martedì 17 giugno 2008

  • Silenzio sulla richiesta di permesso di costruire: sostanza e rimedi

  • TAR Lazio-Roma, sez. II bis, sentenza 03.01.2008 n° 14
  • (Alessandro Del Dotto)

    Per giurisprudenza consolidata, il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale.
    Il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
    Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis della L. 1034/71 caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
    Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto e che, come tale, può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
    La normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
    Questi i passaggi fondamentali della decisione del T.A.R. Lazio all’interno di un ricorso promosso per sentir dichiarare l’illegittimità del silenzio serbato dalla p.a. in ordine ad una istanza di rilascio di titolo edificatorio.
    La precisazione operata in massima, in particolare, si è posta quale necessaria premessa onde motivare il non accoglimento della questione di inammissibilità proposta dalla amministrazione resistente, la quale – come implicitamente si evince dalla lettura della motivazione della sentenza in “diritto” – aveva eccepito la pregiudiziale in rito proprio sull’argomento della sostanziale configurazione del silenzio serbato sull’istanza.
    In tal senso, se è vero – com’è vero: cfr. ricostruzione normativa in materia di permessi di costruire – che in tali fattispecie si versa in ipotesi di silenzio-rifiuto (o “inadempimento) e non di silenzio-rigetto, alla medesima fattispecie si possono applicarei rimedi ordinariamente previsti per la tutela contro i silenzi inerti della p.a. (“posti in essere” in violazione manifesta dell’articolo 2 della
    l. n. 241/1990).
    Tuttavia, un ulteriore appunto non può, di certo, essere omesso, nell’occasione che si coglie sul punto dei silenzi-rifiuto della p.a.
    Non si può, infatti, mancare di osservare (accodandosi, peraltro, alle posizioni espresse da numerosi giuristi) come la
    l. n. 241/1990 stabilisca l’obbligo del provvedimento espresso della p.a., e cioé l’obbligo della p.a. di concludere un procedimento amministrativo con una decisione (motivata: art. 3); una formulazione chiara e molto poco equivoca circa l’obbligo per la p.a. italiana di provvedere.
    Ebbene, l’assurdo del sistema di tutela di fronte ai silenzi-inadempimento sta, appunto, nella circostanza che il ricorrente propone domanda al giudice perché, accertata la sussistenza del silenzio inadempimento, condanni l’amministrazione a provvedere, quando il contenuto di tale condanna è già chiaramente e sufficientemente disposto dalla norma di legge che obbliga la p.a. a provvedere sempre ed espressamente.
    Al cittadino, in due parole, tale sistema di tutela processuale non pare offrire alcuna utilità rispetto a quanto stabilito in sede sostanziale.
    Tale notazione – si è ben cosciente – offre il fianco ad appunti, specie in ordine ai poteri che allora, bisognerebbe riconoscere al G.a., dal momento che a quest’ultimo – per esser coerenti e logici, rispetto ai rilievi anzidetti – dovrebbe attribuirsi non solo il potere di sentenziare accertando l’obbligo (invece, inesitato) di provvedere e conseguente condanna, ma anche quello – ben più efficace – di entrare nel merito e delibare la fondatezza dell’istanza nonché giudicare del merito della stessa (pu se, si è ben coscienti, simile soluzione rischia di confondere i ruoli di amministrazione e Giudice).
    E questo non solo per gli atti vincolati – come già esiste e di cui, in generale, i Giudici amministrativi paiono molto dubitare – ma per tutti gli atti che la p.a. deve emanare e non emana a fronte delle legittime istanze del cittadino.
    E’ in ogni caso una scelta di valori: la preservazione dell’ordinamento giurisdizionale o l’efficacia della tutela da accordare al cittadino?


(Altalex, 13 giugno 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)


T.A.R.


Lazio - Roma


Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Massima e Testo Integrale

MASSIMA


Permesso di costruire – domanda – risposta della P.A. – silenzio – illegittimità


Di fronte ad una domanda di permesso di costruire, la P.A. non può limitarsi a negare il permesso con il silenzio, ma vi deve essere un provvedimento espresso.


(Fonte: Altalex Massimario 14/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto)

T.A.R.

Lazio - Roma

Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

- Sezione Seconda Bis -

composto dai signori magistrati:
Dott. Francesco Corsaro Presidente
Dott. Francesco Riccio Consigliere
Dott. Stefania Santoleri Consigliere, relatore
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 8111/07, proposto da X., rappresentato e difeso dall’Avv. Luisa Totino ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Roma, Via G. Ferrari n. 11.
contro
il COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Rizzo ed elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’Avvocatura Comunale siti in Roma, Via del Tempio di Giove n. 21
il COMUNE DI ROMA – Dipartimento IX – in persona del legale rappresentante p.t.
per l'annullamento
del silenzio rifiuto formatosi sulla domanda di rilascio del permesso di costruire in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270, avente ad oggetto l’ampliamento di un fabbricato residenziale, nonché di ogni atto presupposto, connesso, consequenziale a quello impugnato.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione resistente;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Udita alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 la relazione della Dott.ssa Stefania Santoleri, e uditi, altresì, per le parti gli avvocati come da verbale di udienza allegato agli atti del giudizio.
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO
Il ricorrente è proprietario di un terreno con sovrastante fabbricato destinato ad abitazione propria e del nucleo familiare, sito in Roma, Via Tenuta S. Agata n. 20, distinto in catasto al foglio 193, part. 31 e 32.
Con domanda prot. n. QI/2007/24270 del 12/4/07, il ricorrente ha chiesto il rilascio del permesso di costruire per realizzare l’ampliamento del proprio fabbricato.
Il Comune è rimasto inerte.
Essendo trascorso il termine di cui all’art. 20 del D.P.R. 380/01[1], il ricorrente ha impugnato il silenzio rifiuto deducendo i seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del D.P.R. 380/01 e succ. mod. ed integr. Eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione.
L’art. 20 del D.P.R. 380/01 assegna all’Amministrazione il termine tassativo entro il quale adottare il provvedimento.
Ai sensi dell’art. 20 comma 9 del D.P.R. 380/01, decorso il termine previsto dalla legge il permesso si intende rifiutato.
Nella fattispecie il Comune non avrebbe adottato alcun provvedimento nei termini previsti dalla legge e quindi si sarebbe formato il silenzio rifiuto impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
2) Violazione degli artt. 2 comma 2 e 3 comma 1 della L. 241/90 e succ. mod. ed integr. Difetto di motivazione.
Il silenzio prestato dall’Amministrazione sarebbe illegittimo dovendo la P.A. concludere il procedimento con un provvedimento espresso e motivato.
Insiste quindi il ricorrente per l’accoglimento del ricorso.
Il Comune di Roma si è costituito in giudizio ed ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza.
Alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO
Preliminarmente ritiene il Collegio di dover respingere l’eccezione di inammissibilità sollevata da parte resistente atteso che – per giurisprudenza consolidata – il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale (cfr. T.A.R. Basilicata n. 145/07; TAR Lazio, Latina, 14 marzo 2001, n.295).
Con riferimento a quanto precisato, ritiene dunque il Collegio che il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis dellaL. 1034/71 [2] caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto (T.A.R. Marche n. 413/06) e che come tale può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
Ne consegue l’infondatezza della proposta eccezione.
Nel merito il ricorso è fondato.
L’art. 20 (Procedimento di rilascio del permesso di costruire) del D.P.R. n. 380/2001 fissa termini ben definiti per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, stabilendo in particolare che: a) entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, acquisiti i prescritti pareri e valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell’intervento richiesto (terzo comma); b) il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può nel predetto termine di sessanta giorni, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta del responsabile del procedimento sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di sessanta giorni (quarto comma); c) il termine di sessanta giorni può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa (quinto comma); d) nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5 comma 3 (aziende sanitarie e vigili del fuoco), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi (sesto comma); e) il provvedimento finale è adottato dal dirigente entro quindici giorni dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento ovvero dall’esito della conferenza di servizio (settimo comma); f) i termini di cui ai commi 3 e 5 sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi, secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento (ottavo comma); g) decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto (nono comma).
A sua volta il successivo art. 21 (Intervento sostitutivo regionale) del citato D.P.R. n. 380/2001 oltre ad aver previsto la facoltà per l’interessato di richiedere l’intervento sostitutivo regionale, stabilisce all’ultimo periodo del primo comma che "Resta comunque ferma la facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi sulla domanda di permesso di costruire".
La riportata normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
Nella fattispecie alla domanda di rilascio del permesso di costruire del 12 aprile 2007 non ha fatto seguito alcun atto – neppure istruttorio – da parte del Comune di Roma fino al momento della proposizione del ricorso (e cioè fino al 21 settembre 2007, data di notifica dell’impugnazione).
Sicchè essendo trascorsi i termini previsti dall’art. 20 del D.P.R. 380/91 si è formato il silenzio impugnabile in sede giurisdizionale, ed avendo la P.A. l’obbligo di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso, che consenta all’interessato di comprendere le ragioni della scelta operata dall’Amministrazione e che quindi gli garantisca idonea tutela giurisdizionale, il silenzio serbato dal Comune di Roma deve ritenersi illegittimo.
Non può infatti assumere rilievo la richiesta di integrazione documentale avanzata dal Comune di Roma in data 2 ottobre 2007, in quanto successiva allo spirare del termine per la conclusione del procedimento e all’instaurazione del giudizio, alla quale, peraltro, non ha fatto seguito l’adozione di alcun provvedimento decisorio, unico elemento in grado di comportare la declaratoria di improcedibilità dell’impugnazione.
Il ricorso va quindi accolto, ai limitati fini di ordinare al Comune di Roma di provvedere all’adozione del provvedimento conclusivo entro il termine di 60 (sessanta) giorni decorrenti dalla comunicazione o dalla notifica, se anteriore, della presente sentenza.
Il Tribunale nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.


Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione Seconda Bis -
accoglie
- il ricorso in epigrafe indicato e per l’effetto annulla il silenzio rifiuto e dichiara l’obbligo per l’Amministrazione di provvedere sull’istanza di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270;
- nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato;
- condanna il Comune di Roma al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente in € 500 oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.


Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 dicembre 2007.


Francesco Corsaro PRESIDENTE


Stefania Santoleri ESTENSORE


Depositata in Segreteria il 3 gennaio 2008.

  • Silenzio sulla richiesta di permesso di costruire: sostanza e rimedi

  • TAR Lazio-Roma, sez. II bis, sentenza 03.01.2008 n° 14
  • (Alessandro Del Dotto)

    Per giurisprudenza consolidata, il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale.
    Il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
    Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis della L. 1034/71 caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
    Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto e che, come tale, può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
    La normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
    Questi i passaggi fondamentali della decisione del T.A.R. Lazio all’interno di un ricorso promosso per sentir dichiarare l’illegittimità del silenzio serbato dalla p.a. in ordine ad una istanza di rilascio di titolo edificatorio.
    La precisazione operata in massima, in particolare, si è posta quale necessaria premessa onde motivare il non accoglimento della questione di inammissibilità proposta dalla amministrazione resistente, la quale – come implicitamente si evince dalla lettura della motivazione della sentenza in “diritto” – aveva eccepito la pregiudiziale in rito proprio sull’argomento della sostanziale configurazione del silenzio serbato sull’istanza.
    In tal senso, se è vero – com’è vero: cfr. ricostruzione normativa in materia di permessi di costruire – che in tali fattispecie si versa in ipotesi di silenzio-rifiuto (o “inadempimento) e non di silenzio-rigetto, alla medesima fattispecie si possono applicarei rimedi ordinariamente previsti per la tutela contro i silenzi inerti della p.a. (“posti in essere” in violazione manifesta dell’articolo 2 della
    l. n. 241/1990).
    Tuttavia, un ulteriore appunto non può, di certo, essere omesso, nell’occasione che si coglie sul punto dei silenzi-rifiuto della p.a.
    Non si può, infatti, mancare di osservare (accodandosi, peraltro, alle posizioni espresse da numerosi giuristi) come la
    l. n. 241/1990 stabilisca l’obbligo del provvedimento espresso della p.a., e cioé l’obbligo della p.a. di concludere un procedimento amministrativo con una decisione (motivata: art. 3); una formulazione chiara e molto poco equivoca circa l’obbligo per la p.a. italiana di provvedere.
    Ebbene, l’assurdo del sistema di tutela di fronte ai silenzi-inadempimento sta, appunto, nella circostanza che il ricorrente propone domanda al giudice perché, accertata la sussistenza del silenzio inadempimento, condanni l’amministrazione a provvedere, quando il contenuto di tale condanna è già chiaramente e sufficientemente disposto dalla norma di legge che obbliga la p.a. a provvedere sempre ed espressamente.
    Al cittadino, in due parole, tale sistema di tutela processuale non pare offrire alcuna utilità rispetto a quanto stabilito in sede sostanziale.
    Tale notazione – si è ben cosciente – offre il fianco ad appunti, specie in ordine ai poteri che allora, bisognerebbe riconoscere al G.a., dal momento che a quest’ultimo – per esser coerenti e logici, rispetto ai rilievi anzidetti – dovrebbe attribuirsi non solo il potere di sentenziare accertando l’obbligo (invece, inesitato) di provvedere e conseguente condanna, ma anche quello – ben più efficace – di entrare nel merito e delibare la fondatezza dell’istanza nonché giudicare del merito della stessa (pu se, si è ben coscienti, simile soluzione rischia di confondere i ruoli di amministrazione e Giudice).
    E questo non solo per gli atti vincolati – come già esiste e di cui, in generale, i Giudici amministrativi paiono molto dubitare – ma per tutti gli atti che la p.a. deve emanare e non emana a fronte delle legittime istanze del cittadino.
    E’ in ogni caso una scelta di valori: la preservazione dell’ordinamento giurisdizionale o l’efficacia della tutela da accordare al cittadino?


(Altalex, 13 giugno 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)


T.A.R.


Lazio - Roma


Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Massima e Testo Integrale

MASSIMA


Permesso di costruire – domanda – risposta della P.A. – silenzio – illegittimità


Di fronte ad una domanda di permesso di costruire, la P.A. non può limitarsi a negare il permesso con il silenzio, ma vi deve essere un provvedimento espresso.


(Fonte: Altalex Massimario 14/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto)

T.A.R.

Lazio - Roma

Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

- Sezione Seconda Bis -

composto dai signori magistrati:
Dott. Francesco Corsaro Presidente
Dott. Francesco Riccio Consigliere
Dott. Stefania Santoleri Consigliere, relatore
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 8111/07, proposto da X., rappresentato e difeso dall’Avv. Luisa Totino ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Roma, Via G. Ferrari n. 11.
contro
il COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Rizzo ed elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’Avvocatura Comunale siti in Roma, Via del Tempio di Giove n. 21
il COMUNE DI ROMA – Dipartimento IX – in persona del legale rappresentante p.t.
per l'annullamento
del silenzio rifiuto formatosi sulla domanda di rilascio del permesso di costruire in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270, avente ad oggetto l’ampliamento di un fabbricato residenziale, nonché di ogni atto presupposto, connesso, consequenziale a quello impugnato.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione resistente;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Udita alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 la relazione della Dott.ssa Stefania Santoleri, e uditi, altresì, per le parti gli avvocati come da verbale di udienza allegato agli atti del giudizio.
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO
Il ricorrente è proprietario di un terreno con sovrastante fabbricato destinato ad abitazione propria e del nucleo familiare, sito in Roma, Via Tenuta S. Agata n. 20, distinto in catasto al foglio 193, part. 31 e 32.
Con domanda prot. n. QI/2007/24270 del 12/4/07, il ricorrente ha chiesto il rilascio del permesso di costruire per realizzare l’ampliamento del proprio fabbricato.
Il Comune è rimasto inerte.
Essendo trascorso il termine di cui all’art. 20 del D.P.R. 380/01[1], il ricorrente ha impugnato il silenzio rifiuto deducendo i seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del D.P.R. 380/01 e succ. mod. ed integr. Eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione.
L’art. 20 del D.P.R. 380/01 assegna all’Amministrazione il termine tassativo entro il quale adottare il provvedimento.
Ai sensi dell’art. 20 comma 9 del D.P.R. 380/01, decorso il termine previsto dalla legge il permesso si intende rifiutato.
Nella fattispecie il Comune non avrebbe adottato alcun provvedimento nei termini previsti dalla legge e quindi si sarebbe formato il silenzio rifiuto impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
2) Violazione degli artt. 2 comma 2 e 3 comma 1 della L. 241/90 e succ. mod. ed integr. Difetto di motivazione.
Il silenzio prestato dall’Amministrazione sarebbe illegittimo dovendo la P.A. concludere il procedimento con un provvedimento espresso e motivato.
Insiste quindi il ricorrente per l’accoglimento del ricorso.
Il Comune di Roma si è costituito in giudizio ed ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza.
Alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO
Preliminarmente ritiene il Collegio di dover respingere l’eccezione di inammissibilità sollevata da parte resistente atteso che – per giurisprudenza consolidata – il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale (cfr. T.A.R. Basilicata n. 145/07; TAR Lazio, Latina, 14 marzo 2001, n.295).
Con riferimento a quanto precisato, ritiene dunque il Collegio che il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis dellaL. 1034/71 [2] caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto (T.A.R. Marche n. 413/06) e che come tale può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
Ne consegue l’infondatezza della proposta eccezione.
Nel merito il ricorso è fondato.
L’art. 20 (Procedimento di rilascio del permesso di costruire) del D.P.R. n. 380/2001 fissa termini ben definiti per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, stabilendo in particolare che: a) entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, acquisiti i prescritti pareri e valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell’intervento richiesto (terzo comma); b) il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può nel predetto termine di sessanta giorni, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta del responsabile del procedimento sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di sessanta giorni (quarto comma); c) il termine di sessanta giorni può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa (quinto comma); d) nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5 comma 3 (aziende sanitarie e vigili del fuoco), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi (sesto comma); e) il provvedimento finale è adottato dal dirigente entro quindici giorni dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento ovvero dall’esito della conferenza di servizio (settimo comma); f) i termini di cui ai commi 3 e 5 sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi, secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento (ottavo comma); g) decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto (nono comma).
A sua volta il successivo art. 21 (Intervento sostitutivo regionale) del citato D.P.R. n. 380/2001 oltre ad aver previsto la facoltà per l’interessato di richiedere l’intervento sostitutivo regionale, stabilisce all’ultimo periodo del primo comma che "Resta comunque ferma la facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi sulla domanda di permesso di costruire".
La riportata normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
Nella fattispecie alla domanda di rilascio del permesso di costruire del 12 aprile 2007 non ha fatto seguito alcun atto – neppure istruttorio – da parte del Comune di Roma fino al momento della proposizione del ricorso (e cioè fino al 21 settembre 2007, data di notifica dell’impugnazione).
Sicchè essendo trascorsi i termini previsti dall’art. 20 del D.P.R. 380/91 si è formato il silenzio impugnabile in sede giurisdizionale, ed avendo la P.A. l’obbligo di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso, che consenta all’interessato di comprendere le ragioni della scelta operata dall’Amministrazione e che quindi gli garantisca idonea tutela giurisdizionale, il silenzio serbato dal Comune di Roma deve ritenersi illegittimo.
Non può infatti assumere rilievo la richiesta di integrazione documentale avanzata dal Comune di Roma in data 2 ottobre 2007, in quanto successiva allo spirare del termine per la conclusione del procedimento e all’instaurazione del giudizio, alla quale, peraltro, non ha fatto seguito l’adozione di alcun provvedimento decisorio, unico elemento in grado di comportare la declaratoria di improcedibilità dell’impugnazione.
Il ricorso va quindi accolto, ai limitati fini di ordinare al Comune di Roma di provvedere all’adozione del provvedimento conclusivo entro il termine di 60 (sessanta) giorni decorrenti dalla comunicazione o dalla notifica, se anteriore, della presente sentenza.
Il Tribunale nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.


Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione Seconda Bis -
accoglie
- il ricorso in epigrafe indicato e per l’effetto annulla il silenzio rifiuto e dichiara l’obbligo per l’Amministrazione di provvedere sull’istanza di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270;
- nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato;
- condanna il Comune di Roma al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente in € 500 oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.


Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 dicembre 2007.


Francesco Corsaro PRESIDENTE


Stefania Santoleri ESTENSORE


Depositata in Segreteria il 3 gennaio 2008.

venerdì 13 giugno 2008

D.M, 37/08: istallazione e sicurezza degli impianti all'interno degli edifici


Articolo 04/06/2008
Disciplina dell'attività di installazione e di sicurezza degli impianti all'interno di edifici L'introduzione del D.M. 37/2008 e i suoi risvolti applicativi
Il Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 è stato emanato al fine di riordinare tutte le disposizioni in tema di attività di installazione e di sicurezza degli impianti all’interno di edifici di diversa tipologia. Il riordino delle disposizioni vigenti in materia ha comportato l’abrogazione delle norme contenute:- nella Legge n. 46 del 5 marzo 1990 “Norme sulla sicurezza degli impianti” (ad eccezione degli articoli 8, 14, 16 sulle sanzioni applicabili);- nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 6 dicembre 1991 “Regolamento di attuazione della legge 46/1990 in materia di sicurezza degli impianti”;- nel Capo V parte II artt. dal 107 al 121 “Norme per la sicurezza degli impianti” del Testo Unico in materia edilizia di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001.Pertanto, a partire dal 27 marzo 2008 (data di entrata in vigore del Decreto Ministeriale n. 37/2008), tutta la materia dell’installazione e della sicurezza degli impianti è disciplinata dal citato decreto 37/2008, dagli articoli 8, 14 e 16 della legge n. 46/1990 e dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 392 del 18 aprile 1994 “Regolamento per la disciplina del procedimento di riconoscimento delle imprese ai fini dell’installazione, ampliamento e trasformazione degli impianti nel rispetto delle norme di sicurezza”. Per la manutenzione degli impianti di ascensori e montacarichi in servizio privato continuano, invece, ad applicarsi le disposizioni del Decreto del Presidente della Repubblica n. 162 del 30 aprile 1999 e le altre disposizioni specifiche in materia.L’innovazione introdotta dal Decreto Ministeriale 37/2008 consiste nella regolamentazione della garanzia del venditore in ordine alla conformità degli impianti alla vigente normativa in materia di sicurezza, ossia nell’obbligo di indicare negli atti di trasferimento di immobili se il venditore garantisce o meno la conformità degli impianti e se produce le relative dichiarazioni di conformità o di rispondenza (dichiarazione sostitutiva di quella di conformità che può essere rilasciata da un’impresa che verifichi le caratteristiche di conformità degli impianti). A riguardo, va precisato che un impianto si qualifica come non conforme, se per la sua installazione e funzionamento non sono osservate le vigenti norme in materia di installazione e sicurezza, a prescindere dalla loro funzionalità ed efficienza.Detto ciò, la garanzia di cui sopra può essere espressa sia in termini positivi che in termini negativi. Se gli impianti sono conformi, il venditore dichiarerà espressamente che garantisce la conformità degli stessi, mentre in caso contrario, il venditore non garantirà la conformità di alcunché, ma alienerà ugualmente l’immobile sempreché l’acquirente abbia accettato di acquistare il medesimo nell’effettivo stato in cui si trova. L’inserimento di una clausola espressa dal contenuto suddescritto comporta una chiara assunzione di responsabilità a carico del venditore o l’esclusione di tale responsabilità, spostando sull’acquirente l’onere di adeguamento degli impianti. Pertanto, l’alienazione di beni immobili dotati di impianti con caratteristiche difformi rispetto a quelle prescritte dalle norme vigenti o privi delle dichiarazioni di conformità è sempre possibile e la mancata previsione della garanzia non costituisce causa di nullità degli atti.Nel sistema previgente non si specificava nulla in merito allo status degli impianti; nel caso in cui il venditore di un alloggio con impianti idraulici, elettrici, ecc… con caratteristiche difformi da quelle prescritte dalle norme, occultava in mala fede o più semplicemente ometteva di comunicare tale difformità all’acquirente, trovavano applicazione gli artt. 1490 e 1497 Codice Civile, relativi alla garanzia per i vizi della cosa venduta e alle azioni esercitabili nei confronti del venditore che ha ceduto una cosa priva della dovuta qualità o inidonea all’uso previsto. È dunque, palese che, la garanzia del venditore operava senza che fosse esplicitato alcunchè all’interno di contratti preliminari di vendita e/o di atti di compravendita immobiliari.L’obbligo di riportare negli atti di trasferimento la garanzia del venditore in ordine alla conformità degli impianti alla vigente normativa in materia di sicurezza di cui all’articolo 13 del Decreto Ministeriale n. 37/2008, anticipa il momento in cui domandarsi se gli impianti sono conformi o meno e fa sì che il tema divenga oggetto di trattativa tra le parti.Un impianto non conforme costituisce un vizio rilevante per l’immobile compravenduto e merita la giusta attenzione. Così colui che desidera alienare un edificio o una porzione di esso con impianti non conformi dovrà informare l’acquirente, il quale sarà in condizione di decidere se optare ugualmente per l’acquisto o rinunciarvi; l’acquirente intenzionato ad acquistare l’immobile, potrà pretendere la messa a norma degli impianti a cura e spese del venditore, che nel contratto traslativo presterà la relativa garanzia di conformità, oppure potrà procedere all’acquisto trattando nuovamente il prezzo di vendita (la riduzione è giustificata dall’assunzione a proprio carico dell’onere dell’adeguamento) ed escludendo la garanzia del venditore. La cognizione dell’effettivo stato degli impianti permette alle parti di prevedere apposita clausola che confermi o escluda la garanzia del venditore. Se l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata contenente il trasferimento di immobile tace sulla questione troveranno comunque applicazione le regole generali dettate dal Codice Civile. L’alienante potrebbe, però non conoscere lo stato degli impianti, in tal caso l’acquirente ha diritto di chiederne la verifica; una volta accertatane la conformità, quest’ultimo può richiedere la dichiarazione di rispondenza e pretenderne l’allegazione all’atto di trasferimento dell’immobile, se ne viene accertata la difformità, l’acquirente addotta uno dei comportamenti già spiegati. Nell’ipotesi positiva va ulteriormente detto che le parti potrebbero convenire, a fronte della garanzia di conformità rilasciata dal venditore, di non allegare all’atto alcuna certificazione di conformità o rispondenza, bensì di prevedere semplicemente la consegna della documentazione al nuovo proprietario. Potrebbe ancora accadere che il venditore sia in possesso delle dichiarazioni di conformità e che rilasci l’apposita garanzia permettendo anche l’allegazione al contratto traslativo di tutta la documentazione consegnatagli dall’impresa che ha installato gli impianti.L’intento della normativa è lodevole, vuole evitare che le parti stipulino un atto di trasferimento di beni immobili avendo completamente trascurato la problematica della conformità o difformità degli impianti; le parti adeguatamente informate possono adottare le conseguenti decisioni in modo consapevole e responsabile, accordandosi in senso positivo o negativo sulla garanzia di conformità. Si sarebbe potuto fare di più, infatti trovare un accordo in merito pochi giorni prima della stipula dell’atto definitivo di trasferimento dell’immobile può creare tensioni tra le parti; la normativa avrebbe dovuto obbligare le parti alla previsione di un’apposita clausola già alla stipula del contratto preliminare, dato che è proprio questo il momento in cui si incontrano le volontà del venditore e dell’acquirente circa il prezzo e le altre condizioni contrattuali, condizioni che predeterminano il contenuto del futuro contratto di compravendita.Il Decreto Ministeriale n. 37/2008 vuole, inoltre, evitare l’instaurazione di lunghe e dispendiose controversie giudiziarie, con le quali il nuovo proprietario della cosa agisca nei confronti del venditore per vizi occulti o per mancanza di qualità essenziali del bene ceduto (articoli 1490-1497 Codice Civile). Si tratta di una forma di tutela preventiva utile a cautelare entrambe le parte contraenti: il venditore che non assume su di sé la responsabilità della conformità degli impianti non può essere citato in giudizio per la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, mentre l’acquirente informato dello status degli impianti è in grado di valutare più attentamente la convenienza dell’acquisto.In conclusione sono chiamati all’applicazione della normativa tutti gli operatori del settore immobiliare, con l’augurio che più nessuno voglia tacere sulla “questione impianti” e voglia garantire la pacifica e preventiva risoluzione di ogni condizione contrattuale.

