lunedì 4 maggio 2009

focus: I rapporti tra negozi a titolo gratuito e liberalità


Approfondimento

Il rapporto fra negozi a titolo gratuito e liberalità.
Caratteri, struttura e requisiti della donazione

La donazione in senso stretto: definizione
Ai sensi dell’art. 769 la donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio (art. 771), o assumendo verso la stessa un’obbligazione.
I requisiti della donazioneAlla luce di tale definizione codicistica è possibile affermare che due sono gli elementi qualificatori della figura in esame: lo spirito di liberalità e l’arricchimento del donatario.
L’animus donandi: la differenza fra volontarietà e spontaneità
Il primo parametro (detto anche animus donandi) presenta carattere soggettivo, concretandosi nell’intenzione del donante di attribuire al donatario un’attività patrimoniale non dovuta, con la consapevolezza di tale indebenza e, dunque, in modo volontario (1).Non sarebbe sufficiente, allora, per integrare tale requisito, la presenza di un’intenzione di arricchire senza corrispettivo.È necessario, invece, che il soggetto abbia la volontà di attribuire un quid senza esservi tenuto e con la consapevolezza di tale stato di non coercizione.La “volontarietà”, che contraddistingue l’atto donativo, non deve, inoltre, essere confusa con la “spontaneità”, cui il legislatore fa espresso riferimento in tema di adempimento delle obbligazioni naturali (art. 2034).Quest’ultimo concetto, difatti, descrive semplicemente la necessità che l’atto adempitivo non sia frutto d’una costrizione esogena, essendo, invece, irrilevante la credenza che l’obbligato abbia di essere tenuto, “secondo diritto”, a soddisfare il creditore.Viceversa, come detto, la “volontarietà” descrive lo stato di piena contezza del donante circa l’assenza di qualsivoglia vincolo, non solo giuridico ma anche morale o sociale, al compimento dell’attribuzione patrimoniale:
Giurisprudenza
Il negozio di liberalità – che costituisce una categoria generale nella quale rientrano varie figure negoziali, tra cui la donazione, che è tipizzata distintamente dal legislatore perché sottoposta ad una particolare disciplina – è quello con il quale un soggetto, consapevole di non esservi tenuto in virtù di un vincolo giuridico o di un vincolo extragiuridico rilevante per la legge, opera liberamente e spontaneamente un’attribuzione patrimoniale gratuita a favore di un altro soggetto allo scopo di arricchirlo. Conseguentemente, la causa di tale negozio è costituita dall’effettuazione di una attribuzione patrimoniale gratuita, che comporti un arricchimento del destinatario, qualificata soggettivamente dalla consapevolezza, nell’autore di essa, che la medesima è operata in assenza di un qualsiasi dovere, giuridico oppure soltanto morale o sociale, e, perciò, in definitiva, per quello spirito di liberalità, che è legislativamente riferito al contratto di donazione (art. 769 c.c.) (Cass. 3 giugno 1980, n. 3621, rv. 407474).
L’ondivaga nozione di arricchimento: l’accezione economica e quella giuridica
Il secondo elemento ha, viceversa, un consistenza oggettiva, sostanziandosi nel meccanismo di mutamento diretto delle poste patrimoniali pertinenti alle sfere giuridiche dei contraenti.Perché si versi in materia di donazione, allora, sarà necessario che il contratto attributivo sia costruito in modo tale da comportare un depauperamento del patrimonio del donante cui corrisponda un diretto ed equivalente arricchimento di quello del donatario.Più precisamente è necessario che gli elementi patrimoniali, di cui il donante risulta impoverito, confluiscano nella sfera del donatario, incrementandone la consistenza patrimoniale.Come è desumibile dall’art. 769, tale effetto attributivo può consistere sia nel trasferimento/costituzione di un diritto reale o nel trasferimento di diritto di credito (c.d. donazione a effetti reali), sia nella costituzione di un diritto di credito a carico del donante e favore del donatario (c.d. donazione ad effetti obbligatori):
Giurisprudenza
Per aversi donazione non basta l’elemento soggettivo o spirito di liberalità, consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, ma occorre anche l’elemento oggettivo costituito dall’incremento del patrimonio altrui (l’arricchimento del donatario) ed il depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto l’obbligo (l’impoverimento del donante), mentre non assumono rilievo i motivi interni psicologici che inducono a compiere la donazione (Cass. 26 maggio 2000, n. 6994 rv. 536971 - conforme Cass. 28 agosto 2008, n. 2178, rv. 604650).
In realtà la rappresentazione di tale elemento costituisce oggetto di un’annosa diatriba dottrinaria, che tuttora non ha trovato sicuro esito.Una prima tesi, infatti, (detta dell’arricchimento in senso economico) assevera che di donazione (e più in generale di liberalità) si possa parlare solo quando la donazione importi un plusvalore patrimoniale nella sfera del donatario. Ne discenderebbe che non donazione, ma negozio a titolo gratuito sarebbe quello ove il vantaggio patrimoniale non vi sia (come nel caso in cui esso sia totalmente assorbito dall’imposizione di un modus) o via sia addirittura una riduzione dello spessore economico del patrimonio del donatario (come nel caso di donazione d’eredità dannosa).Altra parte della dottrina (2) (tesi dell’arricchimento in senso giuridico), viceversa, sostiene che l’arricchimento ex art. 769 debba intendersi come semplice addizione di un nuovo diritto alla sfera giuridica del donatario, ancorché esso non determini incrementi economici. Tale impostazione muove, infatti, dallo stesso testo dell’art. 769, norma che pare chiarire il concetto di arricchimento proprio indicandone le due modalità alternative di realizzazione: disponendo di un diritto o assumendo un obbligo verso il donatario. Ne discende che l’incremento economico è effetto normale, ma non necessario, della donazione.
I problematici rapporti fra i negozi a titolo gratuito ed i negozi liberali:Dubbi sono i rapporti intercorrenti fra i negozi a titolo gratuito e quelli liberali.
Tale ultima figura rappresenta un genus compendiantesi nelle categorie della liberalità donativa (art. 769) e non donativa (fondamentalmente composta dalle donazioni indirette e dalle liberalità d’uso).Di tale genus la donazione ex art. 769 costituisce certamente paradigma, dacché potremo limitarci ad analizzare i profili ad essa pertinenti, rinviando ad un momento successivo per l’esame delle liberalità non donative.
a) La teoria del rapporto di genus ad speciem e la soluzione “oggettiva”Una parte della dottrina ritiene che fra gratuità e liberalità intercorra un rapporto di genus ad speciem. Non ogni atto gratuito (ad es: comodato) sarebbe liberale, ma certamente ogni liberalità sarebbe a titolo gratuito. Peculiarità della gratuità sarebbe data, infatti, dalla presenza di un’attribuzione senza corrispettivo, caratteristica certamente presente nelle donazioni.Tuttavia queste ultime presenterebbero un elemento ultroneo, non riscontrabile in ogni atto gratuito ma solo, appunto, in quelli qualificabili come liberali: il depauperamento di un contraente per l’arricchimento dell’altro.Nei generici negozi a titolo gratuito, infatti, il vantaggio conferito consisterebbe nella semplice “non richiesta” di una contropartita per il beneficio procurato (es: godimento di un bene nel comodato, disponibilità di beni fungibili nel mutuo senza interessi, ecc.).I negozi gratuiti generici, allora, darebbero luogo ad uno svantaggio e ad un vantaggio patrimoniale qualitativamente diversi da quelli tipici della donazione.Lo svantaggio, difatti, si compendierebbe in una semplice omissio adquirendi e non in un depauperamento patrimoniale strictu sensu.Il vantaggio patrimoniale, parimenti, si sostanzierebbe in una “mancata spesa”, correlata a quel beneficio, e non in un incremento del patrimonio (3).
b) la teoria dell’alterità e la soluzione soggettiva Altra parte della dottrina, viceversa, sostiene che il distinguo fra le due categorie debba essere letto non in senso di specialità ma d’eterogenesi (4).Mentre, infatti, i negozi gratuiti sarebbero peculiarizzati dalla destinazione a realizzare un interesse patrimoniale del contraente, le liberalità sarebbero caratterizzate dalla presenza di un interesse non patrimoniale, causa giuridica dell’atto donativo.Il discrimen fra le due categorie negoziali sarebbe, allora, ontologico e non semplicemente dato da un elemento specializzante (tesi dell’inconfigurabilità di un rapporto di genus ad speciem).

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria del rapporto di genus ad speciem
La problematica, com’è evidente, è strettamente correlata alla soluzione della questione inerente la sussunzione della causa del contratto di donazione, paradigma causale degli atti liberali.Secondo i fautori della prima corrente esposta (teoria del rapporto di genus ad speciem), infatti, la causa della donazione dovrebbe rintracciarsi esattamente nell’elemento oggettivo (depauperamento/arricchimento) (5). Tale arricchimento, poi, dovrebbe essere letto, secondo tale tesi, in senso giuridico e non economico, nel senso surriferito. Sotto il profilo causale, allora, la donazione ed i negozi gratuiti sarebbero davvero parzialmente sovrapponibili. Anche in questa prima, infatti, come negli ultimi, il proprium causale sarebbe rintracciabile in un vantaggio patrimoniale non corrisposto, correlato ad un certo svantaggio d’identica natura. L’unica differenza sarebbe identificabile nel “tipo” di vantaggio/svantaggio cui il negozio darebbe luogo. Nei generici atti a titolo gratuito, infatti, le poste patrimoniali del contraente che conferisce il vantaggio e quella del beneficiario che lo percepisce resterebbero immutate. L’una, infatti, non patirebbe alcuna decurtazione, l’altra, ovviamente, non subirebbe alcun aumento.Lo svantaggio, come detto, si concreterebbe in una mera omissio adquirendi, cioè nel non pretendere alcunché per il vantaggio reso. Il vantaggio, come accennato, s’atteggerebbe non nella percezione d’alcunché, ma in una mancata spesa.Nella donazione, viceversa, lo svantaggio si concreterebbe in una contrazione patrimoniale, che convoglierebbe nella sfera del beneficiario, determinandone un incremento. La distinzione causale fra negozi genericamente gratuiti e donativi sarebbe riferibile, allora, solo alla sostanza del sacrificio/beneficio delle parti, pur presente in ambedue.Tale impostazione, a ben vedere, incide anche sulla questione relativa all’oggetto della donazione.Affermare, infatti, che il distinguo fra donazione e atti gratuiti riposa unicamente nel carattere addittivo/decurtativo, vuol dire dover identificare dei negozi attributivi (cioè non di mero accertamento) non aventi tale qualità, onde riconoscergli il nomen atti gratuiti, pena l’abrogatio ermeneutica dell’intera categoria.In altri termini la tesi del distinguo oggettivo e della specialità impone di identificare un vantaggio patrimoniale, attribuito per contratto, che non incrementi la sfera del percipiente e non impoverisca quella del conferente (perciò proprio di un negozio gtatuito non liberale).La corrente in esame (6), allora, ritiene di poter risolvere il problema asseverando la manchevolezza di tale qualità presso i negozi (non sinallagmatici) aventi ad oggetto l’obbligo d’un facere (o di un non facere), quali il comodato, il mutuo non feneratizio, ecc.L’assunzione di un tale obbligo infatti, si dice, non decurterebbe il patrimonio di chi si impegna, come non arricchirebbe quello di chi ne beneficia.Ne avremo che ogni negozio (non corrispettivo o solutorio), non importa se tipico o meno, che abbia ad oggetto l’assunzione d’un obbligo di tal fatta, sarà catalogabile come atto a titolo gratuito.Ne discenderà che la donazione ad effetti obbligatori non potrà mai avere ad oggetto un facere (o un non facere), ma solo un dare, qualificandosi altrimenti come negozio a titolo gratuito. Secondo questa tesi, dunque, l’assunzione di un obbligo di fare (o non fare), non impoverisce il patrimonio del conferente come non arricchisce quella del percipiente.Questa soluzione, tuttavia, non convince.Non pare dubbio, infatti, che l’assunzione di un obbligo di fare, non diversamente da quella d’un obbligo di dare, importa una decurtazione patrimoniale di chi si impegna (per aumento delle poste patrimoniali passive) e un arricchimento per chi riceve l’impegno (per aumento delle poste patrimoniali attive) (7). Non a caso l’art. 769, nel prevedere che la donazione può avere ad oggetto anche l’assunzione di un obbligo, non distingue tra obblighi di dare e di fare. Pare, allora, scorretta la ripartizione fra negozi gratuiti e donazioni in ragione del rapporto di specialità nel profilo oggettivo, avendo ambedue le figure carattere incrementativo/decurtativo, estensibile ad ogni forma di attribuzione, reale o obbligatoria.Parimenti scorretta ci pare, di conseguenza, l’individuazione della causa della donazione nel momento oggettivo e la riduzione della donazione obbligatoria alla specie delle liberalità di dare.

