domenica 19 luglio 2009

Consulta n. 214 del 14/07/2009-Incostituzionalità della "norma taglia-precari": art. 4bis D.lgs. 368/01

Il termine apposto al contratto di lavoro




Nel corso del giudizio civile promosso contro la Poste Italiane S.p.A. perché fosse dichiarata l'invalidità del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto tra le parti ai sensi dell'art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES, come aggiunto dall'art. 1, comma 558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 - legge finanziaria 2006), il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del richiamato art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 (r.o. n. 217 del 2008).
La norma censurata ha introdotto per le aziende concessionarie del servizio postale la possibilità, entro determinati limiti temporali (sei mesi nel periodo compreso tra aprile ed ottobre di ogni anno e quattro mesi per periodi diversamente distribuiti) e quantitativi (15 per cento dell'organico aziendale) di procedere ad assunzioni a tempo determinato senza l'obbligo di indicazione scritta della causale (come invece previsto in generale dall'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001).
La Corte costituzionale, nella Sentenza 14 luglio 2009, n. 214 dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.


Avv. Cavillo Azzeccagarbugli




Corte costituzionale
Sentenza 14 luglio 2009, n. 214


[...] nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), degli artt. 1, comma 1, e 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 e dell'art. 4-bis, del medesimo decreto legislativo, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, promossi dal Tribunale di Roma con ordinanze del 26 febbraio 2008 e del 26 settembre 2008, dalla Corte d'appello di Torino con ordinanza del 2 ottobre 2008, dal Tribunale di Trani con ordinanza del 21 aprile 2008, dalla Corte d'appello di Genova con ordinanza del 26 settembre 2008, dal Tribunale di Ascoli Piceno con due ordinanze del 30 settembre 2008, dal Tribunale di Trieste con ordinanza del 16 ottobre 2008, dalla Corte d'appello di Bari con ordinanza del 22 settembre 2008, dal Tribunale di Viterbo con ordinanza del 10 ottobre 2008, dal Tribunale di Milano con quattro ordinanze del 19 novembre 2008, dalla Corte d'appello di Caltanissetta con ordinanza del 12 novembre 2008, dal Tribunale di Teramo con ordinanza del 17 ottobre 2008, dal Tribunale di Milano con due ordinanze del 24 dicembre 2008, dalla Corte d'appello di Venezia con ordinanza del 10 dicembre 2008, dalla Corte d'appello di L'Aquila con ordinanza del 14 gennaio 2009 e dalla Corte d'appello di Roma con ordinanza del 21 ottobre 2008, ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 217, 413, 427, 434, 441, 442 e 443 del registro ordinanze 2008 ed ai nn. 4, 12, 22, 25, 26, 27, 28, 43, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 29 e 53, prima serie speciale, dell'anno 2008 e nn. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 11, 13, 14 e 15, prima serie speciale, dell'anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di...;
udito nella udienza pubblica del 23 giugno 2009 e nella camera di consiglio del 24 giugno 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati ... per Poste Italiane S.p.A. e gli avvocati dello Stato .... per il Presidente del Consiglio dei ministri.
RITENUTO IN FATTO
1. - Nel corso del giudizio civile promosso da G. R. contro la Poste Italiane S.p.A. perché fosse dichiarata l'invalidità del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto tra le parti ai sensi dell'art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES, come aggiunto dall'art. 1, comma 558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 - legge finanziaria 2006), il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del richiamato art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 (r.o. n. 217 del 2008).
Osserva il rimettente che la norma censurata ha introdotto per le aziende concessionarie del servizio postale la possibilità, entro determinati limiti temporali (sei mesi nel periodo compreso tra aprile ed ottobre di ogni anno e quattro mesi per periodi diversamente distribuiti) e quantitativi (15 per cento dell'organico aziendale) di procedere ad assunzioni a tempo determinato senza l'obbligo di indicazione scritta della causale (come invece previsto in generale dall'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001). Inoltre, anche la disciplina sanzionatoria sarebbe più lieve rispetto a quella prevista per i contratti stipulati ex art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, perché l'art. 5, comma 3, del medesimo d.lgs. n. 368 del 2001, richiamando esclusivamente l'ipotesi della successione dei contratti stipulati ex art. 1 dello stesso decreto legislativo, non prevederebbe la conversione in contratto a tempo indeterminato in caso di successione di contratti regolati dall'art. 2.
Ad avviso del giudice a quo, tale disciplina comporterebbe una disparità di trattamento tra i lavoratori in generale e quelli addetti al servizio postale, per i quali non opera necessariamente la disciplina - anche sanzionatoria - di carattere generale. Difettando, nel settore postale, quelle peculiarità che possano giustificare deroghe alla disciplina generale, l'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 non risponderebbe a criteri di ragionevolezza o di razionalità e pertanto sarebbe lesivo dell'art. 3 della Costituzione.
Quanto agli altri parametri costituzionali invocati (artt. 101, 102 e 104 Cost.) il rimettente afferma che l'introduzione di una "acausalità" per le assunzioni a termine nel settore postale sottrae in maniera ingiustificata al giudice ordinario il potere di verifica delle effettive ragioni oggettive e temporanee poste alla base di dette assunzioni con conseguente lesione delle prerogative del potere giudiziario.
2. - Si è costituita Poste Italiane s.p.a. che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.
La società deduce che il datore di lavoro che assume un lavoratore ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001 non è tenuto a specificare le ragioni dell'apposizione del termine, mentre resta tenuto a rispettare le altre norme contenute nel citato decreto legislativo in materia di divieti, di proroghe, di successione dei contratti, di divieto di discriminazione, di formazione, di criteri di computo e di informazione.
Ad avviso della società, poi, la dedotta violazione degli artt. 101 e 104 Cost. sarebbe inammissibile per carenza di motivazione, non essendo dato comprendere in che modo la funzione giurisdizionale sia stata limitata con l'introduzione della norma denunciata.
3. - Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, assistito e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata, rinviando al prosieguo ogni difesa.
4. - Nel corso di un giudizio civile promosso da M. D. R. contro Poste Italiane s.p.a., al fine di ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro per insussistenza della ragione sostitutiva addotta a sostegno della clausola temporale e la statuizione della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti, sin dalla data dell'assunzione, con condanna della società convenuta a riammettere la ricorrente nel suo posto di lavoro ed a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla scadenza del termine nullo, il Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, ed 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, per violazione degli artt. 76, 77 e 117, primo comma, Cost., e dell'art. 4-bis dello stesso d.lgs. n. 368, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, per violazione degli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 101, 102, secondo comma, 104, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione (r.o. n. 413 del 2008).
4.1. - Sulla prima questione, il rimettente deduce che, prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001, l'apposizione del termine per ragioni sostitutive di personale assente con diritto alla conservazione del posto, era consentita - dall'art. 1, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato) - a condizione che fosse indicato il nominativo del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione. Aggiunge che tale disposizione è stata abrogata (insieme con tutta la legge n. 230 del 1962), dall'art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001; il che comporterebbe l'abolizione dell'onere di indicazione del lavoratore sostituito, onere non riprodotto nell'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001.
Il Tribunale di Roma afferma che il d.lgs. n. 368 del 2001 è stato emanato nell'esercizio della delega conferita al Governo dalla legge 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2000), per l'attuazione della direttiva n. 1999/70/CE, la quale non detta alcun principio o obiettivo, né alcuna regola vincolante per gli Stati membri al fine di garantire ai lavoratori a termine un livello di tutela minimo per quanto attiene ai presupposti per l'uso del termine in un singolo contratto.
Ad avviso del giudice a quo, la predetta direttiva comunitaria pone solamente, fissandone le linee di perseguimento, due obiettivi: la garanzia del principio di non discriminazione e la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo in successione di contratti o rapporti a tempo determinato. Il rimettente aggiunge che la clausola di non regresso contenuta nell'art. 8, punto 3, dell'accordo quadro recepito dalla direttiva dispone che l'applicazione dell'accordo quadro «non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso» e la legge n. 422 del 2000 delegava il Governo ad emanare decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione a varie direttive, disponendo che «i decreti legislativi assicureranno in ogni caso che nelle materie trattate da tali direttive, la disciplina fosse pienamente conforme alle prescrizioni medesime, tenuto conto delle eventuali modificazioni intervenute fino al momento dell'esercizio della delega».
Pertanto, secondo il Tribunale di Roma, poiché dalla legge di delega non è desumibile altro mandato al Governo che quello di dare puntuale attuazione alla direttiva in questione, l'art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, nell'abrogare la previgente disciplina nazionale in materia (e, in particolare, l'art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 230 del 1962), avrebbe operato in carenza di delega e, quindi, in violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione.
Il rimettente sostiene, inoltre, che gli artt. 1, comma 1, ed 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 lederebbero anche l'art. 117, primo comma, Cost., per violazione dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. Infatti la Corte di giustizia, nella sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, ha ritenuto che la direttiva in esame non vieta come tale una reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori a termine, a condizione che essa non sia in alcun modo collegata all'applicazione di questa; invece, nella fattispecie, tale reformatio è stata realizzata proprio nel provvedimento destinato specificamente a dare applicazione alla direttiva, e dichiaratamente allo scopo di darvi attuazione.
4.2. - Per quel che concerne l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, il Tribunale di Roma afferma che tale norma non sarebbe applicabile al giudizio a quo, perché essa, nel prevedere che «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni», essa fa riferimento solamente alla violazione degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, mentre nel giudizio principale, ove fosse accolta la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, ed 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, risulterebbe violato l'art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 230 del 1962.
In subordine, ad avviso del giudice a quo, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis, del d.l. n. 112 del 2008, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., sarebbe rilevante e non manifestamente infondata.
Sotto il primo profilo, il rimettente afferma che - secondo i principi dettati dagli artt. 1419, comma 2, e 1339 del codice civile, che dovrebbero trovare applicazione se non fosse in vigore la disposizione qui censurata - dalla nullità della clausola del termine discenderebbe, secondo il c.d. diritto "vivente", il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni parametrato alle retribuzioni maturate dal momento in cui il prestatore abbia messo in mora il datore di lavoro, offrendogli le sue prestazioni.
Ad avviso del Tribunale di Roma l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, sostituendo retroattivamente alla predetta tutela risarcitoria una indennitaria, violerebbe l'art. 3 Cost., poiché riserva una tutela di rango inferiore ad alcuni lavoratori per il solo fatto di avere un giudizio in corso al momento dell'entrata in vigore della nuova disposizione.
Secondo il rimettente, ancora più ingiustificata sarebbe la discriminazione operata nei confronti dei lavoratori in questione, rispetto a quelli che hanno giudizi in corso nei quali vengono in discussione le conseguenze dell'invalidità della clausola del termine che sia disciplinata, ratione temporis, dal sistema normativo previgente di cui alla legge n. 230 del 1962 e i lavoratori che non abbiano ancora instaurato una controversia.
Il giudice a quo sostiene che l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 lede anche l'art. 117, primo comma, Cost. in rapporto agli obblighi assunti dallo Stato italiano con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848), il cui art. 6 vieta al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso.
Ancora, l'art. 4-bis si pone, secondo il rimettente, in contrasto con gli artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., perché un intervento della legge che - come nella specie - riguardi esclusivamente un certo tipo di giudizi in corso ad una certa data è privo del carattere di astrattezza proprio della funzione legislativa, assumendo carattere provvedimentale generale.
5. - Si è costituita in giudizio Poste Italiane s.p.a., la quale chiede che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
5.1. - La società anzitutto contesta la prospettata illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 radicata sulla violazione della "clausola di non regresso" e, per questo tramite, la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione.
Secondo la società Poste Italiane, la funzione di detta clausola è solo quella di impedire che un arretramento di tutele si fondi sulla asserita pretestuosa necessità di conformare in tal modo l'ordinamento interno alla direttiva, ma essa non vieta in assoluto ai legislatori nazionali di ridurre le proprie tutele fino al minimo comunitario.
5.2. - Quanto all'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, la società afferma che scopo dell'intervento legislativo è il perseguimento della crescita del tasso di incremento del prodotto interno lordo rispetto agli andamenti tendenziali per l'anno in corso e per il successivo triennio attraverso l'immediato avvio di maggiori investimenti in materia di innovazione e ricerca, sviluppo dell'attività imprenditoriale, diversificazione delle fonti di energia e rilancio delle privatizzazioni. In tale prospettiva l'art. 4-bis sarebbe stato introdotto per arginare, nell'interesse generale, l'eccessivo ampliamento dell'organico delle imprese nel caso in cui numerosi rapporti di lavoro a termine fossero trasformati in rapporti a tempo indeterminato per via giudiziale.