D.M, 37/08: istallazione e sicurezza degli impianti all'interno degli edifici


Articolo 04/06/2008
Disciplina dell'attività di installazione e di sicurezza degli impianti all'interno di edifici L'introduzione del D.M. 37/2008 e i suoi risvolti applicativi
Il Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 è stato emanato al fine di riordinare tutte le disposizioni in tema di attività di installazione e di sicurezza degli impianti all’interno di edifici di diversa tipologia. Il riordino delle disposizioni vigenti in materia ha comportato l’abrogazione delle norme contenute:- nella Legge n. 46 del 5 marzo 1990 “Norme sulla sicurezza degli impianti” (ad eccezione degli articoli 8, 14, 16 sulle sanzioni applicabili);- nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 6 dicembre 1991 “Regolamento di attuazione della legge 46/1990 in materia di sicurezza degli impianti”;- nel Capo V parte II artt. dal 107 al 121 “Norme per la sicurezza degli impianti” del Testo Unico in materia edilizia di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001.Pertanto, a partire dal 27 marzo 2008 (data di entrata in vigore del Decreto Ministeriale n. 37/2008), tutta la materia dell’installazione e della sicurezza degli impianti è disciplinata dal citato decreto 37/2008, dagli articoli 8, 14 e 16 della legge n. 46/1990 e dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 392 del 18 aprile 1994 “Regolamento per la disciplina del procedimento di riconoscimento delle imprese ai fini dell’installazione, ampliamento e trasformazione degli impianti nel rispetto delle norme di sicurezza”. Per la manutenzione degli impianti di ascensori e montacarichi in servizio privato continuano, invece, ad applicarsi le disposizioni del Decreto del Presidente della Repubblica n. 162 del 30 aprile 1999 e le altre disposizioni specifiche in materia.L’innovazione introdotta dal Decreto Ministeriale 37/2008 consiste nella regolamentazione della garanzia del venditore in ordine alla conformità degli impianti alla vigente normativa in materia di sicurezza, ossia nell’obbligo di indicare negli atti di trasferimento di immobili se il venditore garantisce o meno la conformità degli impianti e se produce le relative dichiarazioni di conformità o di rispondenza (dichiarazione sostitutiva di quella di conformità che può essere rilasciata da un’impresa che verifichi le caratteristiche di conformità degli impianti). A riguardo, va precisato che un impianto si qualifica come non conforme, se per la sua installazione e funzionamento non sono osservate le vigenti norme in materia di installazione e sicurezza, a prescindere dalla loro funzionalità ed efficienza.Detto ciò, la garanzia di cui sopra può essere espressa sia in termini positivi che in termini negativi. Se gli impianti sono conformi, il venditore dichiarerà espressamente che garantisce la conformità degli stessi, mentre in caso contrario, il venditore non garantirà la conformità di alcunché, ma alienerà ugualmente l’immobile sempreché l’acquirente abbia accettato di acquistare il medesimo nell’effettivo stato in cui si trova. L’inserimento di una clausola espressa dal contenuto suddescritto comporta una chiara assunzione di responsabilità a carico del venditore o l’esclusione di tale responsabilità, spostando sull’acquirente l’onere di adeguamento degli impianti. Pertanto, l’alienazione di beni immobili dotati di impianti con caratteristiche difformi rispetto a quelle prescritte dalle norme vigenti o privi delle dichiarazioni di conformità è sempre possibile e la mancata previsione della garanzia non costituisce causa di nullità degli atti.Nel sistema previgente non si specificava nulla in merito allo status degli impianti; nel caso in cui il venditore di un alloggio con impianti idraulici, elettrici, ecc… con caratteristiche difformi da quelle prescritte dalle norme, occultava in mala fede o più semplicemente ometteva di comunicare tale difformità all’acquirente, trovavano applicazione gli artt. 1490 e 1497 Codice Civile, relativi alla garanzia per i vizi della cosa venduta e alle azioni esercitabili nei confronti del venditore che ha ceduto una cosa priva della dovuta qualità o inidonea all’uso previsto. È dunque, palese che, la garanzia del venditore operava senza che fosse esplicitato alcunchè all’interno di contratti preliminari di vendita e/o di atti di compravendita immobiliari.L’obbligo di riportare negli atti di trasferimento la garanzia del venditore in ordine alla conformità degli impianti alla vigente normativa in materia di sicurezza di cui all’articolo 13 del Decreto Ministeriale n. 37/2008, anticipa il momento in cui domandarsi se gli impianti sono conformi o meno e fa sì che il tema divenga oggetto di trattativa tra le parti.Un impianto non conforme costituisce un vizio rilevante per l’immobile compravenduto e merita la giusta attenzione. Così colui che desidera alienare un edificio o una porzione di esso con impianti non conformi dovrà informare l’acquirente, il quale sarà in condizione di decidere se optare ugualmente per l’acquisto o rinunciarvi; l’acquirente intenzionato ad acquistare l’immobile, potrà pretendere la messa a norma degli impianti a cura e spese del venditore, che nel contratto traslativo presterà la relativa garanzia di conformità, oppure potrà procedere all’acquisto trattando nuovamente il prezzo di vendita (la riduzione è giustificata dall’assunzione a proprio carico dell’onere dell’adeguamento) ed escludendo la garanzia del venditore. La cognizione dell’effettivo stato degli impianti permette alle parti di prevedere apposita clausola che confermi o escluda la garanzia del venditore. Se l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata contenente il trasferimento di immobile tace sulla questione troveranno comunque applicazione le regole generali dettate dal Codice Civile. L’alienante potrebbe, però non conoscere lo stato degli impianti, in tal caso l’acquirente ha diritto di chiederne la verifica; una volta accertatane la conformità, quest’ultimo può richiedere la dichiarazione di rispondenza e pretenderne l’allegazione all’atto di trasferimento dell’immobile, se ne viene accertata la difformità, l’acquirente addotta uno dei comportamenti già spiegati. Nell’ipotesi positiva va ulteriormente detto che le parti potrebbero convenire, a fronte della garanzia di conformità rilasciata dal venditore, di non allegare all’atto alcuna certificazione di conformità o rispondenza, bensì di prevedere semplicemente la consegna della documentazione al nuovo proprietario. Potrebbe ancora accadere che il venditore sia in possesso delle dichiarazioni di conformità e che rilasci l’apposita garanzia permettendo anche l’allegazione al contratto traslativo di tutta la documentazione consegnatagli dall’impresa che ha installato gli impianti.L’intento della normativa è lodevole, vuole evitare che le parti stipulino un atto di trasferimento di beni immobili avendo completamente trascurato la problematica della conformità o difformità degli impianti; le parti adeguatamente informate possono adottare le conseguenti decisioni in modo consapevole e responsabile, accordandosi in senso positivo o negativo sulla garanzia di conformità. Si sarebbe potuto fare di più, infatti trovare un accordo in merito pochi giorni prima della stipula dell’atto definitivo di trasferimento dell’immobile può creare tensioni tra le parti; la normativa avrebbe dovuto obbligare le parti alla previsione di un’apposita clausola già alla stipula del contratto preliminare, dato che è proprio questo il momento in cui si incontrano le volontà del venditore e dell’acquirente circa il prezzo e le altre condizioni contrattuali, condizioni che predeterminano il contenuto del futuro contratto di compravendita.Il Decreto Ministeriale n. 37/2008 vuole, inoltre, evitare l’instaurazione di lunghe e dispendiose controversie giudiziarie, con le quali il nuovo proprietario della cosa agisca nei confronti del venditore per vizi occulti o per mancanza di qualità essenziali del bene ceduto (articoli 1490-1497 Codice Civile). Si tratta di una forma di tutela preventiva utile a cautelare entrambe le parte contraenti: il venditore che non assume su di sé la responsabilità della conformità degli impianti non può essere citato in giudizio per la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, mentre l’acquirente informato dello status degli impianti è in grado di valutare più attentamente la convenienza dell’acquisto.In conclusione sono chiamati all’applicazione della normativa tutti gli operatori del settore immobiliare, con l’augurio che più nessuno voglia tacere sulla “questione impianti” e voglia garantire la pacifica e preventiva risoluzione di ogni condizione contrattuale.