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria dell’alterità
Meglio articolata pare, invece, la prospettazione formulata dai fautori della tesi avversa (del rapporto di non specificazione fra gratuità e liberalità) che, in punto di causa, sottolinea l’importanza dell’elemento soggettivo.Tale corrente ritiene che ciò che qualifica la donazione sotto il profilo causale (e in tal senso la distingue dai negozi gratuiti) sia proprio l’elemento soggettivo.Tale elemento, tuttavia, non deve essere apprezzato (a tal fine) nella sua accezione negativa (cioè come spirito di liberalità o animus donandi), essendo questi i profili che non concorrono a descriverne la finalità concreta.Esso, invece, deve essere inteso in chiave positiva, ovvero come motivo che spinge il soggetto ad attribuire un bene ad un altro soggetto.Tale motivo assume le vesti d’un “interesse non patrimoniale”, che viene soddisfatto per tramite dell’attribuzione e che della stessa è causa (8).Lo spirito di liberalità, allora, (inteso come consapevolezza della non debenza dell’attribuzione) non è rilevante in sé (descrivendo un profilo non qualificante in termini causali) se non legato ad un elemento peculiarizzante di natura positiva.Tale elemento, allora, è dato dall’interesse non patrimoniale (morale, religioso, ecc.) che il donante, tramite l’operazione negoziale, mira a soddisfare.Il distinguo ripetto ai negozi gratuiti, allora, sarebbe rinvenibile non nel carattere attributivo/decurtativo, presente in ambedue, ma nell’interesse sottostante (e dunque nella causa), avente carattere non patrimoniale nella donazione e patrimoniale negli atti gratuiti.Ne discenderebbe l’assoluta eterogeneità (ovvero la non specialità) delle due figure. Secondo tale tesi, allora, non risiedendo la distinzione fra negozi gratuiti e donazioni nel requisito oggettivo (incremento/decurtazione), essi potranno ben avere identico contenuto (reale o obbligatorio, relativo ad un dare, facere, non facere), con piena ammissibilità delle donazioni di fare.
La donazione come negozio acausale
Vi è poi da aggiungere come, secondo una parte dei fautori della ricostruzione qui sostenuta (9), l’interesse non patrimoniale resti normalmente al di fuori della struttura del contratto donativo, relegato a mero motivo.Ne discende che tale contratto avrebbe normalmente carattere “acausale”.Questo tratto, com’è noto, costituirebbe un’eccezione in un sistema giuridico qual è il nostro, che non ammette attribuzioni non giustificate e, dunque, negozi “sostanzialmente astratti”.Ciò farebbe della donazione un negozio doppiamente “debole”:1) perché avrebbe indole (e non contenuto) non patrimoniale, contravvenendo alla normale natura del contratto (art. 1321);2) perché difetterebbe normalmente di causa.Tale debolezza verrebbe compensata dalla forma forte (atto pubblico con due testimoni) che la legge impone ad substantiam.
________(1) A. TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU e F. MESSINEO, Milano, 1956, pp. 25 e ss. (2) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol. III, parte I, pp. 5 e ss. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 765.(4) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss.; G. BALBI, La donazione, in Trattato di diritto civile, diretto da G. GROSSO e F. SANTORO PASSARELLI, Milano, 1964, pp. 19 e ss. (5) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol.III, parte I, pp. 5 e ss. (6) A. TORRENTE, op. ult. cit., pp. 219 e ss.(7) B. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. VASSALLI, Torino, 1961, pp. 380 e ss. (8) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss. (9) F. GAZZONI, op. et loc. ult. cit.
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Tratto daSUCCESSIONI E DONAZIONI di Francesco Lupia
Maggioli Editore, 2009

martedì 28 aprile 2009

Ecco un tema "Caldo" - Professione forense: prospettive di Riforma

RICEVIAMO E GENTILMENTE PUBBLICHIAMO: .....
Degno di rilievo il Paragrafo 7 "Principio di abolizione delle incompatibilità"
Il problema dell’accesso alla professione forense:
necessaria una riforma che non sia nel segno del vecchio modello

di Marco Bona

Sommario:
Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione -
1. Principio della necessità di una selezione -
2. Principio della selezione sin dall’università -
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati -
4. Principio del tirocinio quale selezione finale -
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato -
6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità.

Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione
Una rivisitazione delle modalità di accesso alla professione forense è sicuramente necessaria ed auspicabile: la situazione attuale, infatti, rimane inaccettabile, soprattutto per la lotteria costituita dalle prove scritte, ma anche per la semplicissima ragione che i meccanismi di accesso oggi operanti non premiano chi ha dedicato seriamente il suo tempo alla pratica e denota di avere le qualità giuste per divenire avvocato.
Nondimeno, a leggere le varie proposte di riforma pendenti sul tavolo, non mi sembra che si staglino particolari mutamenti strutturali e, per così dire, “culturali”: la direzione di queste proposte è e rimane sempre la stessa, semplicemente con alcune “rifiniture” (in peius per gli aspiranti praticanti).
Tra le proposte più recenti viene in rilievo il
disegno di legge approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 27 febbraio 2009, in seguito apprezzato anche dal Ministro Alfano e dal Parlamento.
Tale disegno, tuttavia, pone dinanzi a scenari tali da non lasciare intravedere, almeno a prima vista, processi di autentica innovazione del sistema di accesso alla professione forense: semmai, l’iter diviene ancora più irto di ostacoli (test d’ingresso, prova di preselezione informatica, ecc.), senza che all’inasprimento ed all’intensificarsi dei filtri selettivi si accompagni la garanzia di un giudizio serio sul merito e che premi le qualità in concreto dimostrate dal praticante nel corso del tirocinio. In realtà, si riconferma piena validità al modello imperniato sull’esame finale; la figura del praticante, inoltre, rimane tale e quale, ad esempio senza che si provveda a stabilire un trattamento economico minimo con onere per gli avvocati di corrispondere per il tirocinante i contributi pensionistici-assicurativi.
In particolare, siffatte ultime proposte di riforma sembrano accusare il medesimo vizio di altri precedenti tentativi: si conferma piena validità al modello attualmente operativo, con l’idea di base che sia sufficiente apportare dei “meri” ritocchi, senza - almeno pare - svolgere a monte una riflessione sulla percorribilità di strade per davvero alternative, tali da considerare, almeno in minima parte, l’esigenza di un accesso alla professione meno cruento di quello attuale.
In altri termini, a mio modesto avviso, ancora una volta si parla di “riforma” e di “innovazioni”, senza che ciò sia stato preceduto da una ricerca/riflessione su eventuali modelli alternativi di formazione/selezione degli aspiranti avvocati tali da permettere la tutela ed il rispetto dei praticanti.
Senza alcuna pretesa di fornire chissà quale verità od efficace soluzione, riporterò qui di seguito alcune considerazioni che mi sembrano essere mancate nei progetti di riforma ultimi.
Le esigenze fondamentali: la tutela dei cittadini e degli aspiranti avvocati
Le esigenze della selezione mi sembrano del tutto chiare (a meno che non si intenda ragionare ancora una volta secondo logiche corporative): da un lato la necessità di garantire al cittadino assistenza legale qualificata e svolta da professionisti preparati; dall’altro lato l’esigenza che siano rispettati i diritti di una cospicua moltitudine di giovani, i quali sono a tutti gli effetti dei lavoratori ed investono notevoli risorse personali ed economiche in vista di una professione.
Il primo obiettivo è evidente quanto alle sue ragioni, ma forse sfugge un dato importante: la tutela dei cittadini non implica automaticamente che si debba optare per rigorose restrizioni del novero degli avvocati, sottoponendo i praticanti a vere e proprie forche caudine. Indiscutibilmente, infatti, la concorrenza, posto che sia controllata quanto al rispetto dei principi deontologici, può offrire non pochi benefici ai cittadini: è dimostrato come essa contribuisca a ridurre i costi d’accesso alla giustizia; è altresì evidente come al contempo, nel lungo periodo, incentivi alla specializzazione.
In altri termini, la realizzazione del primo obiettivo si dovrebbe giocare esclusivamente sul piano della formazione del futuro avvocato, prescindendo cioè dalla logica di un esame aleatorio e che non premia chi ha investito seriamente nel praticantato.
In questo senso la tutela dei cittadini può essere raggiunta facendo sì che sin dall’università e poi successivamente l’aspirante avvocato acquisisca tutti gli strumenti per assistere con professionalità il cittadino. Ciò implica avere cura che il praticante non solo abbia un buon bagaglio teorico (responsabilità primaria del sistema universitario), ma altresì una significativa esperienza pratica (impegno fondamentale degli avvocati).
Il secondo obiettivo è di tutelare i praticanti in modo tale che l’acquisizione delle nozioni e delle esperienze necessarie alla realizzazione del primo fine non sia occasione di sfruttamento economico. I praticanti costituiscono una forza lavoro, già parzialmente qualificata, che non può essere impiegata senza il giusto riconoscimento di un reddito commisurato al lavoro prestato. Non si può permettere che per anni i praticanti siano trattati economicamente senza percepire reddito alcuno oppure con redditi inferiori a quelli di altri giovani avviati al lavoro o di altre forze lavoro presenti negli stessi studi legali (ad esempio, gli impiegati con mansioni di segreteria, che normalmente hanno più protezione e peraltro si trovano a lavorare con un monte orario ridotto rispetto a quello dei praticanti).
Vi è però un altro fondamentale profilo che va debitamente considerato e che i progetti di “riforma” sembrano ampiamente sottovalutare: non si può permettere che l’aspirante avvocato impieghi un arco temporale eccessivamente lungo per accedere definitivamente alla professione. In Italia, al riguardo, vi è stata una vera e propria degenerazione: mediamente, contando i tempi lunghi dell’esame e gli intoppi che si possono incontrare su questa strada (non collegati a giudizi sul merito delle capacità professionali, stando che l’esame scritto, soprattutto, è affidato alla fortuna), i giovani, che riescono a passare l’esame d’avvocato, hanno già intorno ai 28-30 anni, e li attende un futuro economico assolutamente incerto; gli aspiranti avvocati, meno fortunati (ma non necessariamente impreparati), si trovano a tentare l’esame anche dopo avere passato i 30 anni. Ciò che va evitato è che l’accesso definitivo alla professione avvenga troppo tardi, quando ormai diviene arduo pensare a delle alternative. Peraltro, una situazione siffatta finisce con il gravare eccessivamente sulle famiglie.
Tutelare gli aspiranti avvocati significa anche, come ovvio, garantire un accesso imparziale e fondato sul merito, nonché a costo zero o, comunque, ridotto, senza imporre al giovane esposizioni economiche eccessive (ormai la spesa media per ciascun praticante, tra corsi ed acquisto di pubblicazioni, supera abbondantemente € 1.000, peraltro da moltiplicarsi per il numero di volte in cui l’aspirante avvocato si trova a dover ridare l’esame e tenendo conto che spesso, nei mesi impiegati nella preparazione dell’esame, il medesimo non è “retribuito” dallo studio legale).
Infine, non si può continuare ad insistere su un sistema di selezione “ad imbuto”, in cui tutti gli investimenti e sforzi fatti dall’aspirante avvocato (ma anche dal suo dominus) vengono a giocarsi in un drammatico esame finale (nelle proposte ultime, peraltro, ripetibile solo per un numero ristretto di volte, con il rischio di una beffa finale davvero ai limiti del disumano).
Ipotesi di principi per un modello innovativo
Tutte queste esigenze (e non sono come ovvio tutte) dovrebbero comportare una rivisitazione dell’attuale esame d’avvocato, che tuttavia non si risolva in una riforma in peius, governata dalle consuete logiche.
Occorre cominciare a pensare a delle vere alternative e, giacché non mi risulta che vi siano stati particolari sforzi nell’ipotizzarle, mi cimenterò qui di seguito, senza nutrire alcuna pretesa di perfezione, a delineare alcuni principi che, a mio modestissimo avviso, dovrebbero essere considerati nella costruzione di un nuovo modello per l’accesso alla professione.
L’intento è soprattutto di dimostrare come sia ben possibile ragionare su prospettive diverse, se ovviamente lo si desidera.
Altri principi e modelli alternativi sono per certo rinvenibili, ma da qualche parte pur occorre iniziare per non restare nell’immobilismo o, peggio ancora, per non trovarsi con “innovazioni” ulteriormente negative.
1. Principio della necessità di una selezione
La selezione, ai fini della realizzazione del primo obiettivo (la tutela del cittadino), è necessaria: in taluni Stati europei (mi risulta solo la Spagna) essa non ha luogo e questo non può essere accettato. L’idea che si diventi avvocati per il semplice fatto di avere frequentato l’università è del tutto errata, in quanto non considera la necessaria formazione pratica degli aspiranti avvocati e l’opportunità che questi apprendano sul campo il know-how fondamentale per una gestione corretta dei clienti (ciò anche dal punto di vista deontologico). Il “se” della selezione non dovrebbe neppure essere posto in discussione.
La selezione è altresì opportuna al fine di garantire un futuro, economicamente sostenibile, ai giovani che decidano di investire nel percorso in questione: serve per capire le difficoltà della professione, se si è portati, se effettivamente è questa la strada.
2. Principio della selezione sin dall’università
Il vero problema è quando e come operare la selezione.
Al riguardo sembra opportuno partire dal comune denominatore europeo che, con alcune eccezioni (si pensi ad una parte dei solicitor inglesi), accomuna la stragrande maggioranza degli Stati membri: la laurea in legge.
E’ da questo momento che comincia generalmente l’odissea di ogni aspirante avvocato. E proprio questo dovrebbe essere il momento per effettuare la prima importante selezione, onde evitare che molti giovani finiscano per avviarsi sul percorso dell’accesso alla professione - lungo e tortuoso -, senza poi, magari dopo numerosi anni, riuscire a raggiungere il risultato.
Una selezione che abbia luogo sin dal principio presenta diversi vantaggi:
evita lo sfruttamento del lavoro di migliaia di laureati;
scongiura scelte di tipo transitorio/residuale, tipiche di giovani non particolarmente motivati dalla prospettiva dell’avvocatura;
fa sì che non si illudano schiere di giovani per anni, creando dei sottopagati, insoddisfatti, trentenni fuori dal mercato del lavoro.
Come attuare questa selezione?
In primo luogo la formazione universitaria deve essere adeguata e selettiva: chi perviene alla laurea deve già possedere una conoscenza approfondita del diritto, ancorché teorica. Peraltro, andrebbe fissato un termine massimo entro cui completare il corso universitario, ciò perlomeno per chi aspira all’accesso alla professione.
In secondo luogo andrebbe ipotizzata una selezione da attuarsi entro un termine massimo di tre mesi dal conseguimento della laurea, con la possibilità di affrontarla per un numero limitato di volte (almeno tre nell’arco di un anno dalla laurea). Si dovrebbe trattare di una selezione imparziale e uguale per tutti, evitando però di limitarla a test “informatici” a crocette o test consimili (così, invece, la proposta del CNF), bensì combinando questo meccanismo comunque con un esame orale, ove l’aspirante candidato possa dimostrare che gli eventuali errori commessi nei test non sono significativi di una sua impreparazione teorica di base o di una carenza di attitudini. Del resto, la professione d’avvocato, nell’era della tecnologia e delle banche dati, non è solo questione di memoria, ma di capacità nella comprensione dei problemi, d’intelligenza, di creatività, di sensibilità. I test a risposte multiple e più in generale i test informatici appiattiscono troppo la qualità delle selezione, non rendono giustizia al profilo attitudinale del candidato.
Questo primo filtro, come logico, andrebbe affidato a commissioni il più possibile neutrali.
Chiaro è che tutto ciò potrà avere luogo solo se vi siano investimenti seri sull’università italiana e un’altrettanta seria selezione dei docenti (il che è in larga misura difettato in questi anni, come dimostrano tante vicende concorsuali che gridano vendetta).
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati
Si è già sottolineato come l’esperienza pratica sia necessaria, imprescindibile.
Prima che il giovane possa fregiarsi del titolo di avvocato dovrebbe intercorrere un lasso di tempo tale da permettergli di acquisire le conoscenze pratiche del caso.
Quanto deve lungo questo periodo?
Generalmente occorrono diversi anni per formare un legale che sia in grado di dare professionalità e sicurezza ai clienti, posto che vi sia un insegnamento adeguato e serio da parte dei legali che seguono l’apprendistato del giovane.
Eliminando l’esame finale (come prospettato al punto seguente), si potrebbero ipotizzare tre anni (un anno in più rispetto all’attuale, ma con le garanzie illustrate sotto al punto 5).
Evidentemente, poi, non è tanto il giovane praticante a dover essere controllato sulla regolarità della pratica, bensì l’avvocato che lo segue nell’accesso alla professione. E’ quest’ultimo che deve essere responsabilizzato e che dovrà investire sul giovane di studio. Si dovrebbe quindi pensare a delle relazioni semestrali che l’avvocato presenta all’ordine di appartenenza, con cui dimostra l’impegno profuso nella preparazione del giovane e spiega il programma di apprendimento adottato per quest’ultimo.
Inoltre, al fine di rendere il tirocinio adeguato ad una formazione completa degli aspiranti avvocati dovrebbero essere organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura (è nel loro interesse che vi siano avvocati preparati) dei corsi a carattere prevalentemente pratico con obbligo di frequenza, che però non prevalgano, quanto ad impegno, sulle ore dedicate all’esperienza pratica (si potrebbe ipotizzare un monte orario di 6 ore settimanali). I costi di questi corsi dovrebbero essere sostenuti dall’avvocatura stessa e dagli avvocati che si avvalgono dei praticanti, senza che sia richiesto a questi ultimi di contribuire.
4. Principio del tirocinio quale selezione finale
La pratica dovrebbe inoltre contribuire alla selezione finale, senza che vi siano al suo termine defatiganti esami sganciati dall’impegno profuso negli anni di tirocinio. Sarebbe, infatti, sbagliato che l’accesso alla professione sia rinviato, come accade ora e come si prevede nei progetti di riforma ultimi, ad un esame finale in cui il praticante si gioca davvero tutto: l’accesso all’avvocatura dovrebbe reggersi sulla serietà con cui il praticante ha svolto il tirocinio.
Si potrebbe allora pensare ad un meccanismo a punti, ove il praticante che affronti con dedizione, profitto e merito la pratica si troverà gradualmente ad inserirsi nella professione, senza drammi e, soprattutto, devastanti sorprese finali (che interverrebbero peraltro in un’età già avanzata, quando ormai è più difficile pensare ad altre vie).
In base a questo meccanismo il praticante, per il conseguimento del titolo, dovrà raggiungere alla fine dei tre anni di tirocinio un punteggio minimo.
In particolare, si potrebbe prevedere l’assegnazione dei punti: 1) in seno ai corsi obbligatori organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura, ove si dovranno evidentemente effettuare esami finali di verifica dell’apprendimento (tra i corsi si dovrebbe altresì preventivare un corso in lingua inglese, giacché non può accettarsi oggi che un avvocato non possegga i fondamenti almeno di questa lingua); 2) in relazione all’attività svolta presso lo studio (si potrebbe pensare all’assegnazione di una parte dei punti da parte dell’avvocato presso cui si svolge il tirocinio); 3) in relazione a particolari attività particolarmente meritorie (ad esempio, la redazione di scritti per riviste giuridiche; oppure la partecipazione ad attività organizzate dalle corti o dagli stessi organi rappresentativi, come, ad esempio, la massimazione delle sentenze di tribunale e di corte d’appello).
Questo meccanismo, unitamente a quanto previsto al punto 3, dovrebbe risolvere il problema del tirocinio fittizio, fenomeno del tutto deprecabile e che purtroppo vede partecipi gli stessi avvocati.
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato
Il tirocinio è autentico rapporto di lavoro, ancorché con tutta una serie di particolarità: esso non è un rapporto di lavoro subordinato; è funzionale all’accesso ad una libera professione; inoltre, da parte del professionista vi è (o, perlomeno, dovrebbe esserci) un impegno formativo notevole, che un andrà a tutto vantaggio del praticante, quando diverrà avvocato.
Diciamo subito che le ore spese a servizio dello studio legale vanno considerate come vere e proprie ore di lavoro. Più il praticante progredisce, più queste ore dovrebbero essere adeguatamente retribuite. Dopo il primo anno di pratica, comunque retribuito (diversamente dall’indicazione di cui alla proposta del CNF), il livello del trattamento economico dovrebbe divenire pari a quello di un impiegato addetto a mansioni di segreteria (ovviamente, però, il praticante svolgerà mansioni diverse, cioè connesse al suo apprendimento).
Accanto alla retribuzione andrebbe prevista una tutela minima sia pensionistica e sia assicurativa.
Inoltre, il rapporto di lavoro dovrebbe essere formalizzato per iscritto, ciò per regolare diritti e doveri reciproci, non solo nella prospettiva del tirocinio, ma anche di quella subito successiva, onde evitare che il giovane, una volta divenuto avvocato, sia poi scaricato dall’avvocato presso cui ha svolto la pratica.
Siffatto contratto dovrebbe responsabilizzare il praticante, che a questo punto saprà esattamente quali sono le conseguenze di un suo eventuale scarso impegno. Al contempo, dovrebbe limitare il potere del legale sul tirocinante, impedendogli di abusare della sua posizione e imponendogli il rispetto di determinati limiti (anche in relazione agli orari, al tipo di mansioni e di impieghi, alle ferie, ecc.).
Il contratto, in definitiva, renderebbe certi diritti e doveri, nonché, prevedendo l’intervento dell’organo rappresentativo dell’avvocatura per eventuali controversie, dovrebbe favorire un maggior controllo esterno sul rapporto tra tirocinante e avvocato, laddove accusi dei problemi.
Così ragionando, è altresì evidente, anche per ragioni di uniformità a livello nazionale, la necessità che il CNF provveda a definire un contratto standard o collettivo, che contenga dei minimi di trattamento sotto i quali non si possa scendere.
Si noti poi - ma questo è un punto fondamentale - che l’obbligo di garantire un trattamento economico così regolato dovrebbe fare sì che i giovani accedano ad un mercato del lavoro che economicamente li possa poi supportare: evidentemente, infatti, un modello siffatto indurrebbe gli studi legali ad avviare rapporti di tirocinio solo nella misura in cui ciò sia reso loro possibile dall’andamento dei propri affari. In altri termini, l’accesso alla professione dovrebbe così risultare strettamente commisurato alle risorse economiche effettive della professione forense, senza che dalla gratuità del tirocinio i giovani, divenuti avvocati, si trovino inesorabilmente a passare a stati molto vicini alla povertà.
Tutto ciò, infine, dovrebbe pure scongiurare che la concorrenza tra studi legali sia falsata dalla particolare predisposizione di taluni studi allo sfruttamento dei giovani praticanti.

