lunedì 2 marzo 2009

La rivalutazione dei beni d'impresa: è stata "riproposta" con la manovra 2008/2009

Manovra economica 2008/2009: rivalutazione dei beni immobili d’impresa
Articolo di Giuseppe Zambon 25.02.2009
in http://www.altalex.com/

Con i commi da 16 a 23 dell’art. 15 del D.L. 185/2008 (c.d. decreto “anticrisi”) è riproposta la rivalutazione dei beni d’impresa, ma solo per i beni immobili (fabbricati e terreni sia strumentali sia non strumentali) con l’esclusione di quelli classificati quali beni merce (alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa) e delle aree edificabili. Il legislatore nell’ultimo comma dedicato alla rivalutazione richiama, in quanto applicabili, gli articoli 11, 13 e 15 dell’ultima disposizione di rivalutazione, il collegato alla Finanziaria 2000 - Legge n. 342 del 21 novembre 2000 (i cui termini erano già stati riaperti dalle leggi Finanziarie 2002 e 2006, con modifiche, e 2004 senza modifiche), e le disposizioni attuative dei decreti ministeriali 162/2001 e 86/2002. A queste disposizioni, quindi, mi rifarò nel commento.
In linea generale la rivalutazione dei beni non è ammessa dal Codice civile.
L’art. 2426 stabilisce, infatti, che le immobilizzazioni devono essere iscritte in bilancio al costo d’acquisto o di produzione; deroghe a tale criterio sono consentite solo in casi eccezionali e in particolar modo quando previste da specifiche disposizioni di legge, come nel nostro caso.
La finalità che si intende perseguire con le disposizioni sulla rivalutazione è quella di permettere, ai soggetti ammessi dalla norma, in deroga appunto all’art. 2426 del Codice civile, l’adeguamento ai valori effettivi della rappresentazione contabile dei beni immobili, permettendo altresì il riconoscimento fiscale di detti maggiori valori mediante il sostenimento di un costo fiscale ridotto rispetto alla tassazione che sarebbe normalmente applicabile. E' quindi ammessa anche una rivalutazione effettuata ai soli fini civilistici senza esborso di imposte sostitutive per il riconoscimento fiscale.
Vediamo più nel dettaglio come funziona questa nuova rivalutazione:
SOGGETTIAMMESSI: come previsto dal comma 16, dell’art. 15 del cosiddetto decreto “anticrisi”, alle disposizioni sulla rivalutazione sono ammesse, se residenti nel territorio dello Stato, le S.p.a., le S.a.p.a., le S.r.l., le società cooperative, le società di mutua assicurazione e gli enti pubblici e privati diversi dalle società che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali [soggetti di cui all’art. 73, c. 1, lett. a) e b) del T.U.I.R.]; sono inoltre ammesse per espressa previsione legislativa, sempre se residenti, le S.n.c., le S.a.s. e le società ad esse equiparate (sono escluse soltanto le società semplici, così come precisato dalla C.M. 5/E del 26.01.2001).
La rivalutazione può essere eseguita solo se NON sono stati adottati i principi contabili internazionali (IAS), in quanto, in questo caso, i valori contabili sono già stati adeguati al valore normale (fair value), generando un disallineamento civilistico/fiscale per il quale è già prevista una norma di affrancamento.
Fin qui l’elenco dei soggetti che parrebbe esaustivo, operato dal legislatore nel primo degli otto commi che, nell’art. 15 del Decreto Legge 185/2008, si occupano di disciplinare la rivalutazione facoltativa dei beni immobili.
Utilizzando la tecnica legislativa del rinvio, però, nel comma 23 è richiamato, tra gli altri, in quanto applicabile, l’art. 15 della Legge n. 342/2000; all’epoca l’art. 10 di detta legge individuava i soggetti destinatari della rivalutazione nelle sole società di capitali ed enti commerciali residenti e con l’art. 15, intitolato “Ulteriori soggetti ammessi alle rivalutazioni”, venivano attratti al beneficio le ditte individuali, le società personali, gli enti non commerciali e i soggetti non residenti che esercitano attività commerciali in Italia senza stabile organizzazione, indipendentemente dal regime contabile applicato (ordinario o semplificato). La stessa Circolare 207/2000 commentando il c.d. collegato alla Finanziaria 2000, spiegava che destinatari erano i soggetti titolari di reddito d’impresa senza alcuna distinzione della forma giuridica con la quale l’attività veniva esercitata. Giacché nulla è detto al proposito nella relazione illustrativa al D.L. 185/2008, chiedevamo una netta presa di posizione da parte dell’Agenzia per ammettere o escludere dalla disposizione di rivalutazione i soggetti elencati nell’art. 15 della Legge 342/2000 e non inclusi nel comma 16 dell’art. 15 del c.d. decreto “anticrisi”, giacché la norma, in virtù del richiamo legislativo, sembra diretta anche a costoro.
Un ulteriore elemento a conferma della possibilità di rivalutare gli immobili per le ditte individuali è contenuto nel comma 21 dell’art. 15 del D.L. 185/2008, laddove è contemplata la possibilità di destinazione al consumo personale o familiare dell’imprenditore degli immobili rivalutati.
L'Agenzia delle Entrate è intervenuta nel corso della videoconferenza di Italia Oggi del 17/01/2009 confermando quanto già affermato nella circolare 207/2000 stante il rinvio effettuato dall'art. 23 del decreto in esame all'art. 15 della L. 342/2000 ammettendo, quindi, alla rivalutazione anche le imprese individuali, gli enti non commerciali e i soggetti non residenti che esercitano attività commerciali in Italia senza stabile organizzazione; ininfluente è poi i regime contabile applicato (ordinario o semplificato).In caso di diritto di superficie la facoltà di rivalutazione spetta, qualora il bene sia comunque relativo all’impresa, al titolare di tale diritto reale (Circolare Agenzia Entrate n. 6/E del 13.02.2006 - risposta 6.7). Il D.M. 162/2001 ammette alla rivalutazione anche le imprese in liquidazione volontaria1 (salvo il recupero a tassazione ordinaria nel caso di distribuzione del saldo di rivalutazione) e, in luogo dei concedenti, gli affittuari e usufruttuari che, in base alle scelte negoziali adottate, deducono gli ammortamenti nell’ambito dei contratti di affitto o usufrutto d’azienda.2
Sono senz’altro esclusi, invece, dall’ambito soggettivo di applicazione della rivalutazione le persone fisiche esercenti lavoro autonomo, arti e professioni, anche in forma associata, le persone fisiche esercenti attività agricola che produce reddito fondiario e non d’impresa e gli enti non commerciali per i beni relativi all’attività istituzionale; sono escluse, inoltre, le imprese sottoposte a procedure concorsuali (Circolare Assonime n. 13/2001).
BENI RIVALUTABILI: la possibilità di rivalutazione è prevista per tutti gli immobili patrimonializzati tra le immobilizzazioni (sono quindi esclusi quelli considerati beni merce e patrimonializzati nelle rimanenze d‘esercizio), strumentali e non strumentali con la sola esclusione delle aree fabbricabili, risultanti dal bilancio in corso al 31.12.2007 ovvero acquisiti entro tale data in caso di contabilità semplificata. Sono, pertanto, rivalutabili:
Fabbricati strumentali per destinazione: qualunque categoria catastale, purché utilizzati direttamente dall‘impresa;
Fabbricati strumentali per natura: solo categorie catastali A/10 - C - D - E, se non direttamente dall’impresa;
Fabbricati non strumentali: solo categorie catastali da A1 ad A11 escluso A10, se non utilizzati direttamente dall’impresa;
Terreni agricoli o comunque NON a