venerdì 13 marzo 2009

Illegittima la proroga o riduzione dei termini di prescrizone e decadenza in materia tributaria:la Rimessione alla Corte di Giustizia CE è il rimedio


Illegittimità della proroga o riduzione dei termini di prescrizione e decadenza in materia tributaria: rimedi esperibili - Ordinanze Commissione tributaria provinciale
D. Chindemi (Approfondimento 3/8/2007)


Va evidenziata l'illegittimità, in occasione delle leggi finanziarie, della proroga dei termini di decadenza e prescrizione per gli adempimenti fiscali e tributari da parte della Amministrazione finanziaria o degli Enti locali, in contrasto con lo Statuto dei Diritti del contribuente (art. 3) e la normativa comunitaria, in quanto i termini di prescrizione e decadenza non possono essere modificati da norme successive, durante il maturare del termine, se non per fatti eccezionali e costituiscono una specie di accessorio del diritto, che sorge con la nascita dello stesso.
Esempi di tali sistematiche violazioni da parte del legislatore nazionale sono costituiti dalla legge n. 350/03 (c.d. finanziaria 2004) che al comma 33 dell'articolo 2 ha provveduto a prorogare i termini in tema di controlli ICI per le annualità successive al 1999 o la proroga disposta con L. n. 448/98 degli avvisi di liquidazione Ici essendo entrata in vigore quando i termini per la notifica dell'avviso erano già scaduti ed essendo stata tacitamente abrogata dalla successiva legge di natura generale n. 212/00, terzo e ultimo comma, dell'art. 3, che afferma che "i termini di prescrizione decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati". (1)
Il principio di carattere generale desumibile dal sistema comunitario e dallo Statuto dei diritti del contribuente (art. 3) è che un termine di prescrizione o decadenza maggiore di quello ordinariamente previsto, è inapplicabile, in materia tributaria, allorché l'allungamento del termine decorra in pendenza dell'originario termine non ancora scaduto. (2)
I rimedi a favore del contribuente, nel caso in cui il ricorso all'autotutela non abbia effetti, sono individuabili, in via prioritaria, nella disapplicazione, da parte del giudice tributario, della normativa confliggente con principi del diritto europeo e della Costituzione; in alternativa vengono prospettate le possibilità di sollevare l' eccezione di costituzionalità della normativa confliggente davanti alla Corte Costituzionale ex artt. 134 Cost. e 23 e segg. L. 11.3.1953,n. 87 e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234 del Trattato.
A conclusione dell'articolo lavoro verranno riportati gli schemi dei relativi atti per facilitare il lettore nella stesura dei relativi provvedimenti.
L' eccezione di costituzionalità e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234 del Trattato sono cumulabili tra loro essendo possibile anche da parte del giudice tributario sollevare contestualmente eccezione di Costituzionalità davanti alla Corte Costituzionale italiana ed operare il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia.
In via prioritaria il giudice tributario deve disapplicare la normativa confliggente con principi del diritto europeo e della Costituzione; tale rimedio, già affermato dalla Cassazione, evita di dover ricorrere agli altri, maggiormente onerosi per il cittadino-contribuente e consente la immediata trasposizione del diritto comunitario nel diritto interno, in base ai principi ormai consolidati della preminenza del primo sul secondo, sanciti anche dall'art. 10 della Costituzione che stabilisce espressamente che "l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto", con possibilità di disapplicazione, come già evidenziato, della normativa statale contrastante con quella comunitaria.
In caso di contrasto della norma con il diritto comunitario o nazionale e con i principi che li regolano la disapplicazione è possibile, prevalendo sempre il primo, in base al principio della preminenza del diritto comunitario sul diritto interno.
La Corte di Cassazione ha affermato che "in tema di efficacia del diritto comunitario, il fondamento della diretta applicazione e della prevalenza delle norme comunitarie su quelle statali si rinviene essenzialmente nell'art.11 della Costituzione, laddove stabilisce che l'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. Il contrasto tra norme statali e disciplina comunitaria non dà luogo ad invalidità o alla illegittimità delle prime, ma comporta la loro "non applicazione", che consiste nell'impedire che la norma interna venga in rilievo per la definizione della controversia davanti al giudice nazionale, restando affidata alla Corte di Giustizia di Lussemburgo l'interpretazione del diritto comunitario, del quale le sentenze della Corte precisano autoritariamente il significato, definendone l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative, senza per questo creare ex novo norme comunitarie". (3)
Il giudice nazionale deve, quindi, disapplicare la norma interna, qualora sia incompatibile col diritto comunitario. (4)
Sono sempre più numerosi gli esempi di disapplicazione di leggi nazionali da parte del giudice italiano per contrasto con la normativa comunitaria. A titolo esemplificativo sono stati disapplicati: 1) il limite di reddito indicato dall'art. 11 Legge 11/8/73 n. 533 ai fini dell'ammissione al gratuito patrocinio, in quanto irrisorio e pertanto in contrasto con i principi fissati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e con i principi sanciti nella carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea; (5)
2) il d.lg. n. 115 del 1992 che prevede il necessario previo riconoscimento dei titoli professionali conseguiti in altro Stato dell'Unione europea, per contrasto con l'ordinamento comunitario (in caso di specie, si trattava del titolo di Rechtsanwalt conseguito in Germania) per l'esercizio della professione di avvocato; (6)
3) le tariffe forensi per contrasto col Trattato di Roma e utilizzo, in sostituzione, dei criteri previsti dal codice civile per la remunerazione delle prestazioni intellettuali. (7)
Sul piano processuale consegue al principio di preminenza del diritto comunitario sul diritto nazionale il potere-dovere del giudice di disapplicare la norma nazionale contrastante con una norma comunitaria, oltre che con i principi generali del diritto interno anche nel caso in cui il contrasto sia determinato da regole generali dell'ordinamento comunitario, ricavate in sede di interpretazione dell'ordinamento stesso. (8)
Il giudice italiano e la stessa P.A., in sede di autotutela, hanno il dovere-potere di disapplicare le norme interne contrarie all'ordinamento comunitario. (9)
La Commissione tributaria deve, quindi, affermare la decadenza dell'Amministrazione finanziaria nell'operare, ad esempio, la iscrizione a ruolo ex art 36 bis l. cit. disapplicando la norma che allunga i termini di decadenza durante la vigenza degli stessi.
Ove il giudice tributario non voglia disapplicare la normativa nazionale configgente col diritto comunitario può sollevare l' eccezione di costituzionalità della normativa nazionale davanti alla Corte Costituzionale ex artt. 134 Cost. e 23 e segg. L. 11.3.1953, n. 87.Ad esempio sarebbe possibile sollevare la questione di costituzionalità dell'art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212, per violazione degli art. 3 Cost. (disparità di trattamento tra il diverso termine di decadenza previsto per la rettifica delle dichiarazioni ex art 36 bis per l'iscrizione a ruolo delle dichiarazioni presentate negli anni 2001 e 2002, rispetto a tutte le altre - per l'ingiustificata proroga dei termini di decadenza e per la disparità di trattamento, non giustificata, rispetto ai termini dell'accertamento), dell'art. 10 e 11 Cost. (per la violazione della norma ai principi del Trattato) dell'art. 24 Cost. (violazione del diritto di difesa). In attuazione anche del principio dell'affidamento riconosciuto dallo stesso Statuto dei diritti del contribuente (art. 10), con legge ordinaria e mai con legge speciale, il legislatore può prorogare i termini di prescrizione e decadenza in materia tributaria,ma solo prima del loro inizio e in presenza di eventi di carattere eccezionale che determinano un irregolare funzionamento degli uffici e tra essi non si possono ricomprendere i condoni.In tal caso si verificherebbe una disparità di trattamento tra Amministrazione e contribuente, con un ingiustificato privilegio per l'Amministrazione finanziaria, che ha la possibilità di disporre di un maggior tempo per l'iscrizione a ruolo delle dichiarazioni presentate nel biennio, mentre il contribuente che non può beneficiare di alcuna sospensione dei termini, non essendo condonabili eventuali debiti finanziari conseguenti alla rettifica operata dall'Amministrazione di cui spesso il cittadino non è a conoscenza trattandosi di rettifica operata sul mod. 770 presentato da soggetto diverso dal contribuente, determinandosi una inammissibile diversità di trattamento tra Amministrazione e contribuente stesso, priva di ragionevole giustificazione.Si pone, quindi, il contribuente, a seguito della proroga del termine di decadenza a favore della sola Amministrazione finanziaria, in una ingiustificata condizione deteriore, nel caso in cui proroga e sospensione dei termini non siano disposti egualmente a favore degli uffici e dei contribuenti, con evidente lesione del diritto di uguaglianza e di difesa di questi ultimi.Così come la disorganizzazione degli Uffici non vale a giustificare l'allungamento del termine di ragionevole durata del processo, così anche in materia tributaria, in base ai principi generali già enunciati dalla Corte di Giustizia, la norma che, in forza del condono fiscale, sospende, in via preventiva, i termini degli accertamenti tributari anche con riguardo alle situazioni non condonabili, non può trovare alcuna ragionevole giustificazione, tale non potendosi ritenere i rischi di disservizio dell'Amministrazione finanziaria, senza che analogo beneficio sia concesso al contribuente. Sussistono, pertanto, in tal caso tutti i presupposti per la declaratoria di illegittimità costituzionale di tale proroga.In via cumulatica o alternativa è anche possibile il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234 del Trattato C.E. (già art. 177) avendo le pronunce delle Commissioni tributarie natura giurisdizionale come desumibile anche dalla possibilità di proporre ricorso davanti alla Corte di Cassazione.L'organo remittente, indipendentemente dalla denominazione poco felice di "Commissione tributaria", può essere qualificato quale "giudice nazionale", possedendo le caratteristiche di cui all'art. 234 (ex art. 177) del Trattato CE (origine legale dell'organo, -istituito con D.L.gs. 545/1992- carattere permanente - obbligatorietà della sua giurisdizione- natura contraddittoria del procedimen- to disciplinato dal D.L.gs. 546/92- applicazione di norme giuridiche nel risolvere le controversie loro demandate- indipendenza positivamente garantita ) (cfr. sentenze CGCE 2.3.1999 in causa C-416/96 e 4.2.1999 in causa C-103/97).Ai fini del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, quel che rileva è la compatibilità con i principi generali del Diritto Comune Europeo della facoltà per il legislatore di prorogare indiscriminatamente, senza valida ragione o motivazione, i termini di decadenza previsti dalla legge, ad esempio, per l'iscrizione a ruolo delle rettifiche accertate in sede di controllo formale delle dichiarazioni, durante la decorrenza del relativo termine, soprattutto nel caso in cui non trattasi di effettuare verifiche complesse, ma una semplice operazione con procedura automatizzata senza attività istruttoria, verificando anche se una proroga consenta di ritenere superato il ragionevole termine di definizione del procedimento amministrativo, soprattutto nel caso in cui si tratti di una mera fase prodromica del procedimento, non ancora portata a conoscenza del contribuente, a cui deve ancora seguire la notifica della cartella formata a seguito della esecutività del ruolo.Ciascuno Stato deve individuare termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza, nell'interesse della certezza del diritto, a tutela del contribuente e della stessa Amministrazione pubblica, dovendosi ritenere equo un termine di decadenza triennale, che decorra dalla data del pagamento contestato, per le istanze di rimborso dei contribuenti. (10)Il medesimo termine di decadenza, per il rispetto del principio di equivalenza, dovrebbe applicarsi anche all'Amministrazione finanziaria, in relazione ad operazioni di natura semplice, automatizzate, che non richiedano attività istruttorie, ma solamente l'effettuazione di un calcolo che viene effettuato in pochi secondi in via informatica.È, quindi, illegittima la proroga del termine di decadenza per l'iscrizione a ruolo, solamente in relazione ad alcune annualità (ad esempio per le dichiarazioni presentate negli ani 2001 e 2002) e non invece, per le altre, non trovando giustificazione alcuna, non essendo condonabili tali violazioni formali, come pacificamente affermato nelle stesse Circolari dell'Amministrazione finanziaria italiana.Il rinvio pregiudiziale, inoltre può anche essere sollevata d'ufficio dallo stesso giudice nazionale, il quale ritenga la decisione della Corte su tale punto necessaria per emanare la sua sentenza, in quanto l'art. 234 del Trattato Cee, non limita la possibilità di operare il rinvio pregiudiziale alla sola richiesta delle parti del giudizio.