6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati
E’ opportuno che i praticanti, quali autentica classe di lavoratori, abbia un organismo che li rappresenti ufficialmente in seno agli organi rappresentativi dell’avvocatura, in tutta evidenza perché siano adeguatamente considerati i propri diritti e vi sia una corretta applicazione dei principi sopra esposti.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità
L'inizio della professione forense, è, molto spesso per i giovani avvocati, privo di una cd. clientela propria.
L'avvocato agli esordi, quindi, si trova "costretto" ad espletare la propria attività, appoggiandosi presso uno studio più grande.
Il che vuol dire, in pratica, effettuare per conto di una sola struttura organizzativa (molto spesso un solo studio ove il giovane legale è tenuto a rispettare un preciso orario di ingresso ed uscita e delle specifiche direttive in tema di organizzazione e direzione del lavoro ndr) attività di sostituzione, di redazione atti, deposito memorie ... assolutamente senza un proprio portafoglio clienti e, quindi, esclusivamente alle dipendenze e sotto la direzione.
Se, dunque, ai sensi dell'art. 2094 c.c. la definizione di prestatore di lavoro subordinato corrisponde a quella di colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare prestando il proprio lavoro intellettuale e manuale alle dipendenze e sotto la direzione";
Se, ancora, i caratteri della subordinazione e le conseguenti tutele, rilevano a prescindere dall'inquadramento id diritto ma in virtù della semplice corrispondenza della situazione di fatto concretamente sussistente alla previsione normativa;
Allora ne consegue che i giovani legali privi di una propria clientela che svolgono attività esclusivamente per conto di altri studi legali più grandi, effettuano una prestazione che ha tutti i connotati della subordinazione 8salvo che le tutele giuridiche).
Quid iuris per restituire dignità a questa categoria di lavoratori?
Abrogare l'art. 3, III co. della ormai datata Legge Professionale (che è rimasta ... sic ... ancora quella del '33!) il quale stabilisce l'incompatibilità tra la professione di avvocato e qualunque impiego retribuito.
Tale disposizione, che è stata posta in origine a tutela dell'indipendenza della classe fornse, si è nell'epoca attuale di fatto tramutata in una "legalizzazzione" della mancanza di tutele per quella categoria di "subordinati" (i giovani avvocati che operano negli studi legali di fatto alle dipendenze e sotto la direzione dei titolari - "domini" del contenzioso ed i soli che hanno un proprio portafoglio clienti) che molto spesso prestano opera altamente qualificata e sono retribuiti, dagli avvocati titolari della law firm presso la quale operano, con stipendi al di sotto della fascia di povertà.
Quale indipendenza per i giovani avvocati?
Nessuna.
Non può esservi indipendenza senza le tutele mimime riconosciute ai lavoratori subordinati.
La soluzione?
Abrogare l'art. 3, co III del Regio Decreto legge 1578/33 conv. in legge 36/34.

Ecco un tema "Caldo" - Professione forense: prospettive di Riforma

RICEVIAMO E GENTILMENTE PUBBLICHIAMO: .....
Degno di rilievo il Paragrafo 7 "Principio di abolizione delle incompatibilità"
Il problema dell’accesso alla professione forense:
necessaria una riforma che non sia nel segno del vecchio modello

di Marco Bona

Sommario:
Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione -
1. Principio della necessità di una selezione -
2. Principio della selezione sin dall’università -
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati -
4. Principio del tirocinio quale selezione finale -
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato -
6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità.

Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione
Una rivisitazione delle modalità di accesso alla professione forense è sicuramente necessaria ed auspicabile: la situazione attuale, infatti, rimane inaccettabile, soprattutto per la lotteria costituita dalle prove scritte, ma anche per la semplicissima ragione che i meccanismi di accesso oggi operanti non premiano chi ha dedicato seriamente il suo tempo alla pratica e denota di avere le qualità giuste per divenire avvocato.
Nondimeno, a leggere le varie proposte di riforma pendenti sul tavolo, non mi sembra che si staglino particolari mutamenti strutturali e, per così dire, “culturali”: la direzione di queste proposte è e rimane sempre la stessa, semplicemente con alcune “rifiniture” (in peius per gli aspiranti praticanti).
Tra le proposte più recenti viene in rilievo il
disegno di legge approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 27 febbraio 2009, in seguito apprezzato anche dal Ministro Alfano e dal Parlamento.
Tale disegno, tuttavia, pone dinanzi a scenari tali da non lasciare intravedere, almeno a prima vista, processi di autentica innovazione del sistema di accesso alla professione forense: semmai, l’iter diviene ancora più irto di ostacoli (test d’ingresso, prova di preselezione informatica, ecc.), senza che all’inasprimento ed all’intensificarsi dei filtri selettivi si accompagni la garanzia di un giudizio serio sul merito e che premi le qualità in concreto dimostrate dal praticante nel corso del tirocinio. In realtà, si riconferma piena validità al modello imperniato sull’esame finale; la figura del praticante, inoltre, rimane tale e quale, ad esempio senza che si provveda a stabilire un trattamento economico minimo con onere per gli avvocati di corrispondere per il tirocinante i contributi pensionistici-assicurativi.
In particolare, siffatte ultime proposte di riforma sembrano accusare il medesimo vizio di altri precedenti tentativi: si conferma piena validità al modello attualmente operativo, con l’idea di base che sia sufficiente apportare dei “meri” ritocchi, senza - almeno pare - svolgere a monte una riflessione sulla percorribilità di strade per davvero alternative, tali da considerare, almeno in minima parte, l’esigenza di un accesso alla professione meno cruento di quello attuale.
In altri termini, a mio modesto avviso, ancora una volta si parla di “riforma” e di “innovazioni”, senza che ciò sia stato preceduto da una ricerca/riflessione su eventuali modelli alternativi di formazione/selezione degli aspiranti avvocati tali da permettere la tutela ed il rispetto dei praticanti.
Senza alcuna pretesa di fornire chissà quale verità od efficace soluzione, riporterò qui di seguito alcune considerazioni che mi sembrano essere mancate nei progetti di riforma ultimi.
Le esigenze fondamentali: la tutela dei cittadini e degli aspiranti avvocati
Le esigenze della selezione mi sembrano del tutto chiare (a meno che non si intenda ragionare ancora una volta secondo logiche corporative): da un lato la necessità di garantire al cittadino assistenza legale qualificata e svolta da professionisti preparati; dall’altro lato l’esigenza che siano rispettati i diritti di una cospicua moltitudine di giovani, i quali sono a tutti gli effetti dei lavoratori ed investono notevoli risorse personali ed economiche in vista di una professione.
Il primo obiettivo è evidente quanto alle sue ragioni, ma forse sfugge un dato importante: la tutela dei cittadini non implica automaticamente che si debba optare per rigorose restrizioni del novero degli avvocati, sottoponendo i praticanti a vere e proprie forche caudine. Indiscutibilmente, infatti, la concorrenza, posto che sia controllata quanto al rispetto dei principi deontologici, può offrire non pochi benefici ai cittadini: è dimostrato come essa contribuisca a ridurre i costi d’accesso alla giustizia; è altresì evidente come al contempo, nel lungo periodo, incentivi alla specializzazione.
In altri termini, la realizzazione del primo obiettivo si dovrebbe giocare esclusivamente sul piano della formazione del futuro avvocato, prescindendo cioè dalla logica di un esame aleatorio e che non premia chi ha investito seriamente nel praticantato.
In questo senso la tutela dei cittadini può essere raggiunta facendo sì che sin dall’università e poi successivamente l’aspirante avvocato acquisisca tutti gli strumenti per assistere con professionalità il cittadino. Ciò implica avere cura che il praticante non solo abbia un buon bagaglio teorico (responsabilità primaria del sistema universitario), ma altresì una significativa esperienza pratica (impegno fondamentale degli avvocati).
Il secondo obiettivo è di tutelare i praticanti in modo tale che l’acquisizione delle nozioni e delle esperienze necessarie alla realizzazione del primo fine non sia occasione di sfruttamento economico. I praticanti costituiscono una forza lavoro, già parzialmente qualificata, che non può essere impiegata senza il giusto riconoscimento di un reddito commisurato al lavoro prestato. Non si può permettere che per anni i praticanti siano trattati economicamente senza percepire reddito alcuno oppure con redditi inferiori a quelli di altri giovani avviati al lavoro o di altre forze lavoro presenti negli stessi studi legali (ad esempio, gli impiegati con mansioni di segreteria, che normalmente hanno più protezione e peraltro si trovano a lavorare con un monte orario ridotto rispetto a quello dei praticanti).
Vi è però un altro fondamentale profilo che va debitamente considerato e che i progetti di “riforma” sembrano ampiamente sottovalutare: non si può permettere che l’aspirante avvocato impieghi un arco temporale eccessivamente lungo per accedere definitivamente alla professione. In Italia, al riguardo, vi è stata una vera e propria degenerazione: mediamente, contando i tempi lunghi dell’esame e gli intoppi che si possono incontrare su questa strada (non collegati a giudizi sul merito delle capacità professionali, stando che l’esame scritto, soprattutto, è affidato alla fortuna), i giovani, che riescono a passare l’esame d’avvocato, hanno già intorno ai 28-30 anni, e li attende un futuro economico assolutamente incerto; gli aspiranti avvocati, meno fortunati (ma non necessariamente impreparati), si trovano a tentare l’esame anche dopo avere passato i 30 anni. Ciò che va evitato è che l’accesso definitivo alla professione avvenga troppo tardi, quando ormai diviene arduo pensare a delle alternative. Peraltro, una situazione siffatta finisce con il gravare eccessivamente sulle famiglie.
Tutelare gli aspiranti avvocati significa anche, come ovvio, garantire un accesso imparziale e fondato sul merito, nonché a costo zero o, comunque, ridotto, senza imporre al giovane esposizioni economiche eccessive (ormai la spesa media per ciascun praticante, tra corsi ed acquisto di pubblicazioni, supera abbondantemente € 1.000, peraltro da moltiplicarsi per il numero di volte in cui l’aspirante avvocato si trova a dover ridare l’esame e tenendo conto che spesso, nei mesi impiegati nella preparazione dell’esame, il medesimo non è “retribuito” dallo studio legale).
Infine, non si può continuare ad insistere su un sistema di selezione “ad imbuto”, in cui tutti gli investimenti e sforzi fatti dall’aspirante avvocato (ma anche dal suo dominus) vengono a giocarsi in un drammatico esame finale (nelle proposte ultime, peraltro, ripetibile solo per un numero ristretto di volte, con il rischio di una beffa finale davvero ai limiti del disumano).
Ipotesi di principi per un modello innovativo
Tutte queste esigenze (e non sono come ovvio tutte) dovrebbero comportare una rivisitazione dell’attuale esame d’avvocato, che tuttavia non si risolva in una riforma in peius, governata dalle consuete logiche.
Occorre cominciare a pensare a delle vere alternative e, giacché non mi risulta che vi siano stati particolari sforzi nell’ipotizzarle, mi cimenterò qui di seguito, senza nutrire alcuna pretesa di perfezione, a delineare alcuni principi che, a mio modestissimo avviso, dovrebbero essere considerati nella costruzione di un nuovo modello per l’accesso alla professione.
L’intento è soprattutto di dimostrare come sia ben possibile ragionare su prospettive diverse, se ovviamente lo si desidera.
Altri principi e modelli alternativi sono per certo rinvenibili, ma da qualche parte pur occorre iniziare per non restare nell’immobilismo o, peggio ancora, per non trovarsi con “innovazioni” ulteriormente negative.
1. Principio della necessità di una selezione
La selezione, ai fini della realizzazione del primo obiettivo (la tutela del cittadino), è necessaria: in taluni Stati europei (mi risulta solo la Spagna) essa non ha luogo e questo non può essere accettato. L’idea che si diventi avvocati per il semplice fatto di avere frequentato l’università è del tutto errata, in quanto non considera la necessaria formazione pratica degli aspiranti avvocati e l’opportunità che questi apprendano sul campo il know-how fondamentale per una gestione corretta dei clienti (ciò anche dal punto di vista deontologico). Il “se” della selezione non dovrebbe neppure essere posto in discussione.
La selezione è altresì opportuna al fine di garantire un futuro, economicamente sostenibile, ai giovani che decidano di investire nel percorso in questione: serve per capire le difficoltà della professione, se si è portati, se effettivamente è questa la strada.
2. Principio della selezione sin dall’università
Il vero problema è quando e come operare la selezione.
Al riguardo sembra opportuno partire dal comune denominatore europeo che, con alcune eccezioni (si pensi ad una parte dei solicitor inglesi), accomuna la stragrande maggioranza degli Stati membri: la laurea in legge.
E’ da questo momento che comincia generalmente l’odissea di ogni aspirante avvocato. E proprio questo dovrebbe essere il momento per effettuare la prima importante selezione, onde evitare che molti giovani finiscano per avviarsi sul percorso dell’accesso alla professione - lungo e tortuoso -, senza poi, magari dopo numerosi anni, riuscire a raggiungere il risultato.
Una selezione che abbia luogo sin dal principio presenta diversi vantaggi:
evita lo sfruttamento del lavoro di migliaia di laureati;
scongiura scelte di tipo transitorio/residuale, tipiche di giovani non particolarmente motivati dalla prospettiva dell’avvocatura;
fa sì che non si illudano schiere di giovani per anni, creando dei sottopagati, insoddisfatti, trentenni fuori dal mercato del lavoro.
Come attuare questa selezione?
In primo luogo la formazione universitaria deve essere adeguata e selettiva: chi perviene alla laurea deve già possedere una conoscenza approfondita del diritto, ancorché teorica. Peraltro, andrebbe fissato un termine massimo entro cui completare il corso universitario, ciò perlomeno per chi aspira all’accesso alla professione.
In secondo luogo andrebbe ipotizzata una selezione da attuarsi entro un termine massimo di tre mesi dal conseguimento della laurea, con la possibilità di affrontarla per un numero limitato di volte (almeno tre nell’arco di un anno dalla laurea). Si dovrebbe trattare di una selezione imparziale e uguale per tutti, evitando però di limitarla a test “informatici” a crocette o test consimili (così, invece, la proposta del CNF), bensì combinando questo meccanismo comunque con un esame orale, ove l’aspirante candidato possa dimostrare che gli eventuali errori commessi nei test non sono significativi di una sua impreparazione teorica di base o di una carenza di attitudini. Del resto, la professione d’avvocato, nell’era della tecnologia e delle banche dati, non è solo questione di memoria, ma di capacità nella comprensione dei problemi, d’intelligenza, di creatività, di sensibilità. I test a risposte multiple e più in generale i test informatici appiattiscono troppo la qualità delle selezione, non rendono giustizia al profilo attitudinale del candidato.
Questo primo filtro, come logico, andrebbe affidato a commissioni il più possibile neutrali.
Chiaro è che tutto ciò potrà avere luogo solo se vi siano investimenti seri sull’università italiana e un’altrettanta seria selezione dei docenti (il che è in larga misura difettato in questi anni, come dimostrano tante vicende concorsuali che gridano vendetta).
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati
Si è già sottolineato come l’esperienza pratica sia necessaria, imprescindibile.
Prima che il giovane possa fregiarsi del titolo di avvocato dovrebbe intercorrere un lasso di tempo tale da permettergli di acquisire le conoscenze pratiche del caso.
Quanto deve lungo questo periodo?
Generalmente occorrono diversi anni per formare un legale che sia in grado di dare professionalità e sicurezza ai clienti, posto che vi sia un insegnamento adeguato e serio da parte dei legali che seguono l’apprendistato del giovane.
Eliminando l’esame finale (come prospettato al punto seguente), si potrebbero ipotizzare tre anni (un anno in più rispetto all’attuale, ma con le garanzie illustrate sotto al punto 5).
Evidentemente, poi, non è tanto il giovane praticante a dover essere controllato sulla regolarità della pratica, bensì l’avvocato che lo segue nell’accesso alla professione. E’ quest’ultimo che deve essere responsabilizzato e che dovrà investire sul giovane di studio. Si dovrebbe quindi pensare a delle relazioni semestrali che l’avvocato presenta all’ordine di appartenenza, con cui dimostra l’impegno profuso nella preparazione del giovane e spiega il programma di apprendimento adottato per quest’ultimo.
Inoltre, al fine di rendere il tirocinio adeguato ad una formazione completa degli aspiranti avvocati dovrebbero essere organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura (è nel loro interesse che vi siano avvocati preparati) dei corsi a carattere prevalentemente pratico con obbligo di frequenza, che però non prevalgano, quanto ad impegno, sulle ore dedicate all’esperienza pratica (si potrebbe ipotizzare un monte orario di 6 ore settimanali). I costi di questi corsi dovrebbero essere sostenuti dall’avvocatura stessa e dagli avvocati che si avvalgono dei praticanti, senza che sia richiesto a questi ultimi di contribuire.
4. Principio del tirocinio quale selezione finale
La pratica dovrebbe inoltre contribuire alla selezione finale, senza che vi siano al suo termine defatiganti esami sganciati dall’impegno profuso negli anni di tirocinio. Sarebbe, infatti, sbagliato che l’accesso alla professione sia rinviato, come accade ora e come si prevede nei progetti di riforma ultimi, ad un esame finale in cui il praticante si gioca davvero tutto: l’accesso all’avvocatura dovrebbe reggersi sulla serietà con cui il praticante ha svolto il tirocinio.
Si potrebbe allora pensare ad un meccanismo a punti, ove il praticante che affronti con dedizione, profitto e merito la pratica si troverà gradualmente ad inserirsi nella professione, senza drammi e, soprattutto, devastanti sorprese finali (che interverrebbero peraltro in un’età già avanzata, quando ormai è più difficile pensare ad altre vie).
In base a questo meccanismo il praticante, per il conseguimento del titolo, dovrà raggiungere alla fine dei tre anni di tirocinio un punteggio minimo.
In particolare, si potrebbe prevedere l’assegnazione dei punti: 1) in seno ai corsi obbligatori organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura, ove si dovranno evidentemente effettuare esami finali di verifica dell’apprendimento (tra i corsi si dovrebbe altresì preventivare un corso in lingua inglese, giacché non può accettarsi oggi che un avvocato non possegga i fondamenti almeno di questa lingua); 2) in relazione all’attività svolta presso lo studio (si potrebbe pensare all’assegnazione di una parte dei punti da parte dell’avvocato presso cui si svolge il tirocinio); 3) in relazione a particolari attività particolarmente meritorie (ad esempio, la redazione di scritti per riviste giuridiche; oppure la partecipazione ad attività organizzate dalle corti o dagli stessi organi rappresentativi, come, ad esempio, la massimazione delle sentenze di tribunale e di corte d’appello).
Questo meccanismo, unitamente a quanto previsto al punto 3, dovrebbe risolvere il problema del tirocinio fittizio, fenomeno del tutto deprecabile e che purtroppo vede partecipi gli stessi avvocati.
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato
Il tirocinio è autentico rapporto di lavoro, ancorché con tutta una serie di particolarità: esso non è un rapporto di lavoro subordinato; è funzionale all’accesso ad una libera professione; inoltre, da parte del professionista vi è (o, perlomeno, dovrebbe esserci) un impegno formativo notevole, che un andrà a tutto vantaggio del praticante, quando diverrà avvocato.
Diciamo subito che le ore spese a servizio dello studio legale vanno considerate come vere e proprie ore di lavoro. Più il praticante progredisce, più queste ore dovrebbero essere adeguatamente retribuite. Dopo il primo anno di pratica, comunque retribuito (diversamente dall’indicazione di cui alla proposta del CNF), il livello del trattamento economico dovrebbe divenire pari a quello di un impiegato addetto a mansioni di segreteria (ovviamente, però, il praticante svolgerà mansioni diverse, cioè connesse al suo apprendimento).
Accanto alla retribuzione andrebbe prevista una tutela minima sia pensionistica e sia assicurativa.
Inoltre, il rapporto di lavoro dovrebbe essere formalizzato per iscritto, ciò per regolare diritti e doveri reciproci, non solo nella prospettiva del tirocinio, ma anche di quella subito successiva, onde evitare che il giovane, una volta divenuto avvocato, sia poi scaricato dall’avvocato presso cui ha svolto la pratica.
Siffatto contratto dovrebbe responsabilizzare il praticante, che a questo punto saprà esattamente quali sono le conseguenze di un suo eventuale scarso impegno. Al contempo, dovrebbe limitare il potere del legale sul tirocinante, impedendogli di abusare della sua posizione e imponendogli il rispetto di determinati limiti (anche in relazione agli orari, al tipo di mansioni e di impieghi, alle ferie, ecc.).
Il contratto, in definitiva, renderebbe certi diritti e doveri, nonché, prevedendo l’intervento dell’organo rappresentativo dell’avvocatura per eventuali controversie, dovrebbe favorire un maggior controllo esterno sul rapporto tra tirocinante e avvocato, laddove accusi dei problemi.
Così ragionando, è altresì evidente, anche per ragioni di uniformità a livello nazionale, la necessità che il CNF provveda a definire un contratto standard o collettivo, che contenga dei minimi di trattamento sotto i quali non si possa scendere.
Si noti poi - ma questo è un punto fondamentale - che l’obbligo di garantire un trattamento economico così regolato dovrebbe fare sì che i giovani accedano ad un mercato del lavoro che economicamente li possa poi supportare: evidentemente, infatti, un modello siffatto indurrebbe gli studi legali ad avviare rapporti di tirocinio solo nella misura in cui ciò sia reso loro possibile dall’andamento dei propri affari. In altri termini, l’accesso alla professione dovrebbe così risultare strettamente commisurato alle risorse economiche effettive della professione forense, senza che dalla gratuità del tirocinio i giovani, divenuti avvocati, si trovino inesorabilmente a passare a stati molto vicini alla povertà.
Tutto ciò, infine, dovrebbe pure scongiurare che la concorrenza tra studi legali sia falsata dalla particolare predisposizione di taluni studi allo sfruttamento dei giovani praticanti.

