martedì 18 agosto 2009

Opposizione ad ordinanza ingiunzione ed errore di percezione dell'agente accertatore

Sanzioni amministrative: percezione sensoriale dell'agente e querela di falso
Cassazione civile , SS.UU., sentenza 24.07.2009 n° 17355 (Giuseppe Buffone)

In data 24 luglio 2009, le Sezioni Unite civili della Suprema Corte hanno depositato la decisione n. 17355 (Pres. Carbone, rel. Oddo), che appare di particolare importanza per il cospicuo contenzioso su cui va ad incidere nonché per i principi di diritto enunciati. La causa è stata decisa dalle Sezioni Unite attesa la particolare importanza della questione relativa “all'efficacia probatoria delle attestazioni contenute nel verbale di accertamento delle violazioni amministrative”.

In realtà, sulla questione il Plenum era già intervenuto, con la decisione n. 12545 del 1992 che viene ora ribadita obliterando la giurisprudenza più recente che dalla stessa si era discostata. Il punctum pruriens involgeva la ammissibilità o non, nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, di contestazioni involgenti i fatti della violazione attestati nel verbale come percepiti direttamente o indirettamente dal pubblico ufficiale e, così, la possibilità o probabilità di un errore nella loro percezione.

Le Sezioni Unite, disattendendo alcune più recenti aperture, opta per l’orientamento più rigoroso, reintroducendo, dunque, di fatto, un ricorso più “indotto” all’istituto della querela di falso.

Secondo i giudici della nomofilachia, la correlazione tra il dovere di menzionare nel verbale in modo preciso e dettagliato, anche se sommario, l'elemento fattuale delle violazione e l'efficacia che l'art. 2700 c.c., attribuisce ai fatti che il Pubblico ufficiale attesta nell'atto pubblico essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti comportano che tale efficacia concerna inevitabilmente tutti gli accadimenti e le circostanze pertinenti alle violazioni menzionate nell'atto indipendentemente dalle modalità statica o dinamica della loro percezione, fermo l'obbligo del pubblico ufficiale di descrivere le particolari condizioni soggettive ed oggettive dell'accertamento, giacché egli deve dare conto nell'atto pubblico non soltanto della sua presenza ai fatti attestati, ma anche delle ragioni per le quali detta presenza ne ha consentito l'attestazione.

L'approccio alla questione relativa all'ammissibilità della contestazione e della prova nel giudizio di opposizione alla ordinanza-ingiunzione non va conseguentemente condotto con riferimento alle circostanze di fatto della violazione attestate nel verbale come percepite direttamente o indirettamente dal pubblico ufficiale ed alla possibilità o probabilità di un errore nella loro percezione, ma esclusivamente in relazione a circostanze che esulano dall'accertamento, quali l'identificazione dell'autore della violazione e la sua capacità o la sussistenza dell'elemento soggettivo o di cause di esclusione della responsabilità ovvero rispetto alle quali l'atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva contraddittorietà (ad esempio, tra numero di targa e tipo di veicolo al quale questa è attribuita). Ogni diversa contestazione va, invece, svolta nel procedimento di querela di falso che consente di accertare senza preclusione di alcun mezzo di prova qualsiasi alterazione nell'atto pubblico, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti o del loro effettivo svolgersi .

La materia, in conclusione, viene plasmata come da tavole sinottiche che seguono.

Giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione del pagamento di una sanzione amministrativa

Ammessa contestazione e prova

Necessaria Querela di falso

Circostanze di fatto della violazione che non sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale

Circostanze di fatto della violazione che sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale

Circostanze di fatto della violazione rispetto alle quali l’atto non è suscettibile di fede privilegiata per irrisolvibile oggettiva contraddittorietà (es. targa rilevata dall’accertatore non attribuibile al tipo di veicolo indicato nel verbale dal Pubblico ufficiale)

Ogni questione concernente l’alterazione del verbale, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realità degli accadimenti e dell’effettivo svolgersi dei fatti, come accertati dal pubblico ufficiale

Circostanze che esulano dall'accertamento:

· l'identificazione dell'autore della violazione e la sua capacità

· la sussistenza dell'elemento soggettivo

· la sussistenza di cause di esclusione della responsabilità

(Altalex, 6 agosto 2009. Nota di Giuseppe Buffone)


Nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione del pagamento di una sanzione amministrativa è ammessa la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto della violazione che non sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto alle quali l’atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva contraddittorietà mentre è riservato al giudizio di querela di falso, nel quale non sussistono limiti di prova e che è diretto anche a verificare la correttezza dell’operato del pubblico ufficiale la proposizione e l’esame di ogni questione concernente l’alterazione nel verbale, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti e dell’effettivo svolgersi dei fatti.

(Fonte: Altalex Massimario 30/2009. Vedi la nota di Giuseppe Buffone)



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

SENTENZA 24.07.2009, n. 17355

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Giudice di Pace de L’Aquila con sentenza del 17 novembre 2003, in accoglimento dell’opposizione proposta da (…) annullò il verbale del 6 ottobre 2002, con il quale la Polstrada aveva accertato la violazione dell’art. 172, 1° ed 8° co., C.d.S., per avere il (…) circolato alla guida di un veicolo senza utilizzare la cintura di sicurezza.

Osservò il giudice che, non potendo il verbale fare piena prova ex art. 2700, c.c., di un fatto non avvenuto alla presenza degli agenti di polizia, ma presunto dall’ osservazione a distanza del momentaneo arresto del veicolo, e che avendo il (…) giustificato l’arresto con l’esigenza di sistemare meglio la cintura di sicurezza da lui indossata, trovava applicazione il disposto dell’art, 22, 120 cc,., L. n. 689/81, secondo il quale l’opposizione deve essere accolta quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente.

L’Ufficio territoriale del Governo è ricorso con un motivo per la cassazione della sentenza e l’intimato non ha resistito in giudizio.

Il ricorso, assegnato alla seconda sezione civile della Corte, è stato rimesso alle Sezioni Unite per la particolare importanza della questione relativa all’efficacia probatoria delle attestazioni contenute nel verbale di accertamento delle violazioni amministrative e, segnatamente, di quelle alle norme del C.d.S, riguardanti i fatti oggetto di percezione sensoriale del pubblico ufficiale che le abbia accertate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2700, c.c., e degli artt. 21, 22, 22 bis e 23, L. n. 689/81, avendo ritenuto presunto un fatto percepito visivamente dagli agenti accertatori e rispetto al quale il verbale di accertamento, costituendo un atto pubblico, faceva fede fino a querela di falso.

Il motivo è fondato.

La questione dell’efficacia probatoria dei fatti attestati nel processo verbale di accertamento delle violazioni amministrative, e dei suoi limiti, nel giudizio di opposizione promosso ex art. 23, L. 24 novembre 1981 n. 689 (modifiche al sistema penale), avverso l’ordinanza ingiunzione irrogativa di una sanzione pecuniaria (id est ex art. 204 - bis, C.d.S,), è stata già esaminata dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali nella sentenza n. 125451/92 hanno posto in rilievo che:

il processo verbale costituisce un atto pubblico, in quanto forma necessaria dell’ esternazione dell’ atto di accertamento che il pubblico ufficiale compie sulla base dell’attribuzione normativa di uno specifico potere di documentazione, con effetti costitutivi sostanziali, prima che processuali, perché soltanto attraverso il veicolo necessario di detto atto di accertamento può essere determinato il credito della sanzione pecuniaria che l’autorità competente dovrà riscuotere con I ‘ordinanza -ingiunzione;

l’art. 2700 c.c. attribuisce all’atto pubblico l’efficacia di piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti;

il giudizio di opposizione all’ordinanza - ingiunzione, benché formalmente costruito dagli artt. 22 e segg., L. n. 689/1981, come giudizio d’impugnazione del provvedimento ed investa innanzitutto la legittimità formale dell’atto, tende all’accertamento negativo della pretesa sanzionatoria della p.a e si configura da un punto di vista procedimentale come un giudizio civile, del quale vanno applicate le regole generali, salvo espressa contraria disposizione;

l’esercizio del diritto di difesa nel procedimento di opposizione all’ordinanza - ingiunzione non è pregiudicato dalla fede privilegiata del verbale di accertamento, potendo I ‘interessato impugnare l‘atto con la querela di falso e fare ricorso nel relativo giudizio ai formali mezzi di prova;

- l’efficacia di prova legale del verbale non può estendersi alle valutazioni espresse dal pubblico ufficiale ed alla menzione di fatti avvenuti in sua presenza, che possono risolversi in apprezzamenti personali, perché mediati attraverso la occasionale percezione sensoriale di accadimenti, che si svolgono così repentinamente da non potersi verificare e controllare secondo un metro obiettivo, senza alcun margine di apprezzamento”.