Dott. Domenico Chindemi
(Consigliere della Corte d'Appello di Milano)
___________
(1) Commissione Tributaria Provinciale di Torino, Sezione XXXVI, sentenza n. 20/03; Commissione Tributaria Regionale del Piemonte Sezione n. XXVIII, n. 20/02, Commissione Tributaria Provinciale di Bari. Sezione XVII, n. 47/03; Commissione Tributaria Provinciale di Isernia, Sezione III, n. 51/04.
(2) Cfr. Cass. 23.5.2003, n. 8146.
(3) Cass. 2/03/2005, n. 4466.
(4) La S.C. ha affermato che devono essere disapplicate le norme del diritto interno che impongono, a pena di nullità, l'iscrizione degli agenti e dei "broker" assicurativi nell'apposito ruolo professionale, Cass. 14/10/2004, n. 20275.
(5) App. Roma, 11/04/2002, L. F. c. Condominio Via XXXX.
(6) Trib. Milano, 30/05/2001.
(7) App. Torino, sez. 1, 11/07/1998, n. 791, Pres. Gamba, rel. Converso.
(8) Cass. 15/03/2002, n. 3841.
(9) Cfr Corte di Giustizia, 22 giugno 1989.
(10) Cfr. Corte Giust. 17.11.1998 - XXX Srl in liquidazione contro Amministrazione delle Finanze dello Stato.
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE ( o REGIONALE) DI
(Omissis) ha pronunciato la seguente:
O R D I N A N Z A
sul ricorso proposto da:
residente, via, elettivamente domiciliato in, presso lo studio dell'avv. che lo rappresenta e difende in forza di procura in calce al ricorso
ricorrente
CONTRO
Agenzia delle Entrate-
Ufficio di
controricorrente
AVVERSO
la cartella di pagamento n. (ruolo n. reso esecutivo in data, relativa alla rettifica della liquidazione operata dal sostituto d'imposta sul modello , relativo ai compensi erogati nell'anno, relativa a redditi soggetti a tassazione separata per il periodo d'imposta, a seguito del controllo automatizzato ai sensi dell'art. 36 bis del D.P.R. n. 600/73.
Udita la relazione della causa svolta all'udienza del relatore dott. esaminati gli atti;Ritenuto in fatto e diritto - Il contribuente impugna davanti alla Commissione tributaria la cartella di pagamento emessa dall' Agenzia delle Entrate di, che si è costituita resistendo al ricorso, relativa alla rettifica della liquidazione operata dal sostituto d'imposta sul modello...., relativo ai compensi erogati nell'anno, relativa a redditi soggetti a tassazione separata per il periodo d'imposta assumendo la decadenza della Amministrazione finanziaria dalla notifica della cartella di pagamento e la nullità della cartella stessa per carenza di motivazione- In base al combinato disposto dell'art. 36 bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell'art. 17 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, nell'ipotesi di controllo formale delle dichiarazioni dei redditi è prevista l'iscrizione a ruolo, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultino dovuti a seguito della attività di liquidazione;- l'iscrizione a ruolo è un provvedimento interno alla Pubblica Amministrazione, non portato a conoscenza del contribuente se non con la successiva notifica;- per analogia, e in base ai principi generali del diritto comune europeo, il termine ragionevole, sancito dall'art. 111 Cost. in tema di durata del processo, deve anche estendersi al termine per la definizione dei procedimenti di natura amministrativa, sussistendo al medesima "ratio" di definizione, in un tempo ragionevole, della pretesa tributaria della Pubblica Amministrazione, apparendo in contrasto col principio sopra evidenziato, la soggezione del contribuente alle pretese fiscali per un tempo eccessivo neanche conoscibile preventivamente da parte dello stesso contribuente che non ha alcuna notizia della iscrizione a ruolo;- Sussiste, inoltre, evidente disparità di trattamento tra l'ipotesi di controllo formale,disciplinata dall'art. 36 bis citato, oggetto del presente giudizio, e l'ipotesi di accertamento ordinario da parte dell'Ufficio tributario, ex art. 43 D.P.R. 600/73, che deve provvedere, in tale ultimo caso, alla notifica dell'atto al contribuente nel termine tassativo quinquennale, mentre nel caso in esame i termini, (considerati unitariamente quelli di decadenza e prescrizione) sono più lunghi, senza alcuna plausibile ragione, trattandosi di effettuare un semplice controllo formale della dichiarazione; - La cartella impugnata si riferisce, come chiaramente evidenziato nella stessa, alla rettifica della liquidazione operata dal sostituto d'imposta sul modello 770/, relativo ai compensi erogati nell'anno, relativa a redditi soggetti a tassazione separata per il periodo d'imposta - Il termine per l'esecutività del ruolo scadeva,in base a tale normativa, il 31 dicembre......, mentre il ruolo è stato reso esecutivo in data... oltre il termine di decadenza previsto in via generale dalle legge.
- L' art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212 prevede, "in deroga all'art. 3, comma 3, deal l. 27.7.2000,n. 212, i termini di decadenza per l'iscrizione a ruolo previsti dall'art. 17, comma 1, lettera a) del D.P.R. 29..1973,n. 602, sono prorogati al 31 dicembre 2005 per le dichiarazioni presentate negli ani 2001 e 2002- nella fattispecie, sembra essere stato superato, con la tale ultima proroga, ogni ragionevole termine di durata del procedimento da parte della Pubblica Amministrazione in quanto il ruolo, relativa all'IRPEF 2000, è stato reso esecutivo in data 23.3.2005 e notificato in epoca successiva. -Tale proroga oltre che contrastante con la normativa comunitaria, che non consente la soggezione del cittadino alle pretese fiscali per un tempo eccessivo, appare anche in contrasto con i principi costituzionali che debbono anche essere interpretati alla luce della normativa Comunitaria in forza dell'espresso richiamo operato dall'art. 10 della Costituzione e alla luce dei principi generali in tema di gerarchia delle fonti;- L'art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212 che prevede la proroga di un termine di decadenza (nella fattispecie per il compimento di un atto interno alla Amministrazione quale la formazione del ruolo), già prossimo ai limiti della ragionevole durata del procedimento amministrativo, fino a raddoppiarlo, in prossimità della sua scadenza, appare in contrasto con l'art. 3 Cost. (disparità di trattamento tra il diverso termine di decadenza previsto per la rettifica delle dichiarazioni ex art 36 bis per l'iscrizione a ruolo delle dichiarazioni presentate negli anni 2001 e 2002, rispetto a tutte le altre, nonché rispetto a situazioni simili, nonché per la ingiustificata e deteriore disparita di trattamento del cittadino rispetto all'Amministrazione finanziaria), dell'art. 10 Cost. ( per la violazione della norma ai principi del Trattato) dell'art. 24 Cost. (violazione del diritto di difesa). E dell'art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente (art.3 divieto di proroga dei termini di prescrizione e decadenza) - è possibile la proroga dei termini di prescrizione e decadenza solo in presenza di eventi di carattere eccezionale che determinano un irregolare funzionamento degli uffici e tra essi non si possono ricomprendere i condoni che essendo previsti e prevedibili dallo stesso legislatore che li vara, non possono avere tali caratteristiche.
-Si crea, in tal caso, una disparità di trattamento tra Amministrazione e contribuente, con un ingiustificato privilegio per la prima che ha la possibilità di disporre di un maggior tempo per l'iscrizione a ruolo delle dichiarazioni presentate nel biennio citato, mentre nessuna agevolazione viene riconosciuta al contribuente che non può beneficiare di alcuna sospensione dei termini, non essendo condonabili eventuali debiti finanziari conseguenti alla rettifica operata dall'Amministrazione di cui il cittadino non è a conoscenza, come nella fattispecie, trattandosi di rettifica operata sul mod. 770 presentato da soggetto diverso dal contribuente, con conseguente impossibilità anche teorica per lo stesso di poter fare alcuna previsione sui termini di una eventuale rettifica, determinandosi una inammissibile diversità di trattamento priva di ragionevole giustificazione.
La proroga della decadenza del termine a favore della sola Amministrazione finanziaria, al fine di consentire la funzionalità degli uffici, pone, quindi, in una deteriore e ingiustificata condizione i contribuenti, discriminando quelli interessati dalla proroga della decadenza, per le due annualità (2001 e 2002). rispetto a quelli interessati dalle altre annualità per le quali continuano ad applicarsi i termini di decadenza previsti in via generale; - il trascorrere del tempo non può costituire un legittimo motivo di differenziazione nel trattamento dei contribuenti nel caso in cui, come nella fattispecie, proroga e sospensione dei termini non siano disposti egualmente a favore degli Uffici finanziari e dei contribuenti, evidenziandosi la lesione del diritto costituzionalmente garantito della parità di trattamento e del diritto di difesa di questi ultimi. -In base anche ai principi generali già enunciati dalla Corte di Giustizia, così come la disorganizzazione degli Uffici non vale a giustificare l'allungamento del termine di ragionevole durata del processo, così anche in materia tributaria la norma che, nel contesto del condono fiscale previsto dalla stessa legge n. 1-8-2003, n. 212, sospende, in via preventiva i termini degli accertamenti tributari anche con riguardo alle situazioni non condonabili, non può trovare alcuna ragionevole giustificazione nell'esigenza di fronteggiare il sensibile aggravio di lavoro che prevedibilmente sarebbe derivato agli uffici finanziari dalle attività connesse al condono, con conseguenti rischi di carenze organizzative, a meno che non si voglia far ricadere sul cittadino il disservizio della Amministrazione che, anziché essere ritenuta responsabile di tale situazione (imputet sibi) se ne avvantaggerebbe ad onta dei principi costituzionali del buon andamento e funzionalità della Pubblica Amministrazione. - delle disfunzioni della Pubblica Amministrazione, infatti, non può certo essere ritenuto responsabile il cittadino, ma, semmai, la stessa P.A. su cui devono ricadere le conseguenze del disservizio e disordine organizzativo e tali situazioni non possono legittimare l'allungamento, ingiustificato e non ragionevole, dei termini di decadenza del controllo meramente formale delle dichiarazioni dei redditi; - sussistono, pertanto, tutti i presupposti per la declaratoria di illegittimità costituzionale di tale proroga essendo mutate, sotto il profilo costituzionale, le situazioni tutelabili in base alla stessa giurisprudenza comunitaria. La questione, oltre che non manifestamente infondata, appare rilevante in quanto dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212 deriverebbe l'accoglimento del ricorso del contribuente.