6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati
E’ opportuno che i praticanti, quali autentica classe di lavoratori, abbia un organismo che li rappresenti ufficialmente in seno agli organi rappresentativi dell’avvocatura, in tutta evidenza perché siano adeguatamente considerati i propri diritti e vi sia una corretta applicazione dei principi sopra esposti.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità
L'inizio della professione forense, è, molto spesso per i giovani avvocati, privo di una cd. clientela propria.
L'avvocato agli esordi, quindi, si trova "costretto" ad espletare la propria attività, appoggiandosi presso uno studio più grande.
Il che vuol dire, in pratica, effettuare per conto di una sola struttura organizzativa (molto spesso un solo studio ove il giovane legale è tenuto a rispettare un preciso orario di ingresso ed uscita e delle specifiche direttive in tema di organizzazione e direzione del lavoro ndr) attività di sostituzione, di redazione atti, deposito memorie ... assolutamente senza un proprio portafoglio clienti e, quindi, esclusivamente alle dipendenze e sotto la direzione.
Se, dunque, ai sensi dell'art. 2094 c.c. la definizione di prestatore di lavoro subordinato corrisponde a quella di colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare prestando il proprio lavoro intellettuale e manuale alle dipendenze e sotto la direzione";
Se, ancora, i caratteri della subordinazione e le conseguenti tutele, rilevano a prescindere dall'inquadramento id diritto ma in virtù della semplice corrispondenza della situazione di fatto concretamente sussistente alla previsione normativa;
Allora ne consegue che i giovani legali privi di una propria clientela che svolgono attività esclusivamente per conto di altri studi legali più grandi, effettuano una prestazione che ha tutti i connotati della subordinazione 8salvo che le tutele giuridiche).
Quid iuris per restituire dignità a questa categoria di lavoratori?
Abrogare l'art. 3, III co. della ormai datata Legge Professionale (che è rimasta ... sic ... ancora quella del '33!) il quale stabilisce l'incompatibilità tra la professione di avvocato e qualunque impiego retribuito.
Tale disposizione, che è stata posta in origine a tutela dell'indipendenza della classe fornse, si è nell'epoca attuale di fatto tramutata in una "legalizzazzione" della mancanza di tutele per quella categoria di "subordinati" (i giovani avvocati che operano negli studi legali di fatto alle dipendenze e sotto la direzione dei titolari - "domini" del contenzioso ed i soli che hanno un proprio portafoglio clienti) che molto spesso prestano opera altamente qualificata e sono retribuiti, dagli avvocati titolari della law firm presso la quale operano, con stipendi al di sotto della fascia di povertà.
Quale indipendenza per i giovani avvocati?
Nessuna.
Non può esservi indipendenza senza le tutele mimime riconosciute ai lavoratori subordinati.
La soluzione?
Abrogare l'art. 3, co III del Regio Decreto legge 1578/33 conv. in legge 36/34.

News dall'Agenzia delle Entrate: Enti Associativi e No Profit


Agenzia delle Entrate Anno 2009
Agenzia delle Entrate, Circolare 9 aprile 2009, n. 12
Oggetto: Art. 30 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 - Enti associativi e norme in materia di ONLUS

