martedì 19 gennaio 2010

Abuso del diritto

L’abuso di diritto come principio generale del nostro ordinamento







Cassazione civile , sez. III, sentenza 18.09.2009 n° 20106 (Angela Calaluna)











L’abuso di diritto costituisce un principio generale del nostro diritto civile?





 



L’abuso di diritto come principio generale del nostro ordinamento













(Cass. civile, sez. III, sentenza n. 20106/09)













di Angela Calaluna













(Fonte: Altalex Mese - Schede di Giurisprudenza 1/2010)





























Il quesito













L’abuso di diritto costituisce un principio generale del nostro diritto civile?













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Il caso













La casa automobilistica Renault recede dal contratto che aveva stipulato con diverse concessionarie di automobili.













La motivazione del recesso (consentita ai sensi dell’articolo 12 del contratto) è costituita dal rifiuto delle concessionarie di modificare le condizioni contrattuali così come imposte dalla casa madre, in senso sfavorevole alle concessionarie stesse.













I concessionari cui viene revocata la licenza si costituiscono in un’associazione denominata “Associazione concessionari revocati” e la questione finisce in giudizio.













In primo e in secondo grado i concessionari sono soccombenti e le loro richieste vengono rigettate.













Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della R. Italia rendesse superfluo ogni controllo causale sull'esercizio di tale potere. In altre parole, la casa automobilistica aveva semplicemente esercitato un suo diritto previsto dal contratto.













La questione finisce in Cassazione.





















Sintesi della questione













La sentenza è un vero e proprio trattato di teoria generale del diritto su uno dei principi più intriganti del diritto civile, idoneo ad essere applicato ad una pluralità di fattispecie in chiave compensativa dei diritti e degli obblighi delle parti quando una di loro è in posizione di svantaggio.













Il problema è che l’abuso di diritto, come principio generale, non è previsto dal nostro ordinamento.













Dal punto di vista dottrinario, quindi, alcuni alcuni autori sostengono che l’abuso di diritto non sia un principio generale del nostro ordinamento che sarebbe ispirato, invece, al principio qui iure suo utitur neminem laedit.













Altri autori invece hanno ravvisato nel nostro ordinamento molteplici norme, che sarebbero un’espressione del generale principio del divieto di abuso: l’articolo 833 sugli atti emulativi; gli articoli 1175 e 1375; l’articolo 96 c.p.c, relativo al divieto di lite temeraria nel processo; l’articolo 2043.













La Cassazione prende posizione sull’argomento, riconoscendo all’abuso di diritto il ruolo di principio generale del diritto civile, con una sentenza esemplare per chiarezza e completezza. Ne ripercorriamo quindi l’iter logico, lasciando inalterate le parole della stessa Corte.













La normativa













Codice civile













Art. 833. Atti d'emulazione.













Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri.













Art. 1175. Comportamento secondo correttezza.













Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza













Art. 1375. Esecuzione di buona fede.













Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede













Art. 2043. Risarcimento per fatto illecito.













Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.













Codice di procedura civile













Art. 96. Responsabilità aggravata.













Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.













Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente













In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.













Codice del consumo













Art. 33 (in grassetto le parti rilevanti)





Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore













1. Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.





2. Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di:





a) escludere o limitare la responsabilita' del professionista in caso di morte o danno (1) alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista;





b) escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;





c) escludere o limitare l'opportunita' da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest'ultimo;





d) prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l'esecuzione della prestazione del professionista e' subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volonta';





e) consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se e' quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere;





f) imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d'importo manifestamente eccessivo;





g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facolta' di recedere dal contratto, nonche' consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;





h) consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta causa;





i) stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita proroga o rinnovazione;





l) prevedere l'estensione dell'adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilita' di conoscere prima della conclusione del contratto;





m) consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso;





n) stabilire che il prezzo dei beni o dei servizi sia determinato al momento della consegna o della prestazione;





o) consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale e' eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto;





p) riservare al professionista il potere di accertare la conformita' del bene venduto o del servizio prestato a quello previsto nel contratto o conferirgli il diritto esclusivo d'interpretare una clausola qualsiasi del contratto;