PQM

Visti gli artt 134 Cost., 23 e segg., l. 11.3.1953,n. 87;Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3,10 e 24 Cost. la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212 nella parte in cui prevede che "in deroga all'art. 3, comma 3, deal l. 27.7.2000,n. 212, i termini di decadenza per l'iscrizione a ruolo previsti dall'art. 17, comma 1, lettera a) del D.P.R. 29..1973,n. 602, sono prorogati al 31 dicembre 2005 per le dichiarazioni presentate negli ani 2001 e 2002;Sospende il giudizio in corso fino all'esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.Dispone la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale; Domanda alla Segreteria per la notificazione della presente ordinanza alle parti costituite, al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche per la comunicazione ai Presidenti delle Camere del Parlamento della Repubblica.

---------------------Schema di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234 del Trattato.
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE ( o REGIONALE) di

(Omissis) ha pronunciato la seguente:
O R D I N A N Z A
sul ricorso proposto da: , residente a elettivamente domiciliato in -, presso lo studio dell'avv. che lo rappresenta e difende in forza di procura in calce al ricorso ricorrente
CONTRO
Agenzia delle Entrate- Ufficio di, rappresentato e difeso da resistente
AVVERSO
la cartella di pagamento n. (ruolo n. reso esecutivo in data, relativa alla rettifica della liquidazione operata dal sostituto d'imposta sul modello 770/, relativo ai compensi erogati nell'anno, relativa a redditi soggetti a tassazione separata per il periodo d'imposta, a seguito del controllo automatizzato ai sensi dell'art. 36 bis del D.P.R. n. 600/73. Udita la relazione della causa svolta all'udienza del dal Relatore dott. Esaminati gli atti;
Ritenuto in fatto e diritto
Il contribuente impugna davanti alla Commissione tributaria provinciale di la cartella di pagamento emessa dall' Agenzia delle Entrate di, che si è costituita resistendo al ricorso, relativa alla rettifica della liquidazione operata dal sostituto d'imposta sul modello 770/, relativo ai compensi erogati nell'anno, relativa a redditi soggetti a tassazione separata per il periodo d'imposta assumendo la decadenza della Amministrazione finanziaria dalla notifica della cartella di pagamento e la nullità della cartella stessa per carenza di motivazione
Sotto il profilo formale va ritenuto ammissibile il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell'art. 234 del Trattato C.E. avendo le pronunce delle Commissioni tributarie natura giurisdizionale come desumibile anche dalla loro impugnazione davanti alla Corte di Cassazione.Indipendentemente dalla denominazione di "Commissione tributaria" l' organo remittente può essere qualificato quale "giudice nazionale", possedendo le caratteristiche di cui all'art. 234 (ex art 177) del Trattato CE (origine legale dell'organo, -istituito con D.L.gs 545/1992- carattere permanente - obbligatorietà della sua giurisdizione- natura contraddittoria del procedimento disciplinato dal D.L.gs 546/92- applicazione di norme giuridiche nel risolvere le controversie loro demandate- indipendenza positivamente garantita ) (cfr sentenze CGCE 2.3.1999 in causa C-416/96 e 4.2.1999 in causa C-103/97)
Si richiede alla Corte di accertare, preliminarmente la sussistenza, quale principio generale di diritto comunitario, di un termine ragionevole di definizione del procedimento amministrativo in materia tributaria da parte dell'Amministrazione finanziaria, che in Italia è parte del giudizio tributario e se la individuazione di tale termine, pur essendo discrezionale, sia assolutamente libera da parte del legislatore o limitata dai principi di carattere generale di diritto europeo (in particolare del Trattato) che consentono di individuare, quale principio di carattere generale, l' obbligo, per ciascun Stato membro, di stabilire un termine di durata per la definizione del procedimento amministrativo, che sia ragionevole, analogamente al principio di carattere generale enunciato dalla stessa Corte di giustizia in relazione ai tempi di ragionevole durata del processo, il cui termine massimo, per il giudizio civile, è fissato, in linea generale, in tre anni e la cui violazione ha dato origine, per i numerosi ritardi denunciati in sede comunitaria, alla cd. legge Pinto ( l. 24.3.2001,n. 889)
- Nella fattispecie il legislatore italiano ha previsto, per la sola prima parte del procedimento amministrativo di controllo formale delle dichiarazioni, che avviene con procedura automatizzata definito con la formazione del ruolo, un termine molto ampio, ai limiti della ragionevolezza (tre anni).
A tale termine deve poi aggiungersi il termine di notifica delle cartelle, che, allunga notevolmente e per un tempo indefinito, la durata del procedimento, prima che il suo esito possa essere portato effettivamente a conoscenza del contribuente, rispetto all'anno a cui si riferiscono i tributi in contestazione.
Sia la decadenza che la prescrizione producono l'estinzione a seguito del fatto oggettivo del decorso del tempo e il titolare del diritto ha l'onere di esercitare il diritto nel termine prescritto dalla legge, senza potersi avvalere di "escamotage", in contrasto sia con i principi generali del diritto italiano che comunitario, al fine di prolungare a piacimento e, comunque, oltre il termine di legge, la possibilità di far valere il proprio diritto.
I termini di formazione del ruolo e di notifica della cartella devono essere qualificati perentori, in ossequio al principio costituzionalmente garantito del buon andamento e della imparzialità della Amministrazione e considerando come in materia tributaria i termini abbiano la specifica funzione di evitare la incertezza dei rapporti tra Amministrazione e cittadino.
Anche la consolidata giurisprudenza di legittimità italiana afferma, con orientamento costante, la vigenza, nell'ambito del diritto sostanziale, del principio generale della perentorietà dei termini, salva diversa disposizione di legge (cfr Cass. 8.8.1997,n. 6838)
La questione che si intende sottoporre alla Corte concerne la possibilità per il Legislatore di prorogare tale termine, ove la proroga incida, allungandolo, sulla ragionevole del termine di durata del procedimento amministrativo e non sia adeguatamente motivata da circostanze gravi, oggettive e documentate (quali, ad esempio, una calamità naturale che impedisca l'attività degli Uffici finanziari) e, per il principio di reciprocità, analoga sospensione dei termini di pagamento non sia concessa al contribuente,
Occorre quindi valutare da parte della Corte se, nel caso di controllo da parte dell'Amministrazione, ai sensi dell'art. 36 bis l.cit., trattandosi di controllo automatizzato, senza verifiche o attività istruttoria, effettuato con procedure informatiche che ne consentono il disbrigo in pochi secondi per ciascuna pratica, la proroga del termine di cui dell' art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212 (che prevede, "in deroga all'art. 3, comma 3, deal l. 27.7.2000,n. 212, i termini di decadenza per l'iscrizione a ruolo previsti dall'art. 17, comma 1, lettera a) del D.P.R. 29..1973,n. 602, sono prorogati al 31 dicembre 2005 per le dichiarazioni presentate negli ani 2001 e 2002") .ed il conseguente raddoppio del termine di decadenza, operato dal legislatore, siano conforme ai principi comunitari già evidenziati.
Più specificamente si intende porre all'attenzione della Corte se i principi generali del Trattato, del diritto comune europee, della Costituzione Europea relativi alla effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, nonché alla ragionevole durata del procedimento amministrativo da parte di una Pubblica Amministrazione ostino alla applicazione della norma sopra citata, anche in relazione alla necessità di definizione, in un tempo ragionevole e conoscibile dal contribuente, della pretesa tributaria della Pubblica Amministrazione e se sia in contrasto col principio sopra evidenziato la soggezione del cittadino alle pretese fiscali per un tempo eccessivo e più in particolare se sia contrario o meno al diritto comune europeo la proroga di un termine di decadenza (nella fattispecie per il compimento di un atto interno alla Amministrazione quale la formazione del ruolo) già ai limiti della ragionevole durata del procedimento amministrativo, fino a raddoppiarlo, in prossimità della sua scadenza, ove il termine complessivamente considerato sia valutato superiore a quello ragionevole per la definizione del procedimento amministrativo.
Va anche segnalata all'attenzione della Corte di Giustizia la tecnica legislativa oscura, che raggruppa in pochi articoli centinaia di commi e di disposizioni diverse con evidente difficoltà, se non impossibilità, per il cittadino medio, di venirne a conoscenza.
Al fine di fornire alla Corte utili elementi di conoscenza, si segnala che nella fattispecie la proroga è stata prevista per un arco temporale (due anni), pari al termine di decadenza originariamente previsto (due anni) e non è motivata,
Si richiede anche la valutazione della Corte per determinare se la cattiva organizzazione della Pubblica Amministrazione e, comunque, ritardi imputabili alla stessa possono legittimare l'allungamento, ove ingiustificato e non ragionevole, di termini posti a garanzia di diritti del cittadino, durante la pendenza del relativo termine
La Corte ha, più volte, affermato che ciascuno Stato deve individuare termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza, nell'interesse della certezza del diritto, che tutela nello stesso tempo il contribuente e l'amministrazione interessati, ritenendo equo un termine nazionale di decadenza triennale, che decorra dalla data del pagamento contestato, per le istanze di rimborso dei contribuenti (Sentenza della Corte del 17 novembre 1998-Aprile Srl in liquidazione contro Amministrazione delle Finanze dello Stato.
Il rispetto del principio di equivalenza presuppone che il medesimo termine di decadenza si applichi anche all'Amministrazione finanziaria, in relazione ad operazioni di natura semplice, automatizzate, che non richiedano attività istruttorie, ma solamente l'effettuazione di un calcolo che viene effettuato in pochi secondi in via informatica, come nella fattispecie posta all'attenzione della Corte.
Si evidenzia anche la ingiustificata disparità di trattamento tra Amministrazione e contribuente, con conseguente privilegio per prima che ha la possibilità di disporre di un maggior tempo per l'iscrizione a ruolo delle dichiarazioni presentate nel biennio citato, mentre nessuna agevolazione viene riconosciuta al contribuente che non può beneficiare di alcuna sospensione non essendo condonabili eventuali debiti finanziari conseguenti alla rettifica operata dall'Amministrazione ex art. 36 bis l.cit., di cui spesso il cittadino non è a conoscenza trattandosi di rettifica operata sul dod. 770 presentato da soggetto diverso dal contribuente, determinandosi, in tal modo, una inammissibile diversità di trattamento priva di ragionevole giustificazione.
La proroga della decadenza del termine a favore della sola Amministrazione finanziaria, al fine di consentire la funzionalità degli uffici, pongono in una ingiustificata condizione deteriore i contribuenti interessati dalla proroga per due annualità, poichè il trascorrere del tempo può costituire un legittimo motivo di differenziazione nel trattamento dei cittadini nel caso in cui, come nella fattispecie, proroga e sospensione dei termini non siano disposti egualmente a favore degli uffici e dei contribuenti.Al fine di assicurare l'uniforme interpretazione del diritto comunitario appare necessario operare il rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia, al fine di verificare se la corretta interpretazione dei principi sopra indicati osti alla interpretazione del diritto nazionale sopra prospettata.Sussiste, inoltre, la rilevanza e pertinenza della questione interpretativa prospettata nel giudizio in corso e la conseguente necessità della pronuncia della Corte sulla compatibilità della legge nazionale con il diritto comunitario allo scopo di accertare se i principi generali del diritto comunitario si oppongano all'applicazione della normativa nazionale E', inoltre, manifesta la rilevanza della questione sul procedimento in corso (cd "effetto utile"), potendo, nel caso concreto, essere dichiarata la decadenza del diritto azionato dalla Pubblica Amministrazione a favore del contribuente ove venisse accolta dalla Corte la questione interpretativa prospettata; la Commissione pertanto, ritiene di dover sottoporre alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee la questione pregiudiziale di interpretazione,come testualmente enunciata nel dispositivo.Consegue la sospensione del presente giudizio.
Visto l'art. 234 (già art.177) del Trattato istitutivo della Comunità Europea,