INDICE
1 COMUNICAZIONE DI DATI E NOTIZIE RILEVANTI AI FINI FISCALI
1.1 Requisiti qualificanti per fruire dei regimi agevolativi dell'art. 148 del TUIR e dell'art. 4 del DPR n. 633.
1.1.1 Natura tributaria degli enti di tipo associativo1.1.2 Requisiti per particolari tipologie di associazioni
1.2 Soggetti tenuti alla presentazione del modello di comunicazione dei dati e delle notizie rilevanti ai fini del controllo fiscale.
1.2.1 Enti esonerati dalla trasmissione del modello
1.2.1.1 Associazioni pro-loco
1.2.1.2 Associazioni sportive dilettantistiche
1.2.1.3 Organizzazioni di volontariato iscritte nei registri della legge n. 266 del 1991 che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali di cui al decreto del Ministro delle Finanze 25 maggio 19951.
3 Modalità di trasmissione e contenuti della comunicazione
2 NORME IN MATERIA DI ONLUS
2.1 Organizzazioni di volontariato ONLUS di diritto
2.2 Attività di beneficenza svolta da ONLUS
2.3 Agevolazione in materia di imposta catastale per le ONLUS
PREMESSA
L'art. 30, commi 1, 2, 3 e 3-bis, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, al fine di consentire gli opportuni controlli, introduce per gli enti di tipo associativo, che siano in possesso dei requisiti qualificanti richiesti dalle norme fiscali per avvalersi delle disposizioni di favore previste dall'art. 148 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e dall'art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, l'onere di comunicare all'Agenzia delle entrate dati e notizie rilevanti ai fini fiscali.L'applicazione delle richiamate disposizioni fiscali di favore, rilevanti ai fini delle imposte sui redditi e ai fini IVA, è pertanto subordinata alla ricorrenza delle seguenti condizioni:a) possesso dei requisiti previsti dalla normativa tributaria;b) comunicazione dei dati e delle notizie rilevanti ai fini dell'accertamento.La comunicazione di dati e notizie deve essere effettuata con apposito modello approvato con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate, nei termini e secondo le modalità stabilite con lo stesso provvedimento.La norma ha finalità esclusivamente fiscali e risponde a reali esigenze di controllo che l'Agenzia delle entrate potrà effettuare anche attraverso l'acquisizione di informazioni necessarie a garantire che i regimi tributari diretti ad incentivare il fenomeno del libero associazionismo non costituiscano di fatto uno strumento per eludere il pagamento delle imposte dovute.L'intento della norma è quello di acquisire una più ampia informazione e conoscenza del mondo associativo e dei soggetti assimilati sotto il profilo fiscale (società sportive dilettantistiche), con l'obiettivo primario di tutelare le vere forme associazionistiche incentivate dal legislatore fiscale e, conseguentemente, di isolare e contrastare l'uso distorto dello strumento associazionistico suscettibile di intralciare - tra l'altro - la libertà di concorrenza tra gli operatori commerciali.L'art. 30 in esame reca altresì alcune disposizioni in materia di ONLUS, ai commi 4, 5, 5-bis e 5-ter.Il comma 4 disciplina il settore della beneficenza, riconducendo nell'ambito di tale attività, oltre agli interventi diretti a favore di soggetti svantaggiati, le erogazioni effettuate ad altri enti che realizzano programmi di utilità sociale (c.d. beneficenza indiretta).Il comma 5 disciplina le organizzazioni di volontariato, fissando le condizioni necessarie perché le stesse possano acquisire la qualifica di ONLUS di diritto.Infine, i commi 5-bis e 5-ter dell'art. 30 introducono un'agevolazione temporanea in materia di imposta catastale a favore delle ONLUS.
1 COMUNICAZIONE DI DATI E NOTIZIE RILEVANTI AI FINI FISCALI
1.1 Requisiti qualificanti per fruire dei regimi agevolativi dell'art. 148 del TUIR e dell'art. 4 del DPR n. 633.
In merito ai requisiti per avvalersi delle disposizioni di cui ai menzionati articoli 148 del TUIR e 4 del DPR n. 633 che escludono dalla imposizione, ai fini delle imposte sui redditi e dell'IVA, i contributi, le quote e i corrispettivi, pagati alle associazioni, la norma in commento ribadisce la necessità che gli enti associativi interessati posseggano i "requisiti qualificanti previsti dalla normativa tributaria".Al riguardo si evidenzia che presupposto di carattere generale per l'applicazione sia delle disposizioni dell'art. 148 del TUIR, sia di quelle dell'art. 4, commi quarto e sesto, del DPR n. 633, è la qualificazione dell'ente associativo come ente non commerciale.1.1.1 Natura tributaria degli enti di tipo associativoGli enti di tipo associativo che possono fruire delle disposizioni dell'art. 148 del TUIR e dell'art. 4, commi quarto e sesto, del DPR n. 633 sono solo gli enti che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali ai sensi dell'art. 73 del TUIR.L'art. 148 è inserito, infatti, nel Titolo II, Capo III, del TUIR concernente gli enti non commerciali, così come l'art. 4, commi quarto e sesto, del DPR n. 633 disciplina agli effetti IVA gli stessi enti non commerciali.Gli enti di tipo associativo che svolgono in via esclusiva o principale attività commerciale non possono fruire del regime di favore previsto dall'art. 148 del TUIR e dall'art. 4, commi quarto e sesto, del DPR n. 633.In particolare per detti enti la natura commerciale fa sì che anche le quote e i contributi associativi concorrono alla determinazione del reddito d'impresa.Si ricorda che la commercialità o meno di un'attività è determinata ai fini fiscali sulla base di parametri oggettivi che prescindono dalle motivazioni del soggetto che la pone in essere e dalle sue finalità.In sostanza la qualificazione ai fini fiscali dell'attività deve essere operata verificando se la stessa possa ricondursi fra quelle previste dall'art. 2195 del codice civile o, qualora essa consista nella prestazione di servizi non riconducibili nel menzionato articolo (es. prestazioni didattiche, sanitarie, terapeutiche etc.), se venga svolta con i connotati dell'organizzazione, della professionalità e abitualità.Il carattere di imprenditorialità può di fatto derivare anche dallo svolgimento di un solo affare in considerazione della sua rilevanza economica e della complessità delle operazioni in cui si articola e la funzione organizzativa dell'imprenditore può rilevarsi nel coordinamento dei mezzi finanziari nell'ambito di un'operazione di rilevante entità economica.
1.1.2 Requisiti per particolari tipologie di associazioniIl comma 3 dell'art. 148 del TUIR e il quarto comma, secondo periodo, dell'art. 4 del DPR n. 633 prevedono un particolare regime agevolativo, consistente nella decommercializzazione delle attività rese in diretta attuazione degli scopi istituzionali, nei confronti di iscritti, associati o partecipanti verso il pagamento di corrispettivi specifici, applicabile ad associazioni che, oltre a dover essere preventivamente qualificate come enti non commerciali, appartengano a una delle seguenti tipologie:- associazioni politiche;- associazioni sindacali;- associazioni di categoria;- associazioni religiose;- associazioni assistenziali;- associazioni culturali;- associazioni sportive dilettantistiche;- associazioni di promozione sociale;- associazioni di formazione extra-scolastica della persona.Le associazioni sportive dilettantistiche sono definite dall'art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, mentre le associazioni di promozione sociale sono quelle disciplinate dalla legge 7 dicembre 2000, n. 383.Altri specifici benefici sono stabiliti, a favore di una o più tipologie di associazioni sopra richiamate, dai commi 5, 6 e 7 dell'art. 148 del TUIR nonché dal sesto comma dell'art. 4 del DPR n. 633 in presenza delle condizioni previste dalle stesse disposizioni.Si precisa che l'attività "esterna" degli enti associativi, cioè quella resa nei confronti di terzi, non rientra di regola nella sfera di applicazione delle norme agevolative sopra riportate.Il regime agevolativo previsto per i corrispettivi specifici pagati dagli associati, iscritti o partecipanti ai sensi del comma 3 dell'art. 148 del TUIR e del quarto comma, secondo periodo, dell'art. 4 del DPR n. 633 nonchè gli ulteriori benefici recati dai commi 5, 6 e 7 dello stesso art. 148 e dal sesto comma del menzionato art. 4 si applicano a condizione che le associazioni interessate si conformino, oltre che alle anzidette condizioni recate dai commi sopra citati, anche alle seguenti clausole, da inserire nei relativi statuti redatti nella forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata:a) divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell'associazione, salvo che la destinazione o la distribuzione non siano imposte dalla legge;b) obbligo di devolvere il patrimonio dell'ente, in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altra associazione con finalità analoghe o ai fini di pubblica utilità, sentito l'organismo di controllo di cui all'art. 3, comma 190, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e salvo diversa destinazione imposta dalla legge;c) disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l'effettività del rapporto medesimo, escludendo espressamente la temporaneità della partecipazione alla vita associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti maggiori d'età il diritto di voto per l'approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti e per la nomina degli organi direttivi dell'associazione;d) obbligo di redigere e di approvare annualmente un rendiconto economico e finanziario secondo le disposizioni statutarie;e) eleggibilità libera degli organi amministrativi, principio del voto singolo di cui all'art. 2532, comma 2, del codice civile, sovranità dell'assemblea dei soci, associati o partecipanti e i criteri di loro ammissione ed esclusione, criteri e idonee forme di pubblicità delle convocazioni assembleari, delle relative deliberazioni, dei bilanci o rendiconti; è ammesso il voto per corrispondenza per le associazioni il cui atto costitutivo, anteriore al 1 gennaio 1997, preveda tale modalità di voto ai sensi dell'art. 2532, ultimo comma, del codice civile e sempreché le stesse abbiano rilevanza a livello nazionale e siano prive di organizzazione a livello locale;f) intrasmissibilità della quota o contributo associativo ad eccezione dei trasferimenti a causa di morte e non rivalutabilità della stessa.Per espressa previsione normativa (comma 9 dell'art. 148 del TUIR e ottavo comma dell'art. 4 del DPR n. 633 del 1972) le clausole indicate alle lettere c) ed e) non si applicano alle associazioni religiose riconosciute dalle confessioni con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese, nonché alle associazioni politiche, sindacali e di categoria.1.2 Soggetti tenuti alla presentazione del modello di comunicazione dei dati e delle notizie rilevanti ai fini del controllo fiscale.Dalle disposizioni dei commi 1, 2 e 3-bis dell'art. 30 emerge che l'onere della presentazione del modello di comunicazione dei dati e delle notizie rilevanti ai fini fiscali è previsto per tutti gli enti di tipo associativo che fruiscono della detassazione delle quote associative ovvero dei contributi o dei corrispettivi prevista dai richiamati articoli 148 del TUIR e 4 del DPR n. 633, ad esclusione degli enti espressamente indicati dalle stesse disposizioni (v. paragrafo 1.2.1).Come si desume dalla rubrica della norma, riferita ai circoli privati, la disposizione in esame si applica esclusivamente agli enti di carattere privato.Pertanto, sono tenuti alla presentazione del modello di comunicazione previsto dall'art. 30 del decreto-legge n. 185 gli enti associativi di natura privata, con o senza personalità giuridica, che si avvalgono di una o più delle previsioni di decommercializzazione previste dagli articoli 148 del TUIR e 4, quarto comma, secondo periodo, e sesto comma, del DPR n. 633.Ne consegue che l'onere della comunicazione grava anche sugli enti associativi che, in applicazione del comma 1 dell'art. 148 del TUIR, si limitano a riscuotere quote associative oppure contributi versati dagli associati o partecipanti a fronte dell'attività istituzionale svolta dai medesimi.L'onere della comunicazione si estende, in forza del comma 3 dell'art. 30 in commento, alle società sportive dilettantistiche di cui all'art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. Sono tenute, altresì, alla trasmissione del modello in argomento le organizzazioni di volontariato, ad eccezione di quelle espressamente escluse dal comma 1 dell'art. 30 (v. paragrafo 1.2.1.3).Come si evince dal comma 2 dell'articolo in commento sono tenuti a trasmettere il modello di comunicazione previsto dallo stesso articolo sia le associazioni già costituite alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 185 sia gli enti di nuova costituzione.L'onere della comunicazione grava su tutti i soggetti associativi con autonomia giuridica tributaria e, pertanto, anche sulle articolazioni territoriali o funzionali di un ente nazionale, qualora queste si configurino come autonomi soggetti d'imposta ai sensi dell'art. 73 del TUIR.Resta inteso che gli enti associativi interessati dalle disposizioni fiscali di favore di cui ai citati articoli 148 del TUIR e 4 del DPR n. 633 del 1972, non potranno più farne applicazione qualora non assolvano all'onere della comunicazione nei termini e secondo le modalità stabilite con il menzionato provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate.
1.2.1 Enti esonerati dalla trasmissione del modello
