lunedì 14 luglio 2008

Consulenze aziendali fiscali e commerciali, commercialisti, competenza esclusiva
Cassazione civile , sez. II, sentenza 11.06.2008 n° 15530

Consulenze aziendali fiscali e commerciali – commercialisti – competenza esclusiva – esclusione [art. 2231 c.c.]
La prestazione di consulenza aziendale fiscale e commerciale non rientra nelle attività che sono riservate in via esclusiva ad una determinata categoria professionale. Il loro esercizio, infatti, non è subordinato all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione.
(Fonte: Altalex Massimario 24/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 1 aprile - 11 giugno 2008, n. 15530
(Presidente Mensitieri – Relatore Migliucci)
Svolgimento del processo
E. N. proponeva appello avverso la sentenza del Pretore di Padova n. 1017/98, depositata il 30.12.98 con cui, revocato il decreto ingiuntivo chiesto e ottenuto per pagamento, di prestazioni professionali, era stato anche condannato alla restituzione di L.850.000 in favore di F. C..
Sosteneva che il pretore aveva errato nel ritenere inesigibile la sua richiesta di consulente del lavoro per aver svolto attività riservata ai commercialisti; che aveva errato nel valutare le prove documentali e testimoniali assunte in I grado.
Si costituiva il convenuto chiedendo la conferma dell'impugnata sentenza. Con sentenza dep. il 6 febbraio 2003 la Corte di appello di Venezia respingeva l'impugnazione, ritenendo che le attività professionali in relazione alle quali era stato chiesto il compenso non rientravano fra quelle attribuite dall'art. 2 della L. 11.1.79 n. 12 ai consulenti del lavoro, che svolgono tutti gli adempimenti previsti per l’amministrazione del personale dipendente nonché ogni altra funzione che sia affine, connessa e conseguente. Nella specie,non rientravano nelle competenze del consulente del lavoro l'attività relativa alla cessione di azienda e la correlativa valutazione patrimoniale della panetteria, né lo studio di fattibilità dell'apertura nel Comune di Salvezzano di un negozio di erboristeria né la redazione dell'atto di transazione stipulato dal N. per porre fine alla controversia sfociata in una denuncia penale da parte di colui il quale doveva acquistare la panetteria, e che aveva contestato al C. di aver abusivamente asportato dal negozio derrate alimentari già inventariate, facenti ormai parte dell'oggetto del contratto di cessione d'azienda. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il N. sulla base di un unico motivo.
Resiste con controricorso il C..
Motivi della decisione
Con l'unico articolato motivo il ricorrente,lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 12 del 1979, in relazione all'art. 2231 cod. civ., censura la sentenza che: a) erroneamente aveva limitato le attribuzioni dei consulenti del lavoro, senza tenere conto dell' ampliamento della competenza in materia fiscale e tributaria conferita con una serie di provvedimenti legislativi introdotti in epoca successiva alla legge n. 12 del 1979; b) fra le attività proprie dei consulenti del lavoro devono essere annoverate anche quelle operazioni che, pur essendo di competenza di altre categorie professionali, non sono a queste riservate in via esclusiva, secondo quanto al riguardo statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 418 del 1996,che ha ritenuto conforme ai principi dettati dalla legge delega i decreti n. 1067 e 1068 del 1953. b) in ogni caso, gli atti compiuti dal N. non rientravano fra quelli tipici di cui ai menzionati decreti.
Il motivo è fondato.
La sentenza, nel ritenere non dovuto il compenso chiesto dal ricorrente per attività professionali che non rientravano nelle competenze professionali attribuite al consulente del lavoro,ha confermato la decisione di primo grado che aveva considerato le stesse riservate ai dottori commercialisti.
Orbene, l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, sicché il professionista non iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della necessaria qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa. Peraltro, al fine di stabilire se ricorra la nullità prevista dall'art. 2231 cod. civ., occorre verificare se la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione.
Nella specie, tale indagine non è stata affatto compiuta dai giudici di appello, che si sono limitati ad escludere che l'attività espletata dal ricorrente rientrasse nelle attribuzioni dei consulenti del lavoro secondo quanto al riguardo previsto dalla legge n. 12 del 1979.
Vanno qui richiamati i principi elaborati dalla Corte Costituzionale,secondo cui il sistema degli ordinamenti professionali di cui all'art. 33, quinto comma, della Costituzione, deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, avendo la funzione di tutelare non l'interesse corporativo di una categoria professionale ma quello degli interessi di un società che si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessità :il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica (Corte Cost. 345 del 1995).
Ed alla luce di tali principi ancora la Consulta (sentenza n. 418 del 1996), nel ritenere manifestamente infondata la questione di illegittimità dell'art. 1 , primo e ultimo comma del D.P.R n. 1067 DEL 1953 e dell'art. 1 , primo e ultimo comma, del D.P.R n. 1068 del 1953 in relazione all'art. 76 Cost.,ne ha rilevato la conformità alla precisa prescrizione contenuta nell'articolo unico, lettera a), della legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (Delega al Governo della facoltà di provvedere alla riforma degli ordinamenti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere), secondo cui "la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva".
Nelle norme delegate - hanno sottolineato i giudici delle leggi - non si rinviene alcuna attribuzione in via esclusiva di competenze, ma viene riaffermato che l'elencazione delle attività, oggetto della professione disciplinata, non pregiudica ne' "l'esercizio di ogni altra attività professionale dei professionisti considerati ne' quanto può formare oggetto dell'attività professionale di altre categorie a norma di leggi e regolamenti". In altri termini la disposizione comporta, da un canto, la non tassatività della elencazione delle attività e, dall'altro, la non limitazione dell'ambito delle attribuzioni e attività in genere professionale di altre categorie di liberi professionisti.
L'espressione "a norma di leggi e regolamenti", di cui all'ultimo comma di entrambe le disposizioni impugnate, dei D.P.R. nn. 1067 e 1068 del 1953, deve doverosamente essere intesa non con esclusivo riferimento a professioni regolamentate mediante iscrizione ad albo, ma anche, con riferimento agli spazi di libertà di espressione di lavoro autonomo e di libero esercizio di attività intellettuale autonoma non collegati a iscrizione in albi. Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l'assistenza in giudizio,cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oneri amministrativi o tributari).
Pertanto, erroneamente la Corte di appello ha escluso il diritto al compenso, non rientrando le attività professionali svolte dal N. (consulenza e valutazione in materia aziendale; redazione di un atto di transazione) in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista dalla legge come condizione di esercizio della professione).
Il ricorso va pertanto accolto;
la sentenza va cassata,con rinvio,anche per le spese della presente fase,ad altra sezione della Corte di appello di Venezia. Il giudice di rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "Nelle materie commerciali, economiche finanziarie e di ragioneria, le prestazioni di assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali, non rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione ".

P.Q.M.

Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia,anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia
La chiusura di una preesistente tettoia è un intervento di ristrutturazione edilizia

TAR Abruzzo-L'Aquila, sez. I, sentenza 07.03.2008 n° 127 (
Alessandro Del Dotto)

L’intervento in questione (chiusura di una preesistente tettoia) deve configurarsi, invero, non già come intervento manutentivo, che presupporrebbe la natura non innovativa degli apporti edilizi, e, nel caso di specie, della funzione di sola copertura propria della tettoia preesistente, ma di vera e propria ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 31, lett.d), legge 5 agosto 1978, n. 457, ed ora dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di trasformazione di un immobile tale da portare, come in effetti nella specie porta, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Non può revocarsi in dubbio, infatti, che la chiusura della tettoia importi non la sola copertura di una superficie, ma la piena utilizzabilità di un volume, in sicuro ampliamento del fabbricato cui accede.
Le dimensioni non certo trascurabili della struttura e i materiali utilizzati (cemento armato) confortano circa la qualificazione dell’opera ed il suo assoggettamento alla disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso di costruire.
Né può surrettiziamente, come tenta di fare la difesa ricorrente, operarsi una distinzione tra le varie fasi di realizzazione dell’intervento, che ha comportato, com’ è ovvio, dapprima la sostituzione della preesistente struttura in ferro con altra, analoga, in cemento armato (si tratta delle opere strutturali), e, successivamente, la tompagnatura delle pareti aperte della tettoia, per desumerne la natura meramente sostitutiva e manutentiva, essendo viceversa chiaro che l’opera edilizia va vista nella sua globalità e, in tale ottica, non vi dubbio che la preesistente tettoia in ferro (ed è tutt’altro che trascurabile le scelta dei materiali), sia pure ancorata al suolo, è opera diversa dall’ampliamento chiuso su tutti i lati del fabbricato principale, sia pure inglobante la superficie prima coperta dalla detta tettoia.
Questo l’iter motivazionale che ha determinato il Giudice amministrativo di prime cure nel respingere il ricorso proposto per l’annullamento di una ordinanza di demolizione di opere edilizie, fra le quali una tettoia che, pur preesistente, era stata sostituita nelle sue parti essenziali (in specie, strutturali: da ferro a cemento a armato) ed era stata tamponata sui lati.
Si segnala come, invero, già la mera tamponatura su tre lati (più che considerazioni sulla superficie o sui materiali impiegati, tuttavia non irrilevanti) potesse concretare l’ipotesi di creazione di un nuovo volume che, ai sensi della disciplina edilizia vigente, comporta la necessità di un titolo abilitativo (sul punto, cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, sentenza 22.3.2007, n. 2725 o anche T.A.R. Piemonte, sez. I, sentenza 12.7.2005, n. 2484) poiché non assimilabile ad un semplice intervento manutentivo (ordinario).
(Altalex, 2 luglio 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)
La chiusura di una preesistente tettoia è un intervento di ristrutturazione edilizia

TAR Abruzzo-L'Aquila, sez. I, sentenza 07.03.2008 n° 127 (
Alessandro Del Dotto)

L’intervento in questione (chiusura di una preesistente tettoia) deve configurarsi, invero, non già come intervento manutentivo, che presupporrebbe la natura non innovativa degli apporti edilizi, e, nel caso di specie, della funzione di sola copertura propria della tettoia preesistente, ma di vera e propria ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 31, lett.d), legge 5 agosto 1978, n. 457, ed ora dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di trasformazione di un immobile tale da portare, come in effetti nella specie porta, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Non può revocarsi in dubbio, infatti, che la chiusura della tettoia importi non la sola copertura di una superficie, ma la piena utilizzabilità di un volume, in sicuro ampliamento del fabbricato cui accede.
Le dimensioni non certo trascurabili della struttura e i materiali utilizzati (cemento armato) confortano circa la qualificazione dell’opera ed il suo assoggettamento alla disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso di costruire.
Né può surrettiziamente, come tenta di fare la difesa ricorrente, operarsi una distinzione tra le varie fasi di realizzazione dell’intervento, che ha comportato, com’ è ovvio, dapprima la sostituzione della preesistente struttura in ferro con altra, analoga, in cemento armato (si tratta delle opere strutturali), e, successivamente, la tompagnatura delle pareti aperte della tettoia, per desumerne la natura meramente sostitutiva e manutentiva, essendo viceversa chiaro che l’opera edilizia va vista nella sua globalità e, in tale ottica, non vi dubbio che la preesistente tettoia in ferro (ed è tutt’altro che trascurabile le scelta dei materiali), sia pure ancorata al suolo, è opera diversa dall’ampliamento chiuso su tutti i lati del fabbricato principale, sia pure inglobante la superficie prima coperta dalla detta tettoia.
Questo l’iter motivazionale che ha determinato il Giudice amministrativo di prime cure nel respingere il ricorso proposto per l’annullamento di una ordinanza di demolizione di opere edilizie, fra le quali una tettoia che, pur preesistente, era stata sostituita nelle sue parti essenziali (in specie, strutturali: da ferro a cemento a armato) ed era stata tamponata sui lati.
Si segnala come, invero, già la mera tamponatura su tre lati (più che considerazioni sulla superficie o sui materiali impiegati, tuttavia non irrilevanti) potesse concretare l’ipotesi di creazione di un nuovo volume che, ai sensi della disciplina edilizia vigente, comporta la necessità di un titolo abilitativo (sul punto, cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, sentenza 22.3.2007, n. 2725 o anche T.A.R. Piemonte, sez. I, sentenza 12.7.2005, n. 2484) poiché non assimilabile ad un semplice intervento manutentivo (ordinario).
(Altalex, 2 luglio 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)

Chiusura di una tettoia: è ristrutturazione.