PQM
SOSPENDE
il giudizio in corso
DISPONE

la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee per la soluzione della seguente questione pregiudiziale: " se i principi generali del Trattato e del diritto comune europeo relativi alla effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, nonché alla ragionevole durata del procedimento amministrativo da parte di una Pubblica Amministrazione ostino alla applicazione dell' art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212 (che prevede, "in deroga all'art. 3, comma 3, deal l. 27.7.2000,n. 212, i termini di decadenza per l'iscrizione a ruolo previsti dall'art. 17, comma 1, lettera a) del D.P.R. 29..1973,n. 602, sono prorogati al 31 dicembre 2005 per le dichiarazioni presentate negli ani 2001 e 2002"), e se sia in contrasto con la normativa comunitaria, la soggezione del cittadino alle pretese fiscali per un tempo eccessivo e più in particolare se sia contrario o meno ai principi del diritto comune europeo la proroga di un termine di decadenza (nella fattispecie per il compimento di un atto interno alla Amministrazione quale la formazione del ruolo), fino a raddoppiarlo, in prossimità della sua scadenza, ove il termine complessivamente considerato sia valutato superiore a quello ragionevole per la definizione del procedimento amministrativo".

DISPONE
a cura della Segreteria l'invio della presente ordinanza alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee in Lussemburgo, e la trasmissione alla stessa di copia delle memorie e dei documenti prodotti dalle parti e della legislazione nazionale concernente la pronuncia pregiudiziale (art 36 bis D.P.R. 29 settembre 1973,n. 600; art. 17, comma 1, lettera a) del D.P.R. 29..1973,n. 602; art. 2-octies della l. 1-8-2003, n. 212, nonché la notifica al Presidente del Consiglio dei Ministri, e la comunicazione ai Presidenti delle Camere del Parlamento della Repubblica ed alle parti.

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo......


La Cassazione e il lavoro dei clandestini
(Cass. pen., n. 38079/2008)
G. De Falco
(Nota a sentenza 9/2/2009)


E' purtroppo ancora assai frequente, nel mondo del lavoro, l'assunzione irregolare di lavoratori stranieri non in regola con le disposizioni che disciplinano l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari nel nostro paese. E' noto che la manodopera immigrata consente un notevole risparmio al datore di lavoro, sia in punto di retribuzione che in punto di oneri contributivi. Per fronteggiare tale fenomeno, a prescindere dalle violazioni circa l'irregolare instaurazione del rapporto di lavoro, le norme in tema di immigrazione delineano il reato di cui all'art. 22 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico in tema di immigrazione) che punisce il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso di soggiorno sia scaduto, revocato o annullato. La giurisprudenza è assai rigorosa nel ritenere configurabile il reato sia quando l'assunzione riguardi un solo lavoratore, sia quando ne concerna un numero superiore. Analogamente è irrilevante la tipologia del rapporto di lavoro perfezionato, sempreché questo dia luogo ad un rapporto di sostanziale subordinazione. Una recente sentenza della Cassazione penale (sezione feriale 6.10.08 - udienza 4.9.08 - n. 38079, ricorrente la Marca) precisa invero, in modo ineccepibile, che il reato in questione è configurabile qualunque sia la tipologia di lavoro subordinato instaurato, e quindi anche nel caso di lavoro in prova, e indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività, e quindi anche nel caso di lavoro durato un solo giorno. Anche tali, in apparenza, marginali connotazioni del rapporto di lavoro ledono infatti l'interesse dello Stato a non consentire l'occupazione di soggetti che non siano in regola con le diposizioni in tema di ingresso e di permanenza nel territorio nazionale e a mantenere il controllo sulla disciplina di ogni tipo di rapporto lavorativo. Sempre a proposito dell'interpretazione rigorosa fornita dalla giurisprudenza in ordine alla fattispecie penale in parola va ricordato che sia i giudici di merito che la Cassazione ravvisano il reato con riferimento a qualunque tipo di attività svolta dal datore di lavoro; e dunque anche il semplice cittadino che assuma una badante o una colf clandestina, o comunque qualsiasi lavoratore non chiamato a lavoratore nell'ambito di un'attività imprenditoriale, incorre nel reato in questione.

Dott. Giuseppe De Falco
Magistrato

Riceviamo e gentilmente pubblichiamo......


La Cassazione e il lavoro dei clandestini
(Cass. pen., n. 38079/2008)
G. De Falco
(Nota a sentenza 9/2/2009)


E' purtroppo ancora assai frequente, nel mondo del lavoro, l'assunzione irregolare di lavoratori stranieri non in regola con le disposizioni che disciplinano l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari nel nostro paese. E' noto che la manodopera immigrata consente un notevole risparmio al datore di lavoro, sia in punto di retribuzione che in punto di oneri contributivi. Per fronteggiare tale fenomeno, a prescindere dalle violazioni circa l'irregolare instaurazione del rapporto di lavoro, le norme in tema di immigrazione delineano il reato di cui all'art. 22 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico in tema di immigrazione) che punisce il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso di soggiorno sia scaduto, revocato o annullato. La giurisprudenza è assai rigorosa nel ritenere configurabile il reato sia quando l'assunzione riguardi un solo lavoratore, sia quando ne concerna un numero superiore. Analogamente è irrilevante la tipologia del rapporto di lavoro perfezionato, sempreché questo dia luogo ad un rapporto di sostanziale subordinazione. Una recente sentenza della Cassazione penale (sezione feriale 6.10.08 - udienza 4.9.08 - n. 38079, ricorrente la Marca) precisa invero, in modo ineccepibile, che il reato in questione è configurabile qualunque sia la tipologia di lavoro subordinato instaurato, e quindi anche nel caso di lavoro in prova, e indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività, e quindi anche nel caso di lavoro durato un solo giorno. Anche tali, in apparenza, marginali connotazioni del rapporto di lavoro ledono infatti l'interesse dello Stato a non consentire l'occupazione di soggetti che non siano in regola con le diposizioni in tema di ingresso e di permanenza nel territorio nazionale e a mantenere il controllo sulla disciplina di ogni tipo di rapporto lavorativo. Sempre a proposito dell'interpretazione rigorosa fornita dalla giurisprudenza in ordine alla fattispecie penale in parola va ricordato che sia i giudici di merito che la Cassazione ravvisano il reato con riferimento a qualunque tipo di attività svolta dal datore di lavoro; e dunque anche il semplice cittadino che assuma una badante o una colf clandestina, o comunque qualsiasi lavoratore non chiamato a lavoratore nell'ambito di un'attività imprenditoriale, incorre nel reato in questione.