Nessun contrasto sarebbe ravvisabile con l'art. 24 Cost., in quanto la modifica, temporanea ed eccezionale dell'apparato sanzionatorio non incide sulla tutela giurisdizionale che rimane salda, mentre, quanto agli artt. 101, 102 e 104 Cost., la norma censurata non influisce sulla funzione giudiziaria, poiché il contratto a termine, oggetto del "giudizio in corso" resta comunque soggetto al sindacato giurisdizionale cui compete l'accertamento della legittimità del contratto medesimo.
6. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo l'inammissibilità della questione concernente gli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, sia perché priva di adeguata motivazione, sia perché posta in astratto: il rimettente infatti, pur non essendo provate le esigenze sostitutive che potrebbero giustificare l'apposizione del termine, dichiara di sollevare la questione «a prescindere da ogni valutazione in ordine alla sufficienza della giustificazione quale offerta e provata nel caso di specie».
L'interveniente rileva inoltre che la questione è stata sollevata senza aver preventivamente escluso che nella fattispecie fosse intervenuto un mutuo consenso tra le parti in ordine alla risoluzione del rapporto dedotto in giudizio (ipotesi configurabile nel caso di specie, nel quale il lavoro era stato svolto per meno di tre mesi, mentre la domanda giudiziale era stata proposta quasi tre anni dopo la scadenza del termine).
Tale ragione di irrilevanza si estende, ad avviso della difesa erariale, anche alla censura mossa all'art. 4-bis, il quale regola le conseguenze economiche della violazione dell'art. 1, oltre che degli artt. 2 e 4: solo nel caso in cui dovesse pervenirsi alla illegittimità costituzionale dell'art. 1, la questione dell'art. 4-bis diverrebbe rilevante; ove, invece, non fosse possibile (per irrilevanza) accertare la violazione dell'art. 1, sarebbe impossibile pervenire ad un giudizio di illegittimità dell'art. 4-bis.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la questione è, comunque, infondata nel merito.
L'obbligo del datore di lavoro di indicare il nominativo del lavoratore sostituito, quale condizione di liceità dell'apposizione del termine, può ritenersi logicamente implicito, o ricompreso nel più ampio obbligo - prescritto dall'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 - di indicare, per iscritto, specificandole, le ragioni sostitutive. La questione dovrebbe quindi risolversi in termini interpretativi (di rigetto).
Infondata sarebbe, infine la questione riguardante l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, norma che, ad avviso della difesa erariale, non discrimina i lavoratori interessati. Inoltre, l'ordinanza di rimessione specifica quali sarebbero le conseguenze economiche della dichiarazione di invalidità del termine in assenza dell'art. 4-bis, e nemmeno dimostra che il regime introdotto dalla norma censurata sia necessariamente deteriore rispetto agli altri possibili regimi risarcitori ipotizzabili in base alle regole generali.
7. - Nel corso del giudizio di appello proposto dalla Compagnia Internazionale delle Carrozze Letti e del Turismo avverso la sentenza del Tribunale di Torino del 5 febbraio 2008, che aveva accolto la domanda dei lavoratori A.O. e A.G. volta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al loro contratto di lavoro, in violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, la Corte di appello di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui dispone che, per i giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore, in caso di violazione degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro secondo predeterminati criteri di calcolo dell'indennità (r.o. n. 427 del 2008).
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata contrasterebbe con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., poiché prevede una tutela attenuata per i lavoratori a termine che siano parti in un giudizio in corso, rispetto a tutti gli altri lavoratori a tempo determinato, e con l'art. 24 Cost., perché un intervento legislativo che, come nella specie, riguarda solo un certo tipo di controversie pendenti ad una certa data sarebbe privo del carattere di astrattezza proprio della legislazione ed assumerebbe carattere provvedimentale generale con riguardo ai giudizi in corso, invadendo così l'area riservata al potere giudiziario. Con la conseguenza che ne sarebbero pregiudicati i soli ricorrenti che, per ragioni assolutamente casuali, abbiano introdotto la causa prima dell'entrata in vigore della legge censurata e la stessa non fosse stata definita prima della medesima data.
Precisa la Corte di appello di Torino che la norma censurata appare tanto più irragionevole, perché distingue tra coloro che per motivi indipendenti dalla loro volontà (attività del sindacato o del legale, durata dei processi) hanno ottenuto una sentenza non più impugnabile e coloro che hanno ancora un giudizio in corso, pur avendo ipoteticamente stipulato un contratto a termine con lo stesso datore di lavoro e nello stesso periodo; e, ancora, tra coloro che hanno depositato il ricorso introduttivo del giudizio il giorno prima della pubblicazione della legge e coloro che lo depositano il giorno dopo la sua entrata in vigore.
8. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo l'irrilevanza della questione in quanto il giudice a quo non si è pronunciato sulla illegittimità del termine, prima di affrontare la norma censurata.
Nel merito, la difesa erariale sostiene che il presupposto di fatto della norma censurata è stato l'enorme dilatazione del contenzioso diretto a contestare la validità dell'apposizione del termine ai contratti di lavoro, con possibile vanificazione, a causa dell'incertezza delle conseguenze economiche delle dichiarazioni di invalidità delle clausole oppositive del termine, delle finalità della riforma della disciplina del contratto a tempo determinato operata dal d.lgs. n. 368 del 2001 (aumento delle possibilità di accesso al lavoro subordinato per lavoratori destinati altrimenti a forme ancora più precarie di lavoro).
L'interveniente nega, poi, che l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 discrimini i lavoratori interessati dai contenziosi in corso, anche perché le soluzioni offerte dalla giurisprudenza circa le conseguenze economiche della dichiarazione di invalidità del termine apposto al contratto di lavoro non sono mai pervenute a costituire un "diritto vivente" e il rimettente non ha dimostrato che il sistema sanzionatorio introdotto dalla norma censurata sia necessariamente deteriore rispetto ad altri regimi.
Infine, non sussisterebbe alcuna lesione della tutela giurisdizionale, poiché un intervento legislativo applicabile alle controversie in corso è in linea di principio ammissibile qualora giustificato (come nella fattispecie) da una particolare situazione oggettiva rispetto alla quale esso sia logicamente coerente.
9. - Nel corso di un giudizio promosso da S. D. contro Poste Italiane s.p.a. diretto ad ottenere l'accertamento dell'illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro sottoscritti dalle parti «per ragioni di carattere sostitutivo», in quanto nei documenti negoziali non sarebbero stati specificamente indicati i lavoratori sostituiti, né la ragione per la quale questi ultimi sarebbero rimasti assenti dal lavoro, il Tribunale di Trani, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. (r.o. n. 434 del 2008).
Secondo il giudice a quo, la fattispecie contrattuale sarebbe pacificamente disciplinata - ratione temporis - dall'art. 11 del d.lgs. n 368 del 2001, che ha abrogato la legge n. 230 del 1962, ivi compreso l'art. 1, comma 2, lettera b), a mente del quale era consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto quando l'assunzione avesse avuto luogo per sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, sempre che nel contratto di lavoro fosse stato indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sostituzione.
Aggiunge il rimettente che la norma censurata rappresenta un arretramento di tutela per il lavoratore, il quale non può più pretendere che, già nel contratto, gli siano fornite le informazioni che gli consentano di valutare preventivamente l'opportunità di promuovere o meno l'azione giudiziaria e di evitargli, nel caso in cui scelga la strada dell'azione, il rischio di trovarsi, nel processo, di fronte a situazioni di fatto non valutabili in anticipo.
Premesso che il d.lgs. n. 368 del 2001 è stato adottato dal Governo italiano in esecuzione della delega conferitagli dalla legge n. 422 del 2000, osserva il rimettente che, poiché il legislatore delegante si è limitato a rinviare alle «prescrizioni» della direttiva 1999/70/CE, a sua volta intervenuta solo su alcuni aspetti della disciplina del contratto a termine ed in particolare sul «principio di non discriminazione» (clausola 4), sulle «misure di prevenzione degli abusi [...] derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato» (clausola 5), nonché sulle regole da valere in tema di «informazione e possibilità di impiego» (clausola 6) e di «informazione e consultazione» (clausola 7), dovrebbe ritenersi assolutamente «fuori delega» la scelta del Governo di abrogare tout court la legge n. 230 del 1962 e, per quel che qui interessa, la norma dettata, per la causale sostitutiva, dall'art. 1, comma 2, lettera b), di detta legge.
Inoltre, ad avviso del Tribunale di Trani, sarebbe violato l'art. 76 Cost., poiché la legge di delega n. 422 del 2000 non prevedeva princìpi direttivi ulteriori rispetto all'attuazione della direttiva 1999/70/CE la quale, alla clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro da essa recepito, dispone che l'applicazione dell'accordo non avrebbe potuto costituire un motivo per indurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso, mentre le disposizioni censurate, sopprimendo la necessità della indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, determinano un arretramento della tutela garantita ai lavoratori del precedente regime.
10. - Costituitosi nel giudizio di costituzionalità, il lavoratore attore nel giudizio principale, aderendo alla tesi del rimettente, rileva che la legge n. 422 del 2000, pur facendo «salvi gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti negli articoli seguenti», in realtà, con specifico, riferimento all'attuazione della direttiva 1999/70/CE, non ne ha indicato alcuno; pertanto sarebbe evidente, anche alla luce dei lavori parlamentari, la volontà del legislatore delegante di conservare la precedente disciplina del contratto a termine e, comunque, di rispettare la clausola di non regresso.
Ne deriverebbe, ad avviso della parte privata, che le conclusioni cui è pervenuta questa Corte nella sentenza n. 44 del 2008 debbano essere necessariamente estese agli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, visto che il legislatore delegato, abrogando la precedente normativa sul contratto a termine e ridisciplinando questo istituto nei termini di cui al predetto art. 1, avrebbe violato l'art. 77 della Costituzione.
Secondo il ricorrente, l'unica interpretazione in grado di garantire la legittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 è quella che, con specifico riferimento alle causali "sostitutive", preclude al datore di lavoro la possibilità di utilizzare il contratto a tempo determinato per far fronte alla necessità di sostituire personale in ferie, a maggior ragione quando manchi, nel documento negoziale, la specificazione del nominativo del lavoratore sostituito e del motivo della sua assenza.
11. - Si è costituita nell'incidente di costituzionalità Poste Italiane s.p.a, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Ad avviso della società, la clausola di non regresso sarebbe diretta ad escludere che un arretramento di tutele, in sé pienamente legittimo, possa fondarsi sul pretesto della apparente necessità di attuare una direttiva comunitaria.
Che questo sia l'obiettivo del legislatore comunitario emerge con chiarezza dalle disposizioni contenute nella stessa direttiva 1999/70/CE, la quale, al considerando n. 3, afferma che «la realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea» precisando che «Tale processo avverrà mediante il ravvicinamento di tali condizioni, che costituisca un progresso, soprattutto per quanto riguarda le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, come il lavoro a tempo determinato».
Secondo la società resistente dalla lettura delle previsioni del d.lgs. n. 368 del 2001 emergerebbe che il legislatore nazionale, lungi dal discostarsi dalle finalità perseguite dall'ordinamento comunitario, le ha compiutamente realizzate tramite una serie di previsioni tese ad attuare i precetti di cui alla direttiva 1999/70/CE.
In proposito, la Poste Italiane S.p.A. richiama la sentenza della Corte di cassazione n. 12985 del 2008 secondo la quale «non può condividersi la tesi, sostenuta da una parte della dottrina, che, in base ad una lettura incompleta della direttiva e delle sentenze, ritiene che il primo ed unico contratto a tempo determinato, di per sé, sia estraneo all'oggetto della direttiva». A tale considerazione, la Corte di cassazione perviene valorizzando proprio i "considerando" della direttiva citata e dell'accordo quadro allegato dai quali risulta che la direttiva, oltre a stabilire "in particolare" un regime con riferimento alla parità di trattamento e alla prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di successivi rapporti a tempo determinato ha una portata "in generale" secondo cui l'accordo quadro, nello stabilire i princìpi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato, si riferisce ai contratti e ai rapporti di lavoro a termine. I giudici di legittimità rimandano infine, alla lettura del considerando 14, dal quale risulta che le parti contraenti «hanno voluto concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che stabilisce i principi generali ed i requisiti minimi per i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato», senza operare una distinzione tra il primo contratto a termine ed i successivi.
12. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo il quale la questione proposta è manifestamente inammissibile per difetto di motivazione in ordine alla sua rilevanza.
Invero, il rimettente avrebbe omesso di considerare che l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, anche se non riproduce, al comma 1, l'onere dell'indicazione espressa del nome del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione, introduce tuttavia, al comma 2, un dovere di specificazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificano l'apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato. Dunque sarebbe insufficiente la mera indicazione delle esigenze di sostituzione temporanea, perché, in forza dell'art. 1, comma 2, devono essere specificate le circostanze che inducono tali esigenze.
Ad avviso della difesa erariale, questa lettura della norma riduce sensibilmente, sino quasi ad annullarle, le differenze tra il precetto contenuto nell'art. 1 della legge n. 230 del 1962 e quello della disposizione censurata.
Il Presidente del Consiglio dei ministri afferma, poi, che la questione sarebbe anche infondata.
