ministeriali di segno opposto, le indicazioni contenute nelle istruzioni alla compilazione della dichiarazione ICI.Per quanto concerne i fabbricati rurali costruiti o variati a decorrere dal 1998, il D.M. 2 gennaio 1998, n.28, all'art.2, comma 2 prevede che l'abitazione gli altri immobili strumentali all'esercizio dell'attività agricola costituiscono unità immobiliari da denunciare in catasto autonomamente. Per i fabbricati rurali costruiti o variati dall'11 marzo 1998 occorre, quindi, presentare denuncia di accatastamento con rendita proposta (ex art.5 del D.M. n.28/1998). I fabbricati rurali, iscritti o da iscrivere, debbono corrispondere l'ICI, indipendentemente dal fatto che il titolare del fabbricato rurale non sia ancora oggi obbligato a presentare l'accatastamento, dovendo provvedervi, ai sensi dell'art.9, comma 1 del D.L. n.557/1993, direttamente l'Agenzia del Territorio, in quanto si tratta di fabbricati che, proprio per la norma appena citata, sono da iscrivere al catasto fabbricati, a nulla rilevando il soggetto cui compete l'obbligo di effettuare l'iscrizione. Per quanto riguarda il disposto della legge finanziaria per il 2008 secondo cui è vietato il rimborso dell'ICI pagata dalle cooperative agricole, l'Anci ha chiarito che la finanziaria per il 2008 in questo modo voluto arrestare sul nascere un'eventuale contenzioso fondato sulla supposta natura retroattiva delle modifiche apportate alla normativa disciplinante i requisiti di ruralità ad opera dell'art.42 bis del D.L. n.159/2007 e sulla supposta esenzione dell'ICI per i fabbricati rurali.Sulla contrapposizione della circolare del Ministero delle Finanze n.50/E del 20 marzo 2000 e la circolare dell'Agenzia del Territorio n.7/T del 15 giugno 2007, che in sintesi hanno previsto una esclusione dall'ICI per i fabbricati rurali, l'Anci, riprendendo quanto affermato dalla Suprema Corte, ha chiarito che le due circolari esprimono un parere dell'Amministrazione non vincolante né per il contribuente né per il Giudice tributario e che dunque non scalfisce minimamente il concetto secondo cui i fabbricati rurali debbano essere assoggettati ad ICI.Infine, per quanto concerne le indicazioni contenute nelle istruzioni alla compilazione della dichiarazione ICI ed in particolare l'inserimento di un campo per i casi di esclusione, esenzione o ruralità, l'Anci ha fatto presente che diversi sono i casi in cui le istruzioni alla compilazione della dichiarazione ICI hanno fornito delle indicazioni poi smentite dalla giurisprudenza di legittimità e che, dunque, il decreto di approvazione delle istruzioni e del modello di dichiarazione ICI è viziato da eccesso di potere, in quanto tale esenzione ICI non è prevista nella norma primaria
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Imposta di registro: Edificabilità di fatto e di diritto


Imposta di registro: basta l’edificabilità "di fatto"
Terreni con edificabifita` «di fatto»
Rischio rincari per il Registro

Ai fini dell`imposta di registro va considerata edificabile e quindi di valore maggiore rispetto all`area agricola, sia l`area cosi` qualificata nella pianificazione urbanistica comunale (cosiddetta edificabilita` di ``diritto``) sia l`area che sia ``di fatto`` edificabile, per tale intendendosi quella la cui edificabilita` possa essere ricavata «in modo indiretto dall`esistenza di una situazione concreta da considerare in rapporto a una serie di elementi oggettivi» collegati con lo sviluppo urbanistico della zona.
E` quanto ritenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 9131 del 19 aprile 2006, ove e` stata ritenuta edificabile un`area sulla quale era stata eretta una costruzione in modo completamente abusivo.
Il caso. La vicenda ha origine nel 1986 (!) quando viene registrata la compravendita di un`area il cui dichiarato carattere agricolo venne poi contestato dall`amministrazione finanziaria sul presupposto che si sarebbe invece trattato di un suolo edificatorio in zona di sviluppo edilizio a carattere residenziale balneare.
L`edificabilita` ``di fatto``. Secondo la Cassazione, se e` vero che l`abusivita` di una costruzione non e` di per se` idonea a trasformare in edificatoria la natura del terreno su cui sorge, una data area puo` purtuttavia avere una vocazione edificatoria (anche se essa non sia prevista nello strumento urbanistico) in quanto la sua edificabilita` (variamente definibile come ``non programmata``, ``fattuale`` o ``potenziale``) sia evidenziata attraverso la constatazione «di una serie di fatti indici» che sono costituiti, ad esempio: a) dalla vicinanza del centro abitato; b) dallo sviluppo edilizio raggiunto dalle zone adiacenti; c) dall`esistenza di servizi pubblici essenziali; d) dalla presenza di opere di urbanizzazione primaria; e) il collegamento con i centri urbani gia` organizzati.
Insomma dalla esistenza di un qualsiasi altro elemento obiettivo di incidenza sulla destinazione urbanistica.
Le fonti legislative dell`edificabilita` di fatto. D`altronde, secondo la Corte suprema, l`edificabilita` ``di fatto`` e` ben conosciuta nella legislazione vigente, in quanto essa e` presa in considerazione sia nell`ambito della disciplina della base imponibile dell`Ici (articolo 2, comma 1, lettera b del Dlgs 30 dicembre 1992 n. 504) sia al fine della determinazione dell`indennita` di espropriazione (articolo 5-bis, comma 3, legge 8 agosto 1992 n. 359 e articolo 37, comma 5, Dpr 8 giugno 2001 n. 327).
Le conseguenze per l`imposta di registro. La Cassazione ha cosi` ritenuto nel caso specifico di applicare la maggiore imposta di registro prevista per le aree edificabili. Ma la portata della decisione e` assai piu` ampia. Questa sentenza determina infatti molto sconcerto nell`intricatissima vicenda dell`individuazione del concetto di area edificabile.
Occorre ricordare che ai fini Ici e` di recente intervenuto il comma 16 dell`articolo 11-quaterdecies, del Dl n. 203/2005, per il quale si considera comunque edificabile il terreno inserito nel piano regolatore generale indipendentemente dall`adozione dello strumento attuativo. Invece, nell`ultimo intervento della Cassazione in tema di Ici (sentenza 21644 del 16 novembre 2004) si era ritenuto non sufficiente l`inserimento di un`area nel piano regolatore generale poiche` la possibilita` di edificare non e` in tal caso effettiva e concreta.
D`altro lato, ai fini dell`imposta di registro, secondo la Commissione tributaria regionale del Lazio (sezione VIII, sentenza 194 del 23 febbraio 2006) per l`edificabilita` dei terreni non e` indispensabile che sia stato adottato un piano di lottizzazione; ``basta`` che l`area sia qualificata come edificabile nel piano regolatore generale.
A dire il vero, se in campo Ici la legge contempla l`edificabilita` ``di fatto``, nell`ambito del registro l`articolo 52 del Dpr 131/86 si esprime nel senso che sono da ritenere edificabili (e quindi a essi non si applica il sistema dei moltiplicatori ma quello del valore venale) «i terreni per i quali gli strumenti urbanistici prevedono la destinazione edificatoria»: insomma, nell`ambito del registro non sembra esserci spazio per l`edificabilita` ``di fatto``, cio` di cui la Cassazione pare essersi dimenticata.

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