martedì 28 aprile 2009

Ecco un tema "Caldo" - Professione forense: prospettive di Riforma

RICEVIAMO E GENTILMENTE PUBBLICHIAMO: .....
Degno di rilievo il Paragrafo 7 "Principio di abolizione delle incompatibilità"
Il problema dell’accesso alla professione forense:
necessaria una riforma che non sia nel segno del vecchio modello

di Marco Bona

Sommario:
Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione -
1. Principio della necessità di una selezione -
2. Principio della selezione sin dall’università -
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati -
4. Principio del tirocinio quale selezione finale -
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato -
6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità.

Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione
Una rivisitazione delle modalità di accesso alla professione forense è sicuramente necessaria ed auspicabile: la situazione attuale, infatti, rimane inaccettabile, soprattutto per la lotteria costituita dalle prove scritte, ma anche per la semplicissima ragione che i meccanismi di accesso oggi operanti non premiano chi ha dedicato seriamente il suo tempo alla pratica e denota di avere le qualità giuste per divenire avvocato.
Nondimeno, a leggere le varie proposte di riforma pendenti sul tavolo, non mi sembra che si staglino particolari mutamenti strutturali e, per così dire, “culturali”: la direzione di queste proposte è e rimane sempre la stessa, semplicemente con alcune “rifiniture” (in peius per gli aspiranti praticanti).
Tra le proposte più recenti viene in rilievo il
disegno di legge approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 27 febbraio 2009, in seguito apprezzato anche dal Ministro Alfano e dal Parlamento.
Tale disegno, tuttavia, pone dinanzi a scenari tali da non lasciare intravedere, almeno a prima vista, processi di autentica innovazione del sistema di accesso alla professione forense: semmai, l’iter diviene ancora più irto di ostacoli (test d’ingresso, prova di preselezione informatica, ecc.), senza che all’inasprimento ed all’intensificarsi dei filtri selettivi si accompagni la garanzia di un giudizio serio sul merito e che premi le qualità in concreto dimostrate dal praticante nel corso del tirocinio. In realtà, si riconferma piena validità al modello imperniato sull’esame finale; la figura del praticante, inoltre, rimane tale e quale, ad esempio senza che si provveda a stabilire un trattamento economico minimo con onere per gli avvocati di corrispondere per il tirocinante i contributi pensionistici-assicurativi.
In particolare, siffatte ultime proposte di riforma sembrano accusare il medesimo vizio di altri precedenti tentativi: si conferma piena validità al modello attualmente operativo, con l’idea di base che sia sufficiente apportare dei “meri” ritocchi, senza - almeno pare - svolgere a monte una riflessione sulla percorribilità di strade per davvero alternative, tali da considerare, almeno in minima parte, l’esigenza di un accesso alla professione meno cruento di quello attuale.
In altri termini, a mio modesto avviso, ancora una volta si parla di “riforma” e di “innovazioni”, senza che ciò sia stato preceduto da una ricerca/riflessione su eventuali modelli alternativi di formazione/selezione degli aspiranti avvocati tali da permettere la tutela ed il rispetto dei praticanti.
Senza alcuna pretesa di fornire chissà quale verità od efficace soluzione, riporterò qui di seguito alcune considerazioni che mi sembrano essere mancate nei progetti di riforma ultimi.
Le esigenze fondamentali: la tutela dei cittadini e degli aspiranti avvocati
Le esigenze della selezione mi sembrano del tutto chiare (a meno che non si intenda ragionare ancora una volta secondo logiche corporative): da un lato la necessità di garantire al cittadino assistenza legale qualificata e svolta da professionisti preparati; dall’altro lato l’esigenza che siano rispettati i diritti di una cospicua moltitudine di giovani, i quali sono a tutti gli effetti dei lavoratori ed investono notevoli risorse personali ed economiche in vista di una professione.
Il primo obiettivo è evidente quanto alle sue ragioni, ma forse sfugge un dato importante: la tutela dei cittadini non implica automaticamente che si debba optare per rigorose restrizioni del novero degli avvocati, sottoponendo i praticanti a vere e proprie forche caudine. Indiscutibilmente, infatti, la concorrenza, posto che sia controllata quanto al rispetto dei principi deontologici, può offrire non pochi benefici ai cittadini: è dimostrato come essa contribuisca a ridurre i costi d’accesso alla giustizia; è altresì evidente come al contempo, nel lungo periodo, incentivi alla specializzazione.