05.06.2008

Esdebitazione, norme incostituzionali nella parte in cui non prevedono la notifica del fallito ai creditori insoddisfatti

E' costituzionalmente illegittimo l'art. 143, R.D. n. 267/1942 - nel testo introdotto dal D.Lgs n. 5/2006 -, limitatamente alla parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato ad istanza del debitore già dichiarato fallito, nell'anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e ss. c.p.c., ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore chiede di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l'udienza in camera di consiglio.

Corte Costituzionale Sentenza 30/05/2008, n. 181

Considerato che il riferimento, contenuto nel già menzionato ultimo comma dell’art. 143 della legge fallimentare, al reclamo – strumento tipico delle procedure svolte secondo il rito camerale – quale mezzo di reazione avverso il provvedimento di esdebitazione, conduce alla conclusione che è questo il modello attraverso il quale si svolge il relativo procedimento. Applicando a tale modello la specifica disciplina dettata dal citato art. 143 della legge fallimentare, che prevede la formalità istruttoria della audizione sia del curatore del fallimento che del comitato dei creditori (organi questi, peraltro, ormai cessati a seguito della chiusura del fallimento), deriva che debba essere dal giudice fissata almeno un’udienza nella quale svolgere siffatta attività.
L’esame della disciplina delle procedure camerali consente dunque di ravvisare, come necessario strumento di pubblicità della pendenza della procedura nei confronti dei controinteressati, la notificazione ad essi del ricorso introduttivo e del pedissequo decreto col quale l’organo giudiziario fissa l’udienza in camera di consiglio per la discussione del ricorso stesso.
Tenuto conto del petitum contenuto nella ordinanza di rimessione della Corte di appello di Venezia, relativo alla ipotesi di procedimento di esdebitazione introdotto con ricorso entro l’anno dall’avvenuta dichiarazione di chiusura del fallimento, deve, pertanto, conformemente al descritto modello procedimentale, affermarsi la illegittimità costituzionale dell’art. 143 della legge fallimentare limitatamente alla parte in cui non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile (ivi compresa, ricorrendone i requisiti, anche quella di cui all’art. 150 cod. proc. civ.), ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore, già dichiarato fallito, chiede, nell’anno successivo alla dichiarazione di chiusura del fallimento, di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio.

News a cura della RedazioneTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008
Utilizzo del computer dell'ufficio per fini personali

Il reato di peculato tutela, oltre al patrimonio della Pubblica amministrazione, anche il buon andamento degli uffici basato sul rapporto di fiducia e lealtà col personale dipendente: pertanto la mancanza di danno patrimoniale non esclude automaticamente la sussistenza del reato in questione, allorché l'uso del bene pubblico da parte del dipendente che ne abbia la disponibilità sia tale da ledere comunque il buon andamento degli uffici.

Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 21/05/2008, n. 20326 - M.M.D.A.

La Corte di Cassazione, VI sezione penale, ribadisce il principio della natura plurioffensiva del delitto di peculato, attraverso la cui previsione il legislatore intende sia salvaguardare il patrimonio della pubblica amministrazione che l’interesse al buon andamento dei pubblici uffici, vulnerato, questo, da comportamenti del pubblico ufficiale che implichino un uso della cosa pubblica di cui il medesimo abbia la disponibilità deviante rispetto alle finalità dell’Ufficio.
Nella specie, la Corte ha evidenziato che il comportamento del dipendente pubblico che, collegato continuamente ad internet con il computer dell’Ufficio di cui aveva la disponibilità, aveva scaricato in archivi personali immagini e dati (per lo più di carattere pornografico) del tutto estranei alla pubblica funzione, integra il delitto di peculato, pur in ipotesi di (supposta) assenza del danno patrimoniale per la Pubblica amministrazione, atteso che il predetto uso della cosa pubblica era certamente deviante rispetto alle finalità dell’Ufficio. Principio, questo, già affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 2963/2004 (a sua volta richiamante altre sentenze della Corte nello stesso senso), proprio in relazione ad una fattispecie di uso del telefono di ufficio per fini privati protrattosi per un lungo arco temporale da parte del dipendente pubblico.
Nella specie, peraltro, la decisione annullata dava per scontata l’assenza di danno patrimoniale, sul presupposto – indimostrato – che il computer era comunque sempre collegato ad internet e che la Pubblica Amministrazione non aveva ricevuto concretamente nessun danno dal fatto che il dipendente aveva utilizzato il collegamento per visitare siti extraistituzionali.
La Corte di Cassazione ha rilevato come tale assunto era del tutto indimostrato poiché, al di là del consumo dell’energia elettrica per il collegamento del computer, nulla escludeva che la convenzione tra l’Amministrazione e il gestore della rete fosse a consumo e non a forfait, con la possibilità, quindi, di un concreto danno patrimoniale ogni volta che il dipendente si era collegato per fini privati.

Alessandro Jazzetti, magistratoTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008
Utilizzo del computer dell'ufficio per fini personali

Il reato di peculato tutela, oltre al patrimonio della Pubblica amministrazione, anche il buon andamento degli uffici basato sul rapporto di fiducia e lealtà col personale dipendente: pertanto la mancanza di danno patrimoniale non esclude automaticamente la sussistenza del reato in questione, allorché l'uso del bene pubblico da parte del dipendente che ne abbia la disponibilità sia tale da ledere comunque il buon andamento degli uffici.

Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 21/05/2008, n. 20326 - M.M.D.A.

La Corte di Cassazione, VI sezione penale, ribadisce il principio della natura plurioffensiva del delitto di peculato, attraverso la cui previsione il legislatore intende sia salvaguardare il patrimonio della pubblica amministrazione che l’interesse al buon andamento dei pubblici uffici, vulnerato, questo, da comportamenti del pubblico ufficiale che implichino un uso della cosa pubblica di cui il medesimo abbia la disponibilità deviante rispetto alle finalità dell’Ufficio.
Nella specie, la Corte ha evidenziato che il comportamento del dipendente pubblico che, collegato continuamente ad internet con il computer dell’Ufficio di cui aveva la disponibilità, aveva scaricato in archivi personali immagini e dati (per lo più di carattere pornografico) del tutto estranei alla pubblica funzione, integra il delitto di peculato, pur in ipotesi di (supposta) assenza del danno patrimoniale per la Pubblica amministrazione, atteso che il predetto uso della cosa pubblica era certamente deviante rispetto alle finalità dell’Ufficio. Principio, questo, già affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 2963/2004 (a sua volta richiamante altre sentenze della Corte nello stesso senso), proprio in relazione ad una fattispecie di uso del telefono di ufficio per fini privati protrattosi per un lungo arco temporale da parte del dipendente pubblico.
Nella specie, peraltro, la decisione annullata dava per scontata l’assenza di danno patrimoniale, sul presupposto – indimostrato – che il computer era comunque sempre collegato ad internet e che la Pubblica Amministrazione non aveva ricevuto concretamente nessun danno dal fatto che il dipendente aveva utilizzato il collegamento per visitare siti extraistituzionali.
La Corte di Cassazione ha rilevato come tale assunto era del tutto indimostrato poiché, al di là del consumo dell’energia elettrica per il collegamento del computer, nulla escludeva che la convenzione tra l’Amministrazione e il gestore della rete fosse a consumo e non a forfait, con la possibilità, quindi, di un concreto danno patrimoniale ogni volta che il dipendente si era collegato per fini privati.

