lunedì 16 marzo 2009

Il danno da ritardo e la giurisprudenza 2009 del Consiglio di Stato

Consiglio di Stato
sentenza 1162 del 2 marzo 2009
IL DANNO DA RITARDO, TRA DRITTO AMMINISTRATIVO E CIVILE
Il danno da ritardo, quindi, non ha un’autonomia strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui scaturisce, dato che è legato inscindibilmente alla positiva finalizzazione di quest’ultima; né si presenta a guisa di una ordinaria ipotesi di riparazione per equivalente, tenuto conto che si associa il più delle volte (quando non vi ostano circostanze fattuali sopravvenute) alla riparazione in forma specifica dell’effettivo rilascio (sia pur tardivo) del provvedimento favorevole.

REPUBBLICA ITALIANA
N.1162/09 REG.DEC.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N. 7818 REG:RIC.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione
ANNO 2007
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 7818/07 proposto da

Comune di Roma, in persona del sindaco e legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso in giudizio dall’avv. Rosalda Rocchi dell’avvocatura del Comune di Roma ed elettivamente domiciliato in Roma alla via del Tempio di Giove, n. 21 negli uffici dell’Avvocatura comunale;
CONTRO
la sig.ra Daniela ..., rappresentata e difesa in giudizio dall’avv. Loredana Serva ed elettivamente domiciliata in Roma alla via delle Coppelle n. 16;
PER L’ANNULLAMENTO
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II ter, n. 6687/2007, pubblicata in data 18 luglio 2007, non notificata, con la quale in accoglimento del ricorso n. 11047/2003 proposto da Daniela ... il Comune di Roma è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della ricorrente, danni da quantificarsi a mezzo di CTU contestualmente disposta;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’appellata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti delle due cause;
Relatore alla pubblica udienza del 28 ottobre 2008, il Consigliere Giulio Castriota Scanderbeg;
Uditi gli avv. Rosalda Rocchi per il Comune di Roma e l’avv. Loredana Serva per la parte appellata;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Con l’appello all’esame è gravata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II ter, n. 6687/2007, pubblicata in data 18 luglio 2007, non notificata, con la quale, in accoglimento del ricorso n. 11047/2003, il Comune di Roma è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della ricorrente, sig.ra ..., danni da quantificarsi a mezzo di CTU contestualmente disposta con la stessa pronuncia definitiva.
L’Amministrazione comunale appellante premette in fatto che il presente giudizio risarcitorio prende le mosse da altro pregresso giudizio nel quale la sig.ra ... aveva vittoriosamente impugnato dinanzi al Tar del Lazio il silenzio dell’amministrazione comunale su una sua istanza volta ad ottenere l’autorizzazione alla vendita di quotidiani e periodici in via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4; nella pronuncia (n. 649/97), non impugnata, resa all’esito di quel giudizio il Tar aveva dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi esplicitamente sull’istanza dopo che, con due decisioni interlocutorie, lo stesso giudice aveva disposto incombenti volti ad acclarare la localizzazione del sito (via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4) prescelto dalla ... e, per l’effetto, la autorizzabilità della sua istanza, tenuto conto delle distanze minime che devono intercorrere tra esercizi di rivendita di giornali ai sensi della disciplina normativa di settore.
Verificata la impossibilità di assentire la prima istanzaa causa della localizzazione prescelta, attesa la autorizzazione medio-tempore accordata ad altro esercente avente diritto di precedenza, l’Amministrazione comunale in ottemperanza al giudicato formatosi sulla sentenza n. 649/97 invitava la sig.ra ... ad effettuare altra scelta localizzativa, che cadeva finalmente su viale Quattro Venti 110/112, dopo che precedenti siti individuati dalla interessata erano stati ritenuti inadeguati in quanto non rispettosi della distanza minima tra edicole. Ottenuta finalmente, con determinazione dirigenziale n. 160 del 25 maggio 1998, l’autorizzazione agognata, la ricorrente interponeva il giudizio risarcitorio definito in primo grado dalla pronuncia di accoglimento qui oggetto di gravame.
Deduce l’appellante a fondamento dell’impugnazione che il giudice di prime cure nella adozione della decisione non avrebbe tenuto conto di espresse disposizioni di legge (art. 7 LR n.3/1985) e, più in generale, della disciplina complessiva della materia, oltreché dei principi giurisprudenziali acquisiti in tema di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi pretensivi. In particolare, deduce il Comune di Roma che ai sensi dell’art. 7 della LR n. 3 del 1985, la domanda dell’interessato per l’esercizio di rivendita di giornali in posti fissi si intende respinta qualora il sindaco non deliberi su di essa nel termine di 90 giorni dalla sua presentazione e che, pertanto, la prima istanza della interessata, proposta nel 1990 e dai contenuti estremamente generici in ordine alla individuazione del sito prescelto, aveva trovato risposta, sia pur in un provvedimento tacito di diniego; d’altronde, il provvedimento favorevole accordato dalla Amministrazione nel 1998 era invece da considerarsi, nella prospettazione del Comune, accessivo ad altra successiva istanza della interessata, di tal che non era assolutamente configurabile nella specie, sempre a dire dell’appellante, un nesso causale tra gli atti, anche impliciti, ascrivibili alla Amministrazione ed i pretesi danni subiti dalla ricorrente in primo grado; inoltre, non era ravvisabile l’indefettibile elemento della colpa.
Ripropone inoltre l’appellante, deducendolo quale specifico motivo d’appello, il tema della prescrizione del diritto fatto valere dalla ..., atteso che nel 2003, epoca della proposizione del giudizio di primo grado, a suo dire era sicuramente prescritta l’azione risarcitoria conseguente alla illegittimità del silenzio-rigetto formatosi sulla prima istanza, non potendosi configurare quali validi atti interruttivi della prescrizione – avuto riguardo al contenuto generico degli stessi - le due lettere inviate dalla interessata nel corso del 2001.
Da ultimo, la appellante amministrazione contesta la sussistenza di un danno risarcibile in capo alla ..., che al più avrebbe dovuto essere provato nel suo preciso ammontare dalla interessata e non già a mezzo della consulenza tecnica disposta erroneamente dal giudice di prime cure, di cui in ogni caso sarebbero errati i parametri di riferimento offerti dal giudicante per la quantificazione del danno; vieppiù considerando, sempre a giudizio dell’appellante, che la parte appellata avrebbe ceduto il 4 novembre 1998 l’autorizzazione ottenuta, locupletando ingiustamente dalla vendita di un titolo giuridico non ancora legato sul piano materiale ad un’azienda in esercizio.
Conclude per l’annullamento della gravata pronuncia e per il ristoro delle spese e competenze del giudizio.
Si costituisce in giudizio la sig.ra ... la quale, nel contestare la fondatezza dei motivi dell’appello, chiede la reiezione del gravame con la conferma della gravata pronuncia.
Alla pubblica udienza del 28 ottobre 2008 la causa è passata in decisione.
DIRITTO
L’appello è solo in parte fondato, nei limiti di cui si dirà appresso.
Come ricordato in fatto, col primo motivo di gravame il Comune di Roma contesta la sussistenza stessa degli elementi costitutivi della responsabilità civile ascritta a suo carico nella gravata pronuncia, sul presupposto che la legge regionale laziale n. 3 del 1985 (art. 7 u.c.) avrebbe attribuito un significato legale tipico al silenzio amministrativo serbato per un periodo di 90 giorni dalla presentazione della istanza di autorizzazione alla rivendita di giornali e periodici. Di qui l’inesistenza, sempre nella prospettiva dell’appellante, di un’inerzia colpevole suscettibile di rilevare ai fini risarcitori, vertendosi invece nella distinta ipotesi del provvedimento tacito di diniego, formatosi dopo lo spirare dello spatium deliberandi di 90 giorni; peraltro, sempre a giudizio del Comune di Roma, tale atto tacito di diniego non avrebbe potuto qualificarsi come illegittimo, dato che la istanza originaria della interessata si sarebbe dimostrata poco puntuale nella indicazione della localizzazione dell’edicola (la originaria indicazione di via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4, sarebbe stata, solo dopo indagini istruttorie ed a seguito del successivo completamento della toponomastica cittadina, più correttamente individuata come via del Pellaio , altezza civico 57).
La censura non merita condivisione.
Trascura l’appellante di considerare che il silenzio serbato dal Comune di Roma sulla originaria istanza della interessata, ancorchè connotato da valore legale tipico di diniego in base alla richiamata disposizione di legge regionale, ha formato oggetto di scrutinio giurisdizionale culminato con l’adozione della citata sentenza del TAR Lazio n.649 del10 aprile 1997, passata in giudicato. In tale alveo giurisdizionale è stata acclarata definitivamente, con statuizione sul punto intangibile anche per questo Giudice, la illegittimità del silenzio amministrativo, essendosi accertato che, salva la verifica dei requisiti soggettivi, l’amministrazione comunale aveva l’obbligo di provvedere sulla istanza della sig.ra .... Le vicende procedimentali successive al predetto giudicato, ed anzitutto il rilascio nel 1998 del provvedimento favorevole all’interessata (sia pur per la nuova sede di viale dei Quattro Venti) e, ancor più, il rilascio ad altro soggetto avente diritto di preferenza dell’autorizzazione in via del Pellaio 57 (corrispondente alla indicazione topografica di via Lucrezia Romana fornita originariamente dalla ...), hanno poi dimostrato che la ricorrente in primo grado non solo aveva titolo a conseguire fin dall’inizio l’autorizzazione per la rivendita di giornali e periodici, ma che tale interesse pretensivo della appellata, se tempestivamente soddisfatto, avrebbe potuto giovarsi della primigenia localizzazione prescelta dalla interessata.
Tale ultima considerazione, peraltro, elide ogni profilo di rilevanza della questione, pur dedotta come autonoma articolazione di doglianza, della intervenuta variazione dell’oggetto materiale della richiesta della interessata, dapprima focalizzata sulla localizzazione di via Lucrezia Romana e di poi finalmente soddisfatta in relazione al diverso indirizzo di viale Quattro Venti. E’ indubbio infatti che tale variazione spaziale dell’oggetto della originaria istanza per un verso non è ascrivibile a responsabilità della sig.ra ... (ma semmai al fatto oggettivo che il tempo necessario all’accertamento del suo diritto aveva fatto maturare medio-tempore una posizione poziore di altro interessato), per altro verso non autorizza sul piano giuridico l’affrettata conclusione dell’appellante secondo cui, essendo mutato il bene materiale oggetto di tutela, tale circostanza avrebbe reciso il nesso di causalità giuridica, tipico della sede risarcitoria, tra fatto materiale ed evento dannoso.
A parte il già rilevato e dirimente profilo della non imputabilità alla ... di tale variazione parziale dell’oggetto materiale della sua iniziale richiesta, non appare corretta, su un piano ancor più generale, la stessa deduzione secondo cui sarebbe medio-tempore mutato il bene della vita inizialmente fatto valere con l’attivazione della istanza di autorizzazione commerciale rispetto a quello in concreto soddisfatto a mezzo del definitivo rilascio dell’autorizzazione nel 1998; è evidente, infatti, che il bene giuridico perseguito nel tempo dalla interessata, rappresentato in concreto dall’esercizio dell’attività economica di rivendita di giornali in Roma, è rimasto il medesimo, essendone mutata, per ragioni indipendenti dalla volontà dell’interesssata, soltanto la localizzazione.
Con altro motivo il Comune appellante ripropone la questione della pretesa prescrizione dell’azione risarcitoria, già sollevata in primo grado e disattesa dal giudice di prime cure.
Anche tale questione è infondata.
Va premesso che nel nostro diritto positivo non è previsto allo stato attuale della legislazione un meccanismo riparatore dei danni causati dal ritardo procedimentale in sé e per sé considerato. L’inerzia amministrativa, per essere sanzionabile in sede risarcitoria, postula non soltanto il previo accertamento giurisdizionale della sua illegittimità ma vieppiù il concreto esercizio della funzione amministrativa, ove ancora possibile e di interesse per il cittadino istante, in senso favorevole all’interessato (ovvero il suo esercizio virtuale, in sede di giudizio prognostico da parte del giudicante investito della richiesta risarcitoria).
Il danno da ritardo, quindi, non ha un’autonomia strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui scaturisce, dato che è legato inscindibilmente alla positiva finalizzazione di quest’ultima; né si presenta a guisa di una ordinaria ipotesi di riparazione per equivalente, tenuto conto che si associa il più delle volte (quando non vi ostano circostanze fattuali sopravvenute) alla riparazione in forma specifica dell’effettivo rilascio (sia pur tardivo) del provvedimento favorevole.
Tali conclusioni sono pienamente in linea con quanto precisato dall’Adunanza Plenaria di questo Consesso n. 5 del 15 settembre 2005; in tale pronuncia si è ribadito che, allo stato attuale della legislazione, non è risarcibile il danno da ritardo , cioè disancorato dalla dimostrazione giudiziale della meritevolezza di tutela dell’interesse pretensivo fatto valere e che, pertanto, l’eventuale danno non è risarcibile quando l’Amministrazione abbia adottato, ancorchè con notevole ritardo, un provvedimento (rimasto inoppugnato) dal contenuto negativo per l’interessato.
Alla luce di tali brevi premesse ricostruttive della responsabilità civile della amministrazione per ritardato o omesso rilascio di provvedimento favorevole, correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto che nella specie non fosse maturata la prescrizione della pretesa risarcitoria avanzata dalla ricorrente ... nel corso dell’anno 2003.
Tenuto conto infatti che soltanto nel 1997 si è concluso, con la prefata pronuncia n. 649/97, il giudizio di accertamento della illegittimità del silenzio, con conseguente statuizione sull’obbligo di provvedere e che nel 1998 è stato finalmente rilasciato il provvedimento favorevole invocato dalla interessata, in nessun modo potrebbe ritenersi nella specie prescritta l’azione risarcitoria proposta dalla ricorrente di primo grado; ed infatti, nel settembre e nell’ottobre del 2001, la ... ha inviato – come correttamente rilevato dal TAR- due distinte lettere raccomandate con le quali ha inequivocabilmente richiesto di essere reintegrata dei danni subiti per effetto del ritardato rilascio del provvedimento favorevole, di tal che a ragione il primo giudicante, investito della decisione del ricorso notificato nel corso del 2003, ha ritenuto non integrata la fattispecie estintiva correlata al mancato esercizio dell’azione nel quinquennio.