Innanzitutto, la situazione che questa Corte è chiamata ad affrontare sarebbe diversa da quella esaminata dalla sentenza n. 44 del 2008, perché le norme denunciate nella presente fattispecie sono volte a regolare la materia trattata dalla direttiva, e cioè la prevenzione dell'abuso di contratti a termine.
Inoltre questa Corte, con sentenza n. 41 del 2000, ha già affermato che, nel recepire la direttiva in esame, il legislatore nazionale avrebbe mantenuto una considerevole discrezionalità, potendo, nel rispetto delle scelte di fondo della normativa comunitaria, modificare le garanzie esistenti.
Orbene, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 in una certa misura rafforza le garanzie a tutela del lavoratore, che - diversamente da quanto ritiene il Tribunale di Trani - non sono significativamente attenuate o peggiorate dalla mancata previsione dell'onere di indicare il nome del lavoratore sostituito. Tale opzione normativa ricadrebbe nell'area di discrezionalità riconosciuta al legislatore interno ed appare coerente con l'evoluzione del quadro normativo in materia di diritto alla protezione dei dati personali, che in questo caso investe le prevalenti esigenze di riservatezza del lavoratore sostituito.
13. - Nel corso del giudizio di appello proposto dalla Eso Strade s.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Genova che aveva accolto la domanda di C. Z. diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro, in violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, la Corte di appello di Genova ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 441 del 2008).
La Corte rimettente afferma che il contratto dedotto in giudizio non specifica la ragione utile a giustificare l'apposizione del termine, con la conseguenza che, dovendosi ritenere illegittimo il termine medesimo, occorrerebbe affermare la conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato.
Sennonché, una tale conseguenza è impedita dalla norma censurata la quale, con riferimento ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, consente soltanto l'erogazione di un indennizzo a favore del lavoratore.
Ad avviso del giudice a quo, tale disposizione contrasta con l'art. 3 Cost., perché sostituisce al regime codicistico della nullità parziale (art. 1419 cod. civ.) una disciplina che riguarda però solo i contratti a termine per i quali è in corso un giudizio al momento della sua entrata in vigore. Nel fare ciò, il legislatore ha introdotto una diversità delle conseguenze del termine illegittimo ancorata alla circostanza del tutto casuale che il lavoratore abbia o meno iniziato il giudizio.
La norma denunciata si porrebbe inoltre in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU, il quale impone al potere legislativo di non intromettersi nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia o di una data categoria di controversie in atto. Nella fattispecie vengono modificati per factum principis i diritti sostanziali a tutela dei quali si è agito in giudizio, senza che ricorrano quelle imperiose esigenze d'interesse generale richieste dalla CEDU come condizione per superare il divieto d'ingerenza.
14. - Nel giudizio di costituzionalità si è costituito il lavoratore appellato, aggiungendo alle argomentazioni dell'ordinanza di rimessione il rilievo che la norma impugnata crea gravi inconvenienti anche nel caso di procedimenti i quali, alla data della sua entrata in vigore, erano pendenti davanti alla Corte di cassazione che li aveva già decisi con sentenza in attesa di pubblicazione.
La norma, poi, sarebbe foriera di discriminazioni fra i lavoratori, a seconda che i datori di lavoro siano o meno già costituiti nelle cause pendenti; infatti, solamente in caso di contumacia della controparte i lavoratori potrebbero rinunziare agli atti del giudizio - non abbisognando, ai sensi dell'art. 306 del codice di procedura civile, dell'accettazione del datore di lavoro convenuto - e ripresentare la medesima domanda giudiziale, sottraendosi così alla disciplina penalizzante introdotta dall'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001.
Né tali discriminazioni potrebbero trovare giustificazione nell'esigenza di regolare una situazione di "assoluta necessità" quale quella positivamente apprezzata dalla sentenza n. 419 del 2000 di questa Corte.
15. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di costituzionalità ed ha eccepito l'irrilevanza della questione, osservando che alla conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato può pervenirsi solo dopo aver verificato che, una volta scaduto il termine illegittimo, l'interruzione della prestazione lavorativa non sia dipesa da mutuo consenso tra le parti del rapporto, circostanza, questa, desumibile anche dalla brevità del rapporto di lavoro e dal lungo lasso di tempo intercorso tra la cessazione della prestazione e la domanda giudiziale diretta ad ottenere la conversione. Nella fattispecie oggetto del giudizio principale, il ricorso con il quale è stata richiesta la conversione è stato depositato dopo un anno e un mese dalla cessazione del rapporto.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub n. 8).
16. - Nel corso di due giudizi promossi da altrettanti lavoratori al fine di ottenere, previo accertamento dell'illegittimità del termine apposto ai rispettivi contratti di lavoro e delle relative proroghe, la condanna del datore di lavoro al ripristino dei rapporti di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate, il Tribunale di Ascoli Piceno, con due distinte ordinanze (r.o. nn. 442 e 443 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione.
Secondo il rimettente, i contratti oggetto dei giudizi principali sono privi di idonea indicazione delle ragioni della apposizione del termine e delle relative proroghe.
Secondo il giudice a quo, pertanto, applicando la legge vigente al momento della instaurazione del rapporto e della introduzione del giudizio, si dovrebbe dichiarare la conversione del primo dei contratti a termine in contratto a tempo indeterminato e condannare il convenuto al ripristino del rapporto. L'entrata in vigore dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 precluderebbe, tuttavia, una pronuncia di tal fatta, ma la norma sarebbe lesiva del canone di ragionevolezza desumibile dall'art. 3, primo comma, Cost., e non ispirata da preminenti ed eccezionali ragioni di interesse generale.
Inoltre essa colliderebbe anche con il principio di uguaglianza enunciato dall'art. 3 Cost., perché introduce un'evidente disparità di trattamento fra i lavoratori assunti a tempo determinato in violazione delle condizioni previste dagli artt. 1, 2 e 4, del d.lgs. n. 368 del 2001 che abbiano avviato una controversia prima del 23 agosto 2008 e non l'abbiano vista ancora definita con sentenza passata in giudicato, ed i lavoratori che, versando nella identica situazione, abbiano promosso la controversia successivamente alla suddetta data.
Infine, il Tribunale di Ascoli Piceno sostiene che l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 lederebbe gli artt. 11, secondo periodo, e 117, primo comma, Cost., perché esso, riducendo la tutela accordata in precedenza dall'ordinamento ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, viola la clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE e, conseguentemente, l'obbligo del legislatore interno di rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ed internazionale.
17. - Nei due giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili o manifestamente infondate.
Secondo la difesa erariale, le questioni sarebbero inammissibili a causa della insufficiente motivazione della rilevanza, in relazione all'affermazione secondo cui si verterebbe in casi nei quali, accertata l'illegittimità del termine, si dovrebbe pronunciare la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il che sarebbe impedito soltanto dall'operatività dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001.
Ad avviso della medesima difesa, le questioni sarebbero, comunque, infondate nel merito.
In particolare, con riferimento alla presunta violazione degli artt. 11 e 117 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri rileva che la norma censurata non è stata introdotta in attuazione della direttiva 1999/70/CE, essendo quindi estranea all'ambito del divieto di reformatio in peius stabilito dalla clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro da essa recepito.
Rispetto alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., invece, la difesa erariale deduce i medesimi argomenti svolti nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub n. 8).
18. - Nel corso di un giudizio promosso da A. D. G. contro il Teatro stabile del Friuli-Venezia Giulia al fine di ottenere l'annullamento del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati con il convenuto, l'accertamento della sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato a far data dal 1° gennaio 2002 e, in via subordinata, la condanna del Teatro stabile del Friuli al risarcimento dei danni per tutto il periodo di mancata prestazione del lavoro, il Tribunale di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 4 del 2009).
Circa il primo dei due predetti parametri costituzionali, il giudice a quo ritiene che la norma censurata abbia introdotto una normativa non riguardante tutti i rapporti a termine stipulati ad una certa data, ma soltanto quelli per i quali il giudizio è in corso, penalizzando così coloro che hanno sollecitamente adìto il giudice a tutela dei propri diritti.
La disposizione - a giudizio del rimettente - non è neanche idonea a realizzare lo scopo per il quale era stata introdotta, dal momento che essa concerne soltanto il contenzioso in essere e non tutto quello potenziale. Essa, poi, non è giustificata da interessi costituzionalmente rilevanti, né dalle dimensioni dell'impresa interessata.
Quanto all'art. 117, primo comma, Cost., il Tribunale di Trieste sostiene che esso sarebbe violato perché la norma censurata si pone in contrasto con l'art. 6 della CEDU, il quale impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso.
19. - Nel giudizio di costituzionalità si è costituito l'attore nella causa principale, riportandosi ai motivi espressi dalla ordinanza di rimessione.
20. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito preliminarmente l'inammissibilità della questione, osservando che l'ipotesi della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso andrebbe sempre verificata preliminarmente ed esclusa, prima di affermare l'applicabilità dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 alla fattispecie concreta.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub n. 8).
21. - E' intervenuta anche l'Associazione "Articolo 21 Liberi di", che ha concluso per la fondatezza della questione di legittimità costituzionale.
22. - Nel corso del giudizio d'appello proposto da A.R. contro la sentenza con la quale il Tribunale di Trani aveva respinto il suo ricorso diretto ad ottenere, previa declaratoria della nullità del termine apposto al contratto in questione, fosse dichiarato che fra le parti si era instaurato ab origine un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che la società convenuta fosse condannata a riammetterla in servizio ed al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal momento in cui aveva posto le proprie attività a disposizione del datore di lavoro, la Corte d'appello di Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 12 del 2009).
La Corte rimettente premette che, ove dovesse ritenersi fondata la tesi del lavoratore appellante circa la genericità della formula adottata nel contratto di lavoro stipulato dalle parti al fine di indicare le ragioni sostitutive poste a giustificazione dell'apposizione del termine, quest'ultima clausola dovrebbe ritenersi nulla. Pertanto, in ipotesi, il contratto di lavoro dedotto nel giudizio principale dovrebbe essere considerato a tempo indeterminato sin dall'inizio.
Tuttavia una simile conseguenza è impedita dall'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, norma che però, ad avviso del giudice a quo, è contraria al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.
Infatti, ove mai altro lavoratore nelle stesse identiche condizioni dell'appellante nel giudizio principale facesse valere le stesse ragioni di illegittimità con un giudizio introdotto successivamente alla data di entrata in vigore dell'art. 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, avrebbe diritto alla riassunzione, non essendo a lui applicabile l'art. 4-bis medesimo.
La norma censurata sembra alla Corte rimettente in contrasto anche con il principio dell'affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla certezza dell'ordinamento giuridico quale elemento essenziale dello Stato di diritto.
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata contrasta, altresì, con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU.
23. - Si è costituita nel giudizio di costituzionalità la lavoratrice A. R., chiedendo l'accoglimento della questione, per motivi analoghi a quelli svolti nelle ordinanze di rimessione.
24. - Si è costituita anche la Poste Italiane S.p.A. che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.
Secondo la società, l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 è norma avente natura transitoria, espressione di un ragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore. Essa, lungi dall'introdurre una diversità di trattamento per lavoratori che si trovino nella medesima situazione, riporta ad equità il contenzioso sui contratti a termine, disciplinando le conseguenze di eventuali violazioni in tutti i casi in cui l'eventuale cumulo dei contratti a termine non abbia superato i trentasei mesi (fattispecie prevista dall'art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001). Il legislatore sarebbe intervenuto per porre fine al contrasto giurisprudenziale circa la possibile applicazione dell'art. 1419, primo comma, cod. civ., chiarendo - per il futuro - il regime sostanziale e l'apparato sanzionatorio.
Inoltre, l'effetto della disposizione, limitato «ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore» della legge n. 133 del 2008, evidenzia l'adesione del legislatore al prevalente orientamento giurisprudenziale, di legittimità e di merito, per cui non può darsi per esistente una volontà di prosecuzione del rapporto di lavoro in capo a colui che pretende di esserne parte dopo un cospicuo lasso di tempo, decorso dallo spirare del termine in questione. Nell'ottica del legislatore i giudizi non in corso alla data di entrata in vigore della norma censurata si dovrebbero concludere con il rigetto del ricorso per risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.
Quanto alla pretesa lesione dell'art. 117, primo comma, Cost., la società eccepisce l'inammissibilità della questione per difetto di motivazione, non potendosi comprendere in che modo, con l'introduzione della norma di cui si discute, sia stata limitata la funzione giurisdizionale. Il contratto a termine oggetto del «giudizio in corso» è comunque soggetto al sindacato giudiziale cui compete l'accertamento della legittimità del contratto stesso, senza alcuna compromissione del libero esercizio della funzione giurisdizionale.
25. - Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale reputa insufficiente la motivazione della rilevanza in relazione all'affermazione secondo cui, nel caso in esame, si verterebbe in un'ipotesi in cui, accertata l'illegittimità del termine, si dovrebbe pronunciare la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e ciò sarebbe impedito soltanto dall'operatività dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub n. 8).
26. - Nel corso di un giudizio promosso dalla Airri Medical con reclamo avverso l'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile dal Tribunale di Viterbo con la quale le era stato ordinato di riammettere in servizio C. L. da essa occupata da alcuni anni ed ininterrottamente come fisioterapista, in virtù di reiterati contratti a termine, il Tribunale di Viterbo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 101, 102, secondo comma, 104, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione (r.o. n. 22 del 2009).
Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe l'art. 3 Cost., perché il legislatore avrebbe introdotto una regolamentazione delle conseguenze scaturenti dalla illegittimità dell'apposizione del termine che riguarda non tutti i contratti a termine stipulati ad una certa data, ma solamente quelli per i quali è in corso un giudizio; per tutti i contratti per i quali non era pendente un giudizio alla data di entrata in vigore della legge, stipulati prima o successivamente a tale data, le conseguenze continuano ad essere invece quelle derivanti dall'azione di annullamento parziale. Sennonché, se scopo della disposizione è quello di sottrarre alle aziende i costi che derivano dalla illegittimità dei contratti a termine, allora non sarebbe dato comprendere il discrimine temporale volto a includere i soli contenziosi in essere e non tutto il potenziale contenzioso. La norma penalizzerebbe proprio chi, comportandosi lealmente, non ha atteso anni ma ha iniziato sùbito la causa, finendo col premiare invece coloro che hanno tardato a promuovere il contenzioso.
Inoltre la differenziazione di regime non sarebbe finalizzata a realizzare interessi costituzionalmente rilevanti e non si fonda neppure sulle dimensioni dell'impresa. In sostanza, tra i lavoratori a tempo determinato verrebbe enucleata una quota (quelli che avevano un giudizio pendente) che viene sottratta alla tutela ordinaria accordata a tutti gli altri lavoratori (che non avevano ancora iniziato la causa e che costituiscono il tertium comparationis nella valutazione della violazione del principio di eguaglianza).
Ad avviso del Tribunale di Viterbo l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 violerebbe anche gli artt. 3, primo comma, e 24 Cost., per contrasto con il generale principio dell'affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla certezza dell'ordinamento giuridico.
Sarebbero lesi, poi, gli artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., poiché un intervento legislativo concernente solamente alcuni giudizi in corso ad una certa data è privo del carattere di astrattezza proprio delle norme giuridiche ed assume un carattere provvedimentale generale invasivo dell'àmbito riservato alla giurisdizione.
Infine, il rimettente denuncia la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in connessione con l'art. 6 della CEDU, il quale impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso.
27. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito l'irrilevanza della questione o, comunque, l'insufficiente motivazione della rilevanza. Infatti, secondo quanto riferito dal rimettente, la lavoratrice ricorrente ha chiesto ed ottenuto in via d'urgenza la riammissione nel posto di lavoro «dalla medesima occupato da alcuni anni e ininterrottamente come fisioterapista, in virtù di reiterati contratti a termine». Se questa è la fattispecie oggetto di causa, sembra probabile che ad essa si applichi l'art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, ipotesi esclusa dall'àmbito di operatività dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub n. 8).
28. - Con sei ordinanze (r.o nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del 2009) di identico contenuto, pronunciate in altrettanti giudizi promossi contro la Poste Italiane S.p.A. aventi ad oggetto la legittimità dell'apposizione del termine ai contratti di lavoro stipulati dai lavoratori attori, il Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001.
Il rimettente deduce la violazione: a) dell'art. 3 Cost., per la disparità di trattamento tra coloro che hanno già ottenuto una sentenza passata in giudicato o che promuoveranno un giudizio dopo l'entrata in vigore della nuova disposizione e coloro che, invece, anche a parità assoluta di situazioni di fatto, si trovano compresi in tale forbice temporale; b) dell'art. 10 Cost., poiché il principio di parità di trattamento è principio generale del diritto internazionale che gli Stati membri si sono obbligati a rispettare, con conseguente violazione dell'art. 117 Cost.; c) del divieto di non regresso posto dalla direttiva 1999/70/CE, atteso che la norma censurata, emanata in esecuzione di tale direttiva, costituisce un evidente arretramento di tutela dei lavoratori, rispetto allo standard comunitario; d) dell'art. 6 della CEDU, il quale, nell'affermare che ogni persona ha diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente e imparziale, vieta al potere legislativo di intromettersi nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire nella risoluzione di una controversia o di una determinata categoria; e) dell'art. 24 Cost., avendo la norma censurata compromesso il diritto di difesa dei ricorrenti, sottraendo loro la possibilità di ottenere il vantaggio della conversione del contratto irregolare, la cui prospettiva aveva direttamente condizionato l'esercizio del loro diritto di azione.
29. - In tutti i giudizi di costituzionalità si sono costituiti i lavoratori ricorrenti nei giudizi a quibus, i quali hanno condiviso integralmente le motivazioni delle ordinanze di rimessione ed hanno segnalato che durante i lavori parlamentari erano state manifestate da più parti forti riserve circa la legittimità della norma impugnata.
30. - Anche Poste Italiane s.p.a. si è costituita in tutti i giudizi di costituzionalità ed ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
Circa le dedotte violazioni degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., la società ha svolto argomentazioni analoghe a quelle contenute nell'atto di costituzione nel giudizio relativo all'ordinanza della Corte di appello di Bari (v., supra, n. 24).
Con riferimento alla denunciata lesione dell'art. 10 Cost., Poste Italiane s.p.a. afferma che la norma censurata è razionale e non vìola il principio di uguaglianza, poiché il diverso trattamento dei lavoratori che non avevano una causa pendente al momento della sua entrata in vigore si giustifica con l'esigenza di tutela dell'interesse generale al buon andamento dell'economia del Paese.
Quanto, infine, alla pretesa violazione dell'art. 24 Cost., anch'essa, ad avviso della società, è insussistente, perché l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 non vieta, né limita il diritto dei lavoratori di agire in giudizio.
31. - In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa erariale le questioni sarebbero inammissibili perché i rimettenti non formulano indicazioni circa le vicende dei rapporti di lavoro, né spiegano per quale motivo - nelle fattispecie in esame - non si potrebbe ritenere che i rapporti di lavoro si siano estinti per mutuo consenso. Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 10 e 117 Cost. sarebbero, poi, ulteriormente inammissibili perché non rientra tra i poteri del giudice nazionale interpretare in via definitiva il diritto comunitario.
Nel merito, il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che non sussiste le pretesa violazione degli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., in rapporto alla clausola di non regresso, poiché, da un lato, la direttiva 1999/70/CE non si occupa delle conseguenze dell'illegittima apposizione del termine e, dall'altro lato, l'introduzione di una specifica disposizione, prima mancante, relativa a quelle conseguenze completa il sistema di tutela e non ne determina un arretramento.
Circa le denunciate lesioni dell'art. 3 Cost. e dei principi sulla tutela giurisdizionale, la difesa erariale sostiene che esse sono insussistenti, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v. supra, sub n. 8).
32. - Nel corso del giudizio di appello proposto da C.A. avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Gela aveva respinto la sua domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con la Poste Italiane S.p.A. e la conversione del contratto come contratto a tempo indeterminato, la Corte di appello di Caltanissetta ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione (r.o. n. 43 del 2009).
In relazione alla rilevanza della questione, rileva la Corte rimettente che, per effetto della norma censurata, non sarebbe più possibile stabilizzare il rapporto della lavoratrice.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo osserva che: a) in relazione all'art. 3 Cost., l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 introduce un'irragionevole disparità di trattamento tra i lavoratori collegata al solo dato temporale della data di proposizione del ricorso; b) in relazione all'art. 24 Cost., costituisce ius receptum il principio secondo cui la sovrana volontà del legislatore di emanare una norma incontra una serie di limiti attinenti alla salvaguardia di fondamentali valori di civiltà giuridica tra cui il rispetto dell'affidamento legittimamente sorto negli interessati in ordine ad un determinato assetto giuridico, nella fattispecie «stravolto in corso di causa, con una indebita limitazione del diritto di difesa per coloro che hanno giudizi in corso»; c) la norma censurata si pone in conflitto con l'art. 6 della CEDU (con conseguente violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.), il quale impone all'amministrazione della giustizia di uno Stato di non influire con norme ad hoc nella risoluzione di controversie in corso.
33. - Nel giudizio di costituzionalità si è costituita Poste Italiane s.p.a. che ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle contenute nell'atto di costituzione nel giudizio relativo all'ordinanza della Corte di appello di Bari (v. supra, n. 24).
34. - E' intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito l'inammissibilità della questione, perché il rimettente non ha verificato se nella fattispecie il rapporto di lavoro si sia estinto per mutuo consenso.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v. supra, sub n. 8).
35. - Nel corso di un giudizio instaurato da M. V. nei confronti di Poste Italiane s.p.a., per ottenere l'annullamento del termine apposto al proprio contratto di lavoro, con conseguente conversione del proprio rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato sin dalla data di assunzione, il Tribunale di Teramo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 70 del 2009).
Rileva il rimettente che la norma censurata è priva di razionalità, poiché, ove un altro lavoratore, nelle stesse condizioni della attrice nel giudizio principale, facesse valere le stesse ragioni di illegittimità in una causa introdotta in data successiva all'entrata in vigore del citato art. 4-bis, quel lavoratore avrebbe diritto alla riassunzione, e non all'indennità prevista dalla norma censurata, non essendo a lui applicabile la nuova disciplina. Inoltre, per effetto del menzionato art. 4-bis, paradossalmente è penalizzato proprio colui che ha già fatto ricorso al giudice, di modo che la norma è irragionevolmente punitiva nei confronti di chi ha mostrato di voler reagire prontamente ad una violazione di legge.
Secondo il rimettente, la norma censurata si pone in contrasto anche con il generale principio dell'affidamento legittimamente assunto dal cittadino sulla certezza e sicurezza del diritto, quale elemento essenziale di uno Stato di diritto, più volte valorizzato da questa Corte.
Quanto all'art. 117, primo comma, Cost., in connessione con l'art. 6 della CEDU, osserva il Tribunale di Teramo che la norma impugnata comporta una indebita intromissione del legislatore nazionale nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una controversia o di una determinata categoria di controversie.
36. - Nel giudizio di costituzionalità si è costituita Poste Italiane s..p.a., la quale ha eccepito l'inammissibilità o l'infondatezza della questione, invocando, preliminarmente, l'ampia sfera di discrezionalità propria del legislatore nell'innovare alla disciplina vigente e, per il resto, ribadendo quanto esposto nella memoria di costituzione depositata in relazione all'ordinanza della Corte di appello di Bari (v., supra, n. 24).
37. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ribadendo le medesime argomentazioni formulate nei confronti dell'ordinanza n. 427 del 2008 (v. supra, sub n. 8).
38. - Nel corso di un giudizio di appello, proposto da Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Verona che aveva accertato l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con S.R. e condannato la società al ripristino del rapporto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno della messa in mora, la Corte di appello di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost. (r.o. n. 93 del 2009).
La Corte rimettente, premesso che il termine apposto al contratto di lavoro dedotto nel giudizio principale è nullo per contrasto con l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 e che dunque, nella fattispecie occorre far applicazione dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, sostiene che quest'ultima disposizione viola: a) l'art. 3 Cost., poiché è introduttiva di irragionevoli disparità di trattamento tra lavoratori che hanno stipulato un contratto a termine in pari data; b) l'art. 24 Cost., perché lede il diritto all'azione proprio nei confronti dei più solleciti nell'esercitarlo; c) l'art. 111 Cost., per aver, nel corso del procedimento giudiziario, modificato la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato, in assenza di motivi oggettivi o di imperiose ragioni di interesse generale; d) l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU, il quale impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso.
39. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale invoca la declaratoria di manifesta inammissibilità della questione, perché la Corte rimettente non ha verificato se nella fattispecie il rapporto si sia estinto per mutuo consenso.
Nel merito, la difesa erariale sostiene la manifesta infondatezza della questione sulla base delle stesse argomentazioni esposte nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v. supra, sub n. 8).
40. - Nel corso di un giudizio di appello proposto da Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Lanciano relativa al risarcimento del danno spettante ad J.C., assunto con contratto a termine, la Corte di appello di L'Aquila ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 per contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 95 del 2009).
La Corte rimettente afferma che la norma censurata lede il principio di uguaglianza sia con riferimento alla posizione dei soggetti che svolgono attività economica (unica beneficiata dalla disposizione in esame essendo la Poste Italiane S.p.A.), sia con riferimento ai lavoratori (irrazionalmente discriminati in base alla mera pendenza del processo).