In altri termini, la realizzazione del primo obiettivo si dovrebbe giocare esclusivamente sul piano della formazione del futuro avvocato, prescindendo cioè dalla logica di un esame aleatorio e che non premia chi ha investito seriamente nel praticantato.
In questo senso la tutela dei cittadini può essere raggiunta facendo sì che sin dall’università e poi successivamente l’aspirante avvocato acquisisca tutti gli strumenti per assistere con professionalità il cittadino. Ciò implica avere cura che il praticante non solo abbia un buon bagaglio teorico (responsabilità primaria del sistema universitario), ma altresì una significativa esperienza pratica (impegno fondamentale degli avvocati).
Il secondo obiettivo è di tutelare i praticanti in modo tale che l’acquisizione delle nozioni e delle esperienze necessarie alla realizzazione del primo fine non sia occasione di sfruttamento economico. I praticanti costituiscono una forza lavoro, già parzialmente qualificata, che non può essere impiegata senza il giusto riconoscimento di un reddito commisurato al lavoro prestato. Non si può permettere che per anni i praticanti siano trattati economicamente senza percepire reddito alcuno oppure con redditi inferiori a quelli di altri giovani avviati al lavoro o di altre forze lavoro presenti negli stessi studi legali (ad esempio, gli impiegati con mansioni di segreteria, che normalmente hanno più protezione e peraltro si trovano a lavorare con un monte orario ridotto rispetto a quello dei praticanti).
Vi è però un altro fondamentale profilo che va debitamente considerato e che i progetti di “riforma” sembrano ampiamente sottovalutare: non si può permettere che l’aspirante avvocato impieghi un arco temporale eccessivamente lungo per accedere definitivamente alla professione. In Italia, al riguardo, vi è stata una vera e propria degenerazione: mediamente, contando i tempi lunghi dell’esame e gli intoppi che si possono incontrare su questa strada (non collegati a giudizi sul merito delle capacità professionali, stando che l’esame scritto, soprattutto, è affidato alla fortuna), i giovani, che riescono a passare l’esame d’avvocato, hanno già intorno ai 28-30 anni, e li attende un futuro economico assolutamente incerto; gli aspiranti avvocati, meno fortunati (ma non necessariamente impreparati), si trovano a tentare l’esame anche dopo avere passato i 30 anni. Ciò che va evitato è che l’accesso definitivo alla professione avvenga troppo tardi, quando ormai diviene arduo pensare a delle alternative. Peraltro, una situazione siffatta finisce con il gravare eccessivamente sulle famiglie.
Tutelare gli aspiranti avvocati significa anche, come ovvio, garantire un accesso imparziale e fondato sul merito, nonché a costo zero o, comunque, ridotto, senza imporre al giovane esposizioni economiche eccessive (ormai la spesa media per ciascun praticante, tra corsi ed acquisto di pubblicazioni, supera abbondantemente € 1.000, peraltro da moltiplicarsi per il numero di volte in cui l’aspirante avvocato si trova a dover ridare l’esame e tenendo conto che spesso, nei mesi impiegati nella preparazione dell’esame, il medesimo non è “retribuito” dallo studio legale).
Infine, non si può continuare ad insistere su un sistema di selezione “ad imbuto”, in cui tutti gli investimenti e sforzi fatti dall’aspirante avvocato (ma anche dal suo dominus) vengono a giocarsi in un drammatico esame finale (nelle proposte ultime, peraltro, ripetibile solo per un numero ristretto di volte, con il rischio di una beffa finale davvero ai limiti del disumano).
Ipotesi di principi per un modello innovativo
Tutte queste esigenze (e non sono come ovvio tutte) dovrebbero comportare una rivisitazione dell’attuale esame d’avvocato, che tuttavia non si risolva in una riforma in peius, governata dalle consuete logiche.
Occorre cominciare a pensare a delle vere alternative e, giacché non mi risulta che vi siano stati particolari sforzi nell’ipotizzarle, mi cimenterò qui di seguito, senza nutrire alcuna pretesa di perfezione, a delineare alcuni principi che, a mio modestissimo avviso, dovrebbero essere considerati nella costruzione di un nuovo modello per l’accesso alla professione.
L’intento è soprattutto di dimostrare come sia ben possibile ragionare su prospettive diverse, se ovviamente lo si desidera.
Altri principi e modelli alternativi sono per certo rinvenibili, ma da qualche parte pur occorre iniziare per non restare nell’immobilismo o, peggio ancora, per non trovarsi con “innovazioni” ulteriormente negative.