Condivisibili risultano poi le considerazioni svolte dal primo giudice in ordine alla fissazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dal passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato l’illegittimità del silenzio ed il correlativo obbligo giuridico di provvedere anzichè, come vorrebbe l’appellante, dalla scadenza del termine legale fissato per l’adozione dell’atto ovvero dalla scadenza del termine assegnato dalla parte istante a mezzo della prescritta diffida alla Amministrazione (necessaria, prima della modifica dell’art. 2 L. 241/90 ad opera dell’art. 6 bis dl 35/2005, convertito nella l. 80/2005, ai fini della formazione del silenzio-rifiuto). Si è già detto, infatti, che l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del silenzio, unitamente al nuovo esercizio della funzione amministrativa in senso favorevole all’interessato, rappresentano nella riparazione del danno da ritardato rilascio di provvedimento favorevole elementi costitutivi della fattispecie dannosa; da ciò discende la pregiudizialità, in senso logico prima ancora che in senso processuale, del giudizio di accertamento della illegittimità del silenzio, e conseguentemente l’inesigibilità giuridica (ostativa al decorso del termine prescrizionale ai sensi dell’art.2935 cod. civ. ) della incardinazione dell’azione finalizzata alla riparazione del danno da ritardo prima della positiva conclusione di quella parentesi giurisdizionale.
Inoltre va soggiunto, pur se la considerazione esula dalla ratio decidendi, che tale argomento in ordine al carattere pregiudiziale del giudizio sul silenzio risulta vieppiù avvalorato a seguito della introduzione del nuovo modello processuale previsto nei giudizi sul silenzio (art. 21 bis L. 1034/71, come introdotto dall’art. 2 della l. 205/2000) (in questi termini, Adunanza plenaria n. 1/2002).
Con distinto motivo di appello il Comune ricorrente ha contestato la sussistenza nella specie dell’elemento indefettibile della colpa, al fine di ritenere integrata la responsabilità aquiliana della amministrazione.
Anche tale censura non coglie nel segno.
E’ pacifico, per giurisprudenza ormai costante (a partire da Cass. SS. UU. 22 luglio 1999, n. 500; ma v. anche Corte Cost. 7 aprile 2006, n. 146; e di recente Consiglio di Stato, V sez., 8 settembre 2008, n. 4242), che non è sufficiente la illegittimità del provvedimento o dell’inerzia amministrativa per ritenere integrata una fattispecie di responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, essendo essenziale ad integrare la fattispecie il giudizio di imputabilità soggettiva, quantomeno a titolo di colpa dell’apparato, che vale a legare il fatto alla amministrazione procedente.
Ora, la Sezione è persuasa che nella specie sia pienamente predicabile la colpa dell’apparato amministrativo, da intendersi nello specifico quale violazione delle regole di buona fede, leale collaborazione e di trasparenza. Le vicende processuali e procedimentali presupposte all’azione risarcitoria oggetto di esame nell’ambito del presente giudizio hanno dato ampia dimostrazione riguardo alle seguenti circostanze: 1) che il silenzio amministrativo serbato sulla originaria istanza della ... è risultato illegittimo, per come accertato con decisione inoppugnabile nella competente parentesi giurisdizionale; 2) che la sig.ra ... aveva titolo fin dall’inizio ad ottenere l’autorizzazione alla rivendita di giornali e periodici e che tuttavia la sede alla quale la stessa ambiva è stata assegnata, nelle more della definizione del giudizio, ad altro richiedente.
A ciò aggiungasi che l’Amministrazione comunale, se avesse improntato la sua azione ai canoni della buona fede e della leale collaborazione con l’interessata, avrebbe ben potuto individuare da subito, anche attraverso una interlocuzione di istruttoria procedimentale, l’esatta ubicazione del sito ove la ... intendeva allocare l’edicola, di modo da evitare il prolungarsi di una situazione di fatto che si è rivelata di pregiudizio per gli interessi della odierna parte appellata. Peraltro, neppure durante i lunghi anni di pendenza del giudizio sul silenzio, l’Amministrazione comunale si è resa parte attiva per soddisfare l’interesse pretensivo della parte istante (ciò che era pienamente ammissibile, essendo ius receptum che l’introduzione del giudizio sul silenzio non priva l’amministrazione del potere/dovere di provvedere). In un tale contesto fattuale, non appare revocabile in dubbio che il Comune di Roma, nel non rilasciare alla parte appellata l’invocata autorizzazione amministrativa, abbia violato quei doveri di buona fede e fattiva collaborazione che devono connotare i rapporti tra privati e amministrazione e la cui elusione è elemento sufficiente per ritenere sussistente la colpa dell’apparato amministrativo (in tali sensi, tra le più recenti, Consiglio di Stato, VI, 9 giugno 2008, n. 2750).
Per quanto fin qui detto, non par dubbio, sull’an della pretesa risarcitoria azionata dalla ... col ricorso di primo grado, che la stessa è stata correttamente ritenuta fondata dal giudice di prima istanza e che nessuno dei motivi di appello sul punto articolati meritano condivisione, per le ragioni brevemente richiamate.
Venendo al tema della quantificazione del danno, va ricordato che anche su tale punto l’appellante Comune di Roma ha articolato motivi di censura avverso la sentenza dei primi giudici.
In particolare, l’Amministrazione capitolina si duole della pretesa violazione, da parte della ricorrente di primo grado, dell’onere processuale della prova in relazione al pregiudizio in concreto sofferto per il mancato tempestivo rilascio in suo favore della rivendicata autorizzazione.
Tale motivo di gravame, ridondante in specifica censura avverso la sentenza, viene peraltro declinato dall’appellante in abbinata alla doglianza inerente la pretesa violazione delle regole processuali sulla prova, in virtù delle quali - anche nel processo amministrativo - la consulenza tecnica d’ufficio non può mai surrogare l’adempimento dell’onere probatorio, che incombe sulla parte, non trattandosi propriamente di uno strumento di prova quanto invece di un mezzo di corretta valutazione del materiale probatorio già acquisito al processo. Inoltre, l’appellante ha censurato sotto distinto profilo la congruità dei criteri prescelti dal giudice di primo grado al fine di modulare l’entità del danno, giudicati inadatti, a suo dire, a realizzare l’effetto riparatore per equivalente, avuto riguardo all’entità del pregiudizio asseritamente risentito dalla parte appellata per effetto del ritardo.
Il primo profilo di censura non merita condivisione.
E’ vero, in linea generale, che nella materia risarcitoria il modello istruttorio di tipo dispositivo-acquisitivo, proprio della giurisdizione amministrativa di legittimità, non ha ragione di sovrapporsi a quello improntato al principio dispositivo della prova (di stampo processualcivilistico) nella sua declinazione più piena. Ed infatti, la relativa impermeabilità di taluni ambiti della sfera d’azione dei pubblici poteri, la quale giustifica, ove oggetto precipuo di scrutinio è la funzione amministrativa autoritativa, l’estensione dell’area di acquisizione ufficiosa della prova ad opera del giudice amministrativo, non potrebbe rappresentare valido argomento per predicare analogo spazio di intervento al giudice del risarcimento del danno, una volta che sia stata definitivamente acclarata l’illegittimità dell’atto amministrativo nella propedeutica parentesi processuale cognitoria ovvero quando, sempre nella presupposta fase giurisdizionale, sia stato accertata la illegittimità del comportamento inerziale (produttivo del danno al bene della vita sotteso all’atto omesso o non tempestivamente adottato).
La incontestabilità di tale premessa generale non vale tuttavia ad inferire che nel caso all’esame la ricorrente in primo grado si sia sottratta dall’assolvere compiutamente l’onere probatorio, secondo il richiamato principio dispositivo, nei limiti di quanto fosse in concreto esigibile da parte sua. La stessa ha infatti allegato al ricorso di primo grado una perizia nella quale ha quantificato i danni sofferti per effetto della mancata attivazione nei termini della rivendita di giornali, sia pur adottando, come parametro di riferimento, il fatturato dell’edicola di viale Quattro Venti (in relazione alla quale soltanto la stessa ha definitivamente ottenuto, nel 1998, il titolo abilitativo) anziché quello di via del Pellaro 57 (ove ab origine doveva essere insediata la sua attività).
Non va d’altra parte sottaciuta la obiettiva difficoltà per la ricorrente in primo grado di fornire indicazioni più precise sul piano della quantificazione del danno da mancato guadagno, se solo si considera che la sede inizialmente prescelta dalla ... è rimasta vacante fino al 1994 e che, dopo questa data, è stata occupata da altro soggetto da cui, stante la non provata conoscenza personale, difficilmente la odierna appellata avrebbe potuto attingere informazioni sui dati di fatturato spendibili in sede processuale.
Né, d’altro canto, può mettersi in dubbio, su un piano generale, la legittimità del ricorso ad opera del giudice di primo grado allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, se si eccettua il profilo (peraltro non contestato) della sua adozione a mezzo di sentenza definitiva ed in congiunzione ad un inusitato dispositivo di condanna generica al risarcimento del danno. Basti al proposito osservare che la consulenza tecnica è tipico mezzo istruttoria per la quantificazione del danno nei giudizi di responsabilità civile e non contrasta col principio dispositivo, le quante volte la parte danneggiata abbia allegato elementi fattuali da cui inequivocabilmente desumere che un danno effettivamente vi sia stato (come nel caso all’esame, in cui la ... ha dimostrato di essere rimasta priva per lungo tempo dell’autorizzazione alla rivendita dei giornali per fatto ascrivibile dell’amministrazione).
Piuttosto, a parer del Collegio, la difficoltà di individuare parametri appropriati cui commisurare l’ammontare del danno da liquidare alla odierna parte appellata assume, in questo giudizio, una valenza oggettiva, che trascende il tema della congruità dello strumento istruttorio funzionale allo scopo.
Sotto tal riguardo vanno accolti, a parer del Collegio, i profili di censura incentrati sulla incongruità dei criteri di determinazione del danno prescelti dal primo giudice, e per conseguenza, va riformata la determinazione di affidare al consulente tecnico la concreta modulazione di quei criteri a mezzo della traduzione degli stessi in termini quantitativi. In disparte il generico riferimento – che si legge nella gravata pronuncia-ai proventi degli esercizi viciniori per la quantificazione dei danni antecedenti il 1994 (alla vendita dei giornali può essere associata una gamma più o meno vasta di prodotti di altro genere con un effetto trainante di intensità variabile per il fatturato relativo ai giornali) nonché la oggettiva difficoltà, per il periodo successivo al 1994, di attingere ai dati di fatturato dello stesso esercizio posto nel luogo ove avrebbe voluto installare l’edicola la odierna appellata (attesa la necessaria e non prevedibile collaborazione di soggetti terzi), resta da dire che i dati di fatturato sono comunque strumenti inadeguati di valutazione del danno, avuto riguardo alle seguenti circostanze: a) il reddito di impresa dipende essenzialmente dalle capacità imprenditoriali del titolare dell’azienda e dal piano degli investimenti programmati, e quindi ha un grado di volatilità dipendente da tali fattori soggettivi; 2) deve in ogni caso tenersi conto che la appellata ... ha potuto disimpegnare aliunde le proprie energie lavorative nel lungo lasso temporale (1990-1998) in cui è rimasta illegittimamente priva di titolo abilitativo alla rivendita di giornali; 3) da ultimo, la stessa ... ha ceduto, il 4 novembre 1998, alienandolo unitamente all’azienda, il titolo abilitativo conseguito all’esito del tormentato iter procedimentale, ed ha ricevuto in corrispettivo la somma di Lire 80.000.000. Tenuto conto del fatto che all’epoca della cessione la ... non aveva neppure ritirato la concessione di suolo pubblico per la realizzazione dell’edicola, è facile desumere che il compendio aziendale constava, all’epoca della cessione, essenzialmente dell’autorizzazione commerciale. Né è a dire, come erroneamente ritenuto dal primo giudicante, che della evenienza dell’alienazione del titolo non potrebbe tenersi conto in questa sede risarcitoria, in quanto fatto successivo all’eventus damni; si è già detto, al contrario, che il risarcimento del danno da ritardata adozione di provvedimento favorevole non ha struttura autonoma ma accede, con funzione complementare, alla riparazione in forma specifica ottenuta dall’interessato a mezzo del rilascio del provvedimento ampliativo.
Sicchè è tutt’altro che implausibile che, come prospettato dal Comune appellante, in una fattispecie risarcitoria, quale quella in esame, di danno da ritardata adozione del provvedimento, si tenga anche conto dell’utilità che dal provvedimento favorevole abbia immediatamente tratto l’interessata, consistita nella specie nell’averlo subito negoziato con profitto, prima ancora della sua naturale destinazione in funzione propedeutica all’avviamento dell’attività d’impresa.
Alla luce delle considerazioni appena svolte, ritiene la Sezione, in riforma sul punto della gravata pronuncia, che alla quantificazione del danno nel caso all’esame si deve ragionevolmente pervenire attingendo allo strumento sussidiario della valutazione equitativa previsto dall’art. 1226 cod. civ. (per come espressamente richiamato, nell’ambito della disciplina della responsabilità aquiliana, dall’art. 2056 cod. civ.); si verte, infatti, in una tipica ipotesi in cui il danno non può essere accertato nel suo preciso ammontare.
In tale ambito, tenuto conto di tutte le suindicate circostanze, il Collegio è persuaso che una valutazione congrua del danno risentito dalla ... possa essere contenuta nella misura di Euro 15.000,00 (quindicimila). Alla liquidazione di tale somma, da intendersi espressa ai valori attuali della moneta e quindi non suscettibile di essere ulteriormente incrementata per rivalutazione ed interessi fino alla data della presente decisione, il Comune di Roma provvederà in favore della ... nel termine di 90 giorni, decorrenti dalla comunicazione in via amministrativa ovvero dalla notificazione della presente decisione.
In conclusione, l’appello va solo parzialmente accolto con conseguenziale riforma, nei limiti anzidetti, della gravata pronuncia.
Le spese di entrambi i gradi di giudizio possono essere integralmente compensate fra le parti, ricorrendo giusti motivi.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. V), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo accoglie in parte e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, liquida il danno nei termini di cui in motivazione e condanna il Comune di Roma, a titolo di risarcimento del danno in favore della sig.ra Daniela ..., al pagamento della somma di Euro 15.000,00 (quindicimila/00), da liquidarsi nel termine di gg. 90 dalla notificazione ovvero dalla comunicazione in via amministrativa della presente pronuncia.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 28 ottobre 2008, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. V), riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei signori:
Stefano Baccarini Presidente.
Aldo Fera Consigliere
Filoreto D’Agostino Consigliere
Vito Poli Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg Consigliere est.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Giulio Castriota Scanderbeg f.to Stefano Baccarini
IL SEGRETARIO
f.to Agatina Maria Vilardo
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il................02/03/09.................
(Art. 55. L. 27/4/1982, n. 186)
IL DIRIGENTE
f.to Antonio Natale