Edilizia, superficie edificabile, chiusura di una tettoia, intervento innovativo
TAR Abruzzo-L'Aquila, sez. I, sentenza 07.03.2008 n° 127

Edilizia – superficie edificabile – chiusura di una tettoia – intervento innovativo [art. 3, D.P.R. 380/2001]
La chiusura di una preesistente tettoia comporta non la sola copertura di una superficie, ma la piena utilizzabilità di un volume, in sicuro ampliamento del fabbricato cui accede. Ne deriva che tale intervento si configura come innovativo e non meramente manutentivo e, pertanto, deve rispettare la disciplina in tema di distanza e di superficie massima edificabile. (1)
(1) In materia di edificabilità, si vedano anche: Tar Campania-Napoli 15615/2007; Consiglio di Stato 6337/2007.
(Fonte: Altalex Massimario 24/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto)

T.A.R.
Abruzzo - L'Aquila
Sezione I
Sentenza 7 marzo 2008, n. 127
(Pres. Catoni, Est. Abbruzzese)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 134 del 2005, proposto da:
Costruzioni Italia S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Anna Maria Nardis, Carmela Corneli, con domicilio eletto presso Anna Maria Avv. Nardis in L'Aquila, via Maiella, N. 2; Gallese & Catturuzza S.a.s., Ga.Pa. Costruzioni S.r.l.;
contro
Comune di Silvi, rappresentato e difeso dall'avv. Fausto Castelli, con domicilio eletto presso Vincenzo Avv. Salvi in L'Aquila, via Fontesecco 16;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
dell’ingiunzione n.202 del 22.12.2004, avente ad oggetto demolizione di opere edilizie.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Silvi;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30/01/2008 il dott. Maria Abbruzzese e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
La società ricorrente ha realizzato una struttura in cemento armato delle dimensioni di ml.6,85 x 13,65, con altezza minima di ml.2,53 e max di ml.3,24 al piano terra, sul lato sud del fabbricato principale ubicato in Silvi, Contrada Piombo Alta, in luogo della preesistente tettoia oggetto di condono, nonché, al piano interrato, sul lato est del medesimo fabbricato, un muro a distanza, come calcolata dai tecnici comunali, di ml.1,80 dal confine demaniale; le sopra descritte opere edilizie sono oggetto dell’ingiunzione di demolizione impugnata.
Il ricorso deduce: 1) violazione di legge, nullità dell’ordinanza ex art. 7 legge n.241/90, in ragione dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento e comunque dell’intervenuta estinzione della procedura non essendo stato emanato alcun provvedimento definitivo a seguito del decorso di 45 giorni dall’ordinanza di sospensione n.35/04; 2) eccesso di potere per erronea valutazione dei fatti e violazione di legge per illegittimità dell’ordine di demolizione della struttura in c.a. al posto della tettoia, non avendo tenuto conto il Comune della preesistenza della tettoia e della natura meramente manutentiva dell’intervento realizzato; 3) eccesso di potere per travisamento ed illegittimità dell’ordine di demolizione del muro al piano interrato, risultando perfettamente rispettata la distanza di legge dal confine demaniale.
Concludeva per l’accoglimento del ricorso e dell’istanza cautelare.
Si costituiva il Comune di Silvi deducendo la piena legittimità dell’atto impugnato.
Il TAR adito accoglieva la proposta istanza cautelare.
Le parti depositavano memorie e documentazione.
All’esito della pubblica udienza del 30 gennaio 2008, il Collegio riservava la decisione in camera di consiglio.
DIRITTO
Dalla documentazione versata in atti, risulta che, con il rilascio del permesso di costruire n.50 dell’1.8.2006 (in produzione di parte ricorrente), che ha ad oggetto la sopraelevazione di una porzione di fabbricato e l’ampliamento del piano interrato del fabbricato di proprietà della ricorrente, inglobante il muro in contestazione, deve intendersi venuto meno l’interesse all’annullamento, quanto al punto 2), dell’ingiunzione impugnata, e del secondo motivo di ricorso, che riguardano appunto il muro, in ragione delle richiamate sopravvenienze procedimentali.
In parte qua, il ricorso va, pertanto, dichiarato improcedibile.
In ordine alla ulteriore contestazione operata, deve rilevarsi che essa ha ad oggetto una struttura in cemento armato delle dimensioni di ml.6,80 x 13,65 ed altezza, massima di ml.3,24 e minima di ml.2,53, realizzata in ampliamento dell’edificio principale, a destinazione ristorante, realizzata in assenza del permesso di costruire al posto di una preesistente tettoia in legno, già condonata, in data 8.11.2002, con concessione edilizia in sanatoria n.232/02/C.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce l’illegittimità dell’ingiunzione giacché non preceduta da comunicazione di avvio del procedimemto.
Premesso che, com’è noto, la comunicazione di avvio ha lo scopo di innescare il contraddittorio procedimentale con la parte destinataria del provvedimento, o comunque ad esso interessata, il Collegio non può non rilevare che la parte, nel caso di specie, ha effettivamente esercitato tale sua facoltà, intervenendo nel procedimento (cfr. controdeduzioni pervenute al Comune in data 6.4.2004/120567, citate nel corpo del provvedimento impugnato; cfr. pag.4), così determinando la scrupolosa e puntuale disamina della posizioni da essa sostenute da parte del Comune, che ne dà ampio conto proprio in sede motivazionale.
Il motivo è pertanto infondato.
Con il terzo motivo, la ricorrente deduce l’illegittimità dell’ingiunzione muovendo dalla qualificazione dell’intervento edilizio realizzato e deducendone la non assoggettabilità a sanzione demolitoria, in ragione della sua natura sostanzialmente manutentiva.
Si tratta, secondo la contestazione del Comune, di manufatto non condonabile ex D.L.269/2003, giacché realizzato in epoca posteriore al 31.3.2003, come risultante dal sopralluogo del 19.11.2003, e non conforme alle norme urbanistiche perché realizzato in violazione delle distanze minime dai confini dai fabbricati (rilevate pari a ml.1,15 dal confine sud ed a ml.4,20 dal fabbricato prospiciente, inferiori alle minime prescritte dagli artt, 35 e 36 delle vigneti NTA, pari a ml.5,00 per i confini e ml.10,00, o pari all’altezza del fabbricato più alto, per i fabbricati), oltre che esorbitante dalla superficie edificabile massima realizzabile nella zona di pertinenza (zona B1 – residenziale ambito urbano).
In proposito, la ricorrente sostiene la natura meramente manutentiva dell’intervento in questione, tenuto conto della preesistenza di una struttura in ferro (la tettoia), di identiche dimensioni, collegata a terra mediante sistema fondale, e dunque già stabilmente ancorata al suolo, anche perché realizzata unitamente al pavimento esterno al piano terra in cemento, e già condonata.
L’intervento sarebbe consistito nella sostituzione della struttura in ferro con altra analoga in cemento armato e nella successiva tompagnatura dei perimetrali, il che qualificherebbe l’opera in termini di manutenzione.
Il Collegio non condivide la tesi difensiva di parte ricorrente.
L’intervento in questione (chiusura di una preesistente tettoia) deve configurarsi, invero, non già come intervento manutentivo, che presupporrebbe la natura non innovativa degli apporti edilizi, e, nel caso di specie, della funzione di sola copertura propria della tettoia preesistente, ma di vera e propria ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 31, lett.d), legge 5 agosto 1978, n.457, ed ora dell’art. 3 del D.P.R. n.380 del 2001, trattandosi di trasformazione di un immobile tale da portare, come in effetti nella specie porta, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Non può revocarsi in dubbio, infatti, che la chiusura della tettoia importi non la sola copertura di una superficie, ma la piena utilizzabilità di un volume, in sicuro ampliamento del fabbricato cui accede.
Le dimensioni non certo trascurabili della struttura stessa (di circa mq.80) e i materiali utilizzati (cemento armato) confortano circa la qualificazione dell’opera ed il suo assoggettamento alla disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso di costruire (cfr., in termini, TAR Campania, Napoli, sez.IV, 7 giugno 2006, n.10444).
Né può surrettiziamente, come tenta di fare la difesa ricorrente, operarsi una distinzione tra le varie fasi di realizzazione dell’intervento, che ha comportato, com’ è ovvio, dapprima la sostituzione della preesistente struttura in ferro con altra, analoga, in cemento armato (si tratta delle opere strutturali), e, successivamente, la tompagnatura delle pareti aperte della tettoia, per desumerne la natura meramente sostitutiva e manutentiva, essendo viceversa chiaro che l’opera edilizia va vista nella sua globalità e, in tale ottica, non vi dubbio che la preesistente tettoia in ferro (ed è tutt’altro che trascurabile le scelta dei materiali), sia pure ancorata al suolo, è opera diversa dall’ampliamento chiuso su tutti i lati del fabbricato principale, sia pure inglobante la superficie prima coperta dalla detta tettoia.
Del resto, la distinzione concettuale tra tettoia aperta su tre lati e superficie chiusa su tutti i lati è chiaramente rappresentata dall’art. 47 del REC del Comune di Silvi, che esclude che possano essere qualificati portici, con conseguente possibilità di scomputo dal calcolo delle superfici edificabili, gli spazi interamente chiusi, che non presentino almeno un lato completamento aperto (art. 47, punto 4 lett.a), così come pure evidenziato nel corpo del provvedimento impugnato.
La qualificazione dell’opera, come sopra operata, e il suo sicuro assoggettamento alle disposizioni richiamate dal Comune in punto di distanza e di superficie massima edificabile comportano, per tale parte, la legittimità dell’ingiunzione impugnata ed il rigetto del ricorso in parte de qua.
La soccombenza, visto l’esito complessivo del ricorso, va posta sostanzialmente a carico di parte ricorrente; le spese sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo – L’AQUILA, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, così provvede: dichiara il ricorso in parte improcedibile e rigetta per il resto, nei sensi di cui in motivazione.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore del Comune di Silvi, che si liquidano in complessivi Euro 2.000 (duemila).
Così deciso in L'Aquila nella camera di consiglio del giorno 30/01/2008 con l'intervento dei signori:
Antonio Catoni, Presidente
Rolando Speca, Consigliere
Maria Abbruzzese, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 07/03/2008.