Alessandro Jazzetti, magistratoTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

05.06.2008

Esdebitazione, norme incostituzionali nella parte in cui non prevedono la notifica del fallito ai creditori insoddisfatti

E' costituzionalmente illegittimo l'art. 143, R.D. n. 267/1942 - nel testo introdotto dal D.Lgs n. 5/2006 -, limitatamente alla parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato ad istanza del debitore già dichiarato fallito, nell'anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e ss. c.p.c., ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore chiede di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l'udienza in camera di consiglio.

Corte Costituzionale Sentenza 30/05/2008, n. 181

Considerato che il riferimento, contenuto nel già menzionato ultimo comma dell’art. 143 della legge fallimentare, al reclamo – strumento tipico delle procedure svolte secondo il rito camerale – quale mezzo di reazione avverso il provvedimento di esdebitazione, conduce alla conclusione che è questo il modello attraverso il quale si svolge il relativo procedimento. Applicando a tale modello la specifica disciplina dettata dal citato art. 143 della legge fallimentare, che prevede la formalità istruttoria della audizione sia del curatore del fallimento che del comitato dei creditori (organi questi, peraltro, ormai cessati a seguito della chiusura del fallimento), deriva che debba essere dal giudice fissata almeno un’udienza nella quale svolgere siffatta attività.
L’esame della disciplina delle procedure camerali consente dunque di ravvisare, come necessario strumento di pubblicità della pendenza della procedura nei confronti dei controinteressati, la notificazione ad essi del ricorso introduttivo e del pedissequo decreto col quale l’organo giudiziario fissa l’udienza in camera di consiglio per la discussione del ricorso stesso.
Tenuto conto del petitum contenuto nella ordinanza di rimessione della Corte di appello di Venezia, relativo alla ipotesi di procedimento di esdebitazione introdotto con ricorso entro l’anno dall’avvenuta dichiarazione di chiusura del fallimento, deve, pertanto, conformemente al descritto modello procedimentale, affermarsi la illegittimità costituzionale dell’art. 143 della legge fallimentare limitatamente alla parte in cui non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile (ivi compresa, ricorrendone i requisiti, anche quella di cui all’art. 150 cod. proc. civ.), ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore, già dichiarato fallito, chiede, nell’anno successivo alla dichiarazione di chiusura del fallimento, di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l’udienza in camera di consiglio.

News a cura della RedazioneTratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

giovedì 12 giugno 2008

Citazioni e aforismi

Non disdice all'austerità delle aule giudiziarie il Crocefisso; soltanto non vorrei che fosse collocato, come è, dietro le spalle dei giudici.In questo modo può vederlo soltanto il giudicabile, il quale, guardando in faccia i giudici, vorrebbe aver fede nella loro giustizia; ma poi, scorgendo dietro a loro, sulla parete di fondo, il simbolo doloroso dell'errore giudiziario, è portato a credere che esso lo ammonisca a lasciare ogni speranza: simbolo non di fede, ma di disperazione.Quasi si direbbe che sia stato lasciato lì, dietro le spalle dei giudici, apposta per impedire che lo vedano: e invece si vorrebbe che fosse collocato proprio in faccia a loro, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerassero con umiltà mentre giudicano, e non dimenticassero mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente".


(Piero Calamandrei, Elogio dei giudici. Scritto da un avvocato))

Citazioni e aforismi

Non disdice all'austerità delle aule giudiziarie il Crocefisso; soltanto non vorrei che fosse collocato, come è, dietro le spalle dei giudici.In questo modo può vederlo soltanto il giudicabile, il quale, guardando in faccia i giudici, vorrebbe aver fede nella loro giustizia; ma poi, scorgendo dietro a loro, sulla parete di fondo, il simbolo doloroso dell'errore giudiziario, è portato a credere che esso lo ammonisca a lasciare ogni speranza: simbolo non di fede, ma di disperazione.Quasi si direbbe che sia stato lasciato lì, dietro le spalle dei giudici, apposta per impedire che lo vedano: e invece si vorrebbe che fosse collocato proprio in faccia a loro, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerassero con umiltà mentre giudicano, e non dimenticassero mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente".


(Piero Calamandrei, Elogio dei giudici. Scritto da un avvocato))

domenica 8 giugno 2008


05.06.2008
Il d.l. "sicurezza": le novità in materia processuale

Potenziamento dei riti alternativi di stampo accusatorio e abolizione, per tutti i reati, del "patteggiamento in appello": queste le novità di maggiore impatto previste dall'art. 2 del d.l. n. 92 del 2008.

Decreto Legge 23 maggio 2008 , n. 92

Le novità introdotte dagli art. 2 e 3 d.l. n. 92 del 2008 in ambito processuale toccano sei istinti ambiti: il potenziamento dei riti speciali a impronta accusatoria (giudizio direttissimo e giudizio immediato); l’abolizione del “patteggiamento in appello” per tutti i reati; l’inasprimento del regime esecutivo, con l’incremento del catalogo dei delitti per i quali è esclusa la sospensione dell’esecuzione della pena; l’introduzione di una procedura più snella relativamente alla distruzione di merci contraffatte; l’estensione dell’attività di coordinamento del procuratore nazionale antimafia in relazione ai procedimenti di prevenzione; la sottrazione alla competenza al giudice di pace, la nuova ipotesi delittuosa delineata dall’art. 590, c. 3, secondo periodo, c.p. .