Il danno da ritardo e la giurisprudenza 2009 del Consiglio di Stato

Consiglio di Stato
sentenza 1162 del 2 marzo 2009
IL DANNO DA RITARDO, TRA DRITTO AMMINISTRATIVO E CIVILE
Il danno da ritardo, quindi, non ha un’autonomia strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui scaturisce, dato che è legato inscindibilmente alla positiva finalizzazione di quest’ultima; né si presenta a guisa di una ordinaria ipotesi di riparazione per equivalente, tenuto conto che si associa il più delle volte (quando non vi ostano circostanze fattuali sopravvenute) alla riparazione in forma specifica dell’effettivo rilascio (sia pur tardivo) del provvedimento favorevole.

REPUBBLICA ITALIANA
N.1162/09 REG.DEC.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N. 7818 REG:RIC.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione
ANNO 2007
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 7818/07 proposto da

Comune di Roma, in persona del sindaco e legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso in giudizio dall’avv. Rosalda Rocchi dell’avvocatura del Comune di Roma ed elettivamente domiciliato in Roma alla via del Tempio di Giove, n. 21 negli uffici dell’Avvocatura comunale;
CONTRO
la sig.ra Daniela ..., rappresentata e difesa in giudizio dall’avv. Loredana Serva ed elettivamente domiciliata in Roma alla via delle Coppelle n. 16;
PER L’ANNULLAMENTO
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II ter, n. 6687/2007, pubblicata in data 18 luglio 2007, non notificata, con la quale in accoglimento del ricorso n. 11047/2003 proposto da Daniela ... il Comune di Roma è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della ricorrente, danni da quantificarsi a mezzo di CTU contestualmente disposta;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’appellata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti delle due cause;
Relatore alla pubblica udienza del 28 ottobre 2008, il Consigliere Giulio Castriota Scanderbeg;
Uditi gli avv. Rosalda Rocchi per il Comune di Roma e l’avv. Loredana Serva per la parte appellata;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Con l’appello all’esame è gravata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II ter, n. 6687/2007, pubblicata in data 18 luglio 2007, non notificata, con la quale, in accoglimento del ricorso n. 11047/2003, il Comune di Roma è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della ricorrente, sig.ra ..., danni da quantificarsi a mezzo di CTU contestualmente disposta con la stessa pronuncia definitiva.
L’Amministrazione comunale appellante premette in fatto che il presente giudizio risarcitorio prende le mosse da altro pregresso giudizio nel quale la sig.ra ... aveva vittoriosamente impugnato dinanzi al Tar del Lazio il silenzio dell’amministrazione comunale su una sua istanza volta ad ottenere l’autorizzazione alla vendita di quotidiani e periodici in via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4; nella pronuncia (n. 649/97), non impugnata, resa all’esito di quel giudizio il Tar aveva dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi esplicitamente sull’istanza dopo che, con due decisioni interlocutorie, lo stesso giudice aveva disposto incombenti volti ad acclarare la localizzazione del sito (via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4) prescelto dalla ... e, per l’effetto, la autorizzabilità della sua istanza, tenuto conto delle distanze minime che devono intercorrere tra esercizi di rivendita di giornali ai sensi della disciplina normativa di settore.
Verificata la impossibilità di assentire la prima istanzaa causa della localizzazione prescelta, attesa la autorizzazione medio-tempore accordata ad altro esercente avente diritto di precedenza, l’Amministrazione comunale in ottemperanza al giudicato formatosi sulla sentenza n. 649/97 invitava la sig.ra ... ad effettuare altra scelta localizzativa, che cadeva finalmente su viale Quattro Venti 110/112, dopo che precedenti siti individuati dalla interessata erano stati ritenuti inadeguati in quanto non rispettosi della distanza minima tra edicole. Ottenuta finalmente, con determinazione dirigenziale n. 160 del 25 maggio 1998, l’autorizzazione agognata, la ricorrente interponeva il giudizio risarcitorio definito in primo grado dalla pronuncia di accoglimento qui oggetto di gravame.
Deduce l’appellante a fondamento dell’impugnazione che il giudice di prime cure nella adozione della decisione non avrebbe tenuto conto di espresse disposizioni di legge (art. 7 LR n.3/1985) e, più in generale, della disciplina complessiva della materia, oltreché dei principi giurisprudenziali acquisiti in tema di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi pretensivi. In particolare, deduce il Comune di Roma che ai sensi dell’art. 7 della LR n. 3 del 1985, la domanda dell’interessato per l’esercizio di rivendita di giornali in posti fissi si intende respinta qualora il sindaco non deliberi su di essa nel termine di 90 giorni dalla sua presentazione e che, pertanto, la prima istanza della interessata, proposta nel 1990 e dai contenuti estremamente generici in ordine alla individuazione del sito prescelto, aveva trovato risposta, sia pur in un provvedimento tacito di diniego; d’altronde, il provvedimento favorevole accordato dalla Amministrazione nel 1998 era invece da considerarsi, nella prospettazione del Comune, accessivo ad altra successiva istanza della interessata, di tal che non era assolutamente configurabile nella specie, sempre a dire dell’appellante, un nesso causale tra gli atti, anche impliciti, ascrivibili alla Amministrazione ed i pretesi danni subiti dalla ricorrente in primo grado; inoltre, non era ravvisabile l’indefettibile elemento della colpa.
Ripropone inoltre l’appellante, deducendolo quale specifico motivo d’appello, il tema della prescrizione del diritto fatto valere dalla ..., atteso che nel 2003, epoca della proposizione del giudizio di primo grado, a suo dire era sicuramente prescritta l’azione risarcitoria conseguente alla illegittimità del silenzio-rigetto formatosi sulla prima istanza, non potendosi configurare quali validi atti interruttivi della prescrizione – avuto riguardo al contenuto generico degli stessi - le due lettere inviate dalla interessata nel corso del 2001.
Da ultimo, la appellante amministrazione contesta la sussistenza di un danno risarcibile in capo alla ..., che al più avrebbe dovuto essere provato nel suo preciso ammontare dalla interessata e non già a mezzo della consulenza tecnica disposta erroneamente dal giudice di prime cure, di cui in ogni caso sarebbero errati i parametri di riferimento offerti dal giudicante per la quantificazione del danno; vieppiù considerando, sempre a giudizio dell’appellante, che la parte appellata avrebbe ceduto il 4 novembre 1998 l’autorizzazione ottenuta, locupletando ingiustamente dalla vendita di un titolo giuridico non ancora legato sul piano materiale ad un’azienda in esercizio.
Conclude per l’annullamento della gravata pronuncia e per il ristoro delle spese e competenze del giudizio.
Si costituisce in giudizio la sig.ra ... la quale, nel contestare la fondatezza dei motivi dell’appello, chiede la reiezione del gravame con la conferma della gravata pronuncia.
Alla pubblica udienza del 28 ottobre 2008 la causa è passata in decisione.
DIRITTO
L’appello è solo in parte fondato, nei limiti di cui si dirà appresso.
Come ricordato in fatto, col primo motivo di gravame il Comune di Roma contesta la sussistenza stessa degli elementi costitutivi della responsabilità civile ascritta a suo carico nella gravata pronuncia, sul presupposto che la legge regionale laziale n. 3 del 1985 (art. 7 u.c.) avrebbe attribuito un significato legale tipico al silenzio amministrativo serbato per un periodo di 90 giorni dalla presentazione della istanza di autorizzazione alla rivendita di giornali e periodici. Di qui l’inesistenza, sempre nella prospettiva dell’appellante, di un’inerzia colpevole suscettibile di rilevare ai fini risarcitori, vertendosi invece nella distinta ipotesi del provvedimento tacito di diniego, formatosi dopo lo spirare dello spatium deliberandi di 90 giorni; peraltro, sempre a giudizio del Comune di Roma, tale atto tacito di diniego non avrebbe potuto qualificarsi come illegittimo, dato che la istanza originaria della interessata si sarebbe dimostrata poco puntuale nella indicazione della localizzazione dell’edicola (la originaria indicazione di via Lucrezia Romana, comparto 26, negozio 4, sarebbe stata, solo dopo indagini istruttorie ed a seguito del successivo completamento della toponomastica cittadina, più correttamente individuata come via del Pellaio , altezza civico 57).
La censura non merita condivisione.
Trascura l’appellante di considerare che il silenzio serbato dal Comune di Roma sulla originaria istanza della interessata, ancorchè connotato da valore legale tipico di diniego in base alla richiamata disposizione di legge regionale, ha formato oggetto di scrutinio giurisdizionale culminato con l’adozione della citata sentenza del TAR Lazio n.649 del10 aprile 1997, passata in giudicato. In tale alveo giurisdizionale è stata acclarata definitivamente, con statuizione sul punto intangibile anche per questo Giudice, la illegittimità del silenzio amministrativo, essendosi accertato che, salva la verifica dei requisiti soggettivi, l’amministrazione comunale aveva l’obbligo di provvedere sulla istanza della sig.ra .... Le vicende procedimentali successive al predetto giudicato, ed anzitutto il rilascio nel 1998 del provvedimento favorevole all’interessata (sia pur per la nuova sede di viale dei Quattro Venti) e, ancor più, il rilascio ad altro soggetto avente diritto di preferenza dell’autorizzazione in via del Pellaio 57 (corrispondente alla indicazione topografica di via Lucrezia Romana fornita originariamente dalla ...), hanno poi dimostrato che la ricorrente in primo grado non solo aveva titolo a conseguire fin dall’inizio l’autorizzazione per la rivendita di giornali e periodici, ma che tale interesse pretensivo della appellata, se tempestivamente soddisfatto, avrebbe potuto giovarsi della primigenia localizzazione prescelta dalla interessata.