Chiusura di una tettoia: è ristrutturazione.

Edilizia, superficie edificabile, chiusura di una tettoia, intervento innovativo
TAR Abruzzo-L'Aquila, sez. I, sentenza 07.03.2008 n° 127

Edilizia – superficie edificabile – chiusura di una tettoia – intervento innovativo [art. 3, D.P.R. 380/2001]
La chiusura di una preesistente tettoia comporta non la sola copertura di una superficie, ma la piena utilizzabilità di un volume, in sicuro ampliamento del fabbricato cui accede. Ne deriva che tale intervento si configura come innovativo e non meramente manutentivo e, pertanto, deve rispettare la disciplina in tema di distanza e di superficie massima edificabile. (1)
(1) In materia di edificabilità, si vedano anche: Tar Campania-Napoli 15615/2007; Consiglio di Stato 6337/2007.
(Fonte: Altalex Massimario 24/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto)

T.A.R.
Abruzzo - L'Aquila
Sezione I
Sentenza 7 marzo 2008, n. 127
(Pres. Catoni, Est. Abbruzzese)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 134 del 2005, proposto da:
Costruzioni Italia S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Anna Maria Nardis, Carmela Corneli, con domicilio eletto presso Anna Maria Avv. Nardis in L'Aquila, via Maiella, N. 2; Gallese & Catturuzza S.a.s., Ga.Pa. Costruzioni S.r.l.;
contro
Comune di Silvi, rappresentato e difeso dall'avv. Fausto Castelli, con domicilio eletto presso Vincenzo Avv. Salvi in L'Aquila, via Fontesecco 16;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
dell’ingiunzione n.202 del 22.12.2004, avente ad oggetto demolizione di opere edilizie.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Silvi;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30/01/2008 il dott. Maria Abbruzzese e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
La società ricorrente ha realizzato una struttura in cemento armato delle dimensioni di ml.6,85 x 13,65, con altezza minima di ml.2,53 e max di ml.3,24 al piano terra, sul lato sud del fabbricato principale ubicato in Silvi, Contrada Piombo Alta, in luogo della preesistente tettoia oggetto di condono, nonché, al piano interrato, sul lato est del medesimo fabbricato, un muro a distanza, come calcolata dai tecnici comunali, di ml.1,80 dal confine demaniale; le sopra descritte opere edilizie sono oggetto dell’ingiunzione di demolizione impugnata.
Il ricorso deduce: 1) violazione di legge, nullità dell’ordinanza ex art. 7 legge n.241/90, in ragione dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento e comunque dell’intervenuta estinzione della procedura non essendo stato emanato alcun provvedimento definitivo a seguito del decorso di 45 giorni dall’ordinanza di sospensione n.35/04; 2) eccesso di potere per erronea valutazione dei fatti e violazione di legge per illegittimità dell’ordine di demolizione della struttura in c.a. al posto della tettoia, non avendo tenuto conto il Comune della preesistenza della tettoia e della natura meramente manutentiva dell’intervento realizzato; 3) eccesso di potere per travisamento ed illegittimità dell’ordine di demolizione del muro al piano interrato, risultando perfettamente rispettata la distanza di legge dal confine demaniale.
Concludeva per l’accoglimento del ricorso e dell’istanza cautelare.
Si costituiva il Comune di Silvi deducendo la piena legittimità dell’atto impugnato.
Il TAR adito accoglieva la proposta istanza cautelare.
Le parti depositavano memorie e documentazione.
All’esito della pubblica udienza del 30 gennaio 2008, il Collegio riservava la decisione in camera di consiglio.
DIRITTO
Dalla documentazione versata in atti, risulta che, con il rilascio del permesso di costruire n.50 dell’1.8.2006 (in produzione di parte ricorrente), che ha ad oggetto la sopraelevazione di una porzione di fabbricato e l’ampliamento del piano interrato del fabbricato di proprietà della ricorrente, inglobante il muro in contestazione, deve intendersi venuto meno l’interesse all’annullamento, quanto al punto 2), dell’ingiunzione impugnata, e del secondo motivo di ricorso, che riguardano appunto il muro, in ragione delle richiamate sopravvenienze procedimentali.
In parte qua, il ricorso va, pertanto, dichiarato improcedibile.
In ordine alla ulteriore contestazione operata, deve rilevarsi che essa ha ad oggetto una struttura in cemento armato delle dimensioni di ml.6,80 x 13,65 ed altezza, massima di ml.3,24 e minima di ml.2,53, realizzata in ampliamento dell’edificio principale, a destinazione ristorante, realizzata in assenza del permesso di costruire al posto di una preesistente tettoia in legno, già condonata, in data 8.11.2002, con concessione edilizia in sanatoria n.232/02/C.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce l’illegittimità dell’ingiunzione giacché non preceduta da comunicazione di avvio del procedimemto.
Premesso che, com’è noto, la comunicazione di avvio ha lo scopo di innescare il contraddittorio procedimentale con la parte destinataria del provvedimento, o comunque ad esso interessata, il Collegio non può non rilevare che la parte, nel caso di specie, ha effettivamente esercitato tale sua facoltà, intervenendo nel procedimento (cfr. controdeduzioni pervenute al Comune in data 6.4.2004/120567, citate nel corpo del provvedimento impugnato; cfr. pag.4), così determinando la scrupolosa e puntuale disamina della posizioni da essa sostenute da parte del Comune, che ne dà ampio conto proprio in sede motivazionale.
Il motivo è pertanto infondato.
Con il terzo motivo, la ricorrente deduce l’illegittimità dell’ingiunzione muovendo dalla qualificazione dell’intervento edilizio realizzato e deducendone la non assoggettabilità a sanzione demolitoria, in ragione della sua natura sostanzialmente manutentiva.
Si tratta, secondo la contestazione del Comune, di manufatto non condonabile ex D.L.269/2003, giacché realizzato in epoca posteriore al 31.3.2003, come risultante dal sopralluogo del 19.11.2003, e non conforme alle norme urbanistiche perché realizzato in violazione delle distanze minime dai confini dai fabbricati (rilevate pari a ml.1,15 dal confine sud ed a ml.4,20 dal fabbricato prospiciente, inferiori alle minime prescritte dagli artt, 35 e 36 delle vigneti NTA, pari a ml.5,00 per i confini e ml.10,00, o pari all’altezza del fabbricato più alto, per i fabbricati), oltre che esorbitante dalla superficie edificabile massima realizzabile nella zona di pertinenza (zona B1 – residenziale ambito urbano).
In proposito, la ricorrente sostiene la natura meramente manutentiva dell’intervento in questione, tenuto conto della preesistenza di una struttura in ferro (la tettoia), di identiche dimensioni, collegata a terra mediante sistema fondale, e dunque già stabilmente ancorata al suolo, anche perché realizzata unitamente al pavimento esterno al piano terra in cemento, e già condonata.
L’intervento sarebbe consistito nella sostituzione della struttura in ferro con altra analoga in cemento armato e nella successiva tompagnatura dei perimetrali, il che qualificherebbe l’opera in termini di manutenzione.
Il Collegio non condivide la tesi difensiva di parte ricorrente.
L’intervento in questione (chiusura di una preesistente tettoia) deve configurarsi, invero, non già come intervento manutentivo, che presupporrebbe la natura non innovativa degli apporti edilizi, e, nel caso di specie, della funzione di sola copertura propria della tettoia preesistente, ma di vera e propria ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 31, lett.d), legge 5 agosto 1978, n.457, ed ora dell’art. 3 del D.P.R. n.380 del 2001, trattandosi di trasformazione di un immobile tale da portare, come in effetti nella specie porta, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Non può revocarsi in dubbio, infatti, che la chiusura della tettoia importi non la sola copertura di una superficie, ma la piena utilizzabilità di un volume, in sicuro ampliamento del fabbricato cui accede.
Le dimensioni non certo trascurabili della struttura stessa (di circa mq.80) e i materiali utilizzati (cemento armato) confortano circa la qualificazione dell’opera ed il suo assoggettamento alla disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso di costruire (cfr., in termini, TAR Campania, Napoli, sez.IV, 7 giugno 2006, n.10444).
Né può surrettiziamente, come tenta di fare la difesa ricorrente, operarsi una distinzione tra le varie fasi di realizzazione dell’intervento, che ha comportato, com’ è ovvio, dapprima la sostituzione della preesistente struttura in ferro con altra, analoga, in cemento armato (si tratta delle opere strutturali), e, successivamente, la tompagnatura delle pareti aperte della tettoia, per desumerne la natura meramente sostitutiva e manutentiva, essendo viceversa chiaro che l’opera edilizia va vista nella sua globalità e, in tale ottica, non vi dubbio che la preesistente tettoia in ferro (ed è tutt’altro che trascurabile le scelta dei materiali), sia pure ancorata al suolo, è opera diversa dall’ampliamento chiuso su tutti i lati del fabbricato principale, sia pure inglobante la superficie prima coperta dalla detta tettoia.
Del resto, la distinzione concettuale tra tettoia aperta su tre lati e superficie chiusa su tutti i lati è chiaramente rappresentata dall’art. 47 del REC del Comune di Silvi, che esclude che possano essere qualificati portici, con conseguente possibilità di scomputo dal calcolo delle superfici edificabili, gli spazi interamente chiusi, che non presentino almeno un lato completamento aperto (art. 47, punto 4 lett.a), così come pure evidenziato nel corpo del provvedimento impugnato.
La qualificazione dell’opera, come sopra operata, e il suo sicuro assoggettamento alle disposizioni richiamate dal Comune in punto di distanza e di superficie massima edificabile comportano, per tale parte, la legittimità dell’ingiunzione impugnata ed il rigetto del ricorso in parte de qua.
La soccombenza, visto l’esito complessivo del ricorso, va posta sostanzialmente a carico di parte ricorrente; le spese sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo – L’AQUILA, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, così provvede: dichiara il ricorso in parte improcedibile e rigetta per il resto, nei sensi di cui in motivazione.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore del Comune di Silvi, che si liquidano in complessivi Euro 2.000 (duemila).
Così deciso in L'Aquila nella camera di consiglio del giorno 30/01/2008 con l'intervento dei signori:
Antonio Catoni, Presidente
Rolando Speca, Consigliere
Maria Abbruzzese, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 07/03/2008.