Ai rilievi non sono seguiti nella giurisprudenza significativi dissensi quanto alla natura di atto pubblico del verbale dl accertamento ed alla gerarchia della prova che, in virtù del disposto dell’art. 116, 1° co, c.p.c., questa introduceva nel giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione del pagamento delle sanzioni e, tanto meno, quanto all’esclusione dalla fede privilegiata delle valutazioni espresse dal pubblico ufficiale, mentre relativamente alla categoria degli apprezzamenti personali è evidente in successive decisioni una deriva non soltanto verso l’inclusione in essi di una generalità di fatti attestati nel verbale, sul mero fondamento della possibilità di distinguere la loro percezione in statica o dinamica e dell’idoneità delle sole percezioni statiche a dare certezza al fatto accertato, ma anche verso una generale ed indiscriminata possibilità di prova nel procedimento ex art. 23, L. n. 689/1981, dell ‘errore del pubblico ufficiale nelle percezioni dinamiche, in base all’assunto, sostanzialmente contraddittorio, che l’efficacia probatoria piena dell’ atto pubblico sia condizionata dalle ragioni poste a base della contestazione dei fatti in esso attestati, inoltre, con specifico riferimento alla materia della circolazione stradale, nella quale è più frequente la percezione dinamica dei fatti integranti le violazioni, sono stati in qualche caso anche ignorati, ed in altri travisati, i requisiti dell’occasionalità della percezione e della repentinità dell’accadimento, enucleati dalle Sezioni Unite, e nel giudizio di opposizione all’ordinanza -ingiunzione è stato ritenuto talora di per sé risolutivo il solo disconoscimento da parte dell’interessato dei fatti oggetto di percezione dinamica, e talaltra ammesso l’espletamento della prova contraria, in base all’unica considerazione della limitata durata dello stimolo sensoriale percepito dal pubblico ufficiale e della sua ridotta possibilità di verifica (cfr. ad esempio, il rilevamento del numero di targa di una autovettura in movimento, (cass. Civ. sent. n. 3522/1999; o il superamento di un semaforo recante luce rossa, cass. civ., sent. n. 140482/005),

A tale orientamento, benché in parte ispirato a condivisibili esigenze di concentrazione ed accelerazione processuale e di salvaguardia del diritto di difesa, non può essere dato ulteriore seguito, non soltanto per il suo approssimativo intendimento della nozione di apprezzamento personale fornita dalla sentenza n. 12545/1992 e dei limiti di attendibilità del fenomeno della percezione dinamica, che è frutto, al pari di quella statica, del necessario concorso di una pluralità di stimoli sensoriali in ogni caso elaborati dal pubblico ufficiale nella loro complessità, concludenza e decisività secondo la sua esperienza e qualificata professionalità, ma soprattutto per la lesione che esso ha comportato, e può ulteriormente comportare, al superiore interesse alla certezza giuridica dell’attività svolta dai pubblici ufficiali” ed alle “esigenze di garanzia del buon andamento della P. A.”, alla cui tutela - come sottolineato in materia dalla Corte Costituzionale (cfr. n. 50411/ 987) - è funzionale l’efficacia di piena prova attribuita all’atto pubblico dall’art. 2700, c.c., e per il cui perseguimento il legislatore ha ritenuto necessario e sufficiente in tema di sanzioni amministrative, da un lato, non porre limiti alla contestazione dell’accertamento nel ricorso amministrativo dell’ interessato (cfr. n. 18, L. n. 689/1981; art, 203, d.p.r. a 2851/1992) e, dall’altro, tipizzare il contenuto del verbale, prevedendo l’obbligo del pubblico ufficiale non soltanto di esporre il fatto in forma sommaria (cfr. per tutti art. 383, d.p.r. 16 dicembre 1992, o 495 ed all. VLI), ma anche di indicare in esso gli estremi precisi e dettagliati della violazione (cfr. art. 201, dpr. 30 aprile 1992, n. 285).

La correlazione tra il dovere di menzionare nel verbale in modo preciso e dettagliato, anche se sommario, l’elemento fattuale della violazione e l’efficacia che l’art. 2700 c.c. attribuisce ai fatti che il pubblico ufficiale attesta nell’atto pubblico essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, comportano infatti che tale efficacia concerne inevitabilmente tutti gli accadimenti e le circostanze pertinenti alla violazione menzionati nell’atto indipendentemente dalle modalità statica o dinamica della loro percezione, fermo l’obbligo del pubblico ufficiale di descrivere le particolari condizioni soggettive ed oggettive dell’accertamento, giacché egli deve dare conto nell’atto pubblico non soltanto della sua presenza ai fatti attestati, ma anche delle regioni per le quale detta presenza ne ha consentito l’attestazione.

L’approccio alla questione relativa all’ammissibilità della contestazione e della prova nel giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione non va conseguentemente condotto con riferimento alle circostanze di fatto della violazione attestate nel verbale come percepite direttamente ed immediatamente dal pubblico ufficiale ed alla possibilità o probabilità di un errore nella loro percezione, ma esclusivamente in relazione a circostanze che esulano dall’ accertamento, quali l’identificazione dell’attore della violazione e la sua capacità o la sussistenza dell’elemento soggettivo o di cause di esclusione della responsabilità, ovvero rispetto alle quali l’atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva contraddittorietà (ad esempio, tra numero di targa e tipo di veicolo al quale questa attribuita).

Ogni diversa contestazione, in esse comprese quelle relative alla mancata particolareggiata esposizione delle circostanze dell’accertamento od alla non idoneità di essa a conferire certezza ai fatti attestati nel verbale, va invece svolta nel procedimento di querela di falso, che consente di accertare senza preclusione di alcun mezzo di prova qualsiasi alterazione nell’atto pubblico, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti o del loro effettivo svolgersi ed il cui esercizio è imposto, oltre che dalla già menzionata tutela della certezza dell’ attività amministrativa, anche dall’interesse pubblico alla verifica in sede giurisdizionale della correttezza dell’operato del pubblico ufficiale che ha redatto.

Deve, conseguentemente, essere affermato il principio che: "nel giudizio di opposizione ad ordinanza - ingiunzione del pagamento di una sanzione amministrativa è ammessa la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto della violazione che non sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto alle quali l’atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva contraddittorietà mentre è riservato al giudizio di querela di falso, nel quale non sussistono limiti di prova e che è diretto anche a verificare la correttezza dell’operato del pubblico ufficiale la proposizione e l’esame di ogni questione concernente l’alterazione nel verbale, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti e dell’effettivo svolgersi dei fatti”.

Detto principio è stato disatteso dalla sentenza impugnata, giacché ha escluso l’efficacia probatoria del verbale nel quale gli agenti della polstrada avevano attestato di avere direttamente percepito la commissione della violazione in base ad un apprezzamento del carattere presunto della percezione a lui precluso nel giudizio di opposizione dalla fede privilegiata del verbale di accertamento.

Alla fondatezza del motivo seguono la cassazione della sentenza e, a norma dell’art. 384 2° co c.p.c., il rigetto dell’opposizione proposta dall’intimato davanti al giudice di pace, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.

Le spese del giudizio vanno dichiarate non ripetibili tenuto conto della novità del principio enunciato.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata.
Decidendo nel merito rigetta l’opposizione proposta dal (…) avverso il verbale di accertamento della violazione e dichiara non ripetibili le spese del giudizio.

venerdì 7 agosto 2009

La Cassazione afferma che essere proprietari di un'auto di lusso non comporta automaticamente un maggior reddito in capo al soggetto dichiarante

Bloccato automatismo tra auto di lusso e maggior reddito: Sentenza della Cassazione

Con Sentenza 23 luglio 2009, n. 17200, la Corte di Cassazione ha statuito che essere proprietari di un'auto di lusso non comporta automaticamente un maggior reddito in capo al soggetto dichiarante.

Posto che, a norma dell'art. 38 D.P.R. n. 600/1973, il reddito dichiarato può risultare non congruo rispetto a determinati elementi indicativi di capacità contributiva per almeno due anni, l'Amministrazione finanziaria non potrà procedere all'accertamento sintetico nei confronti di chi possiede un'auto di grossa cilindrata, salvo non dimostri il maggior reddito attraverso ulteriori elementi.



Fonte: www.seac.it

La Cassazione afferma che essere proprietari di un'auto di lusso non comporta automaticamente un maggior reddito in capo al soggetto dichiarante

Bloccato automatismo tra auto di lusso e maggior reddito: Sentenza della Cassazione

Con Sentenza 23 luglio 2009, n. 17200, la Corte di Cassazione ha statuito che essere proprietari di un'auto di lusso non comporta automaticamente un maggior reddito in capo al soggetto dichiarante.

Posto che, a norma dell'art. 38 D.P.R. n. 600/1973, il reddito dichiarato può risultare non congruo rispetto a determinati elementi indicativi di capacità contributiva per almeno due anni, l'Amministrazione finanziaria non potrà procedere all'accertamento sintetico nei confronti di chi possiede un'auto di grossa cilindrata, salvo non dimostri il maggior reddito attraverso ulteriori elementi.



Fonte: www.seac.it

Disservizi nel corsso di abbonamento telefonico: RIceviamo e gentilmente pubblichiamo ........