1. Principio della necessità di una selezione
La selezione, ai fini della realizzazione del primo obiettivo (la tutela del cittadino), è necessaria: in taluni Stati europei (mi risulta solo la Spagna) essa non ha luogo e questo non può essere accettato. L’idea che si diventi avvocati per il semplice fatto di avere frequentato l’università è del tutto errata, in quanto non considera la necessaria formazione pratica degli aspiranti avvocati e l’opportunità che questi apprendano sul campo il know-how fondamentale per una gestione corretta dei clienti (ciò anche dal punto di vista deontologico). Il “se” della selezione non dovrebbe neppure essere posto in discussione.
La selezione è altresì opportuna al fine di garantire un futuro, economicamente sostenibile, ai giovani che decidano di investire nel percorso in questione: serve per capire le difficoltà della professione, se si è portati, se effettivamente è questa la strada.
2. Principio della selezione sin dall’università
Il vero problema è quando e come operare la selezione.
Al riguardo sembra opportuno partire dal comune denominatore europeo che, con alcune eccezioni (si pensi ad una parte dei solicitor inglesi), accomuna la stragrande maggioranza degli Stati membri: la laurea in legge.
E’ da questo momento che comincia generalmente l’odissea di ogni aspirante avvocato. E proprio questo dovrebbe essere il momento per effettuare la prima importante selezione, onde evitare che molti giovani finiscano per avviarsi sul percorso dell’accesso alla professione - lungo e tortuoso -, senza poi, magari dopo numerosi anni, riuscire a raggiungere il risultato.
Una selezione che abbia luogo sin dal principio presenta diversi vantaggi:
evita lo sfruttamento del lavoro di migliaia di laureati;
scongiura scelte di tipo transitorio/residuale, tipiche di giovani non particolarmente motivati dalla prospettiva dell’avvocatura;
fa sì che non si illudano schiere di giovani per anni, creando dei sottopagati, insoddisfatti, trentenni fuori dal mercato del lavoro.
Come attuare questa selezione?
In primo luogo la formazione universitaria deve essere adeguata e selettiva: chi perviene alla laurea deve già possedere una conoscenza approfondita del diritto, ancorché teorica. Peraltro, andrebbe fissato un termine massimo entro cui completare il corso universitario, ciò perlomeno per chi aspira all’accesso alla professione.
In secondo luogo andrebbe ipotizzata una selezione da attuarsi entro un termine massimo di tre mesi dal conseguimento della laurea, con la possibilità di affrontarla per un numero limitato di volte (almeno tre nell’arco di un anno dalla laurea). Si dovrebbe trattare di una selezione imparziale e uguale per tutti, evitando però di limitarla a test “informatici” a crocette o test consimili (così, invece, la proposta del CNF), bensì combinando questo meccanismo comunque con un esame orale, ove l’aspirante candidato possa dimostrare che gli eventuali errori commessi nei test non sono significativi di una sua impreparazione teorica di base o di una carenza di attitudini. Del resto, la professione d’avvocato, nell’era della tecnologia e delle banche dati, non è solo questione di memoria, ma di capacità nella comprensione dei problemi, d’intelligenza, di creatività, di sensibilità. I test a risposte multiple e più in generale i test informatici appiattiscono troppo la qualità delle selezione, non rendono giustizia al profilo attitudinale del candidato.
Questo primo filtro, come logico, andrebbe affidato a commissioni il più possibile neutrali.
Chiaro è che tutto ciò potrà avere luogo solo se vi siano investimenti seri sull’università italiana e un’altrettanta seria selezione dei docenti (il che è in larga misura difettato in questi anni, come dimostrano tante vicende concorsuali che gridano vendetta).
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati
Si è già sottolineato come l’esperienza pratica sia necessaria, imprescindibile.
Prima che il giovane possa fregiarsi del titolo di avvocato dovrebbe intercorrere un lasso di tempo tale da permettergli di acquisire le conoscenze pratiche del caso.
Quanto deve lungo questo periodo?
Generalmente occorrono diversi anni per formare un legale che sia in grado di dare professionalità e sicurezza ai clienti, posto che vi sia un insegnamento adeguato e serio da parte dei legali che seguono l’apprendistato del giovane.
Eliminando l’esame finale (come prospettato al punto seguente), si potrebbero ipotizzare tre anni (un anno in più rispetto all’attuale, ma con le garanzie illustrate sotto al punto 5).
Evidentemente, poi, non è tanto il giovane praticante a dover essere controllato sulla regolarità della pratica, bensì l’avvocato che lo segue nell’accesso alla professione. E’ quest’ultimo che deve essere responsabilizzato e che dovrà investire sul giovane di studio. Si dovrebbe quindi pensare a delle relazioni semestrali che l’avvocato presenta all’ordine di appartenenza, con cui dimostra l’impegno profuso nella preparazione del giovane e spiega il programma di apprendimento adottato per quest’ultimo.