Valore venale de Espropri

Occupazione appropriativa, illegittimità, conseguenze, danni, sussistenza
Cassazione civile , sez. I, sentenza 23.04.2008 n° 10560

Occupazione appropriativa – illegittimità – conseguenze – danni – sussistenza [d.p.r. 327/2001]
In caso di occupazione appropriativa, l’espropriato ha diritto ad un ristoro economico corrispondente al valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni valore. (1) (2) (3) (4)
(1) In tema di danno da occupazione appropriativi, si veda Cassazione civile, SS.UU. 9040/2008.(2) In materia di occupazione usurpativa, si veda Cassazione civile, SS.UU. 26732/2007.(3) In materia di occupazione appropriativa ed irreversibile trasformazione del bene, si veda Cassazione civile, SS.UU. 24397/2007.(4) In materia di espropriazione e dichiarazione di pubblica utilità, si veda Consiglio di Stato, adunanza plenaria n. 9/2007.
Tra i contributi della dottrina più recente, si vedano:- GIOIA, L'occupazione appropriativa compete al giudice amministrativo, in Danno e responsabilità, 2008, n. 4, IPSOA, p. 475;- DE LUCIA, PROTTO, Occupazione appropriativa e provvedimento ex art. 43 T.U. Espropriazioni, in Urbanistica e appalti, 2008, n. 4, IPSOA, p. 516;- MARZANO, Inapplicabilità dell'occupazione appropriativa ad opere private di interesse pubblico, in Urbanistica e appalti, 2007, n. 3, IPSOA, p. 328;- LIMENTANI, VERONELLI, Occupazione appropriativi, in Giornale di diritto amministrativo, 2007, n. 7, IPSOA, p. 747;- DE MARZO G., Occupazione appropriativa e risarcimento del danno, in Urbanistica e appalti, 2007, n. 12, IPSOA, p. 1512.
(Fonte: Altalex Massimario 25/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 29 gennaio - 23 aprile 2008, n. 10560
(Presidente Carnevale - Relatore Salvago)