Disservizi subiti dagli utenti in costanza di rapporto di abbonamento con il fornitore telefonico:
excursus normativo e giurisprudenziale


Giorgio Vanacore
avvocato in Napoli
giorgiovanacoreavv@libero.it

1. - E’ noto che il cd. contratto di abbonamento telefonico sia dalla giurisprudenza inquadrato nella somministrazione (cfr. Corte Cost. 20 dicembre 1998 n. 1104, id., 30 dicembre 1994 n. 546; Cass. 28 maggio 2004 n. 10313, idd., 2 dicembre 2002 n. 17041, 29 aprile 1997 n. 3686 Cass. 29 novembre 1978 n. 5613, Trib. Roma 23 marzo 1987 [ord.], Giud. pace Pomigliano d’Arco 22 marzo 2007, Giud. pace Torre Annunziata 14 novembre 2005), la dove la dottrina lo inserisce nell’appalto di servizi (Di Fazio, Sulla natura del contratto di abbonamento telefonico, Temi Rom., 1972, 622 e ss., Cottino, Del contratto estimatorio. Della somministrazione, Comm. Scialoja - Branca, artt. 1556 - 1570, Bologna - Roma, 1970).
Trattasi, in entrambi i casi, di contratto a prestazioni corrispettive e per adesione, in cui, a fronte dell’obbligo dell’utente finale di corrispondere il corrispettivo del servizio, vi è quello del gestore di fornirgli quest’ultimo, pena la violazione del fondamentale art. 1218 c.c.
A proposito della violazione di tale ultima norma, si ricordi che il recente diritto vivente, che qui s’invoca, ha notevolmente alleggerito l’onere probatorio dell’avente diritto alla prestazione, il quale ai fini dell’affermazione del suo diritto risarcitorio deve soltanto allegare la violazione contrattuale del debitore.
Cfr., Cass. 10 maggio 2002, n. 6735: «In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento della obbligazione, ma il suo inesatto inadempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (anche per difformità rispetto al dovuto), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento».
In chiusura, si ricordi l’importante disposto dell’art. 1175 c.c., che esige il generale dovere di correttezza, e l’art. 1176, comma 2, c.c.., che commisura la diligenza di un operatore professionale (differente per quantità e qualità da quella generica ex art. 1176, comma 1, c.c.) sulla natura dell’attività esercitata.
Sul punto, Trib. Brindisi 29 maggio - 6 giugno 2006, ha recentemente sanzionato un gestore telefonico per violazione della buona fede in danno dell’utente:
«. . . Tale dovere solidaristico (quello della b. f., ndr), peraltro s’impone con maggior forza nei casi di contratti per adesione (qual è indubbiamente il contratto di abbonamento telefonico), in cui le clausole contrattuali vengono predisposte unilateralmente dal contraente che si trova nella posizione di maggior potere contrattuale che gli consente di imporre alla controparte il contenuto del contratto, senza la possibilità di discutere o modificare le clausole predisposte».


2. - I pregnanti doveri solidaristici affermati in linea di principio nell’esposizione precedente, hanno ricevuto, con riferimento ai cc.dd. call centers, regolamentazione a mezzo della recente delibera del 14 giugno 2007 dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, di cui si trascrivono gli artt. 3 e 4 dell’Allegato A:
«I call center . . . assicurano oltre al rispetto delle disposizioni vigenti . . . un efficace canale di comunicazione per facilitare le relazioni e la gestione delle interazioni fra gli operatori e gli utenti.
La politica di comunicazione dei call center deve essere orientata alla massima trasparenza nei confronti dell’utente e alla coerenza con le finalità e gli obiettivi del servizio stesso e della presente direttiva, agevolando l’utente nell’accesso ai servizi erogati e nella conoscenza dell’albero per i sistemi di risposta automatica. . . . (art. 3, comma 1 e 2).
. . .
Il call center assicura che la modalità e i contenuti di relazione con gli utenti, che usufruiscono del servizio . . . siano conformi alle seguenti regole:
. . .
e) dotarsi di procedure di gestione delle segnalazioni o dei reclami che garantiscano all’utente di ricevere sempre una risposta adeguata entro i tempi contrattualmente definiti e indicati nelle carte dei servizi;
. . .
g) perseguire l’obiettivo dell’uniformità delle risposte e delle proposte commerciali al variare dell’addetto;
h) dare risposta in differita nel caso in cui l’addetto o il responsabile non abbiano a disposizione o non possano fornire in linea l’informazione richiesta, con prima richiamata o contatto, ad esempio via e - mail, di norma non oltre il secondo giorno lavorativo successivo (art. 4, comma 1).
Analogamente, l’art. 6 dell’Allegato A, prefissa ai centri di assistenza dei tempi stringenti di attesa per le chiamate effettuate dagli utenti, variabili, per i servizi fissi di telecomunicazione, tra i 60 ed i 90 secondi, il non rispetto dei quali integra violazione degli standard qualitativi del servizio e, quindi, della diligenza professionale di un operatore di telecomunicazioni.

3. - Ad integrazione di eventuali illeciti perpetrati dagli operatori telefonici, soccorrono altresì le disposizioni testuali delle cc.dd. condizioni generali di contratto e delle Carte dei servizi di cui essi sono tenute a dotarsi.
A solo scopo esemplificativo, si trascrivono l’art. 3.1. delle condizioni generali di contratto dell’operatore Wind s.p.a. (ma il discorso è estensibile anche agli altri operatori):
«3. Servizio clienti - segnalazione guasti
3.1. Le eventuali segnalazioni potranno essere inoltrate, telefonicamente al servizio clienti. . . o mediante comunicazione scritta al servizio clienti. Al cliente sarà dato riscontro con la massima celerità. È fatto salvo ogni diritto del cliente previsto dalla normativa vigente».
Ancora, sempre con riguardo all’operatore Wind s.p.a. - si ripete, preso solo ad esempio a fini scientifici nel presente scritto - la Carta dei servizi di cui si è dotata ha dettato pregnanti prescrizioni ai seguenti articoli: 1.2. (in tema di continuità del servizio), 1.4. (cortesia), 1.5. (efficacia ed efficienza), 2 (indicatori di qualità), 2.1. (attivazione del servizio) e 2.2 (irregolare funzionamento del servizio).
In conclusione, per comodità si trascrive tale ultima norma:
«Wind si impegna ad eliminare eventuali irregolarità funzionali del servizio entro il quarto giorno non festivo successivo a quello in cui è pervenuta la segnalazione, ad eccezione dei guasti di particolare complessità che verranno comunque riparati con la massima tempestività».
Giorgio Vanacore
avvocato in Napoli
giorgiovanacoreavv@libero.it

Disservizi nel corsso di abbonamento telefonico: RIceviamo e gentilmente pubblichiamo ........

Disservizi subiti dagli utenti in costanza di rapporto di abbonamento con il fornitore telefonico:
excursus normativo e giurisprudenziale


Giorgio Vanacore
avvocato in Napoli
giorgiovanacoreavv@libero.it

1. - E’ noto che il cd. contratto di abbonamento telefonico sia dalla giurisprudenza inquadrato nella somministrazione (cfr. Corte Cost. 20 dicembre 1998 n. 1104, id., 30 dicembre 1994 n. 546; Cass. 28 maggio 2004 n. 10313, idd., 2 dicembre 2002 n. 17041, 29 aprile 1997 n. 3686 Cass. 29 novembre 1978 n. 5613, Trib. Roma 23 marzo 1987 [ord.], Giud. pace Pomigliano d’Arco 22 marzo 2007, Giud. pace Torre Annunziata 14 novembre 2005), la dove la dottrina lo inserisce nell’appalto di servizi (Di Fazio, Sulla natura del contratto di abbonamento telefonico, Temi Rom., 1972, 622 e ss., Cottino, Del contratto estimatorio. Della somministrazione, Comm. Scialoja - Branca, artt. 1556 - 1570, Bologna - Roma, 1970).
Trattasi, in entrambi i casi, di contratto a prestazioni corrispettive e per adesione, in cui, a fronte dell’obbligo dell’utente finale di corrispondere il corrispettivo del servizio, vi è quello del gestore di fornirgli quest’ultimo, pena la violazione del fondamentale art. 1218 c.c.
A proposito della violazione di tale ultima norma, si ricordi che il recente diritto vivente, che qui s’invoca, ha notevolmente alleggerito l’onere probatorio dell’avente diritto alla prestazione, il quale ai fini dell’affermazione del suo diritto risarcitorio deve soltanto allegare la violazione contrattuale del debitore.
Cfr., Cass. 10 maggio 2002, n. 6735: «In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento della obbligazione, ma il suo inesatto inadempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (anche per difformità rispetto al dovuto), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento».
In chiusura, si ricordi l’importante disposto dell’art. 1175 c.c., che esige il generale dovere di correttezza, e l’art. 1176, comma 2, c.c.., che commisura la diligenza di un operatore professionale (differente per quantità e qualità da quella generica ex art. 1176, comma 1, c.c.) sulla natura dell’attività esercitata.
Sul punto, Trib. Brindisi 29 maggio - 6 giugno 2006, ha recentemente sanzionato un gestore telefonico per violazione della buona fede in danno dell’utente:
«. . . Tale dovere solidaristico (quello della b. f., ndr), peraltro s’impone con maggior forza nei casi di contratti per adesione (qual è indubbiamente il contratto di abbonamento telefonico), in cui le clausole contrattuali vengono predisposte unilateralmente dal contraente che si trova nella posizione di maggior potere contrattuale che gli consente di imporre alla controparte il contenuto del contratto, senza la possibilità di discutere o modificare le clausole predisposte».