Inoltre, al fine di rendere il tirocinio adeguato ad una formazione completa degli aspiranti avvocati dovrebbero essere organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura (è nel loro interesse che vi siano avvocati preparati) dei corsi a carattere prevalentemente pratico con obbligo di frequenza, che però non prevalgano, quanto ad impegno, sulle ore dedicate all’esperienza pratica (si potrebbe ipotizzare un monte orario di 6 ore settimanali). I costi di questi corsi dovrebbero essere sostenuti dall’avvocatura stessa e dagli avvocati che si avvalgono dei praticanti, senza che sia richiesto a questi ultimi di contribuire.
4. Principio del tirocinio quale selezione finale
La pratica dovrebbe inoltre contribuire alla selezione finale, senza che vi siano al suo termine defatiganti esami sganciati dall’impegno profuso negli anni di tirocinio. Sarebbe, infatti, sbagliato che l’accesso alla professione sia rinviato, come accade ora e come si prevede nei progetti di riforma ultimi, ad un esame finale in cui il praticante si gioca davvero tutto: l’accesso all’avvocatura dovrebbe reggersi sulla serietà con cui il praticante ha svolto il tirocinio.
Si potrebbe allora pensare ad un meccanismo a punti, ove il praticante che affronti con dedizione, profitto e merito la pratica si troverà gradualmente ad inserirsi nella professione, senza drammi e, soprattutto, devastanti sorprese finali (che interverrebbero peraltro in un’età già avanzata, quando ormai è più difficile pensare ad altre vie).
In base a questo meccanismo il praticante, per il conseguimento del titolo, dovrà raggiungere alla fine dei tre anni di tirocinio un punteggio minimo.
In particolare, si potrebbe prevedere l’assegnazione dei punti: 1) in seno ai corsi obbligatori organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura, ove si dovranno evidentemente effettuare esami finali di verifica dell’apprendimento (tra i corsi si dovrebbe altresì preventivare un corso in lingua inglese, giacché non può accettarsi oggi che un avvocato non possegga i fondamenti almeno di questa lingua); 2) in relazione all’attività svolta presso lo studio (si potrebbe pensare all’assegnazione di una parte dei punti da parte dell’avvocato presso cui si svolge il tirocinio); 3) in relazione a particolari attività particolarmente meritorie (ad esempio, la redazione di scritti per riviste giuridiche; oppure la partecipazione ad attività organizzate dalle corti o dagli stessi organi rappresentativi, come, ad esempio, la massimazione delle sentenze di tribunale e di corte d’appello).
Questo meccanismo, unitamente a quanto previsto al punto 3, dovrebbe risolvere il problema del tirocinio fittizio, fenomeno del tutto deprecabile e che purtroppo vede partecipi gli stessi avvocati.
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato
Il tirocinio è autentico rapporto di lavoro, ancorché con tutta una serie di particolarità: esso non è un rapporto di lavoro subordinato; è funzionale all’accesso ad una libera professione; inoltre, da parte del professionista vi è (o, perlomeno, dovrebbe esserci) un impegno formativo notevole, che un andrà a tutto vantaggio del praticante, quando diverrà avvocato.
Diciamo subito che le ore spese a servizio dello studio legale vanno considerate come vere e proprie ore di lavoro. Più il praticante progredisce, più queste ore dovrebbero essere adeguatamente retribuite. Dopo il primo anno di pratica, comunque retribuito (diversamente dall’indicazione di cui alla proposta del CNF), il livello del trattamento economico dovrebbe divenire pari a quello di un impiegato addetto a mansioni di segreteria (ovviamente, però, il praticante svolgerà mansioni diverse, cioè connesse al suo apprendimento).
Accanto alla retribuzione andrebbe prevista una tutela minima sia pensionistica e sia assicurativa.
Inoltre, il rapporto di lavoro dovrebbe essere formalizzato per iscritto, ciò per regolare diritti e doveri reciproci, non solo nella prospettiva del tirocinio, ma anche di quella subito successiva, onde evitare che il giovane, una volta divenuto avvocato, sia poi scaricato dall’avvocato presso cui ha svolto la pratica.