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza non definitiva del 31 luglio 1991, respingeva la domanda con cui C. C. aveva chiesto la condanna del Comune di Gallarate al rilascio di alcuni terreni di sua proprietà ricompresi P.e.e.p. approvato il 21 luglio 1982, e dichiarava che il C. aveva diritto al risarcimento dei danni subiti a causa dell’illegittimo protrarsi della loro occupazione disposta, per un triennio dall’immissione in possesso, con decreti emanati, rispettivamente, l’11 gennaio 1983, il 31 gennaio 1983 e il 7 dicembre 1983: in quanto i fondi erano stati nel frattempo destinati in modo irreversibile alla realizzazione delle opere previste dal P.e.e.p. ed il Comune ne aveva pertanto acquisito la proprietà, per cui era tenuto a corrispondere al proprietario una somma pari al loro controvalore.
Con sentenza definitiva del 6 agosto 1993, determinava la somma suddetta nella misura di L. 1.217.074.000, con gli interessi legali della domanda.
Il Comune proponeva appello nei confronti di entrambe le sentenze, che censurava, tra l’altro, per non aver rilevato che le situazioni giuridiche soggettive delle quali il C. assumeva l’ingiusta lesione avevano consistenza (non di diritti soggettivi, ma) di interessi legittimi e, conseguentemente, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
La Corte di appello di Milano, con sentenza non definitiva del 12 maggio 1998, lo respingeva, osservando:
a) che il vincolo nascente dall’inclusione nel P.e.e.p. non implica, di per sé, alcuna degradazione del diritto di proprietà, né legittima il protrarsi dell’occupazione oltre il suo termine di durata; b) che, alla data di notifica dell’atto di citazione (9 ottobre 1987), il termine di durata delle occupazioni autorizzate con i decreti dell’11 gennaio e del 31 gennaio 1983 era già scaduto e che la maturazione di quello relativo all’occupazione disposta il 7 dicembre 1983 su era verificata in corso di causa. Rigettava altresì la d’appello incidentale del C., e rimetteva la causa in istruttoria per la riliquidazione del risarcimento alla stregua dei criteri stabiliti dall’art. 5 bis, legge 8 agosto 1992, n. 359, così come riformulato dall’art. 3, comma 65, legge 23 dicembre 1996, n. 662, entrata in vigore dopo l’instaurazione del giudizio d’appello.
Con sentenza definitiva del 31 marzo 2000, liquidava l’ammontare del risarcimento in complessive L. 451.638.000, oltre rivalutazione e interessi.
Per la cassazione di tali sentenze, il C. ha proposto ricorso per cinque motivi. Il Comune ha resistito con controricorso formulando a sua volta, ricorso incidentale anche per motivi attinenti alla giurisdizione.
Le Sezioni Unite, con sentenza 2 aprile 2003 n. 5082 hanno dichiarato inammissibile la questione di giurisdizione. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso, C. C., denunciando violazione dell’art. 3 legge 458 del 1988, e dell’art. 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992, censura la sentenza impugnata per non aver preso in considerazione i propri motivi di appello, con cui egli aveva invocato l’applicazione della legge 458/1988 che attribuisce al provato il diritto ad ottenere la restituzione dell’immobile, ovvero in alternativa, il suo controvalore; ed aveva escluso che le opere di edilizia residenziale assumessero la qualifica di opere pubbliche sì da giustificare l’applicazione del criterio riduttivo di cui all’art. 5 bis, comma 7 bis della legge del 1992.
Il motivo è inammissibile.
Già nella sentenza non definitiva, la Corte territoriale pur non menzionandolo, ha puntualmente applicato l’art. 3 della legge 458/1988, invocato dal C., che a fronte della irreversibile trasformazione degli immobili privati in opere di edilizia residenziale (pag. 14) ha esteso al nuovo compendio in tal modo realizzato il regime della c.d. occupazione espropriativi disponendone l’acquisizione nel patrimonio dell’espropriante; ed escludendo la restituzione degli immobili agli originari proprietari, cui ha attribuito, in luogo di questa, un risarcimento corrispondente al controvalore dei beni illegittimamente ablati: così come del resto aveva richiesto l’appellante.
Queste considerazioni sono state ribadite nella sentenza definitiva, ove la Corte ha ricordato, questa volta espressamente, proprio il menzionato art. 3 che vieta all’espropriato di chiedere “la retrocessione del bene” e gli attribuisce come corrispettivo del sacrificio il diritto ad ottenere risarcimento del danno, svalutazione monetaria ed interessi legali. E tuttavia i giudici di appello hanno ritenuto che la misura del risarcimento fosse stata modificata dal sopravvenuto art. 5 bis comma 7 della ricordata legge 359/1992, che aveva introdotto un criterio riduttivo per liquidarlo; che tale parametro fosse applicabile a tutte le occupazioni espropriative (o considerate tali per volontà espressa dal legislatore) in cui non era stato dettato uno specifico criterio con esso incompatibile;
e che il giudice dovesse applicarlo di ufficio, come stabilito dalla stessa norma, anche nelle controversie in corso, purché l’indennizzo non fosse stato definito con sentenza passata in giudicato: perciò rispondendo pure alla considerazione prospettata nella memoria conclusiva del C. che aveva dedotto che al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, le opere residenziali erano interamente ultimate. Per cui le censure del ricorrente non hanno colto l’effettiva ratio decidendi di entrambe le decisioni fondate proprio sull’applicabilità al caso concreto della legge 458/1988, con l’integrazione alla stessa introdotta dall’art. 5 bis citato.
Con il terzo motivo, da esaminare a questo punto per evidenti ragioni di logica giuridica, il C., deducendo violazione degli art. 2697 cod. civ., nonché 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992, si duole che la Corte di appello abbia calcolato il risarcimento del danno secondo il criterio riduttivo stabilito da quest’ultima norma per la c.d. occupazione espropriativi, senza considerare che nel caso mancava la prova che vi fosse all’epoca dell’irreversibile trasformazione dell’immobile una dichiarazione di p.u. ancora valida ed efficace; che il comune di Gallarate non aveva fornito alcuna dimostrazione al riguardo; e che tale prova poteva comunque agevolmente ricavarsi dal decreto di occupazione temporanea che aveva espressamente ridotto quelli propri di validità del programma costruttivo di edilizia economica e popolare.
Anche questa censura è inammissibile.
Neppure il ricorrente ha prospettato di avere mai dedotto nei precedenti gradi del giudizio questioni inerenti alla mancanza, o invalidità, o inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, quale circostanza ostativa alla configurabilità dell’occupazione appropriativi; che il Tribunale di Busto Arsizio con la sentenza non definitiva del 31 luglio 1991 ha accertato essersi verificata a favore del comune di Gallarate, e per tale ragione ha respinto la richiesta del C. di restituzione dei beni irreversibilmente trasformati da detta amministrazione.
Ora i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e questioni che abbiano formato oggetto del giudizio di merito, restando escluso, pertanto, che in sede di legittimità possano essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di contestazione involgenti accertamenti di fatto non compiuti, perché non richiesti, in sede di merito. Per cui questa Corte ha ripetutamente affermato che non può prospettarsi per la prima volta in cassazione, ai fini di ottenere un risarcimento integrale del danno, la questione di invalidità o inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità per avvenuta scadenza dei termini per l’inizio ed il compimento dei lavori e della procedura, rispetto ad un originario accertamento del giudice di merito del verificarsi dell’occupazione espropriativi – sul necessario presupposto di una valida ed efficace dichiarazione di p.u. -, in relazione alla quale è stato liquidato il danno secondo il criterio riduttivo di cui all’art. 5 bis, comma settima bis, legge 359 del 1992: in quanto nell’occupazione illegittima per mancanza o inefficacia della dichiarazione di p.u. non è configurabile un’espropriazione, ma tutt’altra situazione in cui il proprietario, per converso, conserva e mantiene il proprio diritto dominicale sull’immobile, nonché in via primaria, quello di chiederne la restituzione. Ed in cui l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. è esperibile soltanto se (e solo perché) egli per una propria scelta discrezionale rinunci ad ottenere il rilascio del bene e preferisca invece, abbandonarlo definitivamente all’occupante e conseguire in cambio la completa reintegrazione economica del pregiudizio sofferto (Cass. 15687/2001, 70/2004, 18436/2004).
Con il secondo motivo, deducendo altra violazione della medesima legge nonché dell’art. 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992 lamenta che non sia stata applicata la disposizione dell’art. 3 legge 458/1988 sul risarcimento del danno, come estesa dalla sentenza 486/1991 della Corte Costituzionale che aveva introdotto un autonomo sistema di risarcimento fondato esclusivamente sull’art. 2043 c.c.; e non ridotto dall’art. 5 bis, come si ricavava dalla successiva sentenza 147/1999 della Consulta che aveva giustificato i due diversi regimi con la diversità delle situazioni disciplinate, nonché degli interventi pubblici consentiti, dando atto che per quelli rivolti al soddisfacimento di esigenze di edilizia residenziale pubblica, la tutela risarcitoria dei proprietari espropriati era integralmente garantita dalla legge del 1988.
Questo motivo è fondato.
La Corte Costituzionale ha avallato la legittimità della c.d. occupazione espropriativi, che entrambi i giudici di merito hanno accertato essersi verificata nella specie in danno degli immobili C., riconducendola nell’ambito di previsione del III comma dell’art. 42 Costit.: per il fatto che la norma non si riferisce soltanto “ad ipotesi ablative prefigurate in via generale ed accompagnante da sequenze procedimentali costanti ed unitarie”, ma consente al legislatore di disporre direttamente l’espropriazione anche se l’effetto ablatorio non si inquadri nell’ipotesi comune di un trasferimento preventivo dell’operazione, sempre che questa operazione sia assistita da motivi di pubblico interesse e dal giusto indennizzo”.
E tuttavia detto istituto pur fondato, tanto dalla giurisprudenza di questa Corte, quanto dalla stessa Consulta sull’intervento del legislatore che, chiamato ad operare un bilanciamento (già nella disciplina dell’accessione di diritto comune) dei contrapposti interessi del proprietario alla restituzione dell’immobile ormai trasformato, e dell’amministrazione espropriante al mantenimento dell’opera pubblica, privilegia questi ultimi almeno con riguardo all’assetto reale del nuovo ed ormai inscindibile compendio, non per questo ha perduto la sua connotazione di fatto illecito: per avere la propria fonte genetica non già in un atto di autorità dell’amministrazione espropriante, ma in un comportamento fattuale di questa che, pur priva di un titolo legittimo, attua l’irreversibile trasformazione dell’immobile privato appreso, inglobandolo nell’opera preventivata dalla dichiarazione di p.u.. Ed incidente sul compenso dovuto al proprietario per l’illegittimo sacrificio richiestogli, che dunque in forza dello stesso precetto contenuto nell’art. 42, III comma Costit., assume la fisionomia di un risarcimento del danno integrale, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato (art. 39 legge 2359 del 1865): sì da raggiungere, secondo la Corte Costituzionale, “la sua massima estensione consentita” in luogo del “massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesse, la pubblica amministrazione può garantire all’espropriato” nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge; ovvero di quella peculiare del “prezzo” del contratto di cessione (art. 12 della legge 865 del 1971), allorché l’effetto traslativo sia conseguito in via negoziale.
Con la conseguenza che tale consistenza dell’indennizzo – e perciò “il principio della responsabilità aquiliana ... corrispondente al valore reale del bene” – costituisce un elemento caratterizzante ed ineliminabile dell’occupazione espropriativa, ricorrente a prescindere dalla destinazione “legale” del bene espropriato; che è stato confermato sia pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche dall’art. 3 della legge. 458 del 1988. E successivamente – e più volte – dalla stessa Consulta, secondo cui “essendo l’interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, comporta la liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore velane del bene, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione” (Corte Costit. 369/1996, 188/1995, 542/1990, 384/1990).
Il legislatore, invece, limitatamente alle aree edificatorie, la cui radicale trasformazione sia intervenuta anteriormente al 30 settembre 1996, con la successiva disposizione dell’art. 3, comma 65, della legge 662 del 1996, ha esteso ad esso (comma 7 bis) il medesimo criterio riduttivo stabilito dall’art. 5 bis della legge. 359 del 1992 per determinare l’indennità di esproprio, con esclusione della riduzione del quaranta per cento prevista dal I comma della norma, e con l’aumento del dieci per cento: nel caso applicato dalla Corte di Appello anche perché la Corte costituzionale ne ha dichiarato la conformità all’art. 42 Costit. in quanto a) Il legislatore, in casi eccezionali, può ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno, attuabile sia nel campo della responsabilità contrattuale, sia in materia di responsabilità extracontrattuale; b) nella fattispecie dell’occupazione appropriativi, sussistevano in astratto gli estremi giustificativi di un intervento normativo “ragionevolmente riduttivo della misura della riparazione dovuta dalla Pubblica Amministrazione al proprietario dell’immobile che si venuto ad essere così incorporato nell’opera pubblica”.
Sennonché questo criterio riduttivo è venuto meno per effetto della recente sentenza 349 del 2007 della stessa Corte, che, accogliendo il dubbio sollevato da questa Corte con l’ordinanza di rimessione 11887 del 2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7 bis del menzionato art. 5 bis: in quanto la norma, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione. Ciò perché la Corte europea con specifico riferimento alla disciplina dell’occupazione ha ritenuto che la liquidazione del danno stabilita in misura superiore all’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo. E perché, d’altra parte, anche alla luce “delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito”.
Pertanto dal giorno successivo alla pubblicazione di questa decisione (art. 136 Costit. E 30, III comma legge 87 del 1953) non è più possibile applicare il meccanismo riduttivo introdotto dall’art. 5 bis, comma 7 bis a meno che il rapporto non sia ormai esaurito in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per Essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenza e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, della pronuncia di incostituzionalità (Cass. 16450/2006; 15200/2005; 22413/2004).
Nessuna di queste ipotesi si è verificata nel caso concreto posto che il C. con i motivi di impugnazione in esame ha impedito la definitiva ed immodificabile determinazione dell’indennizzo dovutogli per l’illegittima espropriazione dell’immobile ponendone in discussione l’ammontare; per cui l’aspetto patrimoniale della vicenda estintivo – acquisitiva torna ad essere disciplinato dalla ricordata regola, sostanzialmente tratta dall’art. 39 della legge 2359 del 1865, e fino alla sentenza 349/2007, mantenuta per le aree non edificabili limitatamente alle irreversibili trasformazioni successive al 30 settembre 1996, che comporta il diritto dell’espropriato ad un ristoro economico corrispondente al valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni valore.
L’applicazione di questo criterio è stata infine ribadita dall’art. 2 della legge 244 del 2007, il cui comma 89 sub e) ha modificato l’art. 55 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.p.r. 327/2001, disponendo che “nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di p.u., in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquido in misura pari al valore venale del bene”. Con la conseguenza che il risarcimento dovuto al C. per l’occupazione appropriativi subita deve essere liquidato in misura corrispondente al valore pieno che gli immobili avevano al momento già determinato dalle sentenze impugnate, in cui scaduto il termine finale fino al quale ne era stata autorizzata l’occupazione temporanea, la già avvenuta irreversibile trasformazione nell’opera programmata dal p.e.e.p. ne aveva provocato il trasferimento coattivo all’amministrazione espropriante.
L’accoglimento di questo motivo comporta l’assorbimento del quarto, con il cui il C. ha eccepito l’incostituzionalità del menzionato art. 5 bis comma 7 bis, per avere introdotto un criterio riduttivo di sistema incompatibile con gli artt. 3, 24, 28, 42, 97 Cost., avendo la menzionata decisione 349/2007 della Corte Costituzionale già scrutinato la questione, dichiarato incostituzionale la norma.
Con il quinto motivo del ricorso, il C., deducendo insufficienza ed altri vizi della motivazione si duole che la sentenza definitiva abbia valutato i terreni applicando i parametri edificatori del p.e.e.p. in luogo di quelli del precedente p.r.g. del 3 settembre 1957, senza considerare la duplice natura del piano di edilizia popolare, ed in base al solo presupposto che lo stesso si concretasse in una variante del precedente strumento urbanistico.
La doglianza è inammissibile in quanto il ricorrente non ha neppure a quali parametri intendeva riferirsi, ed in particolare se trattasi dagli indici territoriali del piano, ovvero degli indici fondiari; nonché a maggior ragione quale fosse quello applicato dalla Corte e quale quello più elevato che disciplinava la medesima zona nel p.r.g. del 1957. E non ha indicato, infine, neppure quale strumento urbanistico vigesse all'epoca dell'irreversibile trasformazione dell'immobile e quale regime prevedesse per la zona in cui poi sorto il p.e.e.p..
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato anche a sezioni unite (Cass. 125/2001; 148/2001 e successive), che è proprio l'indice medio di edificabilità, a tradurre le scelte generali sui livelli di edificazione sopportabili dal territorio comunale, nel suo insieme o in sue autonome componenti - anche per la fissazione dell'indice in un rapporto medio che ne conferma l'esorbitanza dalla funzione di attuazione del piano regolatore - ed a costituire la disciplina generale sull'utilizzazione edificatoria di tutti i suoli, compresi ne Piano di zona; per cui per rendere la censura autosufficiente, era necessario quanto meno che il C. allegasse se l'apprezzamento del valore del terreno compiuto in base ai menzionati indici medi di fabbricabilità correlati (o correlabili) al totale della superficie al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi, ed inoltre se detti parametri si riferissero all'intera area del piano stesso i ad una porzione differenziata per situazioni indipendenti dal progetto espropriativi: oppure se era avvenuto recependo la minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire (neppur essa indicata), per effetto dell'applicazione di disposizioni del piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni, ovvero servizi e infrastrutture: posto che soltanto in tale ultimo caso poteva stabilirsi se la sentenza incorsa nei vizi di motivazione addebitati nel giustificare l'applicazione di tali parametri con la natura di variante al p.r.g. peculiare del p.e.e.p..
Inammissibile è anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui il comune insiste nel dedurre che alla scadenza del decreto di occupazione non era venuto meno il proprio potere ablativo collegato alla dichiarazione di p.u. non ancora scaduta: posto che la Corte di appello non ha disconosciuto affatto tale circostanza, ma vi ha contrapposto quella del tutto pacifica e decisiva per il verificarsi dell'occupazione espropriativi, che né alla scadenza suddetta, né successivamente era stato mai emesso il decreto di esproprio, con la conseguenza, neppur essa contestata dall'ente, che gli immobili C. erano stati acquisiti non in forza di un titolo legittimo, bensì in conseguenza di una situazione fattuale, quale è la loro accertata irreversibile trasformazione.
Ed è infine inammissibile l'ultimo motivo relativo all'asserita sussistenza di una cessione volontaria tra le parti, per essersi con esso il comune limitato a contraddire il risultato dell'accertamento condotto dalle sentenze impugnate, che tra di esse erano intercorse mere trattative concluse da una delibera della Giunta comunale che aveva dato mandato al sindaco di provvedere ai successivi adempimenti per la stipula del contratto di vendita; cui gli organi comunali non avevano dato seguito: senza indicare alcun elemento idoneo ad individuare l'atto che sarebbe stato egualmente concluso tra le parti, a cominciare dall'offerta provvisoria dell'indennità ex art. 12 della legge 865/1971 e della sua incondizionata accettazione da parte del proprietario.
Conclusivamente la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, e non essendo necessari ulteriori accertamenti per avere già la Corte di appello determinato il valore venale dei terreni C., il Collegio deve decidere nel merito ex art. 384 cod. proc. pen. e condannare il comune a corrispondere il loro valore venale determinato come di seguito:
a) mappale 1062:L. 403.524.412; b) mappale 1399: L. 166.290.000; c) mappale 200: L. 195.978.099; d) diminuzione porzione residua L. 28.716.000. Ed in totale L. 749.508.511, pari ad Euro 410.330,00, oltre interessi legali e danno da svalutazione monetaria come determinati dalla sentenza definitiva della Corte di appello.
ne va infine mantenuta ferma anche la statuizione relativa alle spese dei pregressi gradi del giudizio, mentre anche quelle del giudizio di legittimità vanno gravate sul soccombente comune di Gallarate e liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il primo, il terzo ed il quinto motivo del principale, nonché il secondo ed il terzo dell'incidentale, accoglie il secondo del ricorso principale e, dichiarato assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; decidendo nel merito, condanna il comune di Gallarate a corrispondere a C. C. la complessiva somma di Euro 410.330,00, con rivalutazione monetaria calcolata dall'Istat ed interessi legali come con le decorrenze indicate nella sentenza definitiva della Corte di appello. Ne mantiene la statuizione relativa alle spese processuali e condanna il comune al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 12.000,00 di cui Euro 12.000,00 per onorario di difesa, oltre Iva ed accessori come per legge.