Le modifiche ai riti speciali
Le modifiche alle norme che disciplinano il giudizio direttissimo e il giudizio immediato sono accomunate dallo scopo di circoscrivere la discrezionalità del p.m., rendendo doverosa la scelta di quel rito nei casi in cui, secondo la precedente formulazione degli artt. 449 e 453 c.p.p., essa era invece facoltativa. La ratio è quella, quindi, di incidere sui tempi della celebrazione del processo, favorendo dei riti che, per loro natura, hanno cadenze molto serrate, e, di riflesso, specie in relazione alla nuova ipotesi di rito immediato, di impedire la scarcerazione per decorrenza dei termini.
Quanto al giudizio direttissimo, ai sensi del nuovo c. 4 dell’art. 449 c.p.p., quando l'arresto in flagranza è già stato convalidato, il p.m. «procede al giudizio direttissimo presentando non oltre il quindicesimo giorno dall'arresto»; balza immediatamente all’occhio la differenza con la formulazione previgente, in cui il p.m. poteva procedere nelle forme del rito speciale. La norma contiene tuttavia una valvola di sfogo: il p.m. può procedere per le vie ordinarie quando la celebrazione del processo con giudizio direttissimo «pregiudichi gravemente le indagini».
Nella stessa direzione si colloca la modifica del c. 5: «il pubblico ministero procede inoltre al giudizio direttissimo (…) nei confronti della persona che nel corso dell'interrogatorio ha reso confessione»; anche in tal caso, la soppressione della locuzione «può procedere», sta a denotare la riduzione del potere discrezionale del p.m. Tuttavia, come per l’ipotesi del c. 4, anche il c. 5 prevede una clausola di salvezza, potendo il p.m. optare per le forme ordinarie laddove la scelta del giudizio direttissimo «pregiudichi gravemente le indagini».
Di mero raccordo è la modifica dell’art. 450, c. 1, c.p.p., che rispecchia la tendenziale obbligatorietà del giudizio direttissimo nei casi di arresto già convalidato e di confessione dell’imputato: «Quando procede a giudizio direttissimo…», che sostituisce il precedente «Se ritiene di procedere a giudizio direttissimo… Per il resto, la disciplina del giudizio direttissimo rimane inalterata.
Più articolati sono gli innesti sulla disciplina del giudizio immediato. Oltre alla riduzione –tendenziale – del potere di scelta di instaurazione del rito di cui al c. 1, si prevede una nuova ipotesi di accesso al giudizio immediato, ad iniziativa del p.m. Ai sensi dell’art. 453, c. 1-bis, c.p.p. «anche fuori dai termini di cui all’articolo 454, comma 1, e, comunque, entro centottanta giorni dall’esecuzione della misura, per il reato in relazione al quale la persona sottoposta alle indagini si trova in stato di custodia cautelare». Ai sensi del nuovo c. 1-ter, la richiesta del p.m. «è formulata dopo la definizione del procedimento di cui all’articolo 309, ovvero dopo il decorso dei termini per la proposizione della richiesta di riesame». I presupposti, di forma e sostanza, per l’instaurazione del rito sono perciò i seguenti: a) l’imputato deve trovarsi in stato custodia cautelare (in carcere ovvero agli arresti domiciliari, stante l’equiparazione ex art. 284, c. 5 c.p.p.) in relazione al reato per il quale viene richiesto il giudizio immediato; il giudizio non è perciò instaurabile se l’imputato è latitante, ovvero sottoposto a una misura non custodiale (divieto di espatrio, obbligo di presentazione alla p.g., allontanamento dalla casa familiare, divieto e obbligo di dimora), oppure, a fortiori, se è libero; b) per la proposizione della richiesta è previsto un termine dilatorio: essa deve intervenire dopo la definizione del procedimento di riesame ex art. 309 c.p.p. ovvero allo spirare del termine per la proposizione della richiesta, ma entro centottanta giorni dall’esecuzione della misura.
A differenza dell’ipotesi considerata dal c. 1, non si prevede, in maniera espressa, né il requisito dell’evidenza della prova, né il previo interrogatorio dell’imputato ovvero l’invito a renderlo rimasto senza effetto. A ben vedere, tuttavia, quei requisiti, nella sostanza, sono dati per presupposti anche per l’ipotesi prevista dal c. 1-bis, essendo necessariamente implicati nel fatto che l’indagato debba trovarsi in stato di custodia cautelare. In primo luogo, infatti, lo status detentionis dell’indagato presuppone il permanere di «gravi indizi di colpevolezza» ex art. 273 c.p.p., locuzione che, dal punto di vista probatorio, evoca una situazione assai simile alla nozione di “evidenza della prova”, di cui al c. 1, - ove tale evidenza si riferisce non alla colpevolezza alla superfluità dell’udienza preliminare - se è vero che, secondo la giurisprudenza prevalente, una volta emesso il decreto di giudizio immediato ex art. 453, c. 1, c.p.p, non è possibile rimettere in discussione, in assenza di fatti sopravvenuti, la permanenza del fondamento indiziario del provvedimento de libertate (cfr., per tutti, C SU 27.11.1995, Liotta, CED 202858). In secondo luogo, l’imputato, nei cui confronti è in atto una misura custodiale, è stato messo nelle condizioni di difendersi nell’interrogatorio di garanzia, previsto dall’art. 294 c.p.p., ovvero nell’interrogatorio dell’arrestato o del fermato condotto dal p.m. (art. 388 c.p.p.), ovvero dal giudice in sede di convalida (art. 391 c.p.p.).
Ricorrendo i presupposti indicati nel c. 1-bis, il p.m. ha il dovere di procedere nelle forme del giudizio immediato, salvo, come per l’ipotesi del c. 1, che «la richiesta pregiudichi gravemente le indagini».
Nel caso in cui all’indagato siano contestati più reati tra loro connessi, ma egli si trovi in stato di detenzione solo per alcuni di essi, pare applicabile il disposto del c. 2 dell’art. 453 c.p.p., improntato al favor separationis. In prima battuta, quindi, il p.m. procederà alla separazione, chiedendo il giudizio immediato solo per i reati per i quali sussistono le condizioni contemplate dal c. 1-bis e procedendo per le vie ordinarie per gli altri; ove però la separazione sia ritenuta gravemente pregiudizievole per le indagini, il giudizio immediato cede il passo al giudizio ordinario.
Una questione problematica riguarda la necessità che la richiesta ex art. 1-bis sia o meno preceduta dall’avviso di conclusione delle indagini.
Con riguardo al giudizio immediato ex c. 1, il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, avallato dalla Corte costituzionale (cfr. C Cost. n. 203 del 2002, DPP, 2002, 818), esclude che la richiesta di giudizio immediato debba essere preceduta dall'avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p., essendo tale adempimento previsto quando si procede nelle forme ordinarie con la richiesta di rinvio a giudizio o con la citazione diretta a giudizio, mentre il presupposto del giudizio immediato è l'evidenza della prova la cui sussistenza permette di evitare la celebrazione dell'udienza preliminare [C IV 14.2.2007, p.m. in c. M.A., CED 236283; C VI 24.2.2003, Bardi, ivi, n. 225530]; non solo, ma la notifica dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. si porrebbe in antinomia con i presupposti che giustificano procedimenti speciali privi del filtro dell'udienza preliminare e improntati a principi di massima speditezza [C V 27.11.2002, Cavalieri, ivi, n. 226429]. Sebbene argomentazioni del genere possano essere ritenute valide anche con riguardo alla richiesta di giudizio immediato formulata ex art. 453, c. 1-bis, c.p.p., nondimeno la necessità dell’invio dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. parrebbe imporsi in considerazione del termine particolarmente ampio che di cui dispone il p.m. per chiedere l’instaurazione del rito speciale, ossia centottanta giorni dall’inizio dell’esecuzione della misura, il doppio dell’ipotesi prevista dal c. 1, periodo durante il quale è ben possibile che le indagini siano state sviluppate con l’acquisizione di nuovi elementi. Inoltre, può accadere che l’imputato abbia potuto interloquire solo nell’interrogatorio di garanzia, ovvero in sede di convalida del fermo e dell’arresto, e quindi in un momento in cui le investigazioni erano in fase embrionale, sicché, grazie all’avviso di conclusione delle indagini, l’indagato non solo viene messo a conoscenza della documentazione relativa alla indagini espletate, di cui può prendere copia, ma ha anche la possibilità di essere interrogato dal p.m.
Un’ulteriore profilo che può dar luogo a dubbi interpretativi, strettamente collegato alla necessità che il p.m. sia tenuto a notificare o meno all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini, riguarda l’eventualità in cui, dopo l’interrogatorio di garanzia ovvero a quello reso in sede di convalida, muti - in senso peggiorativo - la qualificazione giuridica del fatto. Se si propende per la soluzione secondo cui il p.m., prima di richiedere il giudizio immediato ex art. 453, c. 1 bis, c.p.p, deve notificare all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini, la questione viene risolta in radice, perché, in tal caso, l’indagato, se vuole, può interloquire sul fatto - più grave rispetto a quello ritenuto nell’ordinanza custodiale - in relazione al quale il p.m. è legittimato a chiedere il giudizio immediato. Se, invece, si opta per la soluzione opposta, anche in analogia con la previsione del c. 1 dell’art. 453 c.p.p. - che peraltro è espressione del più generale diritto di difesa - sembra preferibile ritenere che, in caso di mutamento in pejus della qualificazione giuridica del fatto, il p.m. debba comuqune procedere all’interrogatorio dell’indagato, prima di richiedere il giudizio immediato ex c. 1-bis.