Siffatto contratto dovrebbe responsabilizzare il praticante, che a questo punto saprà esattamente quali sono le conseguenze di un suo eventuale scarso impegno. Al contempo, dovrebbe limitare il potere del legale sul tirocinante, impedendogli di abusare della sua posizione e imponendogli il rispetto di determinati limiti (anche in relazione agli orari, al tipo di mansioni e di impieghi, alle ferie, ecc.).
Il contratto, in definitiva, renderebbe certi diritti e doveri, nonché, prevedendo l’intervento dell’organo rappresentativo dell’avvocatura per eventuali controversie, dovrebbe favorire un maggior controllo esterno sul rapporto tra tirocinante e avvocato, laddove accusi dei problemi.
Così ragionando, è altresì evidente, anche per ragioni di uniformità a livello nazionale, la necessità che il CNF provveda a definire un contratto standard o collettivo, che contenga dei minimi di trattamento sotto i quali non si possa scendere.
Si noti poi - ma questo è un punto fondamentale - che l’obbligo di garantire un trattamento economico così regolato dovrebbe fare sì che i giovani accedano ad un mercato del lavoro che economicamente li possa poi supportare: evidentemente, infatti, un modello siffatto indurrebbe gli studi legali ad avviare rapporti di tirocinio solo nella misura in cui ciò sia reso loro possibile dall’andamento dei propri affari. In altri termini, l’accesso alla professione dovrebbe così risultare strettamente commisurato alle risorse economiche effettive della professione forense, senza che dalla gratuità del tirocinio i giovani, divenuti avvocati, si trovino inesorabilmente a passare a stati molto vicini alla povertà.
Tutto ciò, infine, dovrebbe pure scongiurare che la concorrenza tra studi legali sia falsata dalla particolare predisposizione di taluni studi allo sfruttamento dei giovani praticanti.

6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati
E’ opportuno che i praticanti, quali autentica classe di lavoratori, abbia un organismo che li rappresenti ufficialmente in seno agli organi rappresentativi dell’avvocatura, in tutta evidenza perché siano adeguatamente considerati i propri diritti e vi sia una corretta applicazione dei principi sopra esposti.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità
L'inizio della professione forense, è, molto spesso per i giovani avvocati, privo di una cd. clientela propria.
L'avvocato agli esordi, quindi, si trova "costretto" ad espletare la propria attività, appoggiandosi presso uno studio più grande.
Il che vuol dire, in pratica, effettuare per conto di una sola struttura organizzativa (molto spesso un solo studio ove il giovane legale è tenuto a rispettare un preciso orario di ingresso ed uscita e delle specifiche direttive in tema di organizzazione e direzione del lavoro ndr) attività di sostituzione, di redazione atti, deposito memorie ... assolutamente senza un proprio portafoglio clienti e, quindi, esclusivamente alle dipendenze e sotto la direzione.
Se, dunque, ai sensi dell'art. 2094 c.c. la definizione di prestatore di lavoro subordinato corrisponde a quella di colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare prestando il proprio lavoro intellettuale e manuale alle dipendenze e sotto la direzione";
Se, ancora, i caratteri della subordinazione e le conseguenti tutele, rilevano a prescindere dall'inquadramento id diritto ma in virtù della semplice corrispondenza della situazione di fatto concretamente sussistente alla previsione normativa;
Allora ne consegue che i giovani legali privi di una propria clientela che svolgono attività esclusivamente per conto di altri studi legali più grandi, effettuano una prestazione che ha tutti i connotati della subordinazione 8salvo che le tutele giuridiche).
Quid iuris per restituire dignità a questa categoria di lavoratori?
Abrogare l'art. 3, III co. della ormai datata Legge Professionale (che è rimasta ... sic ... ancora quella del '33!) il quale stabilisce l'incompatibilità tra la professione di avvocato e qualunque impiego retribuito.
Tale disposizione, che è stata posta in origine a tutela dell'indipendenza della classe fornse, si è nell'epoca attuale di fatto tramutata in una "legalizzazzione" della mancanza di tutele per quella categoria di "subordinati" (i giovani avvocati che operano negli studi legali di fatto alle dipendenze e sotto la direzione dei titolari - "domini" del contenzioso ed i soli che hanno un proprio portafoglio clienti) che molto spesso prestano opera altamente qualificata e sono retribuiti, dagli avvocati titolari della law firm presso la quale operano, con stipendi al di sotto della fascia di povertà.
Quale indipendenza per i giovani avvocati?
Nessuna.
Non può esservi indipendenza senza le tutele mimime riconosciute ai lavoratori subordinati.
La soluzione?
Abrogare l'art. 3, co III del Regio Decreto legge 1578/33 conv. in legge 36/34.

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...