Tale ultima considerazione, peraltro, elide ogni profilo di rilevanza della questione, pur dedotta come autonoma articolazione di doglianza, della intervenuta variazione dell’oggetto materiale della richiesta della interessata, dapprima focalizzata sulla localizzazione di via Lucrezia Romana e di poi finalmente soddisfatta in relazione al diverso indirizzo di viale Quattro Venti. E’ indubbio infatti che tale variazione spaziale dell’oggetto della originaria istanza per un verso non è ascrivibile a responsabilità della sig.ra ... (ma semmai al fatto oggettivo che il tempo necessario all’accertamento del suo diritto aveva fatto maturare medio-tempore una posizione poziore di altro interessato), per altro verso non autorizza sul piano giuridico l’affrettata conclusione dell’appellante secondo cui, essendo mutato il bene materiale oggetto di tutela, tale circostanza avrebbe reciso il nesso di causalità giuridica, tipico della sede risarcitoria, tra fatto materiale ed evento dannoso.
A parte il già rilevato e dirimente profilo della non imputabilità alla ... di tale variazione parziale dell’oggetto materiale della sua iniziale richiesta, non appare corretta, su un piano ancor più generale, la stessa deduzione secondo cui sarebbe medio-tempore mutato il bene della vita inizialmente fatto valere con l’attivazione della istanza di autorizzazione commerciale rispetto a quello in concreto soddisfatto a mezzo del definitivo rilascio dell’autorizzazione nel 1998; è evidente, infatti, che il bene giuridico perseguito nel tempo dalla interessata, rappresentato in concreto dall’esercizio dell’attività economica di rivendita di giornali in Roma, è rimasto il medesimo, essendone mutata, per ragioni indipendenti dalla volontà dell’interesssata, soltanto la localizzazione.
Con altro motivo il Comune appellante ripropone la questione della pretesa prescrizione dell’azione risarcitoria, già sollevata in primo grado e disattesa dal giudice di prime cure.
Anche tale questione è infondata.
Va premesso che nel nostro diritto positivo non è previsto allo stato attuale della legislazione un meccanismo riparatore dei danni causati dal ritardo procedimentale in sé e per sé considerato. L’inerzia amministrativa, per essere sanzionabile in sede risarcitoria, postula non soltanto il previo accertamento giurisdizionale della sua illegittimità ma vieppiù il concreto esercizio della funzione amministrativa, ove ancora possibile e di interesse per il cittadino istante, in senso favorevole all’interessato (ovvero il suo esercizio virtuale, in sede di giudizio prognostico da parte del giudicante investito della richiesta risarcitoria).
Il danno da ritardo, quindi, non ha un’autonomia strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui scaturisce, dato che è legato inscindibilmente alla positiva finalizzazione di quest’ultima; né si presenta a guisa di una ordinaria ipotesi di riparazione per equivalente, tenuto conto che si associa il più delle volte (quando non vi ostano circostanze fattuali sopravvenute) alla riparazione in forma specifica dell’effettivo rilascio (sia pur tardivo) del provvedimento favorevole.
Tali conclusioni sono pienamente in linea con quanto precisato dall’Adunanza Plenaria di questo Consesso n. 5 del 15 settembre 2005; in tale pronuncia si è ribadito che, allo stato attuale della legislazione, non è risarcibile il danno da ritardo , cioè disancorato dalla dimostrazione giudiziale della meritevolezza di tutela dell’interesse pretensivo fatto valere e che, pertanto, l’eventuale danno non è risarcibile quando l’Amministrazione abbia adottato, ancorchè con notevole ritardo, un provvedimento (rimasto inoppugnato) dal contenuto negativo per l’interessato.
Alla luce di tali brevi premesse ricostruttive della responsabilità civile della amministrazione per ritardato o omesso rilascio di provvedimento favorevole, correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto che nella specie non fosse maturata la prescrizione della pretesa risarcitoria avanzata dalla ricorrente ... nel corso dell’anno 2003.
Tenuto conto infatti che soltanto nel 1997 si è concluso, con la prefata pronuncia n. 649/97, il giudizio di accertamento della illegittimità del silenzio, con conseguente statuizione sull’obbligo di provvedere e che nel 1998 è stato finalmente rilasciato il provvedimento favorevole invocato dalla interessata, in nessun modo potrebbe ritenersi nella specie prescritta l’azione risarcitoria proposta dalla ricorrente di primo grado; ed infatti, nel settembre e nell’ottobre del 2001, la ... ha inviato – come correttamente rilevato dal TAR- due distinte lettere raccomandate con le quali ha inequivocabilmente richiesto di essere reintegrata dei danni subiti per effetto del ritardato rilascio del provvedimento favorevole, di tal che a ragione il primo giudicante, investito della decisione del ricorso notificato nel corso del 2003, ha ritenuto non integrata la fattispecie estintiva correlata al mancato esercizio dell’azione nel quinquennio.
Condivisibili risultano poi le considerazioni svolte dal primo giudice in ordine alla fissazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dal passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato l’illegittimità del silenzio ed il correlativo obbligo giuridico di provvedere anzichè, come vorrebbe l’appellante, dalla scadenza del termine legale fissato per l’adozione dell’atto ovvero dalla scadenza del termine assegnato dalla parte istante a mezzo della prescritta diffida alla Amministrazione (necessaria, prima della modifica dell’art. 2 L. 241/90 ad opera dell’art. 6 bis dl 35/2005, convertito nella l. 80/2005, ai fini della formazione del silenzio-rifiuto). Si è già detto, infatti, che l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del silenzio, unitamente al nuovo esercizio della funzione amministrativa in senso favorevole all’interessato, rappresentano nella riparazione del danno da ritardato rilascio di provvedimento favorevole elementi costitutivi della fattispecie dannosa; da ciò discende la pregiudizialità, in senso logico prima ancora che in senso processuale, del giudizio di accertamento della illegittimità del silenzio, e conseguentemente l’inesigibilità giuridica (ostativa al decorso del termine prescrizionale ai sensi dell’art.2935 cod. civ. ) della incardinazione dell’azione finalizzata alla riparazione del danno da ritardo prima della positiva conclusione di quella parentesi giurisdizionale.
Inoltre va soggiunto, pur se la considerazione esula dalla ratio decidendi, che tale argomento in ordine al carattere pregiudiziale del giudizio sul silenzio risulta vieppiù avvalorato a seguito della introduzione del nuovo modello processuale previsto nei giudizi sul silenzio (art. 21 bis L. 1034/71, come introdotto dall’art. 2 della l. 205/2000) (in questi termini, Adunanza plenaria n. 1/2002).
Con distinto motivo di appello il Comune ricorrente ha contestato la sussistenza nella specie dell’elemento indefettibile della colpa, al fine di ritenere integrata la responsabilità aquiliana della amministrazione.
Anche tale censura non coglie nel segno.
E’ pacifico, per giurisprudenza ormai costante (a partire da Cass. SS. UU. 22 luglio 1999, n. 500; ma v. anche Corte Cost. 7 aprile 2006, n. 146; e di recente Consiglio di Stato, V sez., 8 settembre 2008, n. 4242), che non è sufficiente la illegittimità del provvedimento o dell’inerzia amministrativa per ritenere integrata una fattispecie di responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, essendo essenziale ad integrare la fattispecie il giudizio di imputabilità soggettiva, quantomeno a titolo di colpa dell’apparato, che vale a legare il fatto alla amministrazione procedente.
Ora, la Sezione è persuasa che nella specie sia pienamente predicabile la colpa dell’apparato amministrativo, da intendersi nello specifico quale violazione delle regole di buona fede, leale collaborazione e di trasparenza. Le vicende processuali e procedimentali presupposte all’azione risarcitoria oggetto di esame nell’ambito del presente giudizio hanno dato ampia dimostrazione riguardo alle seguenti circostanze: 1) che il silenzio amministrativo serbato sulla originaria istanza della ... è risultato illegittimo, per come accertato con decisione inoppugnabile nella competente parentesi giurisdizionale; 2) che la sig.ra ... aveva titolo fin dall’inizio ad ottenere l’autorizzazione alla rivendita di giornali e periodici e che tuttavia la sede alla quale la stessa ambiva è stata assegnata, nelle more della definizione del giudizio, ad altro richiedente.
A ciò aggiungasi che l’Amministrazione comunale, se avesse improntato la sua azione ai canoni della buona fede e della leale collaborazione con l’interessata, avrebbe ben potuto individuare da subito, anche attraverso una interlocuzione di istruttoria procedimentale, l’esatta ubicazione del sito ove la ... intendeva allocare l’edicola, di modo da evitare il prolungarsi di una situazione di fatto che si è rivelata di pregiudizio per gli interessi della odierna parte appellata. Peraltro, neppure durante i lunghi anni di pendenza del giudizio sul silenzio, l’Amministrazione comunale si è resa parte attiva per soddisfare l’interesse pretensivo della parte istante (ciò che era pienamente ammissibile, essendo ius receptum che l’introduzione del giudizio sul silenzio non priva l’amministrazione del potere/dovere di provvedere). In un tale contesto fattuale, non appare revocabile in dubbio che il Comune di Roma, nel non rilasciare alla parte appellata l’invocata autorizzazione amministrativa, abbia violato quei doveri di buona fede e fattiva collaborazione che devono connotare i rapporti tra privati e amministrazione e la cui elusione è elemento sufficiente per ritenere sussistente la colpa dell’apparato amministrativo (in tali sensi, tra le più recenti, Consiglio di Stato, VI, 9 giugno 2008, n. 2750).
Per quanto fin qui detto, non par dubbio, sull’an della pretesa risarcitoria azionata dalla ... col ricorso di primo grado, che la stessa è stata correttamente ritenuta fondata dal giudice di prima istanza e che nessuno dei motivi di appello sul punto articolati meritano condivisione, per le ragioni brevemente richiamate.
Venendo al tema della quantificazione del danno, va ricordato che anche su tale punto l’appellante Comune di Roma ha articolato motivi di censura avverso la sentenza dei primi giudici.
In particolare, l’Amministrazione capitolina si duole della pretesa violazione, da parte della ricorrente di primo grado, dell’onere processuale della prova in relazione al pregiudizio in concreto sofferto per il mancato tempestivo rilascio in suo favore della rivendicata autorizzazione.