Dott. Giuseppe De Falco
Magistrato

Gli immigrati clandestini ed il lavoro irregolare


Corte di Cassazione Penale Sezione Feriale 6/10/2008 n. 38079;
Pres. De Roberto G.
Lavoro clandestino

FATTO E DIRITTO
Con sentenza 23/4/08 la Corte di Appello di Genova confermava la sentenza 6/6/07 del Tribunale di Savona che, a seguito di giudizio abbreviato, condannava L.M.A. alla pena complessiva (interamente condonata) di 4.500,00 Euro di ammenda (in parte sostitutiva della corrispondente pena detentiva) per il reato di occupazione alle proprie dipendenze di straniero (tale M. D.) senza permesso di soggiorno (D.L. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12: in (omissis)).
Ricorreva personalmente per cassazione l'imputato, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Con un primo motivo lamentava che il giudice di merito avesse ritenuto la sussistenza del reato in presenza di un solo lavoratore occupato (mentre la norma usava il sostantivo al plurale: "lavoratori"). Con un secondo motivo lamentava che il reato fosse stato ritenuto nonostante l'assenza di prova di uno stabile rapporto, lo straniero stesso avendo dichiarato ai carabinieri di essere in prova presso l'impresa ed al primo giorno di lavoro. Con un terzo motivo lamentava la mancata assunzione di una prova decisiva (la testimonianza del proprio commercialista).
All'udienza fissata per la discussione, non comparsa la parte ricorrente, il PG presso la S.C. chiedeva dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
Il ricorso, manifestamente infondato, è inammissibile.
Col primo motivo si sostiene che la norma violata intende sanzionare l'occupazione di una pluralità di "lavoratori stranieri" clandestini: quando la medesima legge ha voluto diversamente ha usato una diversa locuzione ("uno o più stranieri": art. 24, comma 6, in materia di lavoro stagionale). La tesi, basata su una lettura meramente letterale della norma, non solo è contraddetta dall'inciso finale della stessa, dove si stabilisce la pena "per ogni lavoratore impiegato" (venendo così meno il preteso rilievo della pluralità indistinta dei lavoratori), ma lo è soprattutto - come peraltro già rilevato dal giudice di merito - dalla ratio della norma (e della legge) di cui trattasi (evitare l'occupazione di stranieri irregolari).
Allo stesso modo il secondo motivo contraddice una giurisprudenza di legittimità del tutto condivisa (v. sez. 1^, 26/3/08-14/4/08, n. 15463, Zhao), secondo cui il concetto di occupazione che figura nell'art. 22 della legge de qua si riferisce alla instaurazione di un qualunque rapporto di lavoro subordinato (quindi anche un rapporto di lavoro in prova), indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività (quindi anche il lavoro di un giorno).
Il terzo motivo si limita genericamente ad evocare un mezzo di prova (che si assume decisivo, ma ciò è da escludersi in forza delle considerazioni che precedono) chiesto nel corso del procedimento di primo grado (celebrato in abbreviato). Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di somma, a favore della Cassa delle ammende, che è congruo fissare in 1.000,00 Euro.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende.

Gli immigrati clandestini ed il lavoro irregolare


Corte di Cassazione Penale Sezione Feriale 6/10/2008 n. 38079;
Pres. De Roberto G.
Lavoro clandestino

FATTO E DIRITTO
Con sentenza 23/4/08 la Corte di Appello di Genova confermava la sentenza 6/6/07 del Tribunale di Savona che, a seguito di giudizio abbreviato, condannava L.M.A. alla pena complessiva (interamente condonata) di 4.500,00 Euro di ammenda (in parte sostitutiva della corrispondente pena detentiva) per il reato di occupazione alle proprie dipendenze di straniero (tale M. D.) senza permesso di soggiorno (D.L. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12: in (omissis)).
Ricorreva personalmente per cassazione l'imputato, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Con un primo motivo lamentava che il giudice di merito avesse ritenuto la sussistenza del reato in presenza di un solo lavoratore occupato (mentre la norma usava il sostantivo al plurale: "lavoratori"). Con un secondo motivo lamentava che il reato fosse stato ritenuto nonostante l'assenza di prova di uno stabile rapporto, lo straniero stesso avendo dichiarato ai carabinieri di essere in prova presso l'impresa ed al primo giorno di lavoro. Con un terzo motivo lamentava la mancata assunzione di una prova decisiva (la testimonianza del proprio commercialista).
All'udienza fissata per la discussione, non comparsa la parte ricorrente, il PG presso la S.C. chiedeva dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
Il ricorso, manifestamente infondato, è inammissibile.
Col primo motivo si sostiene che la norma violata intende sanzionare l'occupazione di una pluralità di "lavoratori stranieri" clandestini: quando la medesima legge ha voluto diversamente ha usato una diversa locuzione ("uno o più stranieri": art. 24, comma 6, in materia di lavoro stagionale). La tesi, basata su una lettura meramente letterale della norma, non solo è contraddetta dall'inciso finale della stessa, dove si stabilisce la pena "per ogni lavoratore impiegato" (venendo così meno il preteso rilievo della pluralità indistinta dei lavoratori), ma lo è soprattutto - come peraltro già rilevato dal giudice di merito - dalla ratio della norma (e della legge) di cui trattasi (evitare l'occupazione di stranieri irregolari).
Allo stesso modo il secondo motivo contraddice una giurisprudenza di legittimità del tutto condivisa (v. sez. 1^, 26/3/08-14/4/08, n. 15463, Zhao), secondo cui il concetto di occupazione che figura nell'art. 22 della legge de qua si riferisce alla instaurazione di un qualunque rapporto di lavoro subordinato (quindi anche un rapporto di lavoro in prova), indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell'attività (quindi anche il lavoro di un giorno).
Il terzo motivo si limita genericamente ad evocare un mezzo di prova (che si assume decisivo, ma ciò è da escludersi in forza delle considerazioni che precedono) chiesto nel corso del procedimento di primo grado (celebrato in abbreviato). Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di somma, a favore della Cassa delle ammende, che è congruo fissare in 1.000,00 Euro.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende.

Il lavoratore può agire direttamente contro l'assicuratore datoriale per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro

Corte Costituzionale sentenza 63 del 2009 -

"questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro."