2. - I pregnanti doveri solidaristici affermati in linea di principio nell’esposizione precedente, hanno ricevuto, con riferimento ai cc.dd. call centers, regolamentazione a mezzo della recente delibera del 14 giugno 2007 dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, di cui si trascrivono gli artt. 3 e 4 dell’Allegato A:
«I call center . . . assicurano oltre al rispetto delle disposizioni vigenti . . . un efficace canale di comunicazione per facilitare le relazioni e la gestione delle interazioni fra gli operatori e gli utenti.
La politica di comunicazione dei call center deve essere orientata alla massima trasparenza nei confronti dell’utente e alla coerenza con le finalità e gli obiettivi del servizio stesso e della presente direttiva, agevolando l’utente nell’accesso ai servizi erogati e nella conoscenza dell’albero per i sistemi di risposta automatica. . . . (art. 3, comma 1 e 2).
. . .
Il call center assicura che la modalità e i contenuti di relazione con gli utenti, che usufruiscono del servizio . . . siano conformi alle seguenti regole:
. . .
e) dotarsi di procedure di gestione delle segnalazioni o dei reclami che garantiscano all’utente di ricevere sempre una risposta adeguata entro i tempi contrattualmente definiti e indicati nelle carte dei servizi;
. . .
g) perseguire l’obiettivo dell’uniformità delle risposte e delle proposte commerciali al variare dell’addetto;
h) dare risposta in differita nel caso in cui l’addetto o il responsabile non abbiano a disposizione o non possano fornire in linea l’informazione richiesta, con prima richiamata o contatto, ad esempio via e - mail, di norma non oltre il secondo giorno lavorativo successivo (art. 4, comma 1).
Analogamente, l’art. 6 dell’Allegato A, prefissa ai centri di assistenza dei tempi stringenti di attesa per le chiamate effettuate dagli utenti, variabili, per i servizi fissi di telecomunicazione, tra i 60 ed i 90 secondi, il non rispetto dei quali integra violazione degli standard qualitativi del servizio e, quindi, della diligenza professionale di un operatore di telecomunicazioni.

3. - Ad integrazione di eventuali illeciti perpetrati dagli operatori telefonici, soccorrono altresì le disposizioni testuali delle cc.dd. condizioni generali di contratto e delle Carte dei servizi di cui essi sono tenute a dotarsi.
A solo scopo esemplificativo, si trascrivono l’art. 3.1. delle condizioni generali di contratto dell’operatore Wind s.p.a. (ma il discorso è estensibile anche agli altri operatori):
«3. Servizio clienti - segnalazione guasti
3.1. Le eventuali segnalazioni potranno essere inoltrate, telefonicamente al servizio clienti. . . o mediante comunicazione scritta al servizio clienti. Al cliente sarà dato riscontro con la massima celerità. È fatto salvo ogni diritto del cliente previsto dalla normativa vigente».
Ancora, sempre con riguardo all’operatore Wind s.p.a. - si ripete, preso solo ad esempio a fini scientifici nel presente scritto - la Carta dei servizi di cui si è dotata ha dettato pregnanti prescrizioni ai seguenti articoli: 1.2. (in tema di continuità del servizio), 1.4. (cortesia), 1.5. (efficacia ed efficienza), 2 (indicatori di qualità), 2.1. (attivazione del servizio) e 2.2 (irregolare funzionamento del servizio).
In conclusione, per comodità si trascrive tale ultima norma:
«Wind si impegna ad eliminare eventuali irregolarità funzionali del servizio entro il quarto giorno non festivo successivo a quello in cui è pervenuta la segnalazione, ad eccezione dei guasti di particolare complessità che verranno comunque riparati con la massima tempestività».
Giorgio Vanacore
avvocato in Napoli
giorgiovanacoreavv@libero.it

martedì 4 agosto 2009

Vacanze e danni a ... Motoscafo: Riflessioni sulla responsabilità della P.A. .... applicabili anche sulle strade!!!!

LA NOTA Beni demaniali e responsabilità della Pubblica Amministrazione
Cassazione civile , sez. III, sentenza 09.04.2009 n° 8692





La sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 9 aprile 2009, n. 8692 si inserisce nell’ambito di una discussione dottrinale molto sentita dati i suoi immediati risvolti pratici. Infatti il principio di diritto enunciato definisce gli oneri probatori gravanti su ciascuna parte in materia di insidia e trabocchetto, nel caso di danno provocato da un’anomalia di un bene demaniale.

Il caso in questione riguarda la richiesta di risarcimento avanzata dal ricorrente nei confronti della regione Piemonte, a seguito dei danni subiti dal suo motoscafo durante la navigazione sul lago Maggiore, per l’impatto con rocce semiaffioranti presenti sul fondale e non segnalate dalle carte nautiche. La particolarità delle condizioni in cui si è verificato l’incidente, vale a dire nei pressi di un bene demaniale di grande estensione con conseguente impossibilità di esercitare un effettivo potere di controllo e vigilanza, ha fatto sì che la norma posta a fondamento della richiesta di risarcimento fosse l’art. 2043 c.c. e non il più specifico art. 2051 c.c.

In particolare il ricorrente, pur avendo dimostrato l’esistenza di un’insidia e il nesso causale tra tale anomalia e il danno subito, ha visto rifiutare la propria richiesta risarcitoria prima dal Tribunale di Verbania e successivamente dalla Corte d’ Appello di Torino, per non aver assolto l’onere della prova in ordine al comportamento colposamente omissivo della Regione nell’indicare puntualmente i dati necessari ad una sicura navigazione lacuale. Ricorrendo in Corte di Cassazione il danneggiato ha invece affermato che condizione necessaria e sufficiente per la declaratoria di responsabilità ex art. 2043 c.c. è la sola prova dell’esistenza dell’insidia, da lui ampiamente dimostrata. I giudici di legittimità hanno giudicato motivato il ricorso, cassando con rinvio la decisione di secondo grado, asserendo innanzitutto che l’art. 2043 c.c. non limita ai soli casi di insidia e trabocchetto la responsabilità della pubblica amministrazione; inoltre il principio di diritto al quale il giudice di rinvio dovrà attenersi sancisce che graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità che l’utente si sia trovato nella possibilità di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità oggettiva di rimuovere la situazione di pericolo.

Questa sentenza si pone sulla scia di precedenti interventi della Corte di Cassazione, tendenti a eliminare i privilegi tuttora concessi alla Pubblica Amministrazione nei rapporti con i privati, in vista di un progressivo innalzamento del grado di responsabilizzazione degli Enti Pubblici. Questo indirizzo, ormai consolidato in giurisprudenza, trova le proprie origini nella pronuncia n. 156/1999 della Corte Costituzionale, con la quale si ampliavano le ipotesi di applicabilità dell’art. 2051 c.c.

Da quel momento la regola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. ha svolto una funzione residuale nei casi di responsabilità della P.A. per danni causati da beni demaniali, in quanto richiamato solo in via subordinata rispetto all’art. 2051 c.c. In concreto e allo stato attuale del diritto e della giurisprudenza, la presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia va valutata alla luce di una complessa indagine condotta dal giudice di merito con riferimento al caso singolo, per stabilire se la P.A. aveva o meno la possibilità di esercitare un potere di controllo e di vigilanza sui beni demaniali, con la conseguenza che l'impossibilità di siffatto potere non potrebbe ricollegarsi puramente e semplicemente alla notevole estensione del bene e all'uso generale e diretto da parte dei terzi, considerati solo meri indici di tale impossibilità.

Nonostante l’art. 2043 c.c. dovesse rappresentare una sorta di “rete di sicurezza” per tutti quei casi che non rientravano nella fattispecie dell’art. 2051 c.c., fino a pochi anni fa si è limitata molto la portata di questa regola generale, subordinandola ai concetti di insidia e trabocchetto di creazione giurisprudenziale. Imponendo al danneggiato la prova dell’insidia o trabocchetto si è cercato di proteggere la pubblica amministrazione da una eccessiva richiesta di risarcimenti, ma si è anche operata un’interpretazione della clausola generale del neminem laedere in contrasto con il tenore letterale e la portata sostanziale della norma, che stabilisce quasi un “incondizionato” favor per il danneggiato.

Non a caso è sempre nel 1999 con la sentenza delle Sezioni Unite n. 500 che l’art. 2043 c.c. comincia ad estendere la propria portata. Infatti viene sancita la natura di interessi meritevoli di tutela degli interessi legittimi, nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione. Inoltre viene riconosciuto come norma primaria ( e non più come norma secondaria che sanziona l’inosservanza di norme primarie di condotta-divieto), che tratta del danno ingiusto, consistente nella lesione di situazioni giuridiche tutelate dall’ordinamento; situazioni che non sono riconosciute tali a priori dalla legge, ma che vanno costruite volata a volta dal giudice. Nel caso in cui l’interesse o il diritto che si assume leso sia legislativamente riconosciuto, il giudice si troverà di fronte un diritto soggettivo e non dovrà motivare ulteriormente la sua scelta; in caso contrario, egli non dovrà agire arbitrariamente, ma sulla scorta del diritto positivo, stabilendo un confronto tra i contrapposti interessi delle parti in causa.

E’ evidente l’introduzione dell’elemento dell’insidia o trabocchetto restringeva notevolmente l’ambito di operatività del principio contenuto nell’art. 2043 c.c., in quanto si poneva a carico del privato cittadino il dovere di evitare, per quanto possibile, ogni situazione di pericolo che possa eventualmente presentarsi durante la fruizione degli spazi di demanio pubblico. Infatti il danneggiato doveva dimostrare che il danno non era visibile o prevedibile, prova non facile da raggiungere e che contentiva alla difesa della P.A. di puntare sulla negligenza o disattenzione del danneggiato per sottrarsi completamente alla richiesta di risarcimento o per concludere il contenzioso con la dichiarazione di un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.

In seguito alle fondamentali sentenze 20 Febbraio 2006 n. 3651 e 14 Marzo 2006 n. 5445 della Cassazione civile, sezione III, il soggetto che lamenti un danno derivante dalla mancata manutenzione della strada - e ne chieda il risarcimento ai sensi dell’art.2043 c.c. (e non ai sensi dell’art.2051 c.c.) - sarà tenuto a provare i consueti elementi strutturali dell’illecito e in particolare l’esistenza di un’anomalia del bene demaniale (e segnatamente della strada) idonea a configurare il comportamento colposo della P.A. Non sarà, invece, tenuto alla prova della sussistenza dell’insidia o trabocchetto, restando in capo alla P.A. l’onere della prova dei fatti cd. impeditivi (ossia la prova dell’inesistenza della predetta anomalia, della visibilità e prevedibilità di essa etc.). con la conseguenza che la P.A. sarebbe responsabile di ogni danno causato dal cattivo stato o dalla cattiva manutenzione delle strade di cui è custode, in quanto esercente su di esse un diritto di proprietà, a meno che tali danni non possano essere effettivamente ricondotti ad eventi fortuiti.