Valore venale de Espropri

Occupazione appropriativa, illegittimità, conseguenze, danni, sussistenza
Cassazione civile , sez. I, sentenza 23.04.2008 n° 10560

Occupazione appropriativa – illegittimità – conseguenze – danni – sussistenza [d.p.r. 327/2001]
In caso di occupazione appropriativa, l’espropriato ha diritto ad un ristoro economico corrispondente al valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni valore. (1) (2) (3) (4)
(1) In tema di danno da occupazione appropriativi, si veda Cassazione civile, SS.UU. 9040/2008.(2) In materia di occupazione usurpativa, si veda Cassazione civile, SS.UU. 26732/2007.(3) In materia di occupazione appropriativa ed irreversibile trasformazione del bene, si veda Cassazione civile, SS.UU. 24397/2007.(4) In materia di espropriazione e dichiarazione di pubblica utilità, si veda Consiglio di Stato, adunanza plenaria n. 9/2007.
Tra i contributi della dottrina più recente, si vedano:- GIOIA, L'occupazione appropriativa compete al giudice amministrativo, in Danno e responsabilità, 2008, n. 4, IPSOA, p. 475;- DE LUCIA, PROTTO, Occupazione appropriativa e provvedimento ex art. 43 T.U. Espropriazioni, in Urbanistica e appalti, 2008, n. 4, IPSOA, p. 516;- MARZANO, Inapplicabilità dell'occupazione appropriativa ad opere private di interesse pubblico, in Urbanistica e appalti, 2007, n. 3, IPSOA, p. 328;- LIMENTANI, VERONELLI, Occupazione appropriativi, in Giornale di diritto amministrativo, 2007, n. 7, IPSOA, p. 747;- DE MARZO G., Occupazione appropriativa e risarcimento del danno, in Urbanistica e appalti, 2007, n. 12, IPSOA, p. 1512.
(Fonte: Altalex Massimario 25/2008)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 29 gennaio - 23 aprile 2008, n. 10560
(Presidente Carnevale - Relatore Salvago)