SENTENZA N. 63
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza del 13 maggio 2008 dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra N. B. e la UMS Generali Marine S.p.A. ed altro, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visti l'atto di costituzione di N. B. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 febbraio 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Giuseppe Sante Assennato e Alessandro Garlatti per N. B. e l'avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un giudizio promosso da un lavoratore vittima di infortunio contro il fallimento della società datrice di lavoro e l'assicuratore di tale società, la Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 13 maggio 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro.
La Corte rimettente espone di essere stata investita del ricorso proposto dal lavoratore contro la sentenza del giudice di secondo grado confermativa della pronuncia del tribunale che, ammettendo al passivo fallimentare il credito del lavoratore per il danno differenziale conseguente all'infortunio sul lavoro da lui subito il 17 novembre 1995, aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta dello stesso lavoratore contro l'assicuratore del datore di lavoro, perché, in base all'art. 1917 cod. civ., il danneggiato non ha azione diretta contro la compagnia assicuratrice.
Il giudice a quo ricorda che un'analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, commi primo e secondo, cod. civ., è stata già proposta alla Corte costituzionale, la quale, con ordinanza n. 457 del 2006, l'ha dichiarata manifestamente inammissibile sotto due profili: in primo luogo perchè sollevata nel corso di un giudizio che ha quale unico possibile oggetto l'ammissione al passivo del credito azionato ed il suo rango (giudizio nel quale, pertanto, non è rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore); in secondo luogo, perchè la questione era stata prospettata dal rimettente in termini commisti ad una modifica dell'ordine legale dei privilegi, come tale estranea all'oggetto del giudizio principale, promosso esclusivamente per la riforma del capo della sentenza che aveva rigettato la pretesa di azionare il credito direttamente nei confronti dell'assicuratore.
La rimettente ritiene di dover riproporre la questione depurata dai predetti profili di inammissibilità.
In particolare, quanto al secondo, la Corte di cassazione afferma che nel giudizio principale non è prospettata alcuna questione di ordine di privilegi.
Invece, per quel che concerne il primo profilo di inammissibilità, la rimettente sostiene che il principio di concentrazione delle tutele derivante dall'art. 111, secondo comma, Cost., consente, e in un certo senso impone, nell'alternatività tra azione diretta verso l'assicuratore e ammissione al passivo fallimentare dell'assicurato (eventualmente per il residuo non coperto dall'assicuratore), una risposta giudiziaria contestuale alla domanda di giustizia del danneggiato. Tale esigenza di concentrazione, ad avviso del giudice a quo, è a fondamento delle modifiche apportate alla legge fallimentare dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in particolare con l'eliminazione delle precedenti limitazioni alla cognizione del tribunale fallimentare, e della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 12 novembre 2004, n. 21499) che, nell'affermare la mera specialità del rito, con esclusione di qualsiasi profilo di competenza, ammette la trattazione contestuale avanti al tribunale fallimentare di tutte le questioni (anche nei confronti di terzi) che, come quella diretta del lavoratore infortunato contro l'assicuratore, siano incidenti sulla formazione dello stato passivo.
Con riferimento alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente sostiene che la norma censurata viola gli artt. 3 e 35 Cost., discriminando il lavoratore vittima di infortunio rispetto ad altri soggetti che godono invece di azione diretta verso l'assicuratore o verso altri terzi e, in particolare, rispetto: ai dipendenti dell'appaltatore che hanno azione diretta contro il committente, ai sensi dell'art. 1676 del codice civile; ai dipendenti dell'impresa somministratrice nel contratto di somministrazione di lavoro ed a quelli dell'impresa appaltatrice nel contratto di appalto di opere o servizi, i quali – a norma, rispettivamente, degli artt. 23 e 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30) – possono esercitare azione diretta nei confronti del debitore del loro datore di lavoro per il pagamento dei trattamenti retributivi loro spettanti; ai danneggiati da sinistro stradale, che hanno azione diretta nei confronti dell'assicuratore del danneggiante ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti). In tutti questi casi le somme dovute dall'assicuratore al danneggiato sono sottratte alla par condicio creditorum del danneggiante dichiarato fallito.
La rimettente deduce, poi, la violazione dell'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'irrazionalità dell'attuale disciplina dell'art. 1917, secondo comma, cod. civ., sia perché tale norma affida il soddisfacimento, o meno, del bene primario rappresentato dal credito risarcitorio del lavoratore infortunato alla mera volontà dell'assicuratore o dell'assicurato che, in ragione del tempo in cui viene manifestata, può essere sottratto alla par condicio creditorum, sia perché essa non concede azione diretta al lavoratore infortunato sul luogo di lavoro, mentre il lavoratore vittima di infortunio in itinere gode dell'azione diretta in quanto vittima della strada.
Infine, il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché un'azione diretta nei confronti dell'assicuratore consentirebbe tempi processuali più rapidi e minori costi per spese di giustizia.
2. – Nel giudizio si è costituito il lavoratore ricorrente nel giudizio principale che ha concluso nel senso della fondatezza della questione.
La parte privata, dopo aver ripercorso l'iter del giudizio principale ed aver dato conto delle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione, deduce che l'art. 1917, secondo comma, cod. civ., frustra il diritto del lavoratore infortunato al risarcimento del danno subito. Infatti, l'indennizzo assicurativo (estraneo all'utile e al patrimonio dell'impresa) in caso di fallimento del datore di lavoro entra nella massa attiva del fallimento alla stregua di un qualsiasi cespite attivo dell'impresa fallita, pur trattandosi di una somma destinata a risarcire un danno. Esso finisce per costituire un incremento patrimoniale attivo sul quale altri, non danneggiati dall'infortunio, possono soddisfarsi almeno in parte. Vengono così in comparazione due diversi interessi di rango diseguale: la par condicio creditorum (che, pur essendo privilegiata dall'ordinamento, non è oggetto di protezione costituzionale) e la tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore (di rango costituzionale ex artt. 32 e 36, primo comma, Cost.).
2.1. – In prossimità dell'udienza di discussione la parte privata ha depositato memoria nella quale ha sostenuto l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri e, in via subordinata, ha chiesto che la Corte affermi il principio secondo cui il danneggiato da infortunio sul lavoro ha azione diretta contro l'assicuratore per il credito risarcitorio del danno differenziale anche dopo la dichiarazione di fallimento.
3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.
Sotto il primo profilo la questione sarebbe manifestamente inammissibile per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, poiché la Corte rimettente prende le mosse dal presupposto secondo cui la sopravvenienza del fallimento impedirebbe all'assicuratore di pagare l'indennizzo direttamente al danneggiato e all'amministrazione fallimentare di ordinare all'assicuratore il pagamento diretto (come invece sarebbe previsto dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., qualora l'assicurato fosse in bonis), senza esplorare la possibilità di un'interpretazione alternativa, alla stregua della quale le facoltà di pagamento diretto già previste dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., possano sopravvivere al fallimento dell'assicurato.
Quanto al merito, il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia che l'impostazione della questione di legittimità costituzionale, così come sollevata dalla Corte di cassazione, è viziata da un salto logico, poiché la rimettente, sostenendo che il problema nascerebbe dal venir meno, a seguito del fallimento del datore di lavoro, delle facoltà di pagamento diretto di cui all'art. 1917, secondo comma, cod. civ., avrebbe dovuto denunciare la predetta norma codicistica, non per il fatto che essa non preveda l'azione diretta del lavoratore in caso di sopravvenuto fallimento, bensì per il fatto che essa esclude, in tale ipotesi, la sopravvivenza delle facoltà di pagamento diretto di cui al secondo comma.
L'interventore nega, poi, la sussistenza della denunziata violazione dell'art. 3 Cost. in relazione all'azione diretta concessa al danneggiato da sinistro occorso nella circolazione stradale. Infatti, questa facoltà costituisce la sola tutela specifica prevista dalla legge al danneggiato da tale tipo di sinistri, mentre, in materia di infortuni sul lavoro, l'assicurazione obbligatoria dei lavoratori presso gli istituti pubblici a ciò preposti assicura essa stessa un'adeguata tutela.
A parere del Presidente del Consiglio dei ministri, non v'è disuguaglianza costituzionalmente apprezzabile neppure in relazione all'azione diretta per le retribuzioni non pagate concessa ai dipendenti dell'appaltatore di lavori o di manodopera poi fallito, verso il committente di questo. Infatti – se si eccettua la limitata copertura a carico dell'Istituto nazionale della previdenza sociale accordata dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80 (Attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro) – il lavoratore non dispone di garanzie sostanziali per il pagamento delle retribuzioni a fronte dell'insolvenza del datore di lavoro e pertanto è logico che il legislatore valorizzi le possibilità di surrogazione del terzo, ogni volta che questi si trovi in un rapporto sostanzialmente diretto con il lavoratore.
Per quel che concerne la denunciata violazione dell'art. 35 Cost., l'Avvocatura generale dello Stato deduce che i sistemi di garanzia pubblica delle retribuzioni e dei risarcimenti in caso di infortuni apprestano tutta la tutela che l'ordinamento può conferire ai diritti dei lavoratori nel necessario equilibrio con altre posizioni creditorie che potrebbero essere altrettanto meritevoli di tutela e dunque rientra nella discrezionalità del legislatore decidere se introdurre, a favore dei soli lavoratori subordinati, per il danno differenziale da infortunio sul lavoro, la deroga al principio della par condicio creditorum (che costituisce un'attuazione del principio di uguaglianza) richiesta dall'ordinanza di rimessione.
Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che non sussiste violazione degli artt. 24 e 111 Cost. in relazione alla maggiore complessità e durata processuale del fallimento rispetto all'azione ordinaria diretta. Infatti, il credito risarcitorio del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro è assistito, nell'ambito del concorso fallimentare, da privilegio generale (il che già lo differenzia da molti altri crediti). Inoltre la complessità e durata delle procedure fallimentari è un'evenienza di fatto, cui va posto rimedio su altri piani dell'ordinamento. Infine, l'irragionevole durata e complessità dei fallimenti non costituisce, contrariamente a quanto asserisce la rimettente, un fatto notorio, bensì una circostanza che può, o meno, sussistere nei singoli casi.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede in favore del lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale derivante da infortunio sul lavoro.
2. – La questione è inammissibile.
Questa Corte, con l'ordinanza n. 457 del 2006, ha dichiarato l'inammissibilità di una questione analoga alla presente, perché irrilevante nel giudizio a quo il cui oggetto era l'ammissione al passivo del credito azionato ex art. 93 o 101 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa). In tale procedimento non poteva – a giudizio della Corte – essere rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore.
Anche nel presente caso il giudizio principale riguarda l'ammissione di un credito al passivo fallimentare. La rimettente sembra però ritenere implicitamente superabile il rilievo contenuto nell'ordinanza n. 457 del 2006. Essa afferma, infatti, che il tribunale fallimentare ben può esaminare il merito della domanda proposta dal danneggiato contro l'assicuratore del datore di lavoro fallito. Nell'ordinanza di rimessione si sottolinea che l'esigenza di concentrare davanti a quel giudice tutte le questioni che incidano sulla formazione dello stato passivo troverebbe riscontro nell'art. 111, secondo comma, Cost. (che enuncia i princìpi del giusto processo e della sua ragionevole durata), nelle modifiche alla legge fallimentare apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), e nell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Ritiene tuttavia questa Corte che dall'art. 111, secondo comma, Cost., non può desumersi la necessità di una concentrazione davanti al giudice fallimentare di tutti i vari strumenti di tutela giudiziale previsti dall'ordinamento. Al principio della ragionevole durata del processo enunciato dalla predetta norma costituzionale «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza» (sentenza n. 148 del 2005) e tali non possono essere considerate le disposizioni con le quali il legislatore, nell'esercizio non irragionevole dell'ampia discrezionalità di cui gode in tema di individuazione del giudice competente, definisce l'ambito della cognizione dei singoli organi giurisdizionali.
E', poi, inconferente il richiamo ai princìpi ispiratori della riforma della disciplina delle procedure concorsuali introdotta dal d. lgs. n. 5 del 2006. Infatti, indipendentemente da qualsiasi considerazione circa le conseguenze di tale riforma sulla effettiva possibilità per i creditori del fallimento di proporre nel giudizio di opposizione allo stato passivo domande contro terzi, c'è da osservare che, per espressa previsione dell'art. 150 del d. lgs. n. 5 del 2006, le procedure di fallimento che – come quella sulla quale si innesta il giudizio a quo – erano pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legislativo sono comunque disciplinate dalla legge anteriore.
Infine, la stessa giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla rimettente a conforto della propria impostazione, non afferma affatto la possibilità di trattazione, davanti al tribunale fallimentare, di domande proposte dai creditori del fallimento contro terzi.
Dall'implausibilità della motivazione sulla rilevanza della questione deriva, dunque, l'inammissibilità della stessa.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2009.
Il Cancelliere
F.to: FRUSCELLA

Il lavoratore può agire direttamente contro l'assicuratore datoriale per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro

Corte Costituzionale sentenza 63 del 2009 -

"questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro."