Invece la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore nazionale di rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, deriverebbe dal contrasto dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 con la clausola di non regresso prevista dalla clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE e con l'art. 6 della CEDU che vieta interventi legislativi diretti a favorire una delle parti in causa.
41. - Nel giudizio di costituzionalità si è costituita Poste Italiane s.p.a., eccependo l'inammissibilità, o la manifesta infondatezza della questione, riproponendo sostanzialmente le argomentazioni già svolte nelle memorie depositate in relazione ad altre ordinanze di rimessione, più sopra riassunte.
In particolare, quanto all'art. 117 Cost., la società sostiene che la Corte rimettente avrebbe dovuto disapplicare la normativa censurata, in quanto contrastante con la clausola di non regresso contenuta nella direttiva del 1999, o quanto meno avrebbe dovuto esperire il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Quanto, poi, all'art. 6 della CEDU, la deducente eccepisce l'inammissibilità della questione per carenza di motivazione, non comprendendosi in che modo la norma censurata comprimerebbe l'esercizio della funzione giurisdizionale.
42. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito l'inammissibilità della questione, perché l'ordinanza di rimessione è del tutto priva di indicazioni di fatto circa le vicende del rapporto controverso (durata del contratto, singolo contratto o reiterazione di contratti, intervallo tra l'uno e l'altro contratto seguente, data di proposizione del ricorso).
Inoltre la questione sollevata per asserito contrasto con la clausola comunitaria di non regresso sarebbe inammissibile anche perché il giudice a quo non ha preventivamente acquisito dalla Corte di giustizia l'interpretazione pregiudiziale della norma censurata.
Nel merito la difesa erariale sostiene l'infondatezza della questione, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle contenute negli atti di intervento nei giudizi relativi alle ordinanze pronunciate dal Tribunale di Milano (v. supra, sub n. 31).
43. - Nel corso del giudizio di appello promosso da G.C. contro la sentenza con la quale il giudice di primo grado aveva respinto la sua domanda volta ad ottenere l'accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con la Poste Italiane S.p.A. e la declaratoria dell'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 4 ottobre 2003, o in subordine, per il ripristino del rapporto e la condanna della società datrice di lavoro alla corresponsione delle retribuzioni mensili maturate, anche a titolo risarcitorio, fino all'effettiva reintegrazione, la Corte d'appello di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 102 del 2009).
Ad avviso della Corte rimettente, la clausola appositiva del termine di scadenza al contratto di lavoro dedotto in giudizio non reca gli elementi di specificazione che ne legittimano l'apposizione e pertanto, in base ai princìpi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, all'illegittimità del termine, consegue l'invalidità parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Tali conseguenze della eventuale declaratoria di illegittimità del contratto sarebbero tuttavia precluse per effetto dell'entrata in vigore della norma censurata, la quale, però, violerebbe, in primo luogo, l'art. 3 Cost., poiché il legislatore non ha regolato diversamente - come bene avrebbe potuto - gli effetti di tutti i contratti stipulati da una certa data in poi, ma ha scelto, in maniera del tutto irragionevole, di modificare la disciplina sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendone la tutela mentre pendono i giudizi e solo per il fatto di avere una causa in corso.
Quanto al contrasto con gli artt. 24, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 violerebbe il principio costituzionale del giusto processo, perché, nel corso del procedimento giudiziario, ha modificato la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengano tale scelta legislativa.
Inoltre la norma censurata determina un'alterazione della condizione di parità nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa, perché il legislatore è intervenuto allo scopo di favorire una definizione delle controversie pendenti in termini di minor impatto economico per le parti datoriali, senza che tale scelta sia sorretta da imperiose ragioni d'interesse generale.
Ciò in contrasto anche con l'art. 6 della CEDU (e conseguente violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.) secondo il quale gli Stati aderenti alla Convenzione devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative finalizzate ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso.
44. - Costituitosi nel giudizio di costituzionalità, il lavoratore ha invocato l'accoglimento della sollevata questione, riproponendo gran parte delle argomentazioni tratte dall'ordinanza di rimessione, in riferimento a tutti i parametri costituzionali ivi considerati.
Il ricorrente denuncia, in aggiunta, la violazione degli artt. 77, 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.
45. - Si è costituita in giudizio anche Poste Italiane s.p.a. che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.
La società sostiene che l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 non è irragionevole, essendo finalizzata ad arginare, nell'interesse generale, l'eccessivo ampliamento dell'organico delle imprese dovuto alla conversione a tempo indeterminato di numerosi contratti di lavoro a termine.
La ragionevolezza della previsione normativa è confermata dal suo carattere temporaneo ed eccezionale e dalla razionalità del modello sanzionatorio da essa previsto che realizza un equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi in gioco.
Neppure sussisterebbe violazione dell'art. 24 Cost., perché la norma censurata non pone alcun divieto o limite al diritto dei lavoratori di agire in giudizio.
46. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito l'inammissibilità della questione, perché la Corte rimettente non ha verificato se nella fattispecie il rapporto si sia estinto per mutuo consenso.
Nel merito, la difesa erariale sostiene la manifesta infondatezza della questione sulla base delle stesse argomentazioni esposte nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub n. 8).
47. - In prossimità dell'udienza di discussione hanno depositato memorie i lavoratori costituiti nei giudizi relativi alle ordinanze nn. 434 e 441 del 2008 e 4, 12, 26, 27, 86, 87 e 102 del 2009, la Poste Italiane S.p.A. nei giudizi relativi alle ordinanze nn. 217, 413 e 434 del 2008, 12, 25, 26, 27, 28, 43, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del 2009 ed il Presidente del Consiglio dei ministri nei giudizi relativi alle ordinanze nn. 413 e 434 del 2008, 4, 12, 25, 26, 27, 28, 43, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del 2009.
Tutte le parti insistono nelle conclusioni già rassegnate nei rispettivi precedenti scritti difensivi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - Con separate ordinanze, le Corti di appello di Torino, Genova, Bari, Caltanissetta, Venezia, L'Aquila e Roma ed i Tribunali di Roma, Trani, Ascoli Piceno, Trieste, Viterbo, Milano e Teramo hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 76, 77, 101, 102, 104, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, 2, comma 1-bis, 4-bis ed 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES).
2. - La parziale identità di molte delle questioni proposte e l'appartenenza di tutte le norme censurate allo stesso testo normativo rendono opportuna la riunione dei giudizi al fine della loro decisione con un'unica sentenza.
3. - I Tribunali di Roma (r.o. n. 413 del 2008) e di Trani (r.o. n. 434 del 2008) dubitano, in particolare, della legittimità degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001.
La prima delle predette norme stabilisce che «È consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro» [le parole «, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro», sono state aggiunte dall'art. 21, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133].
L'art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, invece, dispone, al comma 1, l'abrogazione, tra l'altro, dell'intera legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), la quale, all'art. 1, secondo comma, lettera b), consentiva l'apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato «quando l'assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione».
Ad avviso dei rimettenti, le norme censurate, nel sopprimere l'art. 1, secondo comma, lettera b), della legge n. 230 del 1962 e, quindi, nell'abolire l'onere dell'indicazione del nominativo del lavoratore sostituito quale condizione di liceità dell'assunzione a tempo determinato di altro dipendente, violerebbero l'art. 77 Cost., poiché la legge di delega 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità Europee - Legge comunitaria 2000), in esecuzione della quale è stato emanato il d.lgs. n. 368 del 2001, attribuiva al Governo esclusivamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, la quale non conteneva alcuna disposizione in tema di presupposti per l'apposizione delle clausole del termine. Sussisterebbe contrasto, poi, con l'art. 76 Cost., poiché la menzionata legge n. 422 del 2000 non prevedeva princìpi direttivi ulteriori rispetto all'attuazione della direttiva 1999/70/CE la quale, alla clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro da essa recepito, dispone che l'applicazione dell'accordo non può costituire un motivo per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'àmbito coperto dall'accordo stesso, mentre le disposizioni censurate, eliminando la necessità dell'indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, determinerebbero un arretramento della tutela garantita ai lavoratori dal precedente regime. Infine, ad avviso del solo Tribunale di Roma, sarebbe leso anche l'art. 117, primo comma, Cost., per violazione dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
3.1. - La questione non è fondata nei termini di seguito precisati.
Entrambi i rimettenti omettono di considerare adeguatamente che l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, dopo aver stabilito, al comma 1, che l'apposizione del termine al contratto di lavoro è consentita a fronte di ragioni di carattere (oltre che tecnico, produttivo e organizzativo, anche) sostitutivo, aggiunge, al comma 2, che «L'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1».
L'onere di specificazione previsto da quest'ultima disposizione impone che, tutte le volte in cui l'assunzione a tempo determinato avvenga per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo, risulti per iscritto anche il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione. Infatti, considerato che per "ragioni sostitutive" si debbono intendere motivi connessi con l'esigenza di sostituire uno o più lavoratori, la specificazione di tali motivi implica necessariamente anche l'indicazione del lavoratore o dei lavoratori da sostituire e delle cause della loro sostituzione; solamente in questa maniera, infatti, l'onere che l'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001 impone alle parti che intendano stipulare un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato può realizzare la propria finalità, che è quella di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel corso del rapporto.
Non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1, ed 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 innovato, sotto questo profilo, rispetto alla disciplina contenuta nella legge n. 230 del 1962, non sussiste la denunciata violazione dell'art. 77 della Costituzione.
Invero, l'art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega n. 422 del 2000 consentiva al Governo di apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti nei singoli settori interessati dalla normativa da attuare e ciò al fine di evitare disarmonie tra le norme introdotte in sede di attuazione delle direttive comunitarie e, appunto, quelle già vigenti.
In base a tale principio direttivo generale, il Governo era autorizzato a riprodurre, nel decreto legislativo di attuazione della direttiva 1999/70/CE, precetti già contenuti nella previgente disciplina del settore interessato dalla direttiva medesima (contratto di lavoro a tempo determinato). Infatti, inserendo in un unico testo normativo sia le innovazioni introdotte al fine di attuare la direttiva comunitaria, sia le disposizioni previgenti che, attenendo alla medesima fattispecie contrattuale, erano alle prime intimamente connesse, si sarebbe garantita la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico, in conformità con quanto richiesto dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega.
Non sussiste neppure la denunciata lesione dell'art. 76 Cost., poiché le norme censurate, limitandosi a riprodurre la disciplina previgente, non determinano alcuna diminuzione della tutela già garantita ai lavoratori dal precedente regime e, pertanto, non si pongono in contrasto con la clausola n. 8.3 dell'accordo-quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la quale l'applicazione dell'accordo non avrebbe potuto costituire un motivo per ridurre il livello generale di tutela già goduto dai lavoratori.
Per la stessa ragione (insussistenza, sotto il profilo in esame, di un contrasto con la normativa comunitaria) è infondata la censura formulata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., il quale impone al legislatore di rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
4. - Il Tribunale di Roma (r.o. n. 217 del 2008) dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, aggiunto dall'art. 1, comma 558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006). In virtù di tale disposizione è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato quando l'assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell'organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell'anno cui le assunzioni si riferiscono.
Ad avviso del rimettente, la norma, consentendo alle aziende concessionarie di servizi nei settori delle poste di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato (oltre che per le causali e nelle forme previste dall'art. 1 dello stesso d.lgs. n. 368 del 2001) anche liberamente entro i limiti temporali e quantitativi in essa indicati, violerebbe, da un lato, l'art. 3, primo comma, Cost., poiché introdurrebbe, ai danni dei lavoratori operanti nel settore delle poste, una disciplina differenziata del lavoro a termine priva di ragionevolezza e di valide ragioni giustificatrici e, dall'altro, gli artt. 101, 102 e 104 Cost., perché l'introduzione di una «acasualità» per le assunzioni a termine nel settore postale sottrarrebbe ingiustificatamente al giudice ordinario il potere di verifica delle effettive ragioni oggettive e temporanee poste alla base di dette assunzioni.
4.1. - La questione non è fondata.
Innanzitutto non è ravvisabile alcuna lesione dell'art. 3 della Costituzione.
La norma censurata costituisce la tipizzazione legislativa di un'ipotesi di valida apposizione del termine. Il legislatore, in base ad una valutazione - operata una volta per tutte in via generale e astratta - delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico flessibile, ha previsto che tali imprese possano appunto stipulare contratti di lavoro a tempo determinato senza necessità della puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici del termine.