Il g.i.p. decide entro cinque giorni dalla richiesta, ai sensi dell'art. 455, c. 1, c.p.p. Il nuovo c. 1-bis indica i criteri cui il g.i.p. deve attenersi nella valutazione della richiesta di giudizio immediato formulata dal p.m. ai sensi dell’art. 453, c. 1-bis, c.p.p.: «il giudice rigetta la richiesta se l’ordinanza che dispone la custodia cautelare è stata revocata o annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza». Il g.i.p., pertanto, non è tenuto a compiere un autonomo apprezzamento circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla base della misura restrittiva della libertà personale applicata all’imputato, potendo rigettare l’istanza solo se, prima della sua decisione, l’ordinanza è stata revocata dal giudice che l’ha emessa, oppure è stata annullata dal tribunale del riesame ovvero dalla Corte di cassazione, in sede di ricorso avverso il provvedimento confermativo del tribunale del riesame, ma solo per motivi che attengono al quadro indiziario. Il riferimento alla “sopravvenienza” del venire meno dei gravi indizi di colpevolezza appare una scelta linguistica poco felice; invero, non sembra dubitabile che il g.i.p. debba rigettare la richiesta ex c. 1-bis anche quando l’ordinanza applicativa della misura è stata annullata o revocata per insussistenza originaria (e non solo sopravvenuta) dei gravi indizi di colpevolezza. Se, invece, l’ordinanza viene annullata, modificata o revocata per motivi che non attengono al requisito probatorio ex art. 273 c.p.p., ma ad altri motivi (mutamento o caducazione delle esigenze cautelari, eventuale applicazione di una causa estintiva del reato – sospensione condizionale - o della pena – indulto - ecc.) il g.i.p. dispone il giudizio immediato ex c. 1-bis.
Ad un attento esame, non pare che le modifiche di cui si è dato conto siano in grado di incidere in maniera effettiva sul potere del p.m. in ordine all’instaurazione del giudizio direttissimo e del giudizio immediato. In primo luogo, in sede giurisdizionale la decisione del p.m. di procedere o meno con giudizio direttissimo ovvero con giudizio immediato non è sottoposta ad alcun sindacato; se, quindi, il p.m. non opta per il giudizio speciale, pur ricorrendo le che lo imporrebbero, non vi è alcuno strumento che possa contrastare la scelta operata dall’organo della pubblica accusa. In secondo luogo, il p.m. può optare per il giudizio ordinario quanto ritenga che la celebrazione del processo con giudizio direttissimo o con giudizio immediato pregiudichi gravemente le indagini.
Abolizione del “patteggiamento in appello”
Come laconicamente recita l’art. 1, lett. i), «all'articolo 599, i c. 4 e 5 sono abrogati»; la successiva lett. l), invece, abroga l’art. 602, c. 2, c.p.p. Con un tratto di penna, il Governo ha cancellato il cd. “patteggiamento in appello”, un istituto, molto diffuso nella prassi, che, in caso di appello dell’imputato, consentiva alle parti, nelle forme previste per la rinuncia all’impugnazione, di concordare sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi, con l’indicazione della pena sulla quale imputato, p.m. e persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria si erano accordati..
A differenza delle prime indiscrezioni, la cancellazione del “patteggiamento in appello” è generalizzata, e non solo per una cerchia ristretta di reati. La ratio sottesa all’abolizione dell’istituto pare risiedere in esigenze di certezza nell’applicazione della pena e, in via mediata, di celerità nella celebrazione dei processi. A seguito dell’abolizione dell’istituto in esame, l’imputato sa di non potere più fare affidamento, in caso di condanna, sullo sconto di pena frutto dell’accordo sui motivi di appello, il che potrebbe incentivare la scelta, quanto al primo grado, anziché del giudizio ordinario, dei riti premiali, i quali, a fronte di una riduzione di pena, consentono una più rapida definizione del processo.
Fuori dell’abrogazione espressa dei c. 4 e 5, l’art. 599 c.p.p. non subisce ulteriori modifiche; continua perciò a trovare applicazione la disciplina prevista nei c. 1, 2 e 3, che regola il procedimento in camera di consiglio ove l’appello abbia ad oggetto esclusivamente «la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale».
L’allargamento del divieto di sospensione dell’esecuzione della pena
Al fine di incidere sulla certezza della pena, il Governo ha operato un intervento sul c. 9, lett. a), dell’art. 656 c.p., ampliando il novero dei delitti per i quali è esclusa la sospensione dell’esecuzione della pena; l’aggiunta riguarda le fattispecie di cui agli 423-bis (incendio boschivo), 600 bis (prostituzione minorile), 624-bis (furto in abitazione e furto con strappo) e 628 (rapina) c.p. La finalità cui si ispira la modifica è quella di rendere effettiva la pena per reati che, ad avviso dell’Esecutivo, generano un particolare allarme sociale.
Ancorché la scelta di incrementare i delitti per i quali è escludere il beneficio della sospensione dell’esecuzione della pena sia di natura squisitamente politica, tuttavia la modifica suscita alcune perplessità.
In primo luogo, le fattispecie delittuose inserite appaiono scarsamente omogenee non solo tra di loro, ma anche in relazione alla categoria dei delitti considerati dall’art. 4-bis ord. pen., prevista dal c. 9, lett. a).
Inoltre, pare irragionevole l’esclusione dal beneficio ex art. 656, c. 5, c.p.p. per un’ipotesi meramente colposa, quale quella di cui al c. 2 dell’art. 423-bis c.p., che punisce il delitto colposo di incendio boschivo; probabilmente si tratta di un lapsus calami, emendabile in sede di conversione.
Con riguardo ai profili di diritto intertemporale, nel caso in esame pare applicabile il principio già affermato dalle Sezioni unite in relazione all’operatività dell’ampliamento delle esclusioni previste nel c. 9, per effetto della modifica dell’art. 4-bis ord. penit. da parte della l. l. 6 febbraio 2006, n. 38, che ha inserito tra i reati ostativi ai benefici penitenziari (e quindi alla sospensione iniziale della pena detentiva breve) anche i delitti previsti dagli artt. 600-bis c. 1, 600-ter c. 1 e 2, 600-quinques, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies c.p.
La Corte ha affermato che ogni modifica della disciplina riguardante la sospensione dell'esecuzione - compresa l'indicazione dei delitti che ostano alla sospensione stessa – deve applicarsi, secondo il principio tempus regit actum, a qualsiasi esecuzione penale in corso, rimanendone esclusi solo i rapporti esecutivi già esauriti [C SU 30.5.2006, Pg. in c. A., DPP 2006, 1071].
La semplificazione del procedimento per la distruzione di merci contraffatte
L’art. 2 lett. a) introduce, nell’art. 260 c.p.p., i c. 3-bis e 3-ter, che delineano una procedura più snella nel caso di distruzione di merci contraffatte, senza attendere la definitività della confisca. In particolare, ai sensi del c. 3-bis, anche su istanza dell’organo accertatore l’a.g. – e quindi anche il p.m. – procede alla distruzione «delle merci di cui sono comunque vietati la fabbricazione, il possesso, la detenzione o la commercializzazione» in tre ipotesi tra loro alternative: a) quando le merci sono di difficile custodia; b) quando la custodia risulta particolarmente onerosa o pericolosa per la sicurezza, la salute o l'igiene pubblica; c) quando, anche all'esito di accertamenti compiuti ai sensi dell'art. 360 c.p.p., risulti evidente la violazione dei predetti divieti. In tal caso, l’a.g. dispone il prelievo di uno o più campioni con l'osservanza delle formalità previste dall'art. 364 c.p.p. e ordina la distruzione della merce residua.
Il c. 3-ter disciplina invece il caso in cui il sequestro delle merci contraffatte, indicate nel c. precedente, è effettuato a carico di ignoti; in tal caso, la distruzione può essere disposta dalla stessa p.g., decorso il termine di tre mesi dalla data del sequestro, previa comunicazione all’autorità giudiziaria. Trascorsi quindici giorni da tale comunicazione, la p.g. può disporre la distruzione, a meno che l’a.g. disponga diversamente. In caso di distruzione, «è fatta salva la facoltà di conservazione di campioni da utilizzare a fini giudiziari».
I poteri del procuratore nazionale antimafia in relazione ai procedimenti di prevenzione
Un cenno merita la modifica dell’art. 371-bis, c. 1, c.p.p.: per effetto dell’art. 2 lett. b), dopo le parole: «nell'articolo 51, c. 3-bis» sono inserite le seguenti: «e in relazione ai procedimenti di prevenzione»; in tal modo, viene rafforzata l’attività di coordinamento del procuratore nazionale antimafia, il quale, appunto, esercita le sue funzioni non solo nei procedimenti di “criminalità organizzata”, individuati dall’art. 51-c. 3 bis, c.p.p., ma anche in tutti i procedimenti di prevenzione. A tal fine, ai sensi del nuovo art. 110-ter ord. giud., nell'ambito dei poteri attribuiti in materia di misure di prevenzione e previa intesa con il competente procuratore distrettuale, il Procuratore nazionale antimafia può disporre l'applicazione temporanea di magistrati della direzione nazionale antimafia alle procure distrettuali per la trattazione di singoli procedimenti di prevenzione. Il Procuratore nazionale antimafia può inoltre richiedere al Procuratore generale presso la Corte d'appello di disporre, per giustificati motivi, che le funzioni di pubblico ministero per la trattazione delle misure di prevenzione siano esercitate da un magistrato designato dal Procuratore della Repubblica presso il giudice competente.
La sottrazione alla competenza del giudice di pace penale del reato di cui all’art. 590, c. 3, secondo periodo, c.p.
L’art. 3 modifica l’art. 4, c. 1, lett. a) d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, con l’aggiunta, dopo le parole «derivi una malattia di durata superiore a venti giorni», del seguente periodo: «nonché ad esclusione ad esclusione delle fattispecie di cui all'articolo 590, terzo comma, quando si tratta di fatto commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, ». A seguito della modifica, viene sottratta al giudice di pace penale la competenza in ordine al delitto di lesioni personali colpose aggravate per il caso in cui autore del fatto commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale sia un soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’art. 186, c. 2, lett. c) c.d.s. - cioè il conducente di un veicolo rispetto al quale sia stato accertato un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l - ovvero un soggetto sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o psicotrope. In applicazione del criterio fissato dall’art. 33-bis c.p.p., il delitto è attribuito alla competenza del tribunale in composizione monocratica.
Stefano Corbetta, Giudice penale presso il Tribunale di Milano
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2008

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...