SENTENZA N. 63
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza del 13 maggio 2008 dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra N. B. e la UMS Generali Marine S.p.A. ed altro, iscritta al n. 322 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2008.
Visti l'atto di costituzione di N. B. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 febbraio 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Giuseppe Sante Assennato e Alessandro Garlatti per N. B. e l'avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un giudizio promosso da un lavoratore vittima di infortunio contro il fallimento della società datrice di lavoro e l'assicuratore di tale società, la Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 13 maggio 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non concede al lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale per infortunio sul lavoro.
La Corte rimettente espone di essere stata investita del ricorso proposto dal lavoratore contro la sentenza del giudice di secondo grado confermativa della pronuncia del tribunale che, ammettendo al passivo fallimentare il credito del lavoratore per il danno differenziale conseguente all'infortunio sul lavoro da lui subito il 17 novembre 1995, aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta dello stesso lavoratore contro l'assicuratore del datore di lavoro, perché, in base all'art. 1917 cod. civ., il danneggiato non ha azione diretta contro la compagnia assicuratrice.
Il giudice a quo ricorda che un'analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, commi primo e secondo, cod. civ., è stata già proposta alla Corte costituzionale, la quale, con ordinanza n. 457 del 2006, l'ha dichiarata manifestamente inammissibile sotto due profili: in primo luogo perchè sollevata nel corso di un giudizio che ha quale unico possibile oggetto l'ammissione al passivo del credito azionato ed il suo rango (giudizio nel quale, pertanto, non è rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore); in secondo luogo, perchè la questione era stata prospettata dal rimettente in termini commisti ad una modifica dell'ordine legale dei privilegi, come tale estranea all'oggetto del giudizio principale, promosso esclusivamente per la riforma del capo della sentenza che aveva rigettato la pretesa di azionare il credito direttamente nei confronti dell'assicuratore.
La rimettente ritiene di dover riproporre la questione depurata dai predetti profili di inammissibilità.
In particolare, quanto al secondo, la Corte di cassazione afferma che nel giudizio principale non è prospettata alcuna questione di ordine di privilegi.
Invece, per quel che concerne il primo profilo di inammissibilità, la rimettente sostiene che il principio di concentrazione delle tutele derivante dall'art. 111, secondo comma, Cost., consente, e in un certo senso impone, nell'alternatività tra azione diretta verso l'assicuratore e ammissione al passivo fallimentare dell'assicurato (eventualmente per il residuo non coperto dall'assicuratore), una risposta giudiziaria contestuale alla domanda di giustizia del danneggiato. Tale esigenza di concentrazione, ad avviso del giudice a quo, è a fondamento delle modifiche apportate alla legge fallimentare dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in particolare con l'eliminazione delle precedenti limitazioni alla cognizione del tribunale fallimentare, e della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 12 novembre 2004, n. 21499) che, nell'affermare la mera specialità del rito, con esclusione di qualsiasi profilo di competenza, ammette la trattazione contestuale avanti al tribunale fallimentare di tutte le questioni (anche nei confronti di terzi) che, come quella diretta del lavoratore infortunato contro l'assicuratore, siano incidenti sulla formazione dello stato passivo.
Con riferimento alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente sostiene che la norma censurata viola gli artt. 3 e 35 Cost., discriminando il lavoratore vittima di infortunio rispetto ad altri soggetti che godono invece di azione diretta verso l'assicuratore o verso altri terzi e, in particolare, rispetto: ai dipendenti dell'appaltatore che hanno azione diretta contro il committente, ai sensi dell'art. 1676 del codice civile; ai dipendenti dell'impresa somministratrice nel contratto di somministrazione di lavoro ed a quelli dell'impresa appaltatrice nel contratto di appalto di opere o servizi, i quali – a norma, rispettivamente, degli artt. 23 e 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30) – possono esercitare azione diretta nei confronti del debitore del loro datore di lavoro per il pagamento dei trattamenti retributivi loro spettanti; ai danneggiati da sinistro stradale, che hanno azione diretta nei confronti dell'assicuratore del danneggiante ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti). In tutti questi casi le somme dovute dall'assicuratore al danneggiato sono sottratte alla par condicio creditorum del danneggiante dichiarato fallito.
La rimettente deduce, poi, la violazione dell'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'irrazionalità dell'attuale disciplina dell'art. 1917, secondo comma, cod. civ., sia perché tale norma affida il soddisfacimento, o meno, del bene primario rappresentato dal credito risarcitorio del lavoratore infortunato alla mera volontà dell'assicuratore o dell'assicurato che, in ragione del tempo in cui viene manifestata, può essere sottratto alla par condicio creditorum, sia perché essa non concede azione diretta al lavoratore infortunato sul luogo di lavoro, mentre il lavoratore vittima di infortunio in itinere gode dell'azione diretta in quanto vittima della strada.
Infine, il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché un'azione diretta nei confronti dell'assicuratore consentirebbe tempi processuali più rapidi e minori costi per spese di giustizia.
2. – Nel giudizio si è costituito il lavoratore ricorrente nel giudizio principale che ha concluso nel senso della fondatezza della questione.
La parte privata, dopo aver ripercorso l'iter del giudizio principale ed aver dato conto delle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione, deduce che l'art. 1917, secondo comma, cod. civ., frustra il diritto del lavoratore infortunato al risarcimento del danno subito. Infatti, l'indennizzo assicurativo (estraneo all'utile e al patrimonio dell'impresa) in caso di fallimento del datore di lavoro entra nella massa attiva del fallimento alla stregua di un qualsiasi cespite attivo dell'impresa fallita, pur trattandosi di una somma destinata a risarcire un danno. Esso finisce per costituire un incremento patrimoniale attivo sul quale altri, non danneggiati dall'infortunio, possono soddisfarsi almeno in parte. Vengono così in comparazione due diversi interessi di rango diseguale: la par condicio creditorum (che, pur essendo privilegiata dall'ordinamento, non è oggetto di protezione costituzionale) e la tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore (di rango costituzionale ex artt. 32 e 36, primo comma, Cost.).
2.1. – In prossimità dell'udienza di discussione la parte privata ha depositato memoria nella quale ha sostenuto l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri e, in via subordinata, ha chiesto che la Corte affermi il principio secondo cui il danneggiato da infortunio sul lavoro ha azione diretta contro l'assicuratore per il credito risarcitorio del danno differenziale anche dopo la dichiarazione di fallimento.
3. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.
Sotto il primo profilo la questione sarebbe manifestamente inammissibile per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, poiché la Corte rimettente prende le mosse dal presupposto secondo cui la sopravvenienza del fallimento impedirebbe all'assicuratore di pagare l'indennizzo direttamente al danneggiato e all'amministrazione fallimentare di ordinare all'assicuratore il pagamento diretto (come invece sarebbe previsto dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., qualora l'assicurato fosse in bonis), senza esplorare la possibilità di un'interpretazione alternativa, alla stregua della quale le facoltà di pagamento diretto già previste dall'art. 1917, secondo comma, cod. civ., possano sopravvivere al fallimento dell'assicurato.
Quanto al merito, il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia che l'impostazione della questione di legittimità costituzionale, così come sollevata dalla Corte di cassazione, è viziata da un salto logico, poiché la rimettente, sostenendo che il problema nascerebbe dal venir meno, a seguito del fallimento del datore di lavoro, delle facoltà di pagamento diretto di cui all'art. 1917, secondo comma, cod. civ., avrebbe dovuto denunciare la predetta norma codicistica, non per il fatto che essa non preveda l'azione diretta del lavoratore in caso di sopravvenuto fallimento, bensì per il fatto che essa esclude, in tale ipotesi, la sopravvivenza delle facoltà di pagamento diretto di cui al secondo comma.
L'interventore nega, poi, la sussistenza della denunziata violazione dell'art. 3 Cost. in relazione all'azione diretta concessa al danneggiato da sinistro occorso nella circolazione stradale. Infatti, questa facoltà costituisce la sola tutela specifica prevista dalla legge al danneggiato da tale tipo di sinistri, mentre, in materia di infortuni sul lavoro, l'assicurazione obbligatoria dei lavoratori presso gli istituti pubblici a ciò preposti assicura essa stessa un'adeguata tutela.
A parere del Presidente del Consiglio dei ministri, non v'è disuguaglianza costituzionalmente apprezzabile neppure in relazione all'azione diretta per le retribuzioni non pagate concessa ai dipendenti dell'appaltatore di lavori o di manodopera poi fallito, verso il committente di questo. Infatti – se si eccettua la limitata copertura a carico dell'Istituto nazionale della previdenza sociale accordata dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80 (Attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro) – il lavoratore non dispone di garanzie sostanziali per il pagamento delle retribuzioni a fronte dell'insolvenza del datore di lavoro e pertanto è logico che il legislatore valorizzi le possibilità di surrogazione del terzo, ogni volta che questi si trovi in un rapporto sostanzialmente diretto con il lavoratore.
Per quel che concerne la denunciata violazione dell'art. 35 Cost., l'Avvocatura generale dello Stato deduce che i sistemi di garanzia pubblica delle retribuzioni e dei risarcimenti in caso di infortuni apprestano tutta la tutela che l'ordinamento può conferire ai diritti dei lavoratori nel necessario equilibrio con altre posizioni creditorie che potrebbero essere altrettanto meritevoli di tutela e dunque rientra nella discrezionalità del legislatore decidere se introdurre, a favore dei soli lavoratori subordinati, per il danno differenziale da infortunio sul lavoro, la deroga al principio della par condicio creditorum (che costituisce un'attuazione del principio di uguaglianza) richiesta dall'ordinanza di rimessione.
Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che non sussiste violazione degli artt. 24 e 111 Cost. in relazione alla maggiore complessità e durata processuale del fallimento rispetto all'azione ordinaria diretta. Infatti, il credito risarcitorio del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro è assistito, nell'ambito del concorso fallimentare, da privilegio generale (il che già lo differenzia da molti altri crediti). Inoltre la complessità e durata delle procedure fallimentari è un'evenienza di fatto, cui va posto rimedio su altri piani dell'ordinamento. Infine, l'irragionevole durata e complessità dei fallimenti non costituisce, contrariamente a quanto asserisce la rimettente, un fatto notorio, bensì una circostanza che può, o meno, sussistere nei singoli casi.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede in favore del lavoratore azione diretta contro l'assicuratore del datore di lavoro per il credito risarcitorio da danno differenziale derivante da infortunio sul lavoro.
2. – La questione è inammissibile.
Questa Corte, con l'ordinanza n. 457 del 2006, ha dichiarato l'inammissibilità di una questione analoga alla presente, perché irrilevante nel giudizio a quo il cui oggetto era l'ammissione al passivo del credito azionato ex art. 93 o 101 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa). In tale procedimento non poteva – a giudizio della Corte – essere rilevante una questione di azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell'assicuratore.
Anche nel presente caso il giudizio principale riguarda l'ammissione di un credito al passivo fallimentare. La rimettente sembra però ritenere implicitamente superabile il rilievo contenuto nell'ordinanza n. 457 del 2006. Essa afferma, infatti, che il tribunale fallimentare ben può esaminare il merito della domanda proposta dal danneggiato contro l'assicuratore del datore di lavoro fallito. Nell'ordinanza di rimessione si sottolinea che l'esigenza di concentrare davanti a quel giudice tutte le questioni che incidano sulla formazione dello stato passivo troverebbe riscontro nell'art. 111, secondo comma, Cost. (che enuncia i princìpi del giusto processo e della sua ragionevole durata), nelle modifiche alla legge fallimentare apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), e nell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Ritiene tuttavia questa Corte che dall'art. 111, secondo comma, Cost., non può desumersi la necessità di una concentrazione davanti al giudice fallimentare di tutti i vari strumenti di tutela giudiziale previsti dall'ordinamento. Al principio della ragionevole durata del processo enunciato dalla predetta norma costituzionale «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza» (sentenza n. 148 del 2005) e tali non possono essere considerate le disposizioni con le quali il legislatore, nell'esercizio non irragionevole dell'ampia discrezionalità di cui gode in tema di individuazione del giudice competente, definisce l'ambito della cognizione dei singoli organi giurisdizionali.
E', poi, inconferente il richiamo ai princìpi ispiratori della riforma della disciplina delle procedure concorsuali introdotta dal d. lgs. n. 5 del 2006. Infatti, indipendentemente da qualsiasi considerazione circa le conseguenze di tale riforma sulla effettiva possibilità per i creditori del fallimento di proporre nel giudizio di opposizione allo stato passivo domande contro terzi, c'è da osservare che, per espressa previsione dell'art. 150 del d. lgs. n. 5 del 2006, le procedure di fallimento che – come quella sulla quale si innesta il giudizio a quo – erano pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legislativo sono comunque disciplinate dalla legge anteriore.
Infine, la stessa giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla rimettente a conforto della propria impostazione, non afferma affatto la possibilità di trattazione, davanti al tribunale fallimentare, di domande proposte dai creditori del fallimento contro terzi.
Dall'implausibilità della motivazione sulla rilevanza della questione deriva, dunque, l'inammissibilità della stessa.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1917, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 35 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2009.
Il Cancelliere
F.to: FRUSCELLA