L'art. 30 in commento, fermo restando il potere di controllo dell'Agenzia delle entrate della sussistenza dei requisiti qualificanti previsti dalla normativa tributaria, esclude dall'onere di comunicare all'Agenzia dell'entrate i dati e le notizie rilevanti ai fini fiscali:- le associazioni pro-loco che optano per l'applicazione delle disposizioni di cui alla legge 16 dicembre 1991, n. 398;- gli enti associativi dilettantistici iscritti nel registro del Comitato olimpico nazionale italiano che non svolgono attività commerciale.- le organizzazioni di volontariato iscritte nei registri regionali di cui all'art. 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266 che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali individuate con decreto del Ministro delle finanze 25 maggio 1995.
1.2.1.1 Associazioni pro-loco
Il disposto del comma 3-bis dell'art. 30 esonera dalla trasmissione dei dati e delle notizie rilevanti ai fini fiscali le associazioni pro-loco che abbiano esercitato l'opzione per il regime agevolativo recato dalla legge n. 398 del 1991.Si fa presente che le associazioni pro-loco possono optare per l'anzidetto regime fiscale sempre che, nel periodo di imposta precedente, abbiano esercitato attività commerciali, conseguendo proventi di ammontare non superiore a 250.000 euro.Sono tenute, pertanto, a comunicare all'Agenzia delle entrate i dati e le notizie rilevanti ai fini fiscali, le associazioni pro-loco che, nel periodo di imposta precedente, abbiano conseguito proventi superiori a 250.000 euro nonché le associazioni pro-loco che, pur avendo realizzato proventi di ammontare inferiore a tale importo, non abbiano optato per il regime agevolativo recato dalla legge n. 398 del 1991.
1.2.1.2 Associazioni sportive dilettantistiche
Il comma 3-bis dell'art. 30 esonera dall'onere della trasmissione dei dati e delle notizie rilevanti sotto il profilo fiscale gli enti associativi dilettantistici in possesso del riconoscimento ai fini sportivi rilasciato dal CONI che non svolgono attività commerciale.Sono, per converso, tenute all'invio dei dati e delle notizie rilevanti ai fini fiscali, secondo le modalità precisate nel paragrafo 1.3, le associazioni sportive dilettantistiche che, oltre all'attività sportiva dilettantistica riconosciuta dal CONI, effettuano cessioni di beni (ad es. somministrazione di alimenti e bevande, vendita di materiali sportivi e gadget pubblicitari) e prestazioni di servizi (es. prestazioni pubblicitarie, sponsorizzazioni) rilevanti ai fini dell'IVA e delle imposte sui redditi.L'onere della comunicazione dei dati grava anche sulle associazioni che effettuano operazioni strutturalmente commerciali anche se non imponibili ai sensi dell'articolo 148, terzo comma, del TUIR e dell'articolo 4 del DPR n. 633 del 1972.1.2.1.3 Organizzazioni di volontariato iscritte nei registri della legge n. 266 del 1991 che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali di cui al decreto del Ministro delle Finanze 25 maggio 1995L'art. 30 in commento al comma 1 esonera dalla trasmissione del modello di comunicazione le "organizzazioni di volontariato iscritte nei registri di cui all'art. 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, in possesso dei requisiti di cui al comma 5 del presente articolo".Il comma 5 dell'art. 30, richiamato dal comma 1 dello stesso articolo, disciplina le organizzazioni di volontariato di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, che non svolgono attività commerciali diverse da quelle individuate con decreto del Ministro delle Finanze 25 maggio 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10 giugno 1995.Sono escluse pertanto dall'onere della comunicazione in argomento le organizzazioni iscritte nei registri di cui all'art. 6 della legge n. 266 del 1991, che non svolgono attività commerciali se non in via marginale, nei limiti consentiti dal richiamato decreto del 1995.
1.3 Modalità di trasmissione e contenuti della comunicazione
La comunicazione dei dati e delle notizie rilevanti ai fini fiscali deve essere effettuata, ai sensi del comma 1 dell'art. 30 in commento, compilando l'apposito modello, approvato con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate, che deve essere trasmesso esclusivamente per via telematica.Come accennato in premessa, l'intento del legislatore, attraverso l'introduzione dell'onere della comunicazione a carico degli enti che si avvalgono dei regimi agevolativi richiamati nei precedenti paragrafi ai fini delle imposte sui redditi e dell'IVA, è quello di conoscere e monitorare gli enti associativi esistenti al fine di acquisire per ciascun soggetto informazioni sugli elementi di identificazione e qualificazione soggettiva dell'ente associativo, sui contenuti statutari e sui profili organizzativi, sul settore di operatività e sulle specifiche attività poste in essere, per modo che l'azione di controllo fiscale possa concentrarsi sulle pseudo-associazioni, con esclusione di quelle correttamente organizzate che operano nell'interesse degli associati.
2 NORME IN MATERIA DI ONLUS
2.1 Organizzazioni di volontariato ONLUS di diritto
Il comma 5 dell'art. 30 in commento stabilisce che le organizzazioni di volontariato iscritte nei registri del volontariato di cui all'art. 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266 acquistano, in forza dell'art. 10, comma 8, del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, la qualifica di ONLUS di diritto a condizione che non svolgano attività commerciali diverse da quelle marginali indicate nel decreto 25 maggio 1995.La norma in esame modifica, in sostanza, la previsione del comma 8 dell'art. 10 del decreto legislativo n. 460, intervenendo sui requisiti richiesti alle organizzazioni di volontariato per l'acquisizione della qualifica di ONLUS di diritto.Le attività commerciali marginali individuate dal predetto decreto del 1995, consentite alle organizzazioni di volontariato, ai sensi dell'art. 30, comma 5, al fine dell'acquisizione della qualifica di ONLUS di diritto e al fine dell'esonero dalla trasmissione telematica dei dati e delle notizie fiscalmente rilevanti, sono le seguenti:
a) attività di vendita occasionali o iniziative occasionali di solidarietà svolte nel corso di celebrazioni o ricorrenze o in concomitanza a campagne di sensibilizzazione pubblica verso i fini istituzionali dell'organizzazione di volontariato;
b) attività di vendita di beni acquisiti da terzi a titolo gratuito a fini di sovvenzione, a condizione che la vendita sia curata direttamente dall'organizzazione senza alcun intermediario;
c) cessione di beni prodotti dagli assistiti e dai volontari sempre che la vendita di prodotti sia curata direttamente dall'organizzazione senza alcun intermediario;
d) attività di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di raduni, manifestazioni, celebrazioni e simili a carattere occasionale;
e) attività di prestazione di servizi rese in conformità alle finalità istituzionali, non riconducibili nell'ambito applicativo dell'art. 148, comma 3, del TUIR, verso pagamento di corrispettivi specifici che non eccedano del 50% i costi di diretta imputazione.
Le attività sopra elencate, ai sensi del comma 2 dell'art. 1 del citato decreto del 25 maggio 1995, devono essere svolte:
a) in funzione della realizzazione del fine istituzionale dell'organizzazione di volontariato iscritta nei registri di cui all'art. 6 della legge n. 266 del 1991;
b) senza l'impiego di mezzi organizzati professionalmente per fini di concorrenzialità sul mercato, quali l'uso di pubblicità dei prodotti, di insegne elettriche, di locali attrezzati secondo gli usi dei corrispondenti esercizi commerciali, di marchi di distinzione dell'impresa.
In sintesi, in base alla previsione del comma 5 dell'art. 30, le organizzazioni di volontariato sono ONLUS di diritto e possono fruire della disciplina a favore delle ONLUS se:
1) sono iscritte negli appositi registri del volontariato di cui alla legge n. 266 del 1991;
2) non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali elencate nel decreto del 25 maggio 1995.
Pertanto, qualora le organizzazioni di volontariato, ancorché iscritte negli anzidetti registri, svolgano attività commerciali non riconducibili fra quelle sopra richiamate, le stesse non possono assumere la qualifica di ONLUS di diritto e sono tenute, ai sensi dei commi 1 e 5 dell'art. 30 del decreto-legge n. 185, a trasmettere il modello di comunicazione previsto dallo stesso articolo.La qualificazione dell'attività come commerciale o non commerciale deve essere effettuata ai fini fiscali sulla base dei parametri oggettivi richiamati nel precedente paragrafo 1.1.1, senza che a tal fine possa assumere rilievo la qualificazione statutaria della stessa.In sostanza, in base alla disposizione in esame, l'Agenzia delle entrate esercita l'autonoma attività di controllo anche sulle organizzazioni iscritte negli appositi registri del volontariato al fine di accertare l'eventuale svolgimento di attività commerciali diverse da quelle elencate dal decreto del 25 maggio 1995 e, conseguentemente, la spettanza o meno delle agevolazioni fiscali.
2.2 Attività di beneficenza svolta da ONLUS
Il comma 4 dell'art. 30 prevede quanto segue:4. All'art. 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, dopo il comma 2 è inserito il seguente:"2-bis. Si considera attività di beneficenza, ai sensi del comma 1, lettera a), numero 3), anche la concessione di erogazioni gratuite in denaro con utilizzo di somme provenienti dalla gestione patrimoniale o da donazioni appositamente raccolte, a favore di enti senza scopo di lucro che operano prevalentemente nei settori di cui al medesimo comma 1, lettera a), per la realizzazione diretta di progetti di utilità sociale".La formulazione della norma con le parole "si considera attività di beneficenza (...)" fa assumere carattere interpretativo alla disposizione che qualifica e delimita l'attività di beneficenza, conferendo alla previsione in esame efficacia retroattiva.Il comma 4 dell'art. 30, aggiungendo all'art. 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, dopo il comma 2, il comma 2-bis), riconduce nella beneficenza, quale settore di attività in cui possono operare le ONLUS, oltre all'attività consistente direttamente nella concessione di erogazioni gratuite in denaro o in natura a favore degli indigenti, anche l'attività di erogazione gratuita di somme di denaro, provenienti dalla gestione patrimoniale della ONLUS o da campagne di raccolta di donazioni, a favore di enti che presentino i requisiti stabiliti dallo stesso comma 4.In particolare gli enti destinatari delle erogazioni gratuite di denaro devono avere i seguenti requisiti:a) devono essere enti senza scopo di lucro;b) devono operare prevalentemente e direttamente nei settori di attività previsti dal medesimo art. 10, comma 1, lettera a) del decreto legislativo n. 460 del 1997 e quindi nei settori dell'assistenza sociale e socio-sanitaria, dell'assistenza sanitaria, dell'istruzione, della formazione, dello sport dilettantistico, della tutela, promozione e valorizzazione delle cose d'interesse artistico e storico, della tutela e valorizzazione della natura e dell'ambiente, della promozione della cultura e dell'arte, della tutela dei diritti civili, della ricerca scientifica di particolare interesse sociale.Per quanto riguarda la natura degli enti destinatari delle erogazioni, in mancanza di una limitazione normativa, si ritiene che gli stessi possano avere natura pubblica o privata, non esclusi gli enti religiosi, e possano assumere qualsiasi forma giuridica.L'espressa previsione dell'assenza di lucratività comporta che l'ente deve osservare di fatto e prevedere statutariamente il divieto di distribuzione anche indiretta degli utili e avanzi di gestione nonché di fondi riserve o capitale.Affinché le erogazioni destinate a tali enti possano essere ricondotte nell'attività di beneficenza è inoltre necessario che:- provengano dalla gestione patrimoniale o da donazioni appositamente raccolte;- siano destinate alla realizzazione diretta di progetti di utilità sociale.Riguardo a quest'ultima previsione si chiarisce che la norma esclude che gli enti beneficiari delle erogazioni effettuate dalle ONLUS c.d. erogative possano a loro volta riversare le donazioni raccolte a favore di altri enti.La norma non consente, quindi, che si verifichi il fenomeno delle erogazioni a catena attraverso molteplici passaggi di denaro tra enti diversi, ma impone che gli enti beneficiari utilizzino "direttamente" le erogazioni ricevute per la realizzazione di progetti di utilità sociale.La specifica destinazione delle erogazioni a progetti di utilità sociale comporta, peraltro, da una parte la necessità della tracciabilità della donazione attraverso strumenti bancari o postali che evidenzino la particolare causa del versamento e dall'altra l'esistenza non di un programma generico, ma di un progetto già definito nell'ambito del settore di attività dell'ente destinatario prima dell'effettuazione dell'erogazione.L'utilità sociale del progetto comporta che esso si connoti per la realizzazione di attività solidaristiche.
2.3 Agevolazione in materia di imposta catastale per le ONLUS
I commi 5-bis e 5-ter dell'art. 30 in commento introducono, con efficacia temporale limitata al 31 dicembre 2009, una nuova agevolazione in favore delle ONLUS in materia di imposta catastale.Tale agevolazione consiste, in sostanza, nella previsione dell'applicazione dell'imposta catastale in misura fissa, pari a 168 euro, per i trasferimenti a titolo oneroso a favore delle ONLUS, a condizione che la ONLUS dichiari nell'atto che intende utilizzare direttamente i beni per lo svolgimento della propria attività e che realizzi l'effettivo utilizzo diretto entro due anni dall'acquisto. Le Direzioni Regionali vigileranno affinché i principi enunciati nella presente circolare vengano applicati con uniformità.

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