q) limitare la responsabilita' del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare l'adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalita';





r) limitare o escludere l'opponibilita' dell'eccezione d'inadempimento da parte del consumatore;





s) consentire al professionista di sostituire a se' un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di preventivo consenso del consumatore, qualora risulti diminuita la tutela dei diritti di quest'ultimo;





t) sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facolta' di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell'autorita' giudiziaria, limitazioni all'adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell'onere della prova, restrizioni alla liberta' contrattuale nei rapporti con i terzi;





u) stabilire come sede del foro competente sulle controversie localita' diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore;





v) prevedere l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo come subordinati ad una condizione sospensiva dipendente dalla mera volonta' del professionista a fronte di un'obbligazione immediatamente efficace del consumatore. E' fatto salvo il disposto dell'articolo 1355 del codice civile.





3. Se il contratto ha ad oggetto la prestazione di servizi finanziari a tempo indeterminato il professionista puo', in deroga alle lettere h) e m) del comma 2:





a) recedere, qualora vi sia un giustificato motivo, senza preavviso, dandone immediata comunicazione al consumatore;





b) modificare, qualora sussista un giustificato motivo, le condizioni del contratto, preavvisando entro un congruo termine il consumatore, che ha diritto di recedere dal contratto.





4. Se il contratto ha ad oggetto la prestazione di servizi finanziari il professionista puo' modificare, senza preavviso, sempreche' vi sia un giustificato motivo in deroga alle lettere n) e o) del comma 2, il tasso di interesse o l'importo di qualunque altro onere relativo alla prestazione finanziaria originariamente convenuti, dandone immediata comunicazione al consumatore che ha diritto di recedere dal contratto.





5. Le lettere h), m), n) e o) del comma 2 non si applicano ai contratti aventi ad oggetto valori mobiliari, strumenti finanziari ed altri prodotti o servizi il cui prezzo e' collegato alle fluttuazioni di un corso e di un indice di borsa o di un tasso di mercato finanziario non controllato dal professionista, nonche' la compravendita di valuta estera, di assegni di viaggio o di vaglia postali internazionali emessi in valuta estera.





6. Le lettere n) e o) del comma 2 non si applicano alle clausole di indicizzazione dei prezzi, ove consentite dalla legge, a condizione che le modalita' di variazione siano espressamente descritte.













Costituzione













Art. 2













La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita', e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarieta' politica, economica e sociale.





































La decisione della Corte













Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375).













In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009, n. 5348; Cass. 11.6.2008, n. 15476).













Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).













I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico.













L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007, n. 3462).













Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.













In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.













La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, cosi si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando, quindi, come un criterio di reciprocità.













In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.













In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante.













La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.













Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto













Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.













L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.













È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.













Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.













E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.













Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.













La cultura giuridica degli anni ‘30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.













Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto” (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti.













Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009, n. 8481; Cass. 20.3.2009, n. 6800; Cass. 17.10.2008, n. 29776; Cass. 4.6.2008, n. 14759; Cass. 11.5.2007, n. 10838).













Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).













In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.













E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003, n. 9353).













Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005, n. 27387).













Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008, n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007, n. 11258).













In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo “disvelamento” (piercing the corporate veil).













Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997, n. 4538; Cass. 14.7.2000, n. 9321; Cass. 21.2.2003, n. 2642).













E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005, n. 18947).













In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009, n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. (Cass. 16.10.1995, n. 10805; Cass. 26.6.2001, n. 8742; Cass. 22.3.2007, n. 6969; Cass. 8.4.2009, n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999, n. 10864; Cass. 28.7.2004, n. 14239; Cass. 7.3.2007, n. 5273).













Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008, nn. 30055, 30056, 30057).













Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.





















Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.













Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.













In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.













Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.













In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio.













Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nei suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.













La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11,2007, n. 23726; Cass. 22.1.2009, n. 1618; Cass. 6.6.2008, n. 21250; Cass. 27.10.2006, n. 23273; Cass. 7.6.2006, n. 13345; Cass. 11.1.2006, n. 264).













Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007, n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).













Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi.

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