Internet e la legge stampa, i forums, la libertà di espressione e il delitto di cui all'art. 403 c.p.


Cassazione penale, III sezione n.10535 11 dicembre 2008 - dep. 10 marzo 2009
Internet,forum,legge stampa, libertà di espressione,offese,vilipendio,religione

"Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata)."

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE
...
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
...

Svolgimento del processo
Con ordinanza 25 ottobre 2007 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Catania respinse la richiesta dell’Aduc di revoca del sequestro preventivo di alcune pagine web di sua proprietà disposto il 20.11.2007 in relazione al reato di cui all’art. 403 cod. pen. Il tribunale del riesame di Catania, con l’ordinanza in epigrafe, in parziale accoglimento dell’appello dell’Aduc, revoca il sequestro previa rimozione sul sito internet dell’Aduc delle espressioni e dei messaggi oggetto dei reati contestati, inibendone l’ulteriore diffusione.
L’Aduc propone ricorso per cassazione deducendo:
1) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo poiché non attiene a reati contro il buon costume. Osserva che l’art. 21, comma 6, Cost. consente la limitazione dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nei soli casi di manifestazioni contrarie al buon costume.
2) inosservanza dell’art. 21, comma 6, Cost. e illegittimità del sequestro preventivo perché l’offesa ad una confessione religiosa non è contraria al buon costume.
3) erronea applicazione dell’art. 403 cod. pen. per erronea individuazione del bene giuridico protetto dalla norma. Osserva che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, non c’è offesa se non vengono individuati i singoli individui, soggetti passivi della norma e portatori del bene giuridico da essa tutelato.
4) erronea applicazione dell’art. 21, comma 3, Cost. ed erronea individuazione dell’ambito applicativo del divieto di sequestro ivi previsto. Erronea interpretazione restrittiva del concetto di stampa che esclude l’informazione non ufficiale.
Motivi della decisione
Il primo motivo è inammissibile perchè consiste in una censura nuova non dedotta con l’appello, e che non può quindi essere proposta per la prima volta in questa sede di legittimità. Il motivo è comunque manifestamente infondato perchè l’art. 21, comma 6, Cost. vieta direttamente “le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”, disponendo altresì che “la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”, ma non ha inteso dire che un comportamento, costituente manifestazione del pensiero, possa essere dalla legge vietato e previsto come reato esclusivamente quando sia contrario al buon costume, e non anche quando sia lesivo di altri beni ritenuti meritevoli di tutela, sebbene non lesivo del buon costume. Se così non fosse, del resto, dovrebbe ritenersi che i reati di ingiuria e diffamazione non sarebbero legittimi quando colpiscano comportamenti lesivi solo dell’onore e della reputazione delle persone, e non anche del buon costume.
Per le stesse ragioni è inammissibile, sia perché nuovo sia perché manifestamente infondato, anche il secondo motivo. Con l’atto di appello, invero, non era stato dedotto che il sequestro in questione era illegittimo perché le frasi contestate non erano suscettibili di offendere il buon costume inteso come pudore sessuale della collettività. Né tale doglianza può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità solo perché l’ordinanza impugnata ha osservato che alcune delle frasi incriminate, oltre ad avere offeso la religione cattolica mediante il vilipendio dei suoi fedeli e dei suoi ministri, avevano travalicato i limiti del buon costume alludendo espressamente a pratiche pedofile dei sacerdoti per diffondere il “sacro seme del cattolicesimo”. In ogni caso il motivo è manifestamente infondato perché l’art. 21, comma 6, Cost. non limita la possibilità della legge di prevedere, in caso di reato, il sequestro di cose che rappresentino manifestazioni del pensiero soltanto quando queste siano lesive del pudore sessuale.
Il terzo motivo è infondato perché esattamente il tribunale del riesame ha ritenuto che per la configurabilità del reato di cui all’art. 403 cod. pen. non occorre che le espressioni di vilipendio debbano essere rivolte a fedeli ben determinati, ben potendo invece, come nella specie, essere genericamente riferite alla indistinta generalità dei fedeli. La norma invero protegge il sentimento religioso di per sè, sanzionando le pubbliche offese verso lo stesso attuate mediante vilipendio dei fedeli di una confessione religiosa, o dei suoi ministri.
Opportunamente, invero, l’ordinanza impugnata ha ricordato la sent. n. 188 del 1975 della Corte costituzionale, la quale affermò che “il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20. Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire “tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa”, e che “il vilipendio, dunque, non si confonde nè con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, nè con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; nè con l’espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano.
Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell’art. 21 (e dell’art. 19), la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sè stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato”.
D’altra parte, anche la recente sent. n. 168 del 2005 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 403 cod. pen. nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anzichè la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice) ha fatto espresso riferimento alle “esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose”, ribadendo che tutte le norme contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso “si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l’art. 403 cod. pen. tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto”.
Del resto, anche qualora potesse accogliersi la tesi del ricorrente secondo cui il bene tutelato dalla norma non è il sentimento religioso ma la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una determinata confessione religiosa, non si vedrebbe perché questa tesi dovrebbe comportare che, per aversi reato, il vilipendio dovrebbe rivolgersi verso determinate persone e non verso il gruppo indistinto dei fedeli di quella confessione religiosa nei cui confronti viene pubblicamente portata l’offesa.
E’ infine infondato anche il quarto motivo. Va preliminarmente osservato che il tribunale del riesame ha revocato il sequestro del forum esistente nell’ambito del sito appartenente alla associazione ricorrente, lasciandolo esclusivamente sui singoli messaggi inviati da alcuni partecipanti al forum in questione, contenenti le frasi oggetto dei reati contestati. Ciò posto, il Collegio ritiene che esattamente il tribunale del riesame ha dichiarato che nel caso di specie non trova applicazione l’art. 21, comma 3, Cost., secondo cui “Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”, dato che la concreta fattispecie in esame non rientra nella più specifica disciplina della libertà di stampa, ma solo in quella più generale di libertà di manifestazione del proprio pensiero di cui all’art. 21, comma 1, Cost.
Gli interventi dei partecipanti al forum in questione, invero, non possono essere fatti rientrare nell’ambito della nozione di stampa, neppure nel significato più esteso ricavabile dall’art. 1 della legge 7 marzo 2001, n. 62, che ha esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui all’ articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (legge sulla stampa) al “prodotto editoriale”, stabilendo che per tale, ai fini della legge stessa, deve intendersi anche il “prodotto realizzato … su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico”.
Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum, non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica. Si tratta quindi di una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che l’art. 21, comma 3, Cost. riserva soltanto alla stampa, sia pure latamente intesa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. D’altra parte, nel caso in esame, neppure si tratta di un forum strutturalmente inserito in una testata giornalistica diffusa per via telematica, di cui costituisca un elemento e su cui il direttore responsabile abbia la possibilità di esercitare il controllo (così come su ogni altra rubrica della testata).
Acutamente il difensore del ricorrente sostiene che la norma costituzionale dovrebbe essere interpretata in senso evolutivo per adeguarla alle nuove tecnologie sopravvenute ed ai nuovi mezzi di espressione del libero pensiero. Ma da questo assunto, non può farsi derivare che i nuovi mezzi di comunicazione del proprio pensiero (newsletter, blog, forum, newsgroup, mailing list, chat, messaggi istantanei, e così via) possano, tutti in blocco, solo perché tali, essere inclusi nel concetto di stampa ai sensi dell’art. 21, comma 3, Cost., prescindendo dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi.
In realtà i messaggi lasciati su un forum di discussione (che, a seconda dei casi, può essere aperto a tutti indistintamente, o a chiunque si registri con qualsiasi pseudonimo, o a chi si registri previa identificazione) sono equiparabili ai messaggi che potevano e possono essere lasciati in una bacheca (sita in un luogo pubblico, o aperto al pubblico, o privato) e, così come quest’ultimi, anche i primi sono mezzi di comunicazione del proprio pensiero o anche mezzi di comunicazione di informazioni, ma non entrano (solo in quanto tali) nel concetto di stampa, sia pure in senso ampio, e quindi ad essi non si applicano le limitazioni in tema di sequestro previste dalla norma costituzionale.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
11 dicembre 2008 - dep. 10 marzo 2009

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