Con la sentenza in esame n. 8692/2009 viene ribadito il concetto che la responsabilità della Pubblica Amministrazione non è limitata ai soli casi di insidia e trabocchetto, e che nell’ottica di una effettiva parità in ambito giurisdizionale tra Enti pubblici e soggetti privati, la circostanza che soggetto responsabile sia la pubblica amministrazione non modifica gli oneri probatori propri della regola generale ex art. 2043 c.c. Infatti il danneggiato dovrà dimostrare l’anomalia del bene demaniale che ha causato il danno, restando a carico della P.A. la prova di ogni fatto impeditivo che possa escludere la propria responsabilità.

(Altalex, 28 luglio 2009. Nota di Maria Antonietta Crocitto e Caterina D'Ambruoso)

LA MASSIMA Sui danni da insidia e responsabilità della P.A.
Cassazione civile , sez. III, sentenza 09.04.2009 n° 8692

Nel caso di danno cagionato da insidia non spetta all’attore provare la colpevole inerzia della Pubblica Amministrazione, essendo piuttosto onere di quest’ultima dimostrare di non avere potuto rimuovere la situazione di pericolo.

La Corte di Cassazione si pronuncia in tema di onere della prova nel caso di danno cagionato da un’insidia costituita da rocce semiaffioranti in un lago e non indicate nella carta nautica ufficiale.

Il ricorrente, la cui domanda risarcitoria era stata respinta prima dal Tribunale di Verbania e successivamente dalla Corte d’Appello di Torino, chiedeva il risarcimento dei danni subiti al motoscafo di sua proprietà a causa della collisione con un basso fondale non segnalato.

Le sentenze dei giudici di merito avevano respinto la richiesta risarcitoria sull’assunto che, pur essendo stata dimostrata l’esistenza di un’insidia nelle acque del lago Maggiore, tuttavia non era stato assolto l’onere della prova in relazione all’esistenza di un’inerzia colposa della Regione Piemonte nell’omessa indicazione di quello specifico pericolo.

Il ricorrente, tuttavia, impugnava la sentenza di secondo grado assumendo che il proprio onere probatorio si esaurisse nella dimostrazione della sola esistenza dell’insidia, essendo la prova di quest’ultima condizione necessaria e sufficiente per la declaratoria di responsabilità della P.A. ex art. 2043 cod. civ..

I giudici di legittimità accolgono la tesi del ricorrente, cassando con rinvio la sentenza impugnata, sul presupposto che nel caso di danni cagionati da beni di proprietà della P.A., qualora non sia applicabile, come nel caso di specie, l’art. 2051 cod. civ. in quanto venga accertata l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di utilizzo da parte di terzi, comunque è applicabile il disposto dell’art. 2043 cod. civ., che non limita in alcun modo la responsabilità colposa della P.A. a parte i casi di insidia e di trabocchetto.

In queste ultime circostanze, infatti, graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità che l’utente si sia trovato nella possibilità di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità oggettiva di rimuovere la situazione di pericolo.

(Altalex, 25 maggio 2009. Nota di Federico Repetti)


LA SENTENZA

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 9 aprile 2009, n. 8692

Svolgimento del processo

1.1 Con ricorso notificato il 5 febbraio 1993 C.F. conveniva la Regione Piemonte innanzi al Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche di Torino, esponendo di essere proprietario di un'imbarcazione da diporto alla cui guida, in data ****, mentre navigava sul Lago Maggiore a ridotta velocità, era andato a urtare contro un basso fondale, sicchè il motoscafo era parzialmente affondato. Assumeva l'attore che degli ingenti danni riportati dal mezzo era responsabile la Regione Piemonte, non essendo la roccia nè visibile, nè segnalata, e ciò tanto più che la carta nautica ufficiale indicava in quel punto un fondale profondo due metri, laddove questo si era rivelato molto più basso.

Chiedeva pertanto il ricorrente la condanna dell'ente convenuto a risarcirgli i danni.

Costituitasi in giudizio, la Regione Piemonte eccepiva l'incompetenza per materia del giudice adito, essendo competente il Tribunale di Verbania.

Nel merito negava ogni responsabilità per l'incidente.

A seguito di dichiarazione di incompetenza del giudice adito, la causa veniva dal C. riassunta innanzi al Tribunale di Verbania che con sentenza del 7 giugno 2001, all'esito della compiuta istruttoria, rigettava la domanda.

Proposto gravame, la Corte d'appello di Torino, con sentenza del 20 febbraio 2004 lo respingeva.

1.2 Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione C. F. affidando le sue doglianze a due motivi.

Resiste con controricorso la Regione Piemonte.

Il Procuratore generale presso questa Corte ha concluso per l'accoglimento dell'impugnazione ai sensi dell'art. 375 c.p.c..

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Il ricorso è stato così avviato alla trattazione in camera di consiglio.

Nell'adunanza del 21 febbraio 2006 la Corte ha tuttavia rimesso la causa alla pubblica udienza.

C.F. e la Regione Piemonte hanno depositato una seconda memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

2.1 Col primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., e degli artt 112 e 115 c.p.c., contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere il giudice di merito erroneamente affermato che il C., pur avendo provato l'esistenza dell'insidia, non aveva diritto ad alcuna tutela risarcitoria, ex art. 2043 c.c., non avendo dimostrato la sussistenza di una situazione di inerzia colposa della Regione Piemonte nell'omesso posizionamento, in epoca precedente l'incidente, di indicazioni segnaletiche del basso fondale contro il quale era andato a collidere il motoscafo, laddove, per consolidato diritto vivente, per aversi responsabilità risarcitoria, ex art. 2043 c.c., della Pubblica Amministrazione, condizione necessaria e sufficiente è la sola prova dell'insidia. Conseguentemente, avendone il C. dimostrato l'esistenza, spettava all'ente convenuto provare di non aver potuto rimuovere la situazione di pericolo, laddove la Corte territoriale aveva erroneamente addossato al ricorrente anche l'onere di dimostrare che la Regione, benchè edotta del rischio, nulla aveva fatto. Siffatta conclusione era peraltro in contrasto con tutto l'impianto argomentativo della sentenza impugnata, la quale aveva correttamente affermato l'applicabilità agli enti pubblici dell'art. 2043 c.c., e aveva altresì mostrato di aderire ai principi in punto di distribuzione dell'onere della prova, enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 156 del 1999.

Aggiunge anche il ricorrente che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, l'accoglimento del motivo attribuisce alla Corte, in applicazione della norma di cui all'art. 384 c.p.c., la facoltà di decidere il merito della causa.

Col secondo mezzo l'impugnante denuncia omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, con conseguente violazione dell'art. 2043 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 5 perchè, anche ammesso che spettava al C. dimostrare, per essere risarcito, la colpevole inerzia dell'amministrazione, l'assunto difensivo della Regione, secondo cui l'esistenza di rocce semiaffioranti nel punto in cui si era verificato il sinistro, sarebbe stata nota a tutti, costituiva ammissione della conoscenza del fenomeno e segnatamente della discrasia tra situazione reale e dato cartografico. Del resto l'ente convenuto aveva inizialmente sostenuto che l'indicazione 2p riportata nella carta nautica segnalasse una profondità media di 2 metri, piuttosto che la profondità minima effettiva del lago in quel punto, così mostrando di versare in uno stato di ignoranza inescusabile in chi deve garantire la sicurezza della navigazione.

2.2 II primo motivo di ricorso è fondato.

L'insidia determinativa del danno del quale l'attore ha chiesto il ristoro era individuabile - ed è stata concordemente individuata dalle parti - nella esistenza di un basso fondale non segnalato nella carta nautica ufficiale del Lago Maggiore, che pacificamente indicava, nel punto in cui ebbe a verificarsi l'incidente, una profondità di almeno due metri.

Il giudice di merito, pur dando atto che siffatte indicazioni erano sbagliate, ha tuttavia ritenuto l'errore non addebitabile alla Regione, segnatamente rilevando che il documento, integrante la cartografia ufficiale dello Stato, proveniva dalla Marina Militare, alla quale conseguentemente incombeva la verifica della esattezza dei dati. In tale contesto, secondo la Corte territoriale, la domanda attrice avrebbe potuto essere accolta solo ove l'attore avesse dimostrato che l'ente convenuto conosceva la discrasia tra dati reali e risultanze cartografiche, prova che non era stata fornita, irrilevante essendo anche la delibera della Regione in data 15 aprile 1991, avente ad oggetto la collocazione di opere di segnalamento del pericolo rappresentato da bassi fondali e da rocce affioranti nel Lago Maggiore, in quanto adottata proprio a seguito dell'incidente per cui è causa.

Rileva il collegio che siffatto argomentare è in contrasto con lo schema ricostruttivo della responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione accolto dal diritto vivente e al quale lo stesso decidente ha, in tesi, affermato di aderire.

Mette conto preliminarmente evidenziare che la navigazione lacuale rientra nell'ambito delle attribuzioni normative e amministrative conferite alle regioni dagli artt. 117 e 118 della Cost. Ed è significativo che proprio la Regione Piemonte abbia nel tempo difeso innanzi alla Corte costituzionale siffatte sue competenze contro atti dello Stato pretesamente lesivi delle stesse (confr. Corte cost. 25 luglio 1995, n. 378).

2.3 Ciò posto, è consolidata affermazione di questo giudice di legittimità che, in tema di responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, qualora non sia applicabile la disciplina di cui all'art. 2051 c.c., in quanto sia accertata in concreto l'impossibilità dell'effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l'ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall'utente, secondo la regola generale dell'art. 2043 c.c., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un'insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l'illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l'onere della prova dell'anomalia del bene, che va considerata fatto di per sè idoneo - in linea di principio - a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre incomberà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l'utente si sia trovato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l'impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (confr. Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).

Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Cost. degli artt. 2051, 2043 e 1227 c.c., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato dell'interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità (confr. Corte cost. n. 156 del 1999).

2.2 Venendo al caso di specie, l'assunto secondo cui la verifica e la conseguente rettifica dei dati della carta nautica incombeva alla Marina Militare e che la Regione avrebbe potuto essere condannata a risarcire i danni derivanti dalla loro inesattezza solo ove fosse stato dimostrato che, pur essendone consapevole, era rimasta colpevolmente inerte, pone a carico all'attore un onere probatorio che esula dalla corretta applicazione dei principi in materia di damnum iniuria datum, spingendo l'area di esonero da responsabilità dell'ente pubblico ben oltre la soglia consentita dalla norma codicistica.

Non par dubbio infatti che la pertinenza della navigazione lacuale alla sfera delle competenze regionali comporta che della esattezza ed efficienza dei presidi volti a regolamentarla e a consentirne lo svolgimento in condizioni di sicurezza risponde tout court la Regione nel cui territorio ricadono le acque, salvo, naturalmente, il diritto dell'ente di agire in rivalsa nei confronti di chi abbia approntato quei dispositivi ove, per effetto della loro erroneità o insufficienza, esso sia stato chiamato a rispondere dei pregiudizi derivatane a terzi.

Ciò significa che non ha alcun rilievo, in questa sede, la circostanza, valorizzata dal giudice di merito, che la carta nautica proveniva dalla Marina Militare perchè la Regione, garante della sicurezza della navigazione, risponde, in via di principio, verso i terzi della discrasia tra dato reale e risultanze cartografiche, e ciò tanto più che queste erano basate su saggi effettuati nel lontano 1887 e che, contro ogni regola di prudenza, nessun aggiornamento era mai stato richiesto.

Infine non ricorrono le condizioni perchè la causa venga decisa nel merito, siccome richiesto dal ricorrente, essendo a tal fine necessari ulteriori accertamenti di fatto sull'entità dei danni e del conseguente risarcimento spettante al ricorrente.

Ne deriva che, in accoglimento del primo motivo di ricorso, nel quale resta assorbito il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Torino, in diversa composizione, la quale sì atterrà al seguente principio di diritto: accertata l'esistenza di un'insidia, nella specie costituita dalla discrasia tra situazione reale e dati cartografici in relazione a fondali di acque lacuali, ai fini dell'affermazione della responsabilità dell'ente nel cui territorio ricade il lago, per danni subiti da terzi, non spetta all'attore dimostrare l'inerzia colpevole della Regione, essendo piuttosto onere di questa provare di non aver potuto rimuovere la situazione di pericolo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo; dichiara assorbito il secondo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d'appello di Torino in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2009.

Vacanze e danni a ... Motoscafo: Riflessioni sulla responsabilità della P.A. .... applicabili anche sulle strade!!!!

LA NOTA Beni demaniali e responsabilità della Pubblica Amministrazione
Cassazione civile , sez. III, sentenza 09.04.2009 n° 8692





La sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 9 aprile 2009, n. 8692 si inserisce nell’ambito di una discussione dottrinale molto sentita dati i suoi immediati risvolti pratici. Infatti il principio di diritto enunciato definisce gli oneri probatori gravanti su ciascuna parte in materia di insidia e trabocchetto, nel caso di danno provocato da un’anomalia di un bene demaniale.

Il caso in questione riguarda la richiesta di risarcimento avanzata dal ricorrente nei confronti della regione Piemonte, a seguito dei danni subiti dal suo motoscafo durante la navigazione sul lago Maggiore, per l’impatto con rocce semiaffioranti presenti sul fondale e non segnalate dalle carte nautiche. La particolarità delle condizioni in cui si è verificato l’incidente, vale a dire nei pressi di un bene demaniale di grande estensione con conseguente impossibilità di esercitare un effettivo potere di controllo e vigilanza, ha fatto sì che la norma posta a fondamento della richiesta di risarcimento fosse l’art. 2043 c.c. e non il più specifico art. 2051 c.c.

In particolare il ricorrente, pur avendo dimostrato l’esistenza di un’insidia e il nesso causale tra tale anomalia e il danno subito, ha visto rifiutare la propria richiesta risarcitoria prima dal Tribunale di Verbania e successivamente dalla Corte d’ Appello di Torino, per non aver assolto l’onere della prova in ordine al comportamento colposamente omissivo della Regione nell’indicare puntualmente i dati necessari ad una sicura navigazione lacuale. Ricorrendo in Corte di Cassazione il danneggiato ha invece affermato che condizione necessaria e sufficiente per la declaratoria di responsabilità ex art. 2043 c.c. è la sola prova dell’esistenza dell’insidia, da lui ampiamente dimostrata. I giudici di legittimità hanno giudicato motivato il ricorso, cassando con rinvio la decisione di secondo grado, asserendo innanzitutto che l’art. 2043 c.c. non limita ai soli casi di insidia e trabocchetto la responsabilità della pubblica amministrazione; inoltre il principio di diritto al quale il giudice di rinvio dovrà attenersi sancisce che graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità che l’utente si sia trovato nella possibilità di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità oggettiva di rimuovere la situazione di pericolo.

Questa sentenza si pone sulla scia di precedenti interventi della Corte di Cassazione, tendenti a eliminare i privilegi tuttora concessi alla Pubblica Amministrazione nei rapporti con i privati, in vista di un progressivo innalzamento del grado di responsabilizzazione degli Enti Pubblici. Questo indirizzo, ormai consolidato in giurisprudenza, trova le proprie origini nella pronuncia n. 156/1999 della Corte Costituzionale, con la quale si ampliavano le ipotesi di applicabilità dell’art. 2051 c.c.

Da quel momento la regola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. ha svolto una funzione residuale nei casi di responsabilità della P.A. per danni causati da beni demaniali, in quanto richiamato solo in via subordinata rispetto all’art. 2051 c.c. In concreto e allo stato attuale del diritto e della giurisprudenza, la presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia va valutata alla luce di una complessa indagine condotta dal giudice di merito con riferimento al caso singolo, per stabilire se la P.A. aveva o meno la possibilità di esercitare un potere di controllo e di vigilanza sui beni demaniali, con la conseguenza che l'impossibilità di siffatto potere non potrebbe ricollegarsi puramente e semplicemente alla notevole estensione del bene e all'uso generale e diretto da parte dei terzi, considerati solo meri indici di tale impossibilità.

Nonostante l’art. 2043 c.c. dovesse rappresentare una sorta di “rete di sicurezza” per tutti quei casi che non rientravano nella fattispecie dell’art. 2051 c.c., fino a pochi anni fa si è limitata molto la portata di questa regola generale, subordinandola ai concetti di insidia e trabocchetto di creazione giurisprudenziale. Imponendo al danneggiato la prova dell’insidia o trabocchetto si è cercato di proteggere la pubblica amministrazione da una eccessiva richiesta di risarcimenti, ma si è anche operata un’interpretazione della clausola generale del neminem laedere in contrasto con il tenore letterale e la portata sostanziale della norma, che stabilisce quasi un “incondizionato” favor per il danneggiato.

Non a caso è sempre nel 1999 con la sentenza delle Sezioni Unite n. 500 che l’art. 2043 c.c. comincia ad estendere la propria portata. Infatti viene sancita la natura di interessi meritevoli di tutela degli interessi legittimi, nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione. Inoltre viene riconosciuto come norma primaria ( e non più come norma secondaria che sanziona l’inosservanza di norme primarie di condotta-divieto), che tratta del danno ingiusto, consistente nella lesione di situazioni giuridiche tutelate dall’ordinamento; situazioni che non sono riconosciute tali a priori dalla legge, ma che vanno costruite volata a volta dal giudice. Nel caso in cui l’interesse o il diritto che si assume leso sia legislativamente riconosciuto, il giudice si troverà di fronte un diritto soggettivo e non dovrà motivare ulteriormente la sua scelta; in caso contrario, egli non dovrà agire arbitrariamente, ma sulla scorta del diritto positivo, stabilendo un confronto tra i contrapposti interessi delle parti in causa.

E’ evidente l’introduzione dell’elemento dell’insidia o trabocchetto restringeva notevolmente l’ambito di operatività del principio contenuto nell’art. 2043 c.c., in quanto si poneva a carico del privato cittadino il dovere di evitare, per quanto possibile, ogni situazione di pericolo che possa eventualmente presentarsi durante la fruizione degli spazi di demanio pubblico. Infatti il danneggiato doveva dimostrare che il danno non era visibile o prevedibile, prova non facile da raggiungere e che contentiva alla difesa della P.A. di puntare sulla negligenza o disattenzione del danneggiato per sottrarsi completamente alla richiesta di risarcimento o per concludere il contenzioso con la dichiarazione di un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.

In seguito alle fondamentali sentenze 20 Febbraio 2006 n. 3651 e 14 Marzo 2006 n. 5445 della Cassazione civile, sezione III, il soggetto che lamenti un danno derivante dalla mancata manutenzione della strada - e ne chieda il risarcimento ai sensi dell’art.2043 c.c. (e non ai sensi dell’art.2051 c.c.) - sarà tenuto a provare i consueti elementi strutturali dell’illecito e in particolare l’esistenza di un’anomalia del bene demaniale (e segnatamente della strada) idonea a configurare il comportamento colposo della P.A. Non sarà, invece, tenuto alla prova della sussistenza dell’insidia o trabocchetto, restando in capo alla P.A. l’onere della prova dei fatti cd. impeditivi (ossia la prova dell’inesistenza della predetta anomalia, della visibilità e prevedibilità di essa etc.). con la conseguenza che la P.A. sarebbe responsabile di ogni danno causato dal cattivo stato o dalla cattiva manutenzione delle strade di cui è custode, in quanto esercente su di esse un diritto di proprietà, a meno che tali danni non possano essere effettivamente ricondotti ad eventi fortuiti.

Con la sentenza in esame n. 8692/2009 viene ribadito il concetto che la responsabilità della Pubblica Amministrazione non è limitata ai soli casi di insidia e trabocchetto, e che nell’ottica di una effettiva parità in ambito giurisdizionale tra Enti pubblici e soggetti privati, la circostanza che soggetto responsabile sia la pubblica amministrazione non modifica gli oneri probatori propri della regola generale ex art. 2043 c.c. Infatti il danneggiato dovrà dimostrare l’anomalia del bene demaniale che ha causato il danno, restando a carico della P.A. la prova di ogni fatto impeditivo che possa escludere la propria responsabilità.

(Altalex, 28 luglio 2009. Nota di Maria Antonietta Crocitto e Caterina D'Ambruoso)

LA MASSIMA Sui danni da insidia e responsabilità della P.A.
Cassazione civile , sez. III, sentenza 09.04.2009 n° 8692

Nel caso di danno cagionato da insidia non spetta all’attore provare la colpevole inerzia della Pubblica Amministrazione, essendo piuttosto onere di quest’ultima dimostrare di non avere potuto rimuovere la situazione di pericolo.

La Corte di Cassazione si pronuncia in tema di onere della prova nel caso di danno cagionato da un’insidia costituita da rocce semiaffioranti in un lago e non indicate nella carta nautica ufficiale.

Il ricorrente, la cui domanda risarcitoria era stata respinta prima dal Tribunale di Verbania e successivamente dalla Corte d’Appello di Torino, chiedeva il risarcimento dei danni subiti al motoscafo di sua proprietà a causa della collisione con un basso fondale non segnalato.

Le sentenze dei giudici di merito avevano respinto la richiesta risarcitoria sull’assunto che, pur essendo stata dimostrata l’esistenza di un’insidia nelle acque del lago Maggiore, tuttavia non era stato assolto l’onere della prova in relazione all’esistenza di un’inerzia colposa della Regione Piemonte nell’omessa indicazione di quello specifico pericolo.

Il ricorrente, tuttavia, impugnava la sentenza di secondo grado assumendo che il proprio onere probatorio si esaurisse nella dimostrazione della sola esistenza dell’insidia, essendo la prova di quest’ultima condizione necessaria e sufficiente per la declaratoria di responsabilità della P.A. ex art. 2043 cod. civ..

I giudici di legittimità accolgono la tesi del ricorrente, cassando con rinvio la sentenza impugnata, sul presupposto che nel caso di danni cagionati da beni di proprietà della P.A., qualora non sia applicabile, come nel caso di specie, l’art. 2051 cod. civ. in quanto venga accertata l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di utilizzo da parte di terzi, comunque è applicabile il disposto dell’art. 2043 cod. civ., che non limita in alcun modo la responsabilità colposa della P.A. a parte i casi di insidia e di trabocchetto.

In queste ultime circostanze, infatti, graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità che l’utente si sia trovato nella possibilità di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità oggettiva di rimuovere la situazione di pericolo.

(Altalex, 25 maggio 2009. Nota di Federico Repetti)


LA SENTENZA

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 9 aprile 2009, n. 8692

Svolgimento del processo

1.1 Con ricorso notificato il 5 febbraio 1993 C.F. conveniva la Regione Piemonte innanzi al Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche di Torino, esponendo di essere proprietario di un'imbarcazione da diporto alla cui guida, in data ****, mentre navigava sul Lago Maggiore a ridotta velocità, era andato a urtare contro un basso fondale, sicchè il motoscafo era parzialmente affondato. Assumeva l'attore che degli ingenti danni riportati dal mezzo era responsabile la Regione Piemonte, non essendo la roccia nè visibile, nè segnalata, e ciò tanto più che la carta nautica ufficiale indicava in quel punto un fondale profondo due metri, laddove questo si era rivelato molto più basso.

Chiedeva pertanto il ricorrente la condanna dell'ente convenuto a risarcirgli i danni.

Costituitasi in giudizio, la Regione Piemonte eccepiva l'incompetenza per materia del giudice adito, essendo competente il Tribunale di Verbania.

Nel merito negava ogni responsabilità per l'incidente.

A seguito di dichiarazione di incompetenza del giudice adito, la causa veniva dal C. riassunta innanzi al Tribunale di Verbania che con sentenza del 7 giugno 2001, all'esito della compiuta istruttoria, rigettava la domanda.

Proposto gravame, la Corte d'appello di Torino, con sentenza del 20 febbraio 2004 lo respingeva.

1.2 Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione C. F. affidando le sue doglianze a due motivi.

Resiste con controricorso la Regione Piemonte.

Il Procuratore generale presso questa Corte ha concluso per l'accoglimento dell'impugnazione ai sensi dell'art. 375 c.p.c..

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Il ricorso è stato così avviato alla trattazione in camera di consiglio.

Nell'adunanza del 21 febbraio 2006 la Corte ha tuttavia rimesso la causa alla pubblica udienza.

C.F. e la Regione Piemonte hanno depositato una seconda memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

2.1 Col primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., e degli artt 112 e 115 c.p.c., contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere il giudice di merito erroneamente affermato che il C., pur avendo provato l'esistenza dell'insidia, non aveva diritto ad alcuna tutela risarcitoria, ex art. 2043 c.c., non avendo dimostrato la sussistenza di una situazione di inerzia colposa della Regione Piemonte nell'omesso posizionamento, in epoca precedente l'incidente, di indicazioni segnaletiche del basso fondale contro il quale era andato a collidere il motoscafo, laddove, per consolidato diritto vivente, per aversi responsabilità risarcitoria, ex art. 2043 c.c., della Pubblica Amministrazione, condizione necessaria e sufficiente è la sola prova dell'insidia. Conseguentemente, avendone il C. dimostrato l'esistenza, spettava all'ente convenuto provare di non aver potuto rimuovere la situazione di pericolo, laddove la Corte territoriale aveva erroneamente addossato al ricorrente anche l'onere di dimostrare che la Regione, benchè edotta del rischio, nulla aveva fatto. Siffatta conclusione era peraltro in contrasto con tutto l'impianto argomentativo della sentenza impugnata, la quale aveva correttamente affermato l'applicabilità agli enti pubblici dell'art. 2043 c.c., e aveva altresì mostrato di aderire ai principi in punto di distribuzione dell'onere della prova, enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 156 del 1999.

Aggiunge anche il ricorrente che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, l'accoglimento del motivo attribuisce alla Corte, in applicazione della norma di cui all'art. 384 c.p.c., la facoltà di decidere il merito della causa.

Col secondo mezzo l'impugnante denuncia omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, con conseguente violazione dell'art. 2043 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 5 perchè, anche ammesso che spettava al C. dimostrare, per essere risarcito, la colpevole inerzia dell'amministrazione, l'assunto difensivo della Regione, secondo cui l'esistenza di rocce semiaffioranti nel punto in cui si era verificato il sinistro, sarebbe stata nota a tutti, costituiva ammissione della conoscenza del fenomeno e segnatamente della discrasia tra situazione reale e dato cartografico. Del resto l'ente convenuto aveva inizialmente sostenuto che l'indicazione 2p riportata nella carta nautica segnalasse una profondità media di 2 metri, piuttosto che la profondità minima effettiva del lago in quel punto, così mostrando di versare in uno stato di ignoranza inescusabile in chi deve garantire la sicurezza della navigazione.

2.2 II primo motivo di ricorso è fondato.

L'insidia determinativa del danno del quale l'attore ha chiesto il ristoro era individuabile - ed è stata concordemente individuata dalle parti - nella esistenza di un basso fondale non segnalato nella carta nautica ufficiale del Lago Maggiore, che pacificamente indicava, nel punto in cui ebbe a verificarsi l'incidente, una profondità di almeno due metri.

Il giudice di merito, pur dando atto che siffatte indicazioni erano sbagliate, ha tuttavia ritenuto l'errore non addebitabile alla Regione, segnatamente rilevando che il documento, integrante la cartografia ufficiale dello Stato, proveniva dalla Marina Militare, alla quale conseguentemente incombeva la verifica della esattezza dei dati. In tale contesto, secondo la Corte territoriale, la domanda attrice avrebbe potuto essere accolta solo ove l'attore avesse dimostrato che l'ente convenuto conosceva la discrasia tra dati reali e risultanze cartografiche, prova che non era stata fornita, irrilevante essendo anche la delibera della Regione in data 15 aprile 1991, avente ad oggetto la collocazione di opere di segnalamento del pericolo rappresentato da bassi fondali e da rocce affioranti nel Lago Maggiore, in quanto adottata proprio a seguito dell'incidente per cui è causa.

Rileva il collegio che siffatto argomentare è in contrasto con lo schema ricostruttivo della responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione accolto dal diritto vivente e al quale lo stesso decidente ha, in tesi, affermato di aderire.

Mette conto preliminarmente evidenziare che la navigazione lacuale rientra nell'ambito delle attribuzioni normative e amministrative conferite alle regioni dagli artt. 117 e 118 della Cost. Ed è significativo che proprio la Regione Piemonte abbia nel tempo difeso innanzi alla Corte costituzionale siffatte sue competenze contro atti dello Stato pretesamente lesivi delle stesse (confr. Corte cost. 25 luglio 1995, n. 378).

2.3 Ciò posto, è consolidata affermazione di questo giudice di legittimità che, in tema di responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, qualora non sia applicabile la disciplina di cui all'art. 2051 c.c., in quanto sia accertata in concreto l'impossibilità dell'effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l'ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall'utente, secondo la regola generale dell'art. 2043 c.c., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un'insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l'illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l'onere della prova dell'anomalia del bene, che va considerata fatto di per sè idoneo - in linea di principio - a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre incomberà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l'utente si sia trovato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l'impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (confr. Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).

Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Cost. degli artt. 2051, 2043 e 1227 c.c., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato dell'interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità (confr. Corte cost. n. 156 del 1999).

2.2 Venendo al caso di specie, l'assunto secondo cui la verifica e la conseguente rettifica dei dati della carta nautica incombeva alla Marina Militare e che la Regione avrebbe potuto essere condannata a risarcire i danni derivanti dalla loro inesattezza solo ove fosse stato dimostrato che, pur essendone consapevole, era rimasta colpevolmente inerte, pone a carico all'attore un onere probatorio che esula dalla corretta applicazione dei principi in materia di damnum iniuria datum, spingendo l'area di esonero da responsabilità dell'ente pubblico ben oltre la soglia consentita dalla norma codicistica.

Non par dubbio infatti che la pertinenza della navigazione lacuale alla sfera delle competenze regionali comporta che della esattezza ed efficienza dei presidi volti a regolamentarla e a consentirne lo svolgimento in condizioni di sicurezza risponde tout court la Regione nel cui territorio ricadono le acque, salvo, naturalmente, il diritto dell'ente di agire in rivalsa nei confronti di chi abbia approntato quei dispositivi ove, per effetto della loro erroneità o insufficienza, esso sia stato chiamato a rispondere dei pregiudizi derivatane a terzi.

Ciò significa che non ha alcun rilievo, in questa sede, la circostanza, valorizzata dal giudice di merito, che la carta nautica proveniva dalla Marina Militare perchè la Regione, garante della sicurezza della navigazione, risponde, in via di principio, verso i terzi della discrasia tra dato reale e risultanze cartografiche, e ciò tanto più che queste erano basate su saggi effettuati nel lontano 1887 e che, contro ogni regola di prudenza, nessun aggiornamento era mai stato richiesto.

Infine non ricorrono le condizioni perchè la causa venga decisa nel merito, siccome richiesto dal ricorrente, essendo a tal fine necessari ulteriori accertamenti di fatto sull'entità dei danni e del conseguente risarcimento spettante al ricorrente.

Ne deriva che, in accoglimento del primo motivo di ricorso, nel quale resta assorbito il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Torino, in diversa composizione, la quale sì atterrà al seguente principio di diritto: accertata l'esistenza di un'insidia, nella specie costituita dalla discrasia tra situazione reale e dati cartografici in relazione a fondali di acque lacuali, ai fini dell'affermazione della responsabilità dell'ente nel cui territorio ricade il lago, per danni subiti da terzi, non spetta all'attore dimostrare l'inerzia colpevole della Regione, essendo piuttosto onere di questa provare di non aver potuto rimuovere la situazione di pericolo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo; dichiara assorbito il secondo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d'appello di Torino in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2009.

martedì 28 luglio 2009

Studi di Settore: Addio .....!!!

Studi di settore è l’ora dell’addio

Data Pubblicazione 28/7/2009

Articolo tratto da:
Libero

La Cassazione dopo dieci anni di pareri ha tirato le somme. Gli studi di settore non bastano per accertare quante tasse un lavoratore autonomo debba pagare.

Lo strumento fiscale creato nel 1998 da Vincenzo Visco per dimostrare a priori e statisticamente il fatturato teorico di una Partita Iva tornano così all’idea embrionale che li aveva generati: ovvero un mero strumento statistico. Solo in caso di non congruità, il Fisco farà partire l’accertamento o avviare il processo tributario dimostrando con prove concrete la colpevolezza del contribuente.

La Cassazione ha così messo la parola fine a quell’aberrazione che ha contraddistinto il 2006 e il 2007, diventata celebre come inversione dell’onere della prova. La partita Iva presunta colpevole doveva dimostrare la propria innocenza.

È come se in un Paese di 5 mila anime avvenisse un omicidio e tutti i cittadini venissero accusati per il semplice fatto di abitare lì. E a loro spetti dimostrare la propria innocenza.

Invece che ai magistrati raccogliere le prove per inchiodare il colpevole. Già dal 2008 la pessima abitudine era stata abbandonata dal Fisco su impulso del ministro Tremonti e delle commissioni finanze di Camera e Senato. Ma ora è tutto nero su bianco grazie agli Ermellini della Suprema Corte. E non è la prima volta che la Cassazione scende in pista per difendere i cittadini contro il fisco. Un anno e mezzo fa sentenziò in materia di Iva. La controversia nacque per una detrazione ritenuta indebita

I precedenti

«Se l'Amministrazione è parte attrice del rapporto tributario dedotto in giudizio, spetta al Fisco dimostrare la falsità delle fatture come documenti contabili che attestano la realizzazione dell'operazione commerciale fra soggetti corrispondenti a quelli indicati dalle carte», disse la Cassazione con la sentenza 24201/08. Gli Ermellini smontarono la tesi riportando la causa alla prima fase del giudizio: «all’Amministrazione spetta allegare elementi significativi e indizi idonei a confutare la veridicità (oggettiva e soggettiva) dei documenti contabili».

Le partite Iva

Senza entrare in ulteriori dettagli di merito la sostanza della sentenza dimostra come la letteratura tributaria si stia sempre più orientando alla tutela del contribuente creando un panel di leggi strutturate in grado di contrastare filosofie fiscali che vedono le tasse come un modo per raccogliere denaro.

«La recente sentenza della Corte di Cassazione in materia di studi di settore ribadisce un concetto già emerso in questo ultimo anno con una serie di circolari pubblicate dall’Amministrazione finanziaria», sottolinea Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre.

«Già a partire dal 2009 l’Agenzia delle Entrate ha ribadito con forza come gli studi di settore siano solo uno dei parametri sui quali si baserà il lavoro di accertamento fiscale. Se negli anni scorsi la non congruità poteva potenzialmente far scattare un accertamento da parte del fisco, oggi è stato chiarito che il mancato adeguamento non è più l'unico elemento sufficiente a sostenere le ulteriori pretese Erariali in sede di contenzioso». Ma le riflessioni del segretario degli artigiani di Mestre non si fermano qui.

«Nel caso il contenzioso finisca presso la Commissione tributaria», conclude Bortolussi, «sarà l’Agenzia delle Entrate, e non più il contribuente, a dover dimostrare l’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati. Per questo, anche alla luce dell’ultima sentenza della Corte di Cassazione, stiamo invitando quegli operatori economici che sono vittime della crisi a non adeguarsi a quegli studi di settore che hanno pretese non giustificabili».

Spetta ora alle numerose associazioni di categoria dal commercio all’artigianato dare indicazioni ai propri associati.

Le conseguenze

A tutti coloro che scelgono di non adeguarsi ai valori imposti dagli studi di settore (ed è il consiglio più diffuso nel Nordest) si apre la strada del contraddittorio.

Al contribuente conviene partecipare per smontare le tesi del Fisco e dimostrare i mancati ricavi dovuti alla crisi economica. A quel punto gli uffici dell’Erario saranno costretti a “investigare” attivamente e dimostrare l’eventuale evasione lavorando al bilancio e spulciando le fatture.

Se il fisco non è in grado di fornire una relazione concreta frutto di una investigazione attenta l’accusa decade. E con essa i costi del dibattimento tributario. Nel caso il contribuente che non voglia partecipare al contradditorio, potrà presentare le stesse eccezioni in sede di giudizio. A questo punto bisogna distinguere tra passato e futuro.

Per le cause in corso ci sono più certezze perchè finalmente la Cassazione renderà nulle tutte le sentenze contrarie alla recente norma. Per il futuro tutto dipende da come si muoveranno le partite Iva. Il parere degli ermellini apre la strada a una valanga di contenziosi con il Fisco.

Le scelte politiche

Un milione e mezzo di contribuenti (tanti sono quelli non in regola secondo gli studi di settore) potrebbe chiedere giustizia tutti insieme bloccando le commissioni tributarie. E imponendo un intervento politico.

A quel punto il governo dovrebbe dire addio una volta per tutte agli studi di settore e trovare un nuovo strumento per far pagare le tasse ai lavoratori autonomi.

E sentite le recenti dichiarazioni di guerra lanciate da chi rappresenta il popolo delle partite Iva forse sarebbe il caso di non aspettare che la bomba esploda.





Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...