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza non definitiva del 31 luglio 1991, respingeva la domanda con cui C. C. aveva chiesto la condanna del Comune di Gallarate al rilascio di alcuni terreni di sua proprietà ricompresi P.e.e.p. approvato il 21 luglio 1982, e dichiarava che il C. aveva diritto al risarcimento dei danni subiti a causa dell’illegittimo protrarsi della loro occupazione disposta, per un triennio dall’immissione in possesso, con decreti emanati, rispettivamente, l’11 gennaio 1983, il 31 gennaio 1983 e il 7 dicembre 1983: in quanto i fondi erano stati nel frattempo destinati in modo irreversibile alla realizzazione delle opere previste dal P.e.e.p. ed il Comune ne aveva pertanto acquisito la proprietà, per cui era tenuto a corrispondere al proprietario una somma pari al loro controvalore.
Con sentenza definitiva del 6 agosto 1993, determinava la somma suddetta nella misura di L. 1.217.074.000, con gli interessi legali della domanda.
Il Comune proponeva appello nei confronti di entrambe le sentenze, che censurava, tra l’altro, per non aver rilevato che le situazioni giuridiche soggettive delle quali il C. assumeva l’ingiusta lesione avevano consistenza (non di diritti soggettivi, ma) di interessi legittimi e, conseguentemente, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
La Corte di appello di Milano, con sentenza non definitiva del 12 maggio 1998, lo respingeva, osservando:
a) che il vincolo nascente dall’inclusione nel P.e.e.p. non implica, di per sé, alcuna degradazione del diritto di proprietà, né legittima il protrarsi dell’occupazione oltre il suo termine di durata; b) che, alla data di notifica dell’atto di citazione (9 ottobre 1987), il termine di durata delle occupazioni autorizzate con i decreti dell’11 gennaio e del 31 gennaio 1983 era già scaduto e che la maturazione di quello relativo all’occupazione disposta il 7 dicembre 1983 su era verificata in corso di causa. Rigettava altresì la d’appello incidentale del C., e rimetteva la causa in istruttoria per la riliquidazione del risarcimento alla stregua dei criteri stabiliti dall’art. 5 bis, legge 8 agosto 1992, n. 359, così come riformulato dall’art. 3, comma 65, legge 23 dicembre 1996, n. 662, entrata in vigore dopo l’instaurazione del giudizio d’appello.
Con sentenza definitiva del 31 marzo 2000, liquidava l’ammontare del risarcimento in complessive L. 451.638.000, oltre rivalutazione e interessi.
Per la cassazione di tali sentenze, il C. ha proposto ricorso per cinque motivi. Il Comune ha resistito con controricorso formulando a sua volta, ricorso incidentale anche per motivi attinenti alla giurisdizione.
Le Sezioni Unite, con sentenza 2 aprile 2003 n. 5082 hanno dichiarato inammissibile la questione di giurisdizione. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso, C. C., denunciando violazione dell’art. 3 legge 458 del 1988, e dell’art. 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992, censura la sentenza impugnata per non aver preso in considerazione i propri motivi di appello, con cui egli aveva invocato l’applicazione della legge 458/1988 che attribuisce al provato il diritto ad ottenere la restituzione dell’immobile, ovvero in alternativa, il suo controvalore; ed aveva escluso che le opere di edilizia residenziale assumessero la qualifica di opere pubbliche sì da giustificare l’applicazione del criterio riduttivo di cui all’art. 5 bis, comma 7 bis della legge del 1992.
Il motivo è inammissibile.
Già nella sentenza non definitiva, la Corte territoriale pur non menzionandolo, ha puntualmente applicato l’art. 3 della legge 458/1988, invocato dal C., che a fronte della irreversibile trasformazione degli immobili privati in opere di edilizia residenziale (pag. 14) ha esteso al nuovo compendio in tal modo realizzato il regime della c.d. occupazione espropriativi disponendone l’acquisizione nel patrimonio dell’espropriante; ed escludendo la restituzione degli immobili agli originari proprietari, cui ha attribuito, in luogo di questa, un risarcimento corrispondente al controvalore dei beni illegittimamente ablati: così come del resto aveva richiesto l’appellante.
Queste considerazioni sono state ribadite nella sentenza definitiva, ove la Corte ha ricordato, questa volta espressamente, proprio il menzionato art. 3 che vieta all’espropriato di chiedere “la retrocessione del bene” e gli attribuisce come corrispettivo del sacrificio il diritto ad ottenere risarcimento del danno, svalutazione monetaria ed interessi legali. E tuttavia i giudici di appello hanno ritenuto che la misura del risarcimento fosse stata modificata dal sopravvenuto art. 5 bis comma 7 della ricordata legge 359/1992, che aveva introdotto un criterio riduttivo per liquidarlo; che tale parametro fosse applicabile a tutte le occupazioni espropriative (o considerate tali per volontà espressa dal legislatore) in cui non era stato dettato uno specifico criterio con esso incompatibile;
e che il giudice dovesse applicarlo di ufficio, come stabilito dalla stessa norma, anche nelle controversie in corso, purché l’indennizzo non fosse stato definito con sentenza passata in giudicato: perciò rispondendo pure alla considerazione prospettata nella memoria conclusiva del C. che aveva dedotto che al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, le opere residenziali erano interamente ultimate. Per cui le censure del ricorrente non hanno colto l’effettiva ratio decidendi di entrambe le decisioni fondate proprio sull’applicabilità al caso concreto della legge 458/1988, con l’integrazione alla stessa introdotta dall’art. 5 bis citato.
Con il terzo motivo, da esaminare a questo punto per evidenti ragioni di logica giuridica, il C., deducendo violazione degli art. 2697 cod. civ., nonché 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992, si duole che la Corte di appello abbia calcolato il risarcimento del danno secondo il criterio riduttivo stabilito da quest’ultima norma per la c.d. occupazione espropriativi, senza considerare che nel caso mancava la prova che vi fosse all’epoca dell’irreversibile trasformazione dell’immobile una dichiarazione di p.u. ancora valida ed efficace; che il comune di Gallarate non aveva fornito alcuna dimostrazione al riguardo; e che tale prova poteva comunque agevolmente ricavarsi dal decreto di occupazione temporanea che aveva espressamente ridotto quelli propri di validità del programma costruttivo di edilizia economica e popolare.
Anche questa censura è inammissibile.
Neppure il ricorrente ha prospettato di avere mai dedotto nei precedenti gradi del giudizio questioni inerenti alla mancanza, o invalidità, o inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, quale circostanza ostativa alla configurabilità dell’occupazione appropriativi; che il Tribunale di Busto Arsizio con la sentenza non definitiva del 31 luglio 1991 ha accertato essersi verificata a favore del comune di Gallarate, e per tale ragione ha respinto la richiesta del C. di restituzione dei beni irreversibilmente trasformati da detta amministrazione.
Ora i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e questioni che abbiano formato oggetto del giudizio di merito, restando escluso, pertanto, che in sede di legittimità possano essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di contestazione involgenti accertamenti di fatto non compiuti, perché non richiesti, in sede di merito. Per cui questa Corte ha ripetutamente affermato che non può prospettarsi per la prima volta in cassazione, ai fini di ottenere un risarcimento integrale del danno, la questione di invalidità o inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità per avvenuta scadenza dei termini per l’inizio ed il compimento dei lavori e della procedura, rispetto ad un originario accertamento del giudice di merito del verificarsi dell’occupazione espropriativi – sul necessario presupposto di una valida ed efficace dichiarazione di p.u. -, in relazione alla quale è stato liquidato il danno secondo il criterio riduttivo di cui all’art. 5 bis, comma settima bis, legge 359 del 1992: in quanto nell’occupazione illegittima per mancanza o inefficacia della dichiarazione di p.u. non è configurabile un’espropriazione, ma tutt’altra situazione in cui il proprietario, per converso, conserva e mantiene il proprio diritto dominicale sull’immobile, nonché in via primaria, quello di chiederne la restituzione. Ed in cui l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. è esperibile soltanto se (e solo perché) egli per una propria scelta discrezionale rinunci ad ottenere il rilascio del bene e preferisca invece, abbandonarlo definitivamente all’occupante e conseguire in cambio la completa reintegrazione economica del pregiudizio sofferto (Cass. 15687/2001, 70/2004, 18436/2004).
Con il secondo motivo, deducendo altra violazione della medesima legge nonché dell’art. 5 bis, comma 7 bis della legge 359 del 1992 lamenta che non sia stata applicata la disposizione dell’art. 3 legge 458/1988 sul risarcimento del danno, come estesa dalla sentenza 486/1991 della Corte Costituzionale che aveva introdotto un autonomo sistema di risarcimento fondato esclusivamente sull’art. 2043 c.c.; e non ridotto dall’art. 5 bis, come si ricavava dalla successiva sentenza 147/1999 della Consulta che aveva giustificato i due diversi regimi con la diversità delle situazioni disciplinate, nonché degli interventi pubblici consentiti, dando atto che per quelli rivolti al soddisfacimento di esigenze di edilizia residenziale pubblica, la tutela risarcitoria dei proprietari espropriati era integralmente garantita dalla legge del 1988.
Questo motivo è fondato.
La Corte Costituzionale ha avallato la legittimità della c.d. occupazione espropriativi, che entrambi i giudici di merito hanno accertato essersi verificata nella specie in danno degli immobili C., riconducendola nell’ambito di previsione del III comma dell’art. 42 Costit.: per il fatto che la norma non si riferisce soltanto “ad ipotesi ablative prefigurate in via generale ed accompagnante da sequenze procedimentali costanti ed unitarie”, ma consente al legislatore di disporre direttamente l’espropriazione anche se l’effetto ablatorio non si inquadri nell’ipotesi comune di un trasferimento preventivo dell’operazione, sempre che questa operazione sia assistita da motivi di pubblico interesse e dal giusto indennizzo”.
E tuttavia detto istituto pur fondato, tanto dalla giurisprudenza di questa Corte, quanto dalla stessa Consulta sull’intervento del legislatore che, chiamato ad operare un bilanciamento (già nella disciplina dell’accessione di diritto comune) dei contrapposti interessi del proprietario alla restituzione dell’immobile ormai trasformato, e dell’amministrazione espropriante al mantenimento dell’opera pubblica, privilegia questi ultimi almeno con riguardo all’assetto reale del nuovo ed ormai inscindibile compendio, non per questo ha perduto la sua connotazione di fatto illecito: per avere la propria fonte genetica non già in un atto di autorità dell’amministrazione espropriante, ma in un comportamento fattuale di questa che, pur priva di un titolo legittimo, attua l’irreversibile trasformazione dell’immobile privato appreso, inglobandolo nell’opera preventivata dalla dichiarazione di p.u.. Ed incidente sul compenso dovuto al proprietario per l’illegittimo sacrificio richiestogli, che dunque in forza dello stesso precetto contenuto nell’art. 42, III comma Costit., assume la fisionomia di un risarcimento del danno integrale, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato (art. 39 legge 2359 del 1865): sì da raggiungere, secondo la Corte Costituzionale, “la sua massima estensione consentita” in luogo del “massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesse, la pubblica amministrazione può garantire all’espropriato” nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge; ovvero di quella peculiare del “prezzo” del contratto di cessione (art. 12 della legge 865 del 1971), allorché l’effetto traslativo sia conseguito in via negoziale.
Con la conseguenza che tale consistenza dell’indennizzo – e perciò “il principio della responsabilità aquiliana ... corrispondente al valore reale del bene” – costituisce un elemento caratterizzante ed ineliminabile dell’occupazione espropriativa, ricorrente a prescindere dalla destinazione “legale” del bene espropriato; che è stato confermato sia pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche dall’art. 3 della legge. 458 del 1988. E successivamente – e più volte – dalla stessa Consulta, secondo cui “essendo l’interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, comporta la liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore velane del bene, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione” (Corte Costit. 369/1996, 188/1995, 542/1990, 384/1990).
Il legislatore, invece, limitatamente alle aree edificatorie, la cui radicale trasformazione sia intervenuta anteriormente al 30 settembre 1996, con la successiva disposizione dell’art. 3, comma 65, della legge 662 del 1996, ha esteso ad esso (comma 7 bis) il medesimo criterio riduttivo stabilito dall’art. 5 bis della legge. 359 del 1992 per determinare l’indennità di esproprio, con esclusione della riduzione del quaranta per cento prevista dal I comma della norma, e con l’aumento del dieci per cento: nel caso applicato dalla Corte di Appello anche perché la Corte costituzionale ne ha dichiarato la conformità all’art. 42 Costit. in quanto a) Il legislatore, in casi eccezionali, può ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno, attuabile sia nel campo della responsabilità contrattuale, sia in materia di responsabilità extracontrattuale; b) nella fattispecie dell’occupazione appropriativi, sussistevano in astratto gli estremi giustificativi di un intervento normativo “ragionevolmente riduttivo della misura della riparazione dovuta dalla Pubblica Amministrazione al proprietario dell’immobile che si venuto ad essere così incorporato nell’opera pubblica”.
Sennonché questo criterio riduttivo è venuto meno per effetto della recente sentenza 349 del 2007 della stessa Corte, che, accogliendo il dubbio sollevato da questa Corte con l’ordinanza di rimessione 11887 del 2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7 bis del menzionato art. 5 bis: in quanto la norma, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione. Ciò perché la Corte europea con specifico riferimento alla disciplina dell’occupazione ha ritenuto che la liquidazione del danno stabilita in misura superiore all’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo. E perché, d’altra parte, anche alla luce “delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito”.
Pertanto dal giorno successivo alla pubblicazione di questa decisione (art. 136 Costit. E 30, III comma legge 87 del 1953) non è più possibile applicare il meccanismo riduttivo introdotto dall’art. 5 bis, comma 7 bis a meno che il rapporto non sia ormai esaurito in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per Essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenza e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, della pronuncia di incostituzionalità (Cass. 16450/2006; 15200/2005; 22413/2004).
Nessuna di queste ipotesi si è verificata nel caso concreto posto che il C. con i motivi di impugnazione in esame ha impedito la definitiva ed immodificabile determinazione dell’indennizzo dovutogli per l’illegittima espropriazione dell’immobile ponendone in discussione l’ammontare; per cui l’aspetto patrimoniale della vicenda estintivo – acquisitiva torna ad essere disciplinato dalla ricordata regola, sostanzialmente tratta dall’art. 39 della legge 2359 del 1865, e fino alla sentenza 349/2007, mantenuta per le aree non edificabili limitatamente alle irreversibili trasformazioni successive al 30 settembre 1996, che comporta il diritto dell’espropriato ad un ristoro economico corrispondente al valore venale del bene con gli accessori peculiari delle obbligazioni valore.
L’applicazione di questo criterio è stata infine ribadita dall’art. 2 della legge 244 del 2007, il cui comma 89 sub e) ha modificato l’art. 55 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.p.r. 327/2001, disponendo che “nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di p.u., in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquido in misura pari al valore venale del bene”. Con la conseguenza che il risarcimento dovuto al C. per l’occupazione appropriativi subita deve essere liquidato in misura corrispondente al valore pieno che gli immobili avevano al momento già determinato dalle sentenze impugnate, in cui scaduto il termine finale fino al quale ne era stata autorizzata l’occupazione temporanea, la già avvenuta irreversibile trasformazione nell’opera programmata dal p.e.e.p. ne aveva provocato il trasferimento coattivo all’amministrazione espropriante.
L’accoglimento di questo motivo comporta l’assorbimento del quarto, con il cui il C. ha eccepito l’incostituzionalità del menzionato art. 5 bis comma 7 bis, per avere introdotto un criterio riduttivo di sistema incompatibile con gli artt. 3, 24, 28, 42, 97 Cost., avendo la menzionata decisione 349/2007 della Corte Costituzionale già scrutinato la questione, dichiarato incostituzionale la norma.
Con il quinto motivo del ricorso, il C., deducendo insufficienza ed altri vizi della motivazione si duole che la sentenza definitiva abbia valutato i terreni applicando i parametri edificatori del p.e.e.p. in luogo di quelli del precedente p.r.g. del 3 settembre 1957, senza considerare la duplice natura del piano di edilizia popolare, ed in base al solo presupposto che lo stesso si concretasse in una variante del precedente strumento urbanistico.
La doglianza è inammissibile in quanto il ricorrente non ha neppure a quali parametri intendeva riferirsi, ed in particolare se trattasi dagli indici territoriali del piano, ovvero degli indici fondiari; nonché a maggior ragione quale fosse quello applicato dalla Corte e quale quello più elevato che disciplinava la medesima zona nel p.r.g. del 1957. E non ha indicato, infine, neppure quale strumento urbanistico vigesse all'epoca dell'irreversibile trasformazione dell'immobile e quale regime prevedesse per la zona in cui poi sorto il p.e.e.p..
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato anche a sezioni unite (Cass. 125/2001; 148/2001 e successive), che è proprio l'indice medio di edificabilità, a tradurre le scelte generali sui livelli di edificazione sopportabili dal territorio comunale, nel suo insieme o in sue autonome componenti - anche per la fissazione dell'indice in un rapporto medio che ne conferma l'esorbitanza dalla funzione di attuazione del piano regolatore - ed a costituire la disciplina generale sull'utilizzazione edificatoria di tutti i suoli, compresi ne Piano di zona; per cui per rendere la censura autosufficiente, era necessario quanto meno che il C. allegasse se l'apprezzamento del valore del terreno compiuto in base ai menzionati indici medi di fabbricabilità correlati (o correlabili) al totale della superficie al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi, ed inoltre se detti parametri si riferissero all'intera area del piano stesso i ad una porzione differenziata per situazioni indipendenti dal progetto espropriativi: oppure se era avvenuto recependo la minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire (neppur essa indicata), per effetto dell'applicazione di disposizioni del piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni, ovvero servizi e infrastrutture: posto che soltanto in tale ultimo caso poteva stabilirsi se la sentenza incorsa nei vizi di motivazione addebitati nel giustificare l'applicazione di tali parametri con la natura di variante al p.r.g. peculiare del p.e.e.p..
Inammissibile è anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui il comune insiste nel dedurre che alla scadenza del decreto di occupazione non era venuto meno il proprio potere ablativo collegato alla dichiarazione di p.u. non ancora scaduta: posto che la Corte di appello non ha disconosciuto affatto tale circostanza, ma vi ha contrapposto quella del tutto pacifica e decisiva per il verificarsi dell'occupazione espropriativi, che né alla scadenza suddetta, né successivamente era stato mai emesso il decreto di esproprio, con la conseguenza, neppur essa contestata dall'ente, che gli immobili C. erano stati acquisiti non in forza di un titolo legittimo, bensì in conseguenza di una situazione fattuale, quale è la loro accertata irreversibile trasformazione.
Ed è infine inammissibile l'ultimo motivo relativo all'asserita sussistenza di una cessione volontaria tra le parti, per essersi con esso il comune limitato a contraddire il risultato dell'accertamento condotto dalle sentenze impugnate, che tra di esse erano intercorse mere trattative concluse da una delibera della Giunta comunale che aveva dato mandato al sindaco di provvedere ai successivi adempimenti per la stipula del contratto di vendita; cui gli organi comunali non avevano dato seguito: senza indicare alcun elemento idoneo ad individuare l'atto che sarebbe stato egualmente concluso tra le parti, a cominciare dall'offerta provvisoria dell'indennità ex art. 12 della legge 865/1971 e della sua incondizionata accettazione da parte del proprietario.
Conclusivamente la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, e non essendo necessari ulteriori accertamenti per avere già la Corte di appello determinato il valore venale dei terreni C., il Collegio deve decidere nel merito ex art. 384 cod. proc. pen. e condannare il comune a corrispondere il loro valore venale determinato come di seguito:
a) mappale 1062:L. 403.524.412; b) mappale 1399: L. 166.290.000; c) mappale 200: L. 195.978.099; d) diminuzione porzione residua L. 28.716.000. Ed in totale L. 749.508.511, pari ad Euro 410.330,00, oltre interessi legali e danno da svalutazione monetaria come determinati dalla sentenza definitiva della Corte di appello.
ne va infine mantenuta ferma anche la statuizione relativa alle spese dei pregressi gradi del giudizio, mentre anche quelle del giudizio di legittimità vanno gravate sul soccombente comune di Gallarate e liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il primo, il terzo ed il quinto motivo del principale, nonché il secondo ed il terzo dell'incidentale, accoglie il secondo del ricorso principale e, dichiarato assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; decidendo nel merito, condanna il comune di Gallarate a corrispondere a C. C. la complessiva somma di Euro 410.330,00, con rivalutazione monetaria calcolata dall'Istat ed interessi legali come con le decorrenze indicate nella sentenza definitiva della Corte di appello. Ne mantiene la statuizione relativa alle spese processuali e condanna il comune al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 12.000,00 di cui Euro 12.000,00 per onorario di difesa, oltre Iva ed accessori come per legge.