Tale motivo di gravame, ridondante in specifica censura avverso la sentenza, viene peraltro declinato dall’appellante in abbinata alla doglianza inerente la pretesa violazione delle regole processuali sulla prova, in virtù delle quali - anche nel processo amministrativo - la consulenza tecnica d’ufficio non può mai surrogare l’adempimento dell’onere probatorio, che incombe sulla parte, non trattandosi propriamente di uno strumento di prova quanto invece di un mezzo di corretta valutazione del materiale probatorio già acquisito al processo. Inoltre, l’appellante ha censurato sotto distinto profilo la congruità dei criteri prescelti dal giudice di primo grado al fine di modulare l’entità del danno, giudicati inadatti, a suo dire, a realizzare l’effetto riparatore per equivalente, avuto riguardo all’entità del pregiudizio asseritamente risentito dalla parte appellata per effetto del ritardo.
Il primo profilo di censura non merita condivisione.
E’ vero, in linea generale, che nella materia risarcitoria il modello istruttorio di tipo dispositivo-acquisitivo, proprio della giurisdizione amministrativa di legittimità, non ha ragione di sovrapporsi a quello improntato al principio dispositivo della prova (di stampo processualcivilistico) nella sua declinazione più piena. Ed infatti, la relativa impermeabilità di taluni ambiti della sfera d’azione dei pubblici poteri, la quale giustifica, ove oggetto precipuo di scrutinio è la funzione amministrativa autoritativa, l’estensione dell’area di acquisizione ufficiosa della prova ad opera del giudice amministrativo, non potrebbe rappresentare valido argomento per predicare analogo spazio di intervento al giudice del risarcimento del danno, una volta che sia stata definitivamente acclarata l’illegittimità dell’atto amministrativo nella propedeutica parentesi processuale cognitoria ovvero quando, sempre nella presupposta fase giurisdizionale, sia stato accertata la illegittimità del comportamento inerziale (produttivo del danno al bene della vita sotteso all’atto omesso o non tempestivamente adottato).
La incontestabilità di tale premessa generale non vale tuttavia ad inferire che nel caso all’esame la ricorrente in primo grado si sia sottratta dall’assolvere compiutamente l’onere probatorio, secondo il richiamato principio dispositivo, nei limiti di quanto fosse in concreto esigibile da parte sua. La stessa ha infatti allegato al ricorso di primo grado una perizia nella quale ha quantificato i danni sofferti per effetto della mancata attivazione nei termini della rivendita di giornali, sia pur adottando, come parametro di riferimento, il fatturato dell’edicola di viale Quattro Venti (in relazione alla quale soltanto la stessa ha definitivamente ottenuto, nel 1998, il titolo abilitativo) anziché quello di via del Pellaro 57 (ove ab origine doveva essere insediata la sua attività).
Non va d’altra parte sottaciuta la obiettiva difficoltà per la ricorrente in primo grado di fornire indicazioni più precise sul piano della quantificazione del danno da mancato guadagno, se solo si considera che la sede inizialmente prescelta dalla ... è rimasta vacante fino al 1994 e che, dopo questa data, è stata occupata da altro soggetto da cui, stante la non provata conoscenza personale, difficilmente la odierna appellata avrebbe potuto attingere informazioni sui dati di fatturato spendibili in sede processuale.
Né, d’altro canto, può mettersi in dubbio, su un piano generale, la legittimità del ricorso ad opera del giudice di primo grado allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, se si eccettua il profilo (peraltro non contestato) della sua adozione a mezzo di sentenza definitiva ed in congiunzione ad un inusitato dispositivo di condanna generica al risarcimento del danno. Basti al proposito osservare che la consulenza tecnica è tipico mezzo istruttoria per la quantificazione del danno nei giudizi di responsabilità civile e non contrasta col principio dispositivo, le quante volte la parte danneggiata abbia allegato elementi fattuali da cui inequivocabilmente desumere che un danno effettivamente vi sia stato (come nel caso all’esame, in cui la ... ha dimostrato di essere rimasta priva per lungo tempo dell’autorizzazione alla rivendita dei giornali per fatto ascrivibile dell’amministrazione).
Piuttosto, a parer del Collegio, la difficoltà di individuare parametri appropriati cui commisurare l’ammontare del danno da liquidare alla odierna parte appellata assume, in questo giudizio, una valenza oggettiva, che trascende il tema della congruità dello strumento istruttorio funzionale allo scopo.
Sotto tal riguardo vanno accolti, a parer del Collegio, i profili di censura incentrati sulla incongruità dei criteri di determinazione del danno prescelti dal primo giudice, e per conseguenza, va riformata la determinazione di affidare al consulente tecnico la concreta modulazione di quei criteri a mezzo della traduzione degli stessi in termini quantitativi. In disparte il generico riferimento – che si legge nella gravata pronuncia-ai proventi degli esercizi viciniori per la quantificazione dei danni antecedenti il 1994 (alla vendita dei giornali può essere associata una gamma più o meno vasta di prodotti di altro genere con un effetto trainante di intensità variabile per il fatturato relativo ai giornali) nonché la oggettiva difficoltà, per il periodo successivo al 1994, di attingere ai dati di fatturato dello stesso esercizio posto nel luogo ove avrebbe voluto installare l’edicola la odierna appellata (attesa la necessaria e non prevedibile collaborazione di soggetti terzi), resta da dire che i dati di fatturato sono comunque strumenti inadeguati di valutazione del danno, avuto riguardo alle seguenti circostanze: a) il reddito di impresa dipende essenzialmente dalle capacità imprenditoriali del titolare dell’azienda e dal piano degli investimenti programmati, e quindi ha un grado di volatilità dipendente da tali fattori soggettivi; 2) deve in ogni caso tenersi conto che la appellata ... ha potuto disimpegnare aliunde le proprie energie lavorative nel lungo lasso temporale (1990-1998) in cui è rimasta illegittimamente priva di titolo abilitativo alla rivendita di giornali; 3) da ultimo, la stessa ... ha ceduto, il 4 novembre 1998, alienandolo unitamente all’azienda, il titolo abilitativo conseguito all’esito del tormentato iter procedimentale, ed ha ricevuto in corrispettivo la somma di Lire 80.000.000. Tenuto conto del fatto che all’epoca della cessione la ... non aveva neppure ritirato la concessione di suolo pubblico per la realizzazione dell’edicola, è facile desumere che il compendio aziendale constava, all’epoca della cessione, essenzialmente dell’autorizzazione commerciale. Né è a dire, come erroneamente ritenuto dal primo giudicante, che della evenienza dell’alienazione del titolo non potrebbe tenersi conto in questa sede risarcitoria, in quanto fatto successivo all’eventus damni; si è già detto, al contrario, che il risarcimento del danno da ritardata adozione di provvedimento favorevole non ha struttura autonoma ma accede, con funzione complementare, alla riparazione in forma specifica ottenuta dall’interessato a mezzo del rilascio del provvedimento ampliativo.
Sicchè è tutt’altro che implausibile che, come prospettato dal Comune appellante, in una fattispecie risarcitoria, quale quella in esame, di danno da ritardata adozione del provvedimento, si tenga anche conto dell’utilità che dal provvedimento favorevole abbia immediatamente tratto l’interessata, consistita nella specie nell’averlo subito negoziato con profitto, prima ancora della sua naturale destinazione in funzione propedeutica all’avviamento dell’attività d’impresa.
Alla luce delle considerazioni appena svolte, ritiene la Sezione, in riforma sul punto della gravata pronuncia, che alla quantificazione del danno nel caso all’esame si deve ragionevolmente pervenire attingendo allo strumento sussidiario della valutazione equitativa previsto dall’art. 1226 cod. civ. (per come espressamente richiamato, nell’ambito della disciplina della responsabilità aquiliana, dall’art. 2056 cod. civ.); si verte, infatti, in una tipica ipotesi in cui il danno non può essere accertato nel suo preciso ammontare.
In tale ambito, tenuto conto di tutte le suindicate circostanze, il Collegio è persuaso che una valutazione congrua del danno risentito dalla ... possa essere contenuta nella misura di Euro 15.000,00 (quindicimila). Alla liquidazione di tale somma, da intendersi espressa ai valori attuali della moneta e quindi non suscettibile di essere ulteriormente incrementata per rivalutazione ed interessi fino alla data della presente decisione, il Comune di Roma provvederà in favore della ... nel termine di 90 giorni, decorrenti dalla comunicazione in via amministrativa ovvero dalla notificazione della presente decisione.
In conclusione, l’appello va solo parzialmente accolto con conseguenziale riforma, nei limiti anzidetti, della gravata pronuncia.
Le spese di entrambi i gradi di giudizio possono essere integralmente compensate fra le parti, ricorrendo giusti motivi.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. V), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo accoglie in parte e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, liquida il danno nei termini di cui in motivazione e condanna il Comune di Roma, a titolo di risarcimento del danno in favore della sig.ra Daniela ..., al pagamento della somma di Euro 15.000,00 (quindicimila/00), da liquidarsi nel termine di gg. 90 dalla notificazione ovvero dalla comunicazione in via amministrativa della presente pronuncia.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 28 ottobre 2008, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. V), riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei signori:
Stefano Baccarini Presidente.
Aldo Fera Consigliere
Filoreto D’Agostino Consigliere
Vito Poli Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg Consigliere est.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Giulio Castriota Scanderbeg f.to Stefano Baccarini
IL SEGRETARIO
f.to Agatina Maria Vilardo
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il................02/03/09.................
(Art. 55. L. 27/4/1982, n. 186)
IL DIRIGENTE
f.to Antonio Natale

Verifiche fiscali e divieto di praesumptio de praesumpto

La rassegna giurisprudenziale
Le verifiche fiscali e il divieto di doppia presunzione



Premessa
In merito al problema del divieto di doppie presunzioni, alcuni recenti interventi della Corte di Cassazione forniscono lo spunto per ritornare sulla questione.
E’ noto che un consolidato orientamento giurisprudenziale sostiene da tempo l’inammissibilità delle presunzioni di secondo grado sulla base della constatazione che le presunzioni semplici, ai sensi dell’art. 2727 del codice civile, sono le conseguenze che un “giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato”, sicché gli elementi che costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della concretezza.
Pur mantenendo la propria posizione di chiusura nei confronti delle presunzioni di secondo grado, di recente la Suprema Corte – valutando come queste ultime possano giungere a dimostrazioni ragionevoli, ma non ritenendo, nel contempo, di pronunciarsi esplicitamente per l’ammissibilità delle stesse – ha argomentato qualificando il ragionamento presuntivo quale unica presunzione, comprensiva di più passaggi logici.
Si ribadisce, tuttavia, che ogni volta che il giudice di legittimità ha qualificato i ragionamenti effettuati dagli uffici quali presunzioni di secondo grado, ha concluso non ammettendoli.
L’ambito del divieto di doppia presunzione
La documentazione aziendale (fatture e libri contabili) è strumento idoneo a dimostrare l’esistenza delle operazioni riportate, ed incombe sull’Amministrazione che intenda disconoscere tale documentazione (nel caso di specie asserendo che determinate operazioni documentate con fatture erano in realtà inesistenti) l’onere di provarne, anche attraverso presunzioni, l’inattendibilità.
Il divieto di doppia presunzione (praesumptio de praesumpto) vieta la correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice, ma non con altra presunzione legale.
(Cassazione, sentenza n. 1023/08)
Quando si parla di doppia presunzione
L’Ufficio finanziario è autorizzato da precise disposizioni di legge (art. 32, n. 7 del DPR n. 660/1973; art. 51 del DPR n. 633/1972) a procedere all’accertamento fiscale anche acquisendo dati, notizie e documenti relativi a conti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si possano ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente; ai fini della prova di tale connessione decisivo rilievo indiziario può assumere la mancata risposta della società contribuente ai chiarimenti richiesti dall’Ufficio circa i dati bancari (nel caso di specie, i conti erano tutti intestati a persone fisiche riconducibili alla società in ragione degli strettissimi rapporti con essa intercorrenti: soci, amministratori, figli dei soci ecc.).
Il divieto di doppia presunzione (praesumptio de praesumpto) vieta la correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice, ma non con altra presunzione legale (nel caso de quo, attraverso presunzioni semplici i conti correnti intestati a terzi erano stati ritenuti riconducibili al contribuente e, con presunzione legale, i movimenti del conto erano stati attribuiti a operazioni economiche del contribuente)
(Cassazione, sentenza n. 27032/07)

Verifiche fiscali e divieto di praesumptio de praesumpto

La rassegna giurisprudenziale
Le verifiche fiscali e il divieto di doppia presunzione



Premessa
In merito al problema del divieto di doppie presunzioni, alcuni recenti interventi della Corte di Cassazione forniscono lo spunto per ritornare sulla questione.
E’ noto che un consolidato orientamento giurisprudenziale sostiene da tempo l’inammissibilità delle presunzioni di secondo grado sulla base della constatazione che le presunzioni semplici, ai sensi dell’art. 2727 del codice civile, sono le conseguenze che un “giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato”, sicché gli elementi che costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della concretezza.
Pur mantenendo la propria posizione di chiusura nei confronti delle presunzioni di secondo grado, di recente la Suprema Corte – valutando come queste ultime possano giungere a dimostrazioni ragionevoli, ma non ritenendo, nel contempo, di pronunciarsi esplicitamente per l’ammissibilità delle stesse – ha argomentato qualificando il ragionamento presuntivo quale unica presunzione, comprensiva di più passaggi logici.
Si ribadisce, tuttavia, che ogni volta che il giudice di legittimità ha qualificato i ragionamenti effettuati dagli uffici quali presunzioni di secondo grado, ha concluso non ammettendoli.
L’ambito del divieto di doppia presunzione
La documentazione aziendale (fatture e libri contabili) è strumento idoneo a dimostrare l’esistenza delle operazioni riportate, ed incombe sull’Amministrazione che intenda disconoscere tale documentazione (nel caso di specie asserendo che determinate operazioni documentate con fatture erano in realtà inesistenti) l’onere di provarne, anche attraverso presunzioni, l’inattendibilità.
Il divieto di doppia presunzione (praesumptio de praesumpto) vieta la correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice, ma non con altra presunzione legale.
(Cassazione, sentenza n. 1023/08)
Quando si parla di doppia presunzione
L’Ufficio finanziario è autorizzato da precise disposizioni di legge (art. 32, n. 7 del DPR n. 660/1973; art. 51 del DPR n. 633/1972) a procedere all’accertamento fiscale anche acquisendo dati, notizie e documenti relativi a conti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si possano ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente; ai fini della prova di tale connessione decisivo rilievo indiziario può assumere la mancata risposta della società contribuente ai chiarimenti richiesti dall’Ufficio circa i dati bancari (nel caso di specie, i conti erano tutti intestati a persone fisiche riconducibili alla società in ragione degli strettissimi rapporti con essa intercorrenti: soci, amministratori, figli dei soci ecc.).
Il divieto di doppia presunzione (praesumptio de praesumpto) vieta la correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice, ma non con altra presunzione legale (nel caso de quo, attraverso presunzioni semplici i conti correnti intestati a terzi erano stati ritenuti riconducibili al contribuente e, con presunzione legale, i movimenti del conto erano stati attribuiti a operazioni economiche del contribuente)
(Cassazione, sentenza n. 27032/07)

Non c'è azione diretta del condominio verso i non proprietari (ad esempio conduttore e comodatario) per il pagamento

Recupero degli oneri condominiali: legittimato passivo è solo il proprietario
Cassazione civile , sez. II, sentenza 24.06.2008 n° 17201 (Giuseppe Mommo)

La sentenza 24 giugno 2008, n. 17201, s’inserisce in un cospicuo filone giurisprudenziale uniformatosi alla pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Unite, sentenza 8 aprile 2002, n. 5035) secondo cui deve escludersi l'applicazione del principio della “apparenza del diritto” nei rapporti tra condominio e condomino.
Ha stabilito che in caso d’azione giudiziale dell'amministratore condominiale per il recupero della quota di spese relative ad un’unità immobiliare di proprietà esclusiva, legittimato passivamente è il vero proprietario e non anche il conduttore o il comodatario (es. la figlia che si comporti da proprietaria).
La giurisprudenza di legittimità successiva alla decisione delle Sezioni Unite, uniformandosi alle conclusioni indicate, ha sempre confermato che il principio dell'apparenza del diritto non è applicabile nel rapporto tra il condominio e il singolo condomino perché è strumentale alla tutela dell'affidamento del terzo in buona fede e nel predetto rapporto non sussiste una relazione di terzietà tra condominio e condomino, in quanto l'ente di gestione non è terzo (Cass. civ. Sez. II, 30-08-2002, n. 12709; Cass. civ. Sez. II, 25-11-2003, n. 17897; Cass. civ. Sez. II, 27-01-2004, n. 1435; Cass. civ. Sez. II, 27-12-2004, n. 23994; Cass. civ. Sez. II, 25 gennaio 2007, n. 1627; Cass. civ. Sez. II Sent., 03-08-2007, n. 17039).
La conclusione continuamente tratta è che ad essere passivamente legittimato, rispetto all'azione giudiziaria promossa dall'amministratore, per il recupero degli oneri condominiali, è l’effettivo proprietario della porzione immobiliare e non anche chi può apparire come tale.
Nel caso di specie, erano stati convenuti, dinanzi al Giudice di pace, il proprietario di una mansarda e sua figlia (comodataria) che l’abitava, per chiedere la condanna al pagamento del contributo delle spese condominiali per la pulizia e l’illuminazione delle scale.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva condannato al pagamento l’effettiva utilizzatrice dell’immobile e non il proprietario dello stesso.
Ha motivato nel senso che “tutti i rapporti interni, reali o obbligatori, che attengono alle cose comuni ed alla loro amministrazione, trovando titolo nei singoli diritti di proprietà individuale e collettiva, intercorrono tra i soli condomini e non possono coinvolgere terzi”.
E’ stato spiegato che ciò vale, in particolare, per i crediti derivanti dalle spese fatte per la gestione dei beni di proprietà comune, che, dal lato passivo, sono a carico esclusivamente dei singoli condomini, come del resto espressamente dispone l’art. 1123 del Codice civile.
Il condominio e, per esso, i singoli condomini possono pertanto far valere i loro crediti, relativamente al pagamento degli oneri condominiali, “esclusivamente nei confronti di un altro condomino, non già nei confronti del conduttore o comunque di chi occupa l’appartamento senza esserne il proprietario, non avendo nei suoi confronti azione diretta”.
Per questi motivi è stata cassata la sentenza impugnata limitatamente alla pronuncia nei confronti della ricorrente (utilizzatrice) e, decidendo nel merito, è stata respinta la domanda avanzata nei confronti della stessa.
(Altalex, 12 marzo 2009. Nota di Giuseppe Mommo)
______________
Alla questione riguardante il cosiddetto “condomino apparente”, Giuseppe Mommo ha dedicato ampio spazio nel libro “Le problematiche condominiali alla luce della recente giurisprudenza” (Altalex eBook, 2008).
LA MASSIMA
Sentenza 21 maggio - 24 giugno 2008, n. 17201
Condominio, oneri condominiali, pagamento, azione diretta, conduttore
Cassazione civile , sez. II, sentenza 24.06.2008 n° 17201

Condominio - oneri condominiali - pagamento - azione diretta - conduttore - insussistenza [art. 1123 c.c.]
Il condominio e, per esso, i singoli condomini possono far valere le loro ragioni creditorie relative al pagamento degli oneri condominiali esclusivamente nei confronti di altro condomino e non nei confronti del conduttore o comunque di chi occupa l’appartamento senza esserne il proprietario, non avendo nei suoi confronti azione diretta. (1) (2)
(1) Sulla natura delle obbligazioni dei condomini si veda: SS.UU. 9148/2008.(2) Sul condominio si veda il Focus: Il condominio: i recenti orientamenti giurisprudenziali.
(Fonte: Altalex Massimario 43/2008. Cfr. nota di Giuseppe Mommo)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 21 maggio - 24 giugno 2008, n. 17201
Presidente Rovelli - Relatore Bertuzzi

Svolgimento del processo
D. F., D. F. e A. D., condomini di uno stabile convennero dinanzi al locale giudice di pace P. A. e P. M., chiedendone la condanna al pagamento della somma di Euro 827,24 a titolo di contributo delle spese condominiali per la pulizia e la illuminazione delle scale in relazione ad una mansarda facente capo all’appartamento di proprietà di P. A. e trasformato in unità abitativa ed abitato dalla di lui figlia M..
Costituitisi in giudizio, i convenuti contestarono la domanda, sostenendo che il loro utilizzo della mansarda non era diverso da quello delle altre mansarde collegate gli altri appartamenti, con l’effetto che i rispettivi oneri condominiali, al pari di quelli gravanti sulle altre mansarde, dovevano considerarsi soddisfatti mediante il pagamento dei contributi sull’appartamento.
Esaurita l’istruttoria, con sentenza del 20.1.2004, il giudice di pace accolse la domanda nei confronti della sola P. M., quale effettiva utilizzatrice della mansarda, condannandola al pagamento della somma di Euro 712,45, così ridotta dagli attori in corso di causa, oltre che delle spese di giudizio. A fondamento di tale decisione, il giudicante osservò che l’art. 1123 c.c. nel disporre che le spese per la cosa comune sono ripartite tra i condomini in proporzione al valore delle loro quote, fa salvo il caso di diverso uso del bene e che l’estensione degli oneri condominiali a carico della convenuta trovava giustificazione nel fatto che ella aveva modificato la destinazione del locale sottotetto, trasformandolo in un ulteriore appartamento, con conseguente maggior uso e godimento delle parti comuni dell’edificio.
Per la cassazione di tale decisione, con atto notificato il 28.2.2004, ricorre, sulla base di due motivi, P. M..
Gli intimati D. F., D. F. e A. D. non si sono costituiti.

Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1123 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere condannato la convenuta al pagamento delle spese condominiali senza che le stesse fossero documentate e senza che la relativa richiesta facesse riferimento a una tabella millesimale, in realtà inesistente.
Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione della legge. n. 492 del 1978, lamentando che il giudice di pace abbia accolto la domanda nei confronti della attuale ricorrente, nonostante la stessa fosse solo conduttrice e non già proprietaria dell’appartamento.
Preliminarmente va dato atto che la sentenza gravata, essendo stata emessa dal giudice di pace in una causa del valore inferiore a Euro 1.100,00, è stata pronunciata “secondo equità” (Cass. N. 26258 del 2006), con l’effetto che essa, pur essendo, ratione temporis, direttamente ricorribile per cassazione, per non essere, nel caso di specie, applicabile la novella dell’art. 339 c.p.c. introdotta dal d.l. n. 40 del 2006, tuttavia è impugnabile delle norme di diritto comunitario sopranazionale, dei principi informatori della materia (quale limitazione al potere discrezionale del giudice di determinare la regola equitativa da applicare nel caso concreto), restando per contro escluse le altre violazioni di legge (Cass. n. 6382 del 2007; Cass. n. 284 del 2007; Cass. n. 12147 del 2006).
Tanto precisato, va esaminato per primo il secondo motivo di ricorso, che ha carattere preliminare dal momento che investe la questione della titolarità passiva del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio.
Il motivo, nei termini che si preciseranno, è fondato.
Il condominio, infatti, è un ente di gestione diretto all’amministrazione delle parti comuni dell’edificio, cui partecipano i proprietari dei diversi piani o quote dello stabile (art. 1117 c.c.). Ne consegue che tutti i rapporti interni, reali o obbligatori, che attengono alle cose comuni ed alla loro amministrazione, trovando titolo nei singoli diritti di proprietà individuale e collettiva, intercorrono tra i soli condomini e non possono coinvolgere terzi. Ciò vale, in particolare, per i crediti derivanti dalle spese fatte per la gestione dei beni di proprietà comune, che, dal lato passivo, sono a carico esclusivamente dei singoli condomini, come del resto espressamente dispone l’art. 1123 c.c.. Il condominio e, per esso, i singoli condomini possono pertanto far valere le loro ragioni creditorie relativamente al pagamento degli oneri condominiali esclusivamente nei confronti di altro condomino, non già nei confronti del conduttore o comunque di chi occupa l’appartamento senza esserne il proprietario, non avendo nei suoi confronti azione diretta (Cass. S.U. n. 5035 del 2002; Cass. n. 17039 del 2007; Cass. n. 1627 del 2007).
Poiché tale regola costituisce un tratto essenziale della disciplina del condominio, discendendo dalla stessa struttura e configurazione giuridica dell’istituto, ad essa può essere agevolmente riconosciuta natura di principio informatore della relativa materia.
Il secondo motivo di ricorso va pertanto accolto, essendo pacifico dalla ricostruzione del fatto operata dal giudice di pace che la attuale ricorrente occupava la mansarda di cui è causa senza rivestire la qualità di condomina. Il primo motivo di ricorso è invece dichiarato assorbito.
La sentenza va quindi cassata limitatamente alla pronuncia nei confronti della attuale ricorrente P. M. e, sussistendone le condizioni, la causa è decisa nel merito mediante il rigetto della domanda avanzata nei confronti della predetta parte, per difetto in capo alla stessa della titolarità passiva del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio.
La natura della questione controversa e le ragioni della decisione consigliano la compensazione delle spese dell'intero giudizio tra la ricorrente e gli attuali intimati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara assorbito il primo; cassa la sentenza impugnata limitatamente alla pronuncia nei confronti della ricorrente P. M. e, decidendo nel merito, respinge la domanda avanzata nei confronti della predetta parte; compensa tra l'attuale ricorrente e gli intimati le spese dell'intero giudizio.

Non c'è azione diretta del condominio verso i non proprietari (ad esempio conduttore e comodatario) per il pagamento

Recupero degli oneri condominiali: legittimato passivo è solo il proprietario
Cassazione civile , sez. II, sentenza 24.06.2008 n° 17201 (Giuseppe Mommo)

La sentenza 24 giugno 2008, n. 17201, s’inserisce in un cospicuo filone giurisprudenziale uniformatosi alla pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Unite, sentenza 8 aprile 2002, n. 5035) secondo cui deve escludersi l'applicazione del principio della “apparenza del diritto” nei rapporti tra condominio e condomino.
Ha stabilito che in caso d’azione giudiziale dell'amministratore condominiale per il recupero della quota di spese relative ad un’unità immobiliare di proprietà esclusiva, legittimato passivamente è il vero proprietario e non anche il conduttore o il comodatario (es. la figlia che si comporti da proprietaria).
La giurisprudenza di legittimità successiva alla decisione delle Sezioni Unite, uniformandosi alle conclusioni indicate, ha sempre confermato che il principio dell'apparenza del diritto non è applicabile nel rapporto tra il condominio e il singolo condomino perché è strumentale alla tutela dell'affidamento del terzo in buona fede e nel predetto rapporto non sussiste una relazione di terzietà tra condominio e condomino, in quanto l'ente di gestione non è terzo (Cass. civ. Sez. II, 30-08-2002, n. 12709; Cass. civ. Sez. II, 25-11-2003, n. 17897; Cass. civ. Sez. II, 27-01-2004, n. 1435; Cass. civ. Sez. II, 27-12-2004, n. 23994; Cass. civ. Sez. II, 25 gennaio 2007, n. 1627; Cass. civ. Sez. II Sent., 03-08-2007, n. 17039).
La conclusione continuamente tratta è che ad essere passivamente legittimato, rispetto all'azione giudiziaria promossa dall'amministratore, per il recupero degli oneri condominiali, è l’effettivo proprietario della porzione immobiliare e non anche chi può apparire come tale.
Nel caso di specie, erano stati convenuti, dinanzi al Giudice di pace, il proprietario di una mansarda e sua figlia (comodataria) che l’abitava, per chiedere la condanna al pagamento del contributo delle spese condominiali per la pulizia e l’illuminazione delle scale.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva condannato al pagamento l’effettiva utilizzatrice dell’immobile e non il proprietario dello stesso.
Ha motivato nel senso che “tutti i rapporti interni, reali o obbligatori, che attengono alle cose comuni ed alla loro amministrazione, trovando titolo nei singoli diritti di proprietà individuale e collettiva, intercorrono tra i soli condomini e non possono coinvolgere terzi”.
E’ stato spiegato che ciò vale, in particolare, per i crediti derivanti dalle spese fatte per la gestione dei beni di proprietà comune, che, dal lato passivo, sono a carico esclusivamente dei singoli condomini, come del resto espressamente dispone l’art. 1123 del Codice civile.
Il condominio e, per esso, i singoli condomini possono pertanto far valere i loro crediti, relativamente al pagamento degli oneri condominiali, “esclusivamente nei confronti di un altro condomino, non già nei confronti del conduttore o comunque di chi occupa l’appartamento senza esserne il proprietario, non avendo nei suoi confronti azione diretta”.
Per questi motivi è stata cassata la sentenza impugnata limitatamente alla pronuncia nei confronti della ricorrente (utilizzatrice) e, decidendo nel merito, è stata respinta la domanda avanzata nei confronti della stessa.
(Altalex, 12 marzo 2009. Nota di Giuseppe Mommo)
______________
Alla questione riguardante il cosiddetto “condomino apparente”, Giuseppe Mommo ha dedicato ampio spazio nel libro “Le problematiche condominiali alla luce della recente giurisprudenza” (Altalex eBook, 2008).
LA MASSIMA
Sentenza 21 maggio - 24 giugno 2008, n. 17201
Condominio, oneri condominiali, pagamento, azione diretta, conduttore
Cassazione civile , sez. II, sentenza 24.06.2008 n° 17201

Condominio - oneri condominiali - pagamento - azione diretta - conduttore - insussistenza [art. 1123 c.c.]
Il condominio e, per esso, i singoli condomini possono far valere le loro ragioni creditorie relative al pagamento degli oneri condominiali esclusivamente nei confronti di altro condomino e non nei confronti del conduttore o comunque di chi occupa l’appartamento senza esserne il proprietario, non avendo nei suoi confronti azione diretta. (1) (2)
(1) Sulla natura delle obbligazioni dei condomini si veda: SS.UU. 9148/2008.(2) Sul condominio si veda il Focus: Il condominio: i recenti orientamenti giurisprudenziali.
(Fonte: Altalex Massimario 43/2008. Cfr. nota di Giuseppe Mommo)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 21 maggio - 24 giugno 2008, n. 17201
Presidente Rovelli - Relatore Bertuzzi

Svolgimento del processo
D. F., D. F. e A. D., condomini di uno stabile convennero dinanzi al locale giudice di pace P. A. e P. M., chiedendone la condanna al pagamento della somma di Euro 827,24 a titolo di contributo delle spese condominiali per la pulizia e la illuminazione delle scale in relazione ad una mansarda facente capo all’appartamento di proprietà di P. A. e trasformato in unità abitativa ed abitato dalla di lui figlia M..
Costituitisi in giudizio, i convenuti contestarono la domanda, sostenendo che il loro utilizzo della mansarda non era diverso da quello delle altre mansarde collegate gli altri appartamenti, con l’effetto che i rispettivi oneri condominiali, al pari di quelli gravanti sulle altre mansarde, dovevano considerarsi soddisfatti mediante il pagamento dei contributi sull’appartamento.
Esaurita l’istruttoria, con sentenza del 20.1.2004, il giudice di pace accolse la domanda nei confronti della sola P. M., quale effettiva utilizzatrice della mansarda, condannandola al pagamento della somma di Euro 712,45, così ridotta dagli attori in corso di causa, oltre che delle spese di giudizio. A fondamento di tale decisione, il giudicante osservò che l’art. 1123 c.c. nel disporre che le spese per la cosa comune sono ripartite tra i condomini in proporzione al valore delle loro quote, fa salvo il caso di diverso uso del bene e che l’estensione degli oneri condominiali a carico della convenuta trovava giustificazione nel fatto che ella aveva modificato la destinazione del locale sottotetto, trasformandolo in un ulteriore appartamento, con conseguente maggior uso e godimento delle parti comuni dell’edificio.
Per la cassazione di tale decisione, con atto notificato il 28.2.2004, ricorre, sulla base di due motivi, P. M..
Gli intimati D. F., D. F. e A. D. non si sono costituiti.

Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1123 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere condannato la convenuta al pagamento delle spese condominiali senza che le stesse fossero documentate e senza che la relativa richiesta facesse riferimento a una tabella millesimale, in realtà inesistente.
Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione della legge. n. 492 del 1978, lamentando che il giudice di pace abbia accolto la domanda nei confronti della attuale ricorrente, nonostante la stessa fosse solo conduttrice e non già proprietaria dell’appartamento.
Preliminarmente va dato atto che la sentenza gravata, essendo stata emessa dal giudice di pace in una causa del valore inferiore a Euro 1.100,00, è stata pronunciata “secondo equità” (Cass. N. 26258 del 2006), con l’effetto che essa, pur essendo, ratione temporis, direttamente ricorribile per cassazione, per non essere, nel caso di specie, applicabile la novella dell’art. 339 c.p.c. introdotta dal d.l. n. 40 del 2006, tuttavia è impugnabile delle norme di diritto comunitario sopranazionale, dei principi informatori della materia (quale limitazione al potere discrezionale del giudice di determinare la regola equitativa da applicare nel caso concreto), restando per contro escluse le altre violazioni di legge (Cass. n. 6382 del 2007; Cass. n. 284 del 2007; Cass. n. 12147 del 2006).
Tanto precisato, va esaminato per primo il secondo motivo di ricorso, che ha carattere preliminare dal momento che investe la questione della titolarità passiva del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio.
Il motivo, nei termini che si preciseranno, è fondato.
Il condominio, infatti, è un ente di gestione diretto all’amministrazione delle parti comuni dell’edificio, cui partecipano i proprietari dei diversi piani o quote dello stabile (art. 1117 c.c.). Ne consegue che tutti i rapporti interni, reali o obbligatori, che attengono alle cose comuni ed alla loro amministrazione, trovando titolo nei singoli diritti di proprietà individuale e collettiva, intercorrono tra i soli condomini e non possono coinvolgere terzi. Ciò vale, in particolare, per i crediti derivanti dalle spese fatte per la gestione dei beni di proprietà comune, che, dal lato passivo, sono a carico esclusivamente dei singoli condomini, come del resto espressamente dispone l’art. 1123 c.c.. Il condominio e, per esso, i singoli condomini possono pertanto far valere le loro ragioni creditorie relativamente al pagamento degli oneri condominiali esclusivamente nei confronti di altro condomino, non già nei confronti del conduttore o comunque di chi occupa l’appartamento senza esserne il proprietario, non avendo nei suoi confronti azione diretta (Cass. S.U. n. 5035 del 2002; Cass. n. 17039 del 2007; Cass. n. 1627 del 2007).
Poiché tale regola costituisce un tratto essenziale della disciplina del condominio, discendendo dalla stessa struttura e configurazione giuridica dell’istituto, ad essa può essere agevolmente riconosciuta natura di principio informatore della relativa materia.
Il secondo motivo di ricorso va pertanto accolto, essendo pacifico dalla ricostruzione del fatto operata dal giudice di pace che la attuale ricorrente occupava la mansarda di cui è causa senza rivestire la qualità di condomina. Il primo motivo di ricorso è invece dichiarato assorbito.
La sentenza va quindi cassata limitatamente alla pronuncia nei confronti della attuale ricorrente P. M. e, sussistendone le condizioni, la causa è decisa nel merito mediante il rigetto della domanda avanzata nei confronti della predetta parte, per difetto in capo alla stessa della titolarità passiva del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio.
La natura della questione controversa e le ragioni della decisione consigliano la compensazione delle spese dell'intero giudizio tra la ricorrente e gli attuali intimati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara assorbito il primo; cassa la sentenza impugnata limitatamente alla pronuncia nei confronti della ricorrente P. M. e, decidendo nel merito, respinge la domanda avanzata nei confronti della predetta parte; compensa tra l'attuale ricorrente e gli intimati le spese dell'intero giudizio.

venerdì 13 marzo 2009

Termini di impugnazione della dellibera di revoca del contributo finanziario


Termini di impugnazione della delibera di revoca del contributo finanziario
(Cons. Stato, n. 38/2009)
R. Corapi

I termini per impugnare la delibera interministeriale con la quale vengano revocati i contributi finanziari in precedenza concessi al beneficiario decorrono dal momento in cui quest'ultimo ne abbia avuto effettiva conoscenza e non dalla pubblicazione della stessa sulla Gazzetta Ufficiale. Lo ha chiarito la sesta sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 38 del 12 gennaio 2009.La questione in esame riguardava il ricorso proposto dinanzi al Tar del Lazio da una società al fine di ottenere l'annullamento di una delibera del CIPI (Comitato Interministeriale per il Coordinamento della Politica Industriale), con la quale le era stato in parte revocato un contributo finanziario concessole ai sensi dell'art. 3 della legge 193 del 1984. A fondamento della propria domanda la ricorrente deduceva diverse violazioni di legge ed eccesso di potere, in particolare la mancata comunicazione dell'avvio del procedimento di revoca del contributo e il travisamento dei fatti nella motivazione del provvedimento. Per resistere al ricorso si costituivano in giudizio il Ministero delle Attività Produttive, il CIPI e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i quali eccepivano la tardività del ricorso ritenendo il provvedimento impugnato oltre i termini consentiti dalla legge.Il Tar decideva di accogliere il ricorso e le amministrazioni costituitesi in giudizio decidevano quindi di appellare la sentenza di primo grado, riproponendo l'eccezione di tardività del ricorso e lamentando l'erroneità nel merito della sentenza. L'eccezione di irricevibilità proposta dalle appellanti si fondava sull'assunto che il termine di impugnazione della delibera del CIPI dovesse decorrere dall'avviso comparso nella G.U. n. 62 del 16 marzo 1994, recante l'indicazione della delibera del CIPI di revoca del contributo e del suo contenuto, ovvero, al più tardi, dalla data in cui ne era stato dato atto nella controversia civile insorta tra le parti. Il testo dell'avviso, infatti, era stato trascritto sia nella comparsa conclusionale depositata per l'udienza collegiale del 13 febbraio 1995 nel corso giudizio di primo grado, tenutosi dinanzi al Tribunale di Roma e relativo all'opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla società appellata per il pagamento del contributo finanziario, sia nell'atto di appello notificato alla società il 7 maggio 1996. Al contrario di quanto sostenuto dalle amministrazioni appellanti, i giudici di primo grado avevano invece ritenuto che il termine d'impugnazione del provvedimento decorresse dal 24 ottobre 1996, giorno in cui la delibera era stata depositata in copia integrale all'udienza relativa alla causa pendente tra le parti dinanzi alla Corte di Appello di Roma e che quindi l'eccezione di tardività del ricorso fosse infondata.I giudici della sesta sezione del Consiglio di stato, dopo aver esaminato la questione, hanno deciso di accogliere l'appello e, per l'effetto, dichiarato il ricorso di primo grado irricevibile e annullato la sentenza appellata. Il Collegio ha motivato la propria decisione ritenendo non corretta la tesi sostenuta dal Giudice di primo grado e spiegando che, sebbene si possa condividere l'opinione secondo cui la pubblicità contenuta nella Gazzetta Ufficiale non fosse idonea ad assolvere il requisito della conoscenza legale del provvedimento, in quanto effetto non previsto da una norma di legge, fosse al contrario piuttosto evidente come in capo all'appellata dovesse ritenersi perfezionato il requisito della conoscenza del provvedimento impugnato, pur in difetto di comunicazione formale. Il Collegio ha quindi spiegato che le ripetute indicazioni contenute negli atti giudiziari sopra indicati, unitamente al notevole lasso di tempo trascorso dall'adozione del provvedimento e della sua pubblicazione in G.U, nonché tenuto conto della qualità professionale dell'appellata, dovessero ritenersi integrare quelle presunzioni gravi, precise e concordanti che, ai sensi dell'art. 2729 c.c., consentono di provare il fatto ignoto attraverso fatti noti, con la conseguenza che il ricorso di primo grado in discussione era da considerarsi senz'altro tardivo.

Dott.ssa Rossella Corapi
rcorapi@studiolegaledirago.it

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...