Tale valutazione preventiva ed astratta operata dal legislatore non è manifestamente irragionevole.
Infatti, la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità dell'organico, è direttamente funzionale all'onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la realizzazione e l'esercizio della rete postale pubblica i quali «costituiscono attività di preminente interesse generale», ai sensi dell'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261 (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio).
In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla direttiva 1997/67/CE, l'Italia deve assicurare lo svolgimento del c.d. "servizio universale" (cioè la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione degli invii postali fino a 2 chilogrammi; la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione dei pacchi postali fino a 20 chilogrammi; i servizi relativi agli invii raccomandati ed agli invii assicurati: art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 261 del 1999); tale servizio universale «assicura le prestazioni in esso ricomprese, di qualità determinata, da fornire permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, a prezzi accessibili a tutti gli utenti» (art. 3, comma 1); l'impresa fornitrice del servizio deve garantire tutti i giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a settimana, salvo circostanze eccezionali valutate dall'autorità di regolamentazione, una raccolta ed una distribuzione al domicilio di ogni persona fisica o giuridica (art. 3, comma 4); il servizio deve esser prestato in via continuativa per tutta la durata dell'anno (art. 3, comma 3).
Non è, dunque, manifestamente irragionevole che ad imprese tenute per legge all'adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato.
Si aggiunga che l'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 impone alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzioni a termine, prevedendo così un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l'effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma.
La questione non è fondata neppure sotto il profilo della pretesa violazione degli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione.
La norma censurata si limita a richiedere, per la stipula di contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l'indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell'organico complessivo). Pertanto il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale.
5. - Con diciannove distinte ordinanze, le Corti di appello di Torino (r.o. n. 427 del 2008), Genova (r.o. n. 441 del 2008), Bari (r.o. n. 12 del 2009), Caltanissetta (r.o. n. 43 del 2009), Venezia (r.o. n. 93 del 2009), L'Aquila (r.o. n. 95 del 2009) e Roma (r.o. n. 102 del 2009), ed i Tribunali di Roma (r.o. n. 413 del 2008), Ascoli Piceno (r.o. nn. 442 e 443 del 2008), Trieste (r.o. n. 4 del 2009), Viterbo (r.o. n. 22 del 2009), Milano (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del 2009) e Teramo (r.o. n. 70 del 2009), hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del d.l. n. 112 del 2008.
La norma censurata dispone che «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), e successive modificazioni».
I giudici rimettenti, premettendo che, secondo il "diritto vivente", in caso di violazione delle prescrizioni contenute nell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, può essere disposta la conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e riconosciuta al lavoratore una tutela risarcitoria piena, affermano che l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 violerebbe: l'art. 3 Cost., poiché è fonte di irragionevole disparità di trattamento, collegata al solo dato temporale del momento di proposizione del ricorso giudiziale, tra lavoratori che si trovano nella identica situazione di fatto (r.o. nn. 413, 427, 441, 442 e 443 del 2008; 4, 12, 25, 26, 27, 28, 43, 86, 87 e 93 del 2009); l'art. 3 Cost., in quanto introduce una disciplina priva di ragionevolezza, perché: a) interviene nei rapporti di diritto privato sacrificando arbitrariamente il diritto del lavoratore assunto illegittimamente a tempo determinato a godere della tutela garantita dalla legge vigente all'epoca dell'instaurazione del rapporto e favorendo contemporaneamente il datore di lavoro che ha dato luogo all'illegittimità (r.o. nn. 442 e 443 del 2008); b) non è ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono i giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso (r.o n. 102 del 2009); c) la delimitazione temporale del trattamento discriminatorio si riferisce alla mera pendenza del processo, e quindi ad una circostanza assolutamente accidentale (r.o. nn. 22, 70 e 95 del 2009); gli artt. 3, primo comma, e 24 Cost., perché vìola il generale principio dell'affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla certezza dell'ordinamento giuridico (r.o. nn. 413 del 2008; 12, 22 e 70 del 2009); l'art. 10 Cost., poiché lede il principio di parità di trattamento che è principio generale del diritto internazionale e comunitario che l'Italia si è impegnata a rispettare (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del 2009); gli artt. 11, secondo periodo, e 117, primo comma, Cost., perché, riducendo la tutela accordata in precedenza dall'ordinamento ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, vìola la clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE e, conseguentemente, l'obbligo del legislatore interno di rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ed internazionale (r.o. nn. 442 e 443 del 2008); l'art. 24 Cost., perché compromette il diritto di difesa dei lavoratori ricorrenti, sottraendo loro la possibilità di ottenere il vantaggio della conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la cui prospettiva aveva direttamente condizionato l'esercizio del loro diritto di azione (r.o. nn. 427 del 2008; 24, 25, 26, 27, 28, 43, 86, 87, 93 e 102 del 2009); l'art. 111 Cost., con riferimento al principio del giusto processo, perché la norma censurata modifica, nel corso dei procedimenti giudiziali, la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato, senza che ricorrano idonee ragioni oggettive o generali (r.o. nn. 93 e 102 del 2009); gli artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., poiché un intervento legislativo che riguardi solamente alcuni giudizi in corso ad una certa data è privo del requisito di astrattezza proprio delle norme giuridiche ed assume un carattere provvedimentale generale invasivo dell'àmbito riservato alla giurisdizione (r.o. nn. 413 del 2008 e 22 del 2009); l'art. 117, primo comma, Cost., in connessione con l'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848), il quale impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso (r.o. nn. 413 e 441 del 2008; 4, 12, 22, 43, 25, 26, 27, 28, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del 2009); l'art. 117, primo comma, Cost., poiché la norma censurata costituisce un completamento o una modifica del d.lgs. n. 368 del 2001 e dunque un'applicazione della direttiva 1999/70/CE e avrebbe pertanto dovuto rispettare la clausola di non regresso enunciata nella clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro recepito dalla medesima direttiva (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del 2009).
5.1. - Nel giudizio introdotto dall'ordinanza n. 4 del 2009 è intervenuta l'associazione "Articolo 21 Liberi di", che non era parte nel relativo giudizio a quo.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, possono partecipare al giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (da ultimo, sentenza n. 47 del 2008). L'associazione "Articolo 21 Liberi di" motiva il proprio intervento con la necessità di rappresentare alla Corte che il lavoro precario è largamente diffuso anche nel settore dell'editoria e della radiotelevisione. L'interesse dell'associazione è, quindi, privo di correlazione con le specifiche e peculiari posizioni soggettive dedotte nel giudizio principale ed il suo intervento deve essere dichiarato inammissibile.
5.2. - Le questioni sollevate dalle Corti di appello di Torino, Caltanissetta, Venezia e L'Aquila e dal Tribunale di Teramo sono inammissibili per insufficiente motivazione sulla rilevanza.
Infatti gli atti di rimessione nulla dicono circa la legittimità o meno del termine apposto ai contratti di lavoro oggetto dei relativi giudizi a quibus. Pertanto questa Corte non è posta in condizione di verificare la sussistenza, nelle singole fattispecie, del requisito della rilevanza, perché ben potrebbe darsi che, in quelle ipotesi, non sussista violazione né dell'art. 1, né dell'art. 2, né dell'art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, con conseguente inapplicabilità dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 nei giudizi principali.
5.3. - La questione sollevata dalla Corte d'appello di Bari è inammissibile per un'analoga ragione. Infatti, il giudice a quo si esprime in termini meramente possibilistici circa la fondatezza della tesi - sostenuta dal lavoratore - della nullità del termine apposto al contratto per cui è causa e, quindi, neppure in tal caso questa Corte può essere certa della rilevanza della questione.
5.4. - Le questioni sollevate dal Tribunale di Milano sono inammissibili per difetto di rilevanza, perché nella motivazione di ciascun atto di rimessione si legge che il relativo giudizio a quo è stato promosso dopo l'entrata in vigore della norma censurata, mentre l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 si applica solamente alle controversie in corso alla data della sua entrata in vigore.
5.5. - Residuano, pertanto, le questioni sollevate dalle Corti d'appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l'inammissibilità di tali questioni (ad eccezione di quella sollevata dal Tribunale di Roma), perché i rimettenti non hanno spiegato per quale ragione, nella fattispecie concreta oggetto del loro giudizio, pur ammettendo che il termine sia stato illegittimamente apposto, non si dovrebbe dichiarare l'estinzione del rapporto per mutuo consenso.
L'eccezione non è fondata.
In effetti, l'ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 442 del 2008 espressamente dà atto dell'infondatezza dell'eccezione di estinzione del rapporto per mutuo consenso sollevata dal datore di lavoro nel giudizio principale.
Nelle ordinanze delle Corti di appello di Genova e di Roma sono indicate le eccezioni sollevate in secondo grado dalle parti datoriali e tra esse non figura quella di estinzione del rapporto per mutuo consenso; ciò è sufficiente al fine di ritenere rilevante la questione di legittimità dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 nei relativi giudizi principali, poiché questi ultimi sono giudizi di secondo grado nei quali, in difetto di una specifica eccezione sollevata dalla parte interessata, il giudice non può affermare l'estinzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.
Analogamente, nell'ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 443 del 2008 sono riportate tutte le difese del datore di lavoro e, tra queste, non v'è l'eccezione di estinzione per mutuo consenso, non rilevabile d'ufficio.
Nella propria ordinanza di rimessione il Tribunale di Trieste lascia impregiudicata l'eccezione di estinzione per mutuo consenso formalmente eccepita dal datore di lavoro e tuttavia aggiunge che, in ogni caso, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, vi sarebbero gli estremi per la dichiarazione della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla data di sottoscrizione del primo contratto di lavoro a tempo determinato tra le parti alla scadenza dell'ultimo; conseguentemente, l'art. 4-bis impedirebbe anche tale, sia pure ridotta, declaratoria di conversione del rapporto.
L'ordinanza del Tribunale di Viterbo è stata pronunciata nel corso di un giudizio cautelare promosso poco dopo la scadenza del contratto a termine, onde - avendo il lavoratore immediatamente reagito in sede giudiziale - non sussiste la circostanza del consistente lasso di tempo intercorso tra la scadenza del termine e la proposizione del ricorso giudiziale richiesta dalla giurisprudenza di legittimità per poter affermare che si sia formato un mutuo consenso per l'estinzione del rapporto.
5.6. - Con riferimento alle questioni sollevate proprio dal Tribunale di Viterbo, il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce, inoltre, la loro inammissibilità perché, dalla motivazione dell'ordinanza di rimessione, apparirebbe che la fattispecie dedotta nel giudizio principale sia da ricondurre all'ambito di operatività dell'art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001 (che disciplina l'ipotesi della successione dei contratti a termine), fattispecie cui non si applica l'art. 4-bis dello stesso d.lgs. n. 368.
L'eccezione non è fondata.
Infatti il Tribunale di Viterbo afferma espressamente che l'ordine di riammissione in servizio della lavoratrice - contenuto nell'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. contro la quale è stato proposto il reclamo che il rimettente deve decidere - è stato pronunciato perché il giudice di prime cure aveva ritenuto la violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 per omessa indicazione delle causali dell'assunzione a tempo determinato, fattispecie che rientra pacificamente nell'àmbito di operatività dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368.
5.7. - Nel merito le questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. dalle Corti d'appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo sono fondate.
In effetti, situazioni di fatto identiche (contratti di lavoro a tempo determinato stipulati nello stesso periodo, per la stessa durata, per le medesime ragioni ed affetti dai medesimi vizi) risultano destinatarie di discipline sostanziali diverse (da un lato, secondo il diritto vivente, conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato e risarcimento del danno; dall'altro, erogazione di una modesta indennità economica), per la mera e del tutto casuale circostanza della pendenza di un giudizio alla data (anch'essa sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice) del 22 agosto 2008 (giorno di entrata in vigore dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112).
Siffatta discriminazione è priva di ragionevolezza, né è collegata alla necessità di accompagnare il passaggio da un certo regime normativo ad un altro. Infatti l'intervento del legislatore non ha toccato la disciplina relativa alle condizioni per l'apposizione del termine o per la proroga dei contratti a tempo determinato, ma ha semplicemente mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro.
Deve pertanto essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, con assorbimento delle questioni sollevate in riferimento ad altri parametri costituzionali dalle Corti d'appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 111, 117, primo comma, della Costituzione, dalle Corti di appello di Torino, Bari, Caltanissetta, Venezia e L'Aquila e dai Tribunali di Milano e Teramo con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 76, 77 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza n. 413 del 2008 e dal Tribunale di Trani con l'ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza n. 217 del 2008.