Annullamento Autorizzazione Paesaggistica rilasciata dal Comune: Non sempre segue la demolizione

Condono edilizio, autorizzazione paesaggistica, annullamento, demolizione
Consiglio di Stato , sez. IV, decisione 28.04.2008 n° 1865


Condono edilizio – autorizzazione paesaggistica – annullamento – demolizione del manufatto – esclusione [art. 82, D.Lgs. 616/77]

Qualora, nel corso del procedimento di condono, la Soprintendenza annulli per difetto di motivazione l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune, il Comune non può disporre la demolizione del manufatto senza preventivamente esporre le ragioni per le quali ritiene che non sussistano i presupposti per il rilascio di una eventuale nuova autorizzazione fondata su motivazioni diverse. (1) (2) (3) (4) (5) (6)
(1) In tema di condono edilizio e demolizione di opere abusive, si veda TAR Campania-Napoli 3070/08.(2) In tema di condono edilizio e vincolo paesaggistico, si veda Consiglio di Stato 22/08.(3) In tema di condono edilizio e tutela dei terzi, si veda Consiglio di Stato 6332/07.(4) In tema di condono edilizio e silenzio-assenso, si veda TAR Toscana 441/07. (5) In tema di condono edilizio e competenze Stato-Regioni, si veda Corte Costituzionale 9/08.(6) Sul tema del rapporto tra condono e reati edilizi, si veda Cassazione penale 451/07.
(Fonte: Altalex Massimario 25/2008)

Consiglio di Stato
Sezione IV
Decisione 28 aprile 2008, n. 1865
(Presidente Trotta - Relatore Maruotti)

Rilevato che, nel corso della camera di consiglio fissata per la definizione della domanda incidentale dell’appellante, è stata rappresentata alle parti la possibilità che si sarebbe potuto definire il secondo grado del giudizio;
Considerato che sussistono i presupposti per l’immediata definizione del secondo grado del giudizio;
Considerato in fatto e in diritto quanto segue:
1. In data 28 febbraio 1995, la società appellante ha presentato al Comune di Bologna una domanda di condono avente per oggetto un manufatto in legno, realizzato senza titolo su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Con il provvedimento n. 20208-95 del 30 dicembre 1997, il Comune ha rilasciato l’autorizzazione prevista dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 ed ha disposto il condono.
In data 9 giugno 1998, la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Bologna – nell’esercizio del potere previsto dall’art. 82 del d.lg. n. 616 del 1977 – ha annullato il provvedimento del 30 dicembre 1997 per eccesso di potere, poiché il Comune “non spiega come e perché l’intervento autorizzato sia compatibile con le caratteristiche e le peculiarità paesaggistiche dell’area tutelata”, della quale la Soprintendenza ha sottolineato il particolare pregio.
2. Nel dare seguito all’atto della Soprintendenza, il Comune di Bologna:
- ha emesso l’ordine di demolizione n. 34897 del 28 febbraio 2001, che si è basato sul “diniego di condono PG 30208/95 del 5 gennaio 1998”;
- ha emesso l’ulteriore ordinanza n. 63176 del 10 aprile 2001, che ha “rettificato” il precedente ordine del 28 febbraio 2001, nel senso che – constatato l’annullamento del provvedimento del 30 dicembre 1997 – ha ribadito l’ordine di demolizione.
3. Col ricorso di primo grado n. 1025 del 2001 (proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna), la società ha impugnato i provvedimenti emessi dal Comune in data 28 febbraio 2001 e 10 aprile 2001, di cui ha chiesto l’annullamento.
Il TAR, con la sentenza n. 2789 del 2007, ha dichiarato inammissibile il ricorso (condannando la società al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio), poiché:
- l’ordinanza del 28 febbraio 2001 risulta comunicata alla società il 5 marzo 2001, mentre il ricorso è stato notificato l’8 giugno 2001;
- l’ordinanza del 10 aprile 2001 sarebbe meramente confermativa di quella precedente, di cui ha disposto la rettifica in ordine al precedente richiamo al “diniego di condono”, specificando che il provvedimento del 30 dicembre 1997 è stato poi annullato dalla Soprintendenza.
4. Col gravame in esame, la società ha dedotto che il TAR ha erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, poiché l’ordinanza del 10 aprile 2001 non può essere qualificata come atto meramente confermativo.
Inoltre, la società ha riproposto le censure formulate in primo grado, sulla illegittimità dell’ordinanza del 28 marzo 2001 (per erroneità nei presupposti e difetto di motivazione) e di quella del 10 aprile 2001 (per difetto di motivazione, poiché il Comune avrebbe dovuto previamente valutare se l’istanza di condono poteva essere accolta sotto il profilo paesaggistico, con una motivazione adeguata, che superasse il vizio di eccesso di potere rilevato dalla Soprintendenza).
5. Così riassunte le articolate censure dell’appellante, ritiene la Sezione che esse siano fondate e vadano accolte.
6. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, il provvedimento emesso dal Comune in data 10 aprile 2001 non ha natura meramente confermativa.
Esso, infatti, ha constatato come la precedente ordinanza del 28 febbraio 2001 avesse travisato le circostanze, nel ritenere che la demolizione dovesse conseguire all’emanazione di un provvedimento di “diniego di condono”, che in realtà non vi era mai stato.
Pertanto, l’ordinanza del 10 aprile 2001 – in relazione al vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti - va qualificata come atto di convalida di quella precedente del 28 febbraio 2001, e cioè come suo atto modificativo che ha rinnovato la lesione dell’interesse della società, sulla base di una motivazione parzialmente diversa.
Ciò comporta che il ricorso di primo grado:
- va dichiarato ammissibile, in quanto notificato in data 5 giugno 2001, nella parte in cui è stato proposto avverso il provvedimento del 10 aprile 2001 (in quanto non meramente confermativo di quello emesso il 28 febbraio 2001);
- va dichiarato ammissibile anche per la parte rivolta avverso l’ordinanza del 28 febbraio 2001, i cui effetti sono stati rinnovati dall’ordinanza del 10 aprile 2001, che ne ha inteso disporre la convalida con effetti ex tunc.
7. Le censure formulate in primo grado, riproposte in questa sede, risultano altresì fondate e vanno accolte.
7.1. Qualora nell’esercizio del potere previsto dall’art. 82 del d.lg. n. 616 del 1977 (trasfuso nel testo unico n. 190 del 1999 e poi nell’art. 146 del Codice n. 42 del 2994), e nel corso del procedimento di condono, la Soprintendenza annulli per difetto di motivazione l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune (quale autorità subdelegata dalla Regione), il Comune è titolare di un potere discrezionale, per il quale:
a) o ritiene che possa essere rilasciata una ulteriore autorizzazione paesaggistica, con una motivazione diversa da quella che ha condotto all’annullamento da parte dell’organo statale;
b) o ritiene – anche sulla base delle valutazioni formulate dall’organo statale – che non sussistano i presupposti per il rilascio della autorizzazione, ma in tal caso deve esporre le relative ragioni con adeguata motivazione, secondo i principi generali riguardanti l’esercizio delle pubbliche funzioni.
A seguito dell’annullamento della autorizzazione da parte dell’organo statale, non può invece il Comune senz’altro disporre la demolizione del manufatto per il quale è stata proposta la domanda di condono: anche se con un solo provvedimento, il Comune deve previamente valutare se l’istanza (già accolta sotto il profilo paesaggistico, con l’atto annullato per difetto di motivazione) sia meritevole di essere accolta.
Solo ove la relativa valutazione sia negativa, va emesso il conseguente ordine di demolizione.
7.2. Con riferimento al caso di specie, a seguito dell’annullamento della autorizzazione da parte della Soprintendenza, il Comune ha senz’altro emesso l’ordinanza di demolizione, senza valutare in alcun modo se l’originaria istanza – per la parte riguardante i valori paesaggistici - fosse meritevole di accoglimento sulla base di una motivazione diversa da quella ritenuta inadeguata dall’organo statale.
Pertanto, come ha dedotto l’appellante, i provvedimenti del 28 marzo 2005 e del 10 aprile 2001 si manifestano viziati per eccesso di potere, sotto i profili di difetto di motivazione e di inadeguata valutazione delle circostanze emerse nel corso del procedimento.
8. Per le ragioni che precedono, l’appello va accolto, sicché, in riforma della sentenza gravata, il ricorso originario va accolto perché risulta ammissibile e fondato.
Per l’effetto, va disposto l’annullamento degli atti impugnati in primo grado, così come è specificato nel dispositivo, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune di Bologna.
La condanna al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio (nonché al rimborso del contributo unificato) segue la soccombenza.
Di essa è fatta liquidazione nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie l’appello n. 2147 del 2001 e, in riforma della sentenza del TAR per l’Emilia Romagna n. 2789 del 2001, accoglie il ricorso di primo grado n. 1025 del 2001 ed annulla le ordinanze del Comune di Bologna n. 28 febbraio 2001 e del 10 aprile 2001, con cui è stata disposta la demolizione del manufatto realizzato alla via Ravone n. 26.
Condanna il Comune di Bologna al pagamento di euro 3.000 (tremila) in favore dell’appellante, per spese ed onorari dei due gradi del giudizio, oltre al rimborso delle spese sostenute per i contributi unificati.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla Autorità amministrativa.

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