giovedì 16 luglio 2009

Dottrina - La cessione del Credito in generale e nella R.C.A.


La cessione del credito in generale e nella R.C.A.
venerdì 10 luglio 2009
Alberto Rossi


LA CESSIONE DEL CREDITO
IN GENERALE E NELLA R.C.A.
-----
Relazione del Dott. Alberto Rossi, GdP di Roma
- Roma, 20 novembre 2008 -

2° Seminario di Diritto Assicurativo
Roma, 18 settembre - 20 novembre 2008



* * *



LA CESSIONE DEL CREDITO
IN GENERALE E NELLA R.C.A.

(Relazione del Dott. Alberto Rossi, GdP di Roma)
-Roma, 20 novembre 2008-

PARTE GENERALE
(Articoli 1260/1267 cod. civ.)

IL CONTRATTO DI CESSIONE DEL CREDITO

1) la cessione del credito è un contratto di norma bilaterale (creditore originario e cessionario), ossia SI PERFEZIONA “anche senza il consenso del debitore” (art. 1260 c.c.);
in tal caso la cessione HA EFFETTO nei confronti del debitore solo a seguito (articolo 1264 cod. civ.):
a) della sua accettazione;
b) della notificazione della cessione; il termine “notificazione” deve intendersi nel suo più ampio significato di qualsiasi “attività diretta a produrre la conoscenza di un atto in capo al destinatario” (così Cass. n. 28300/2005); ne consegue che la notificazione prevista dall’articolo 1264 c.c. è un atto a forma libera (Cass. n. 20143/2005, 9761/2005, 7919/2004, 1510/2001, 10788/1999, 4774/1998), anche se a volte la giurisprudenza richiede il requisito minimo della forma scritta (Cass. nn. 798/2001, 8387/1997); non è necessaria la sottoscrizione del notificante, laddove sia certa la sua provenienza (Cass. n. 7919/2004) e la comunicazione può indifferentemente provenire dal cedente o dal cessionario (Cass. n. 9761/2005); non è necessario che la notificazione avvenga mediante allegazione del contratto di cessione, essendo sufficiente l’indicazione degli elementi essenziali (sempre Cass. n. 9761/2005 e Cass. n. 13954/2006); gli effetti previsti dall’articolo 1264 c.c. si producono anche direttamente con la citazione in giudizio (Cass. nn. 7013/1988, 4077/1990, 14610/2004, 20143/2005, 5997/2006); esistono poi norme speciali di legge che disciplinano forme di pubblicità che mirano a portare cumulativamente a conoscenza di tutti i debitori l’intervenuta cessione dei crediti: è il caso previsto dall’articolo 58, comma 2 del d.lgs. n. 385/1993 (testo unico delle leggi in materia bancaria), che prevede l’iscrizione nel registro delle imprese e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della cessione ad una banca di un’azienda o un ramo di azienda o comunque di una serie di rapporti giuridici in blocco; Secondo la Cassazione la pubblicazione nella G.U. rende immediatamente efficace la cessione dei crediti nei confronti della generalità dei debitori, senza che vi sia bisogno di provvedere alla notifica della cessione ad ogni singolo debitore (Cass. n. 5997/2006)
c) nel caso in cui il debitore sia comunque venuto a conoscenza della cessione (onere della prova a carico del cessionario), se paga il credito al cedente non è liberato (comma 2).
2) ad efficacia traslativa,
a) di norma il contratto di cessione determina immediatamente (giurisprudenza consolidata) il trasferimento della titolarità del diritto di credito, restando, eventualmente, differito il solo effetto della opponibilità al debitore, ricorrendo i presupposti di cui all’articolo 1264 c.c., di un trasferimento del diritto già perfezionatosi (cfr. Cass. nn. 13954/2006, 283000/2005, 1312/2005, 7919/2004, 20548/2004, 1510/2001, ma già in tal senso Cass. n. 3887/1975); da ciò deriva la facoltà in capo al cessionario di cedere a sua volta il credito ancor prima della notifica della cessione al debitore; diversa è l’ipotesi, disciplinata dall’art. 1265 c.c., in cui il credito sia contestualmente ceduto dal creditore originario (o dal suo cessionario) a più persone; in tal caso prevale la cessione che è stata notificata per prima al debitore, ovvero quella che è stata accettata per prima dal debitore medesimo con data certa, anche se posteriore alle altre cessioni.
b) in alcuni casi l’effetto traslativo è differito in un momento successivo: come nel caso della cessione di un credito futuro, pacificamente ammessa dalla giurisprudenza (cfr. Cass. nn. 6192/2008, 26664/2007, 17590/2005, 16826/2005, 11612/2004, 4930/2003, 1510/2001, Cass. n. 184/1966) specie in ambito di crediti nascenti da rapporti di lavoro (ad es. trattamento di fine rapporto) e da rapporti finanziari (cessione di crediti di impresa, presenti e futuri – vedasi factoring); in tal caso l’effetto traslativo è differito all’insorgenza del credito (cfr. Cass. n. 28300/2005); l’articolo 3 della legge n. 52/1991 sulla “disciplina della cessione dei crediti di impresa” prevede espressamente la possibilità di cessione di crediti futuri, ossia la cessione di crediti “ancor prima che siano stipulati i contratti dai quali sorgeranno”;
c) diversa è, di contro, l’ipotesi in cui le parti si impegnino alla cessione futura di uno o più crediti già esistenti, negozio avente natura tipicamente obbligatoria, assimilabile al contratto preliminare, ed estraneo alla fattispecie di cui agli articoli 1260 ss. c.c.
3) “a titolo oneroso o gratuito” (art. 1260, comma 1, c.c.).
La cessione del credito è caratterizzata dalla atipicità della causa (cd. negozio a causa variabile). Può integrare una compravendita (con relativa applicabilità degli articoli 1470 ss. c.c.), un negozio solutorio (ad esempio la cessione di un credito in luogo dell’adempimento ex articolo 1198 c.c.), una donazione, un negozio indiretto od anche un negozio misto con pluralità di cause (cfr. Cass. n. 4213/1980), ove l’effetto traslativo tipico della compravendita si accompagna alla causa del mandato, ad una causa atipica di garanzia od altro (vedasi Cass. ss.uu. n. 28269/2005, e Cass. nn. 16383/2006, 13253/2006, 4796/2001, 3797/1999, 3004/1973, 1518/1964, 1244/1963, queste ultime già evidenziavano che il codice civile, nel disciplinare il contratto di cessione del credito, si è soffermato sugli effetti giuridici del negozio, omettendo volutamente di tipizzarne la causa). L’individuazione della causa del contratto rileva, ovviamente, ai fini della precisa individuazione delle norme di legge applicabili.
Fra le varie tipologie di contratti atipici di cessione del credito, d’uso diffuso è il già citato contratto di factoring, al quale si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste dagli articoli 1260 ss. cod. civ., le disposizioni previste dai contratti tipici dei quali presenti profili causali comuni, nonchè le disposizioni speciali previste dalla legge n. 52/1991 sulla “disciplina della cessione dei crediti di impresa”, il factoring è un contratto oneroso a causa mista, mediante il quale un imprenditore cede, pro solvendo o pro soluto, tutti o parte dei propri crediti di impresa, anche futuri, ad altro imprenditore, di norma una banca o un impresa finanziaria; la dottrina e la giurisprudenza individuano nel factoring una combinazione di una pluralità di cause tipiche o atipiche: vendita, finanziamento, causa di garanzia e mandato. Vertendosi nell’ambito dell’atipicità del contratto, l’individuazione delle cause prevalenti e delle norme applicabili non può che avvenire in concreto, sulla base delle clausole contenute nel contratto.
4) L’oggetto della cessione del credito disciplinata dagli articoli 1260 ss. c.c. è UN DIRITTO DI CREDITO.
Il principio generale è quello della CEDIBILITA’ DI TUTTI I DIRITTI DI CREDITO, salvi i divieti di legge:
a) di norma la cessione riguarda il credito pecuniario;
- nascente da un rapporto di natura contrattuale;
- nascente da altre fonte di obbligazione (legge, atto unilaterale, fatto illecito..); è pacificamente ammessa la cessione di crediti di natura risarcitoria, sia da responsabilità contrattuale (Cass. nn. 2812/1986, 13765/2007), sia da responsabilità aquiliana (Cass. ss.uu. n. 4823/1986, Cass. nn. 916/1980, 21192/2004, 13676/2006); ne deriva che la liquidità non costituisce un requisito essenziale per la cedibilità del credito (i crediti risarcitori sono tipicamente crediti di valore, ossia commisurati al valore del bene danneggiato, da valutare in sede extragiudiziale o giudiziale, e quindi, di norma, sono crediti non liquidi)
- è altresì ammessa la cessione di diritti di credito nascenti da atti amministrativi: ad esempio, il credito indennitario derivante dal decreto di espropriazione forzata (Cass. n. 5541/2004);
- non è necessaria l’esigibilità del credito, che può essere ceduto ancor prima della sua scadenza (cfr. Cass. n. 2591/2006, 14852/2001); in tal caso il foro alternativo ai sensi degli articoli 20 c.p.c. e 1182, comma 3, c.c. è il luogo del domicilio del creditore cessionario al tempo della scadenza del credito, se non è diversamente previsto dal contratto o dagli usi e sempre che ciò non determini un particolare aggravio per il debitore, il quale può, in tal caso, ai sensi dell’ultimo periodo del comma 3 dell’articolo 1182, cod. civ., eseguire il pagamento presso il proprio domicilio, previa dichiarazione al creditore cessionario (vedasi richiamata giurisprudenza);
- sono parimente ammesse le cessioni di crediti soggetti a termine o condizione sospensiva (Cass. n. 184/1966) o risolutiva (Cass. nn. 6446/1996, 6399/1996, 6400/1996, 5506/1980);
- come già rilevato, non è neppure richiesta l’esistenza del credito al tempo della cessione (cessione di crediti futuri);
- dalle considerazioni sopra evidenziate, corroborate da giurisprudenza consolidata, si evince che, anche se il credito è APPARENTEMENTE INCERTO, perchè CONTROVERSO nell’an o nel quantum debeatur, esso può essere liberamente ceduto: in realtà, sotto il profilo sostanziale-statico, un diritto sussiste o non sussiste; solo sotto il profilo processuale-dinamico, in presenza di contestazioni sollevate dal presunto debitore, può parlarsi di incertezza del diritto, connaturata alla stessa dinamica del processo: se tutti i diritti fossero incontestati, infatti, la stessa ragione di esistere del processo, quale strumento di risoluzione delle controversie, verrebbe meno.
b) è astrattamente ipotizzabile anche la cessione di diritti di credito non pecuniari, salvi gli specifici divieti di legge (vedasi punto c). In concreto, la casistica giurisprudenziale, al di fuori dei crediti pecuniari, è limitata agli obblighi di consegna o riconsegna di beni mobili o immobili nascenti da contratti traslativi o di godimento (ad esempio, sulla cedibilità del diritto alla riconsegna della cosa data in comodato si veda Cass. n. 11980/1990);
c) DIVIETI DI CESSIONE (articolo 1260, comma 1, c.c.):
c1) “carattere strettamente personale” del credito (obbligazioni cd. “intuitu personae”); il divieto di cessione si fonda sulla circostanza che la cessione si perfezione a prescindere dalla volontà del debitore; ne consegue che la natura personale va valutata con riferimento alla prestazione ricadente sul debitore:
- obbligazioni di facere infungibili: prestazioni di lavoro subordinato o autonomo/professionale, per le quali è ovviamente necessario il consenso del prestatore d’opera; quanto al lavoro subordinato, le norme sulla mobilità integrano una cessione del contratto; così, ad esempio, in materia di cd. “mobilità volontaria” di cui al previgente articolo 33 del d.lgs. 29/1993 sul pubblico impiego, la Cassazione (ss.uu. n. 26420/2006) ha individuato una fattispecie di cessione del contratto, ritenendo, fra l’altro, illegittima la pretesa di un nuovo periodo di prova da parte del nuovo datore di lavoro; l’attuale art. 30 del d.lgs. 165/2001 (che ha sostituito, abrogandola, la previgente normativa) espressamente definisce il passaggio di personale da un’amministrazione ad altra, quale “cessione del contratto di lavoro”;
non sono infungibili le cd. “prestazioni di materia” (articolo 2223 c.c.) nelle quali la fornitura di materia prevalga sulla prestazione di opera, con relativa ammissibilità della cessione del credito; si pensi al caso di acquisto di un bene materiale da assemblare come un arredo di casa, dove l’opera di montaggio in sé non presenti particolari difficoltà.
- diritti legali di prelazione su beni immobili o ereditari (ad esempio il diritto di prelazione dell’affittuario coltivatore diretto sul fondo, o del locatore di immobile urbano, o del coerede sulla quota ereditaria), ove di norma il diritto è connaturato a particolari esigenze di tutela dell’interesse del creditore (l’affittuario, il locatore, l’erede), con relativa eccezionale limitazione della libertà negoziale del debitore;
- diritto di riscatto del venditore nella vendita con patto di riscatto (Cass. n. 4921/1979, 6963/1988; contra Cass. n. 1895/1975);
- diritto di opzione per l’acquisto del bene oggetto del contratto di leasing (Cass. n. 25125/2006);
- è di contro dubbia la cedibilità di crediti risarcitori nascenti dalla lesione di un diritto fondamentale della persona (danno biologico), considerato che la natura personalissima del diritto leso non comporta automaticamente la natura strettamente personale dell’obbligazione risarcitoria, avente consistenza pecuniaria; l’unico precedente in materia riconosce implicitamente la cedibilità anche del credito risarcitorio per danno biologico (Cass. n. 8168/1991).
c2) “vietato dalla legge”:
- credito alimentare (articolo 447 c.c.); il divieto è stato limitato dalla giurisprudenza ai crediti alimentari che hanno origine nella legge, mentre è ammessa la cessione del credito alimentare di natura convenzionale (Cass. n. 10362/1997)
- fattispecie varie di conflitto di interesse: a) articolo 1261 c.c. (divieto di cessione in favore di magistrati, cancellieri, ufficiali giudiziari, avvocati, notai relativamente a crediti sui quali è sorta contestazione davanti l’autorità giudiziaria cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni); b) credito del minore rispetto all’esercente la patria potestà ed al tutore (articoli 323, comma 3 e 378, comma 4 c.c.); c) divieti speciali di comprare previsti dall’articolo 1471 c.c. (dell’amministratore di un bene appartenente ad un ente pubblico; del pubblico ufficiale rispetto ai beni venduti in ragione del suo ufficio; di coloro che per legge o per atto della pubblica autorità - ad es. curatore fallimentare - amministrano beni altrui; del mandatario rispetto al bene che è stato incaricato di vendere).
5. Salvo che non sia diversamente previsto da speciali disposizioni di legge, la forma del contratto di cessione è libera.
L’eventuale stipula del contratto sotto forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata rende, però, immediatamente opponibile al creditore cedente l’intervenuta cessione (fede pubblica dell’atto) ed integra prova piena dell’intervenuta cessione nel processo (vedasi oltre).
* * *

NATURA GIURIDICA DELLA CESSIONE

In conseguenza della cessione del credito il cessionario subentra a titolo particolare nella stessa posizione giuridica del cedente.
Tuttavia non è configurabile una surrogazione vera e propria nel caso in cui il credito abbia origine in un contratto.
Da una parte il cessionario assume la stessa posizione giuridica del cedente limitatamente al rapporto giuridico obbligatorio ceduto; di contro il debitore può opporre al cessionario tutte le eccezioni nascenti dal contratto che ha dato origine al credito, laddove il cessionario può avvalersi solo delle previsioni contrattuali che incidono sulla validità ed efficacia del credito ceduto, nonché sulla sua esigibilità (quanto agli accessori, in particolare alle garanzie reali e personali, vedasi quanto espressamente previsto dall’articolo 1263 cod. civ.).
Singolare, in tal senso, è la situazione che si viene a creare nel caso in cui nel contratto che ha dato origine all’obbligazione ceduta si rinvenga una clausola compromissoria. Secondo una giurisprudenza oramai consolidata, infatti, il debitore ceduto può opporre al creditore cessionario la suddetta clausola, ma quest’ultimo non può avvalersene (vedasi Cass. SS.UU. n. 12616/1998 e, da ultimo, Cass. nn. 24681/2006 e 6809/2007). Nella sostanza il cessionario è comunque costretto ad adire l’autorità giudiziaria nel caso di inadempimento del debitore, non potendosi avvalere della clausola compromissoria, ed al debitore ceduto compete in via esclusiva la facoltà di decidere se opporre o meno in giudizio la clausola compromissoria. La Cassazione, con la recente sentenza n. 6809/2007, ha escluso che il suddetto orientamento ingeneri dubbi di legittimità costituzionale, anche se, da una parte, al creditore non è lasciata altra scelta se non quella di adire l’autorità giudiziaria, non potendosi avvalere della clausola compromissoria, con il rischio di essere condannato al rimborso delle spese di lite in virtù della soccombenza; d’altra parte, il debitore ceduto, il quale legittimamente si avvalga della clausola compromissoria, rischia a sua volta di subire un pregiudizio da un’eventuale pronuncia di compensazione delle spese.
Ricade, ovviamente, sul cessionario, l’onere di provare l’esistenza del credito ed il suo ammontare. A tal fine l’articolo 1262 cod. civ. prevede che: “Il cedente deve consegnare al cessionario i documenti probatori del credito che sono in suo possesso”
* * *

PROVA DELLA CESSIONE DEL CREDITO

Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. nn. 4919/1987, 14610/2004, 20143/2005, 13253/2006) ricade, parimenti, sul creditore cessionario l’onere di provare il perfezionamento della cessione del credito:
a) se la cessione del credito è stata stipulata con atto pubblico o scrittura privata autenticata, la fede pubblica dell’atto integra prova piena della volontà delle parti;
b) laddove la cessione del credito sia stata stipulata con scrittura privata semplice, acquista un rilievo fondamentale (ai sensi dell’articolo 2697, comma 1 e dell’articolo 2729, comma 1, codi. Civ.) il possesso dei documenti inerenti l’insorgenza e la consistenza del credito (il contratto, dichiarazioni scritte del debitore, eventuali rapporti di pubbliche autorità, fotografie, etc..); la scrittura privata semplice, infatti, in tanto costituisce prova piena dell’intervenuta cessione, ai sensi dell’articolo 2702 del codice civile, in quanto la sottoscrizione del creditore cedente sia legalmente riconosciuta in giudizio ai sensi dell’articolo 215 c.p.c.; se il creditore cedente non è parte in causa, la sola scrittura privata non integra prova piena.
Sempre secondo la già richiamata giurisprudenza il creditore cessionario non deve provare il rapporto sottostante che intercorre fra di lui ed il creditore cedente, al quale il debitore è estraneo e disinteressato.
Non sussiste, in ogni caso, il litisconsorzio necessario del creditore cedente, salvo che il debitore contesti espressamente la stessa validità ed esistenza della cessione del credito (cfr. Cass. nn. 1250/1969, 3554/1971, 12091/1992, 1110/1995, 8173/1997, 1510/2001, 12972/2004, 16383/2006, 26662/2007).
Tuttavia il giudice può ordinare la chiamata in causa del creditore cedente ai sensi dell’articolo 107 c.p.c. (chiamata iussu iudicis) al fine di rendere a questi opponibile la scrittura privata semplice e prevenire future controversie, l’opposizione del terzo, o conflitto di giudicati.
* * *

ACCESSORI DEL CREDITO

Per accessori del credito devono intendersi, come specificato dal comma 1, dell’articolo 1263 c.c., in primo luogo i privilegi e le garanzie personali e reali del credito (per il pegno, ai fini della consegna del bene occorre il consenso del costituente – comma 2); le garanzie sono trasferite al cessionario per effetto della cessione; nella nozione “altri accessori” la giurisprudenza ricomprende, altresì, il danno da mora (cfr. Cass. n. 9823/1999).
Non sono ricompresi nella cessione, salvo patto contrario, i frutti scaduti, ivi compresi gli interessi nel caso di cessione di un credito pecuniario; come precisato dalla richiamata giurisprudenza (Cass. n. 9823/1999) sono esclusi solo i cd. interessi di pieno diritto, ossia quelli che costituiscono l’effetto diretto della scadenza del credito (articolo 1282 c.c.), ferma la possibilità del creditore di provare il danno da mora
Non sono, altresì, ricomprese le spese legali liquidate in favore del creditore cedente, nel caso in cui questi abbia dovuto agire in giudizio per il riconoscimento del credito ed il cessionario sia rimasto estraneo al processo (Cass. n. 21107/2005, 3998/2006)

* * *

OBBLIGHI DI GARANZIA DEL CEDENTE

1. La garanzia dell’esistenza del credito al tempo della cessione (articolo 1266 cod. civ.) è dovuta nel solo caso di cessione a titolo oneroso; la garanzia può essere esclusa dall’accordo delle parti, salvo che l’inesistenza del credito dipenda da fatto proprio del cedente.
La natura dispositiva della norma conferma l’ammissibilità della cessione anche a titolo oneroso di un credito futuro, ossia non ancora esistente al tempo della cessione;
In caso di cessione a titolo gratuito, il cedente è tenuto esclusivamente alla garanzia per evizione prevista in materia di donazione (articolo 797 cod. civ.).
2. Se non è diversamente pattuito, il cedente non è tenuto a garantire la solvenza del debitore (cessione pro soluto) – art. 1267 c.c.
Laddove il cedente garantisca la solvenza del debitore (cessione pro solvendo), il cedente risponde nei limiti di quanto ha ricevuto, oltre agli interessi, al rimborso delle spese sostenute dal cessionario ed al risarcimento del danno.
La garanzia cessa se l’insolvenza del debitore è dipesa da negligenza del cessionario (il quale, ad esempio, ha lasciato prescrivere il credito per sua inerzia).
.
* * *
.
PARTE SPECIALE
.
LA CESSIONE DEL CREDITO NELLA R.C.A.
.
Come già accennato, l’unico precedente di Cassazione ammette la cedibilità del credito risarcitorio per danno alla persona (danno biologico in primis), in materia di responsabilità verso terzi per circolazione di veicoli a motore e natanti (Cass. n. 8168/1991).
A maggior ragione deve essere riconosciuta al proprietario del veicolo coinvolto nel sinistro la facoltà di cedere il credito per il danno materiale cagionato al suo veicolo in favore del carrozziere che ha proceduto alle riparazioni, pratica negoziale, peraltro, assai diffusa, che determina un contenzioso di una certa consistenza dinanzi al GdP.
In sede di osservazioni generali sull’istituto della cessione del credito già sono state fornite alcune risposte alle principali questioni che tale istituto ha ingenerato negli operatori del diritto:
1. E’ ammessa la cessione del credito risarcitorio;
2. Il credito ceduto non deve essere, di conseguenza, necessariamente liquido;
3. Pur non essendo richiesta l’esigibilità ai fini della cessione del credito, il credito da fatto illecito è immediatamente esigibile (mora ex re ai sensi dell’articolo 1219, comma 2, numero 1, del codice civile);
4. L’incertezza del diritto di credito azionato inerisce esclusivamente l’aspetto processuale della controversia; sotto il profilo sostanziale la pretesa o è fondata (per intero o parzialmente) o è infondata ed il giudice, nel pronunciare la sentenza, si limita a fotografare una realtà giuridica certa ab origine anche se contestata nell’ambito della dinamica del processo;
Sempre sulla base delle osservazioni articolate in sede di analisi dell’istituto della cessione del credito in generale, possono già formularsi delle conclusioni in materia di r.c.a.:
1. Il contratto di cessione del credito è a forma libera;
2. Perché sia configurabile una cessione del credito nel contratto deve essere previsto, in maniera non equivoca, il trasferimento del diritto in favore dell’autoriparatore; in proposito si rileva che, da un esame di vari modelli di cessione del credito visionati sulla rete Internet, non è possibile ricostruire un contratto tipo di cessione del credito in favore del carrozziere, rinvenendosi modelli in cui, spesso, la causa del mandato integra o si sovrappone alla funzione traslativa vera e propria;
3. La legittimazione processuale attiva, in conseguenza della notificazione della cessione, spetta in via esclusiva al cessionario, ossia al carrozziere;
4. Il cessionario deve, in primo luogo, provare la cessione del credito, mediante deposito in giudizio della scrittura privata autenticata, ovvero, in caso di scrittura privata semplice, mediante allegazione della documentazione relativa al sinistro (rapporti di pubbliche autorità, modello c.a.i., foto del veicolo, fotocopia della carta di circolazione, etc..) che comprovi, ai sensi dell’articolo 2729, comma 1, c.c. (presunzione de facto), l’intervenuta cessione per possesso dei documenti probatori del credito;
5. Il cessionario è surrogato, ad ogni effetto, nella posizione giuridica del danneggiato, con la conseguenza che su di lui ricadono gli stessi oneri probatori ricadenti sul creditore originario in ordine all’an ed al quantum debeatur;
6. Nel caso in cui l’assicuratore convenuto contesti l’esistenza o la validità della cessione del credito, il giudice è tenuto (litisconsorzio necessario) ad ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti del creditore cedente;
7. Il giudice, al di fuori dell’ipotesi della carenza di prova della cessione del credito, che determina la soccombenza del presunto cessionario, può ordinare ex art. 107 c.p.c. la chiamata in causa del creditore cedente al fine di rendere a questi opponibile la scrittura privata semplice e prevenire controversie future o conflitti di giudicato;
8. Il cessionario ha, altresì, diritto al risarcimento del danno da mora del debitore;
9. Stante la natura tipicamente onerosa della cessione del credito (in pagamento del prezzo per le riparazioni eseguite sul veicolo) il cedente, ossia il danneggiato, è tenuto, salvo patto contrario, a garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione, ossia la fondatezza della sua pretesa per responsabilità esclusiva della controparte; ne consegue che, in assenza di diversa previsione nel contratto, nel caso in cui il cessionario perda la causa per fatto a lui non imputabile, il cedente è tenuto al pagamento in favore del carrozziere del prezzo per le riparazioni eseguite, degli interessi e delle spese legali sostenute nel processo;
10. Quanto alla garanzia sulla solvenza del debitore, essa viene meno se la mancata realizzazione del credito è dovuta a negligenza del cessionario (ad esempio prescrizione del credito o liquidazione coatta dell’impresa assicuratrice nell’inerzia del cessionario);
Ulteriori conclusioni si ricavano dalle disposizioni del Codice Civile e del Codice delle Assicurazioni sulla r.c.a.:
1. La necessità di porre in essere attività stragiudiziale per la definizione bonaria del sinistro comporta l’onere del carrozziere cessionario, in sede di consegna dei documenti relativi al veicolo ed al sinistro, di farsi autorizzare dal cedente al trattamento dei suoi dati personali al solo fine del soddisfacimento del credito;
2. Gli obblighi del cedente non si esauriscono con la consegna della documentazione in suo possesso relativa al sinistro, ma comprendono, specie nel caso in cui si instauri un processo, una costante collaborazione con il cessionario ai fini del raggiungimento della prova della fondatezza della pretesa risarcitoria (ad esempio fornendo nominativi ed indirizzi di eventuali testimoni o informazioni utili sullo stato del luogo del sinistro);
3. Al cessionario sono opponibili tutte le eccezioni opponibili al creditore originario, in particolare l’eventuale eccezione di improponibilità della domanda ai sensi dell’articolo 145 del Codice delle Assicurazioni;
4. La messa in mora della compagnia assicurativa da parte del danneggiato, nel rispetto delle modalità previste dal Codice delle Assicurazioni, e la relativa decorrenza del termine fissato dall’art. 145 per iniziare la causa producono effetto anche in favore del carrozziere cessionario del credito, il quale può immediatamente adire l’autorità giudiziaria;
5. Di contro, una volta che la cessione è stata notificata, o comunque accettata dal debitore, l’unico soggetto legittimato a trattare la pratica, anche in sede stragiudiziale ed ai fini della proponibilità della domanda, è il carrozziere cessionario; se, nel momento in cui la cessione viene notificata, la pratica per la definizione bonaria della controversia era stata aperta ma non erano ancora decorsi i termini per la sua definizione, ritengo che l’intera procedura stragiudiziale debba iniziare da capo, essendo subentrato un nuovo interlocutore;
6. Quanto agli oneri probatori inerenti l’an debeatur, se l’accadimento è provato o non controverso, il cessionario può avvalersi, in assenza di prova piena della responsabilità della controparte, della presunzione di pari colpa stabilita dall’articolo 2054, comma 2, c.c.;
7. Quanto agli oneri probatori inerenti il quantum debeatur l’articolo 1226 cod. civ., richiamato dall’articolo 2056 cod. civ., sulla liquidazione equitativa del danno, riguarda la sola ipotesi in cui il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, laddove, di contro, il danno all’autoveicolo può essere precisamente provato sia in ordine alle riparazioni resesi necessarie (documentazione fotografica, perizia di parte, eventuale rapporto di pubblica autorità intervenuta nel luogo del sinistro) che ai loro costi (esistono prezziari comunemente applicati dalle case costruttrici e dalle compagnie assicurative in sede di liquidazione del danno). In tal senso sarebbe opportuno che alla necessaria documentazione comprovante il danno (fotografie, rapporti di pubbliche autorità, perizie di parte) l’attore provveda ad allegare apposito prezziario di uso comune su piazza (circostanza che avviene assai raramente nei processi instaurati dinanzi al GdP). Di contro la fattura, quale documento formato direttamente dal titolare del credito, da sé sola ha una valenza probatoria minima, se non nulla.
* * *
.
CESSIONE DEL CREDITO E SURROGAZIONE DELL’ASSICURATORE
EX ARTICOLO 1916 C.C.
.
Quanto ai rapporti fra la cessione del credito e la surrogazione dell’assicuratore ex articolo 1916 c.c. si rinvengono numerose sentenze che assimilano i due istituti, con particolare riferimento agli obblighi di comunicazione previsti dall’articolo 1264 cod. civ., norma spesso espressamente richiamata da alcune sentenze della Cassazione che si sono pronunciate relativamente al diritto di surroga dell’assicuratore ex articolo 1916 c.c., obblighi di comunicazione necessari affinchè la surrogazione produca effetti nei confronti del terzo responsabile; in particolare l’assicuratore deve comunicare al terzo responsabile, affinchè la surrogazione produca effetti nei suoi confronti, l’avvenuto pagamento dell’indennizzo e la volontà di avvalersi della surroga (cfr. Cass. nn. 1869/1980, 3277/1981, 10597/1995, 12101/2003, 9469/2004, 22883/2004, 24806/2005); anche con riguardo all’articolo 1263 sugli accessori spettanti al cessionario si rinvengono richiami giurisprudenziali in materia di surrogazione dell’assicuratore ex art. 1916 c.c. (vedasi Cass. n. 5575/1984); sull’opponibilità al surrogante delle stesse eccezioni opponibili al surrogato, incluse le eccezioni processuali, la sussistenza dei presupposti legittimanti la surrogazione, nonché la fondatezza della pretesa risarcitoria vedasi, rispettivamente, Cass. nn. 8168/1991, 468/1997 e 25182/2007.
In ogni caso, la surroga dell’assicuratore prevista dall’articolo 1916 c.c. trova la sua fonte diretta nella legge ed in ciò si differenzia in maniera netta dall’istituto della cessione del credito, che, al contrario, integra un contratto a causa variabile.

Roma, 20 novembre 2008
Dott. Alberto Rossi
(GdP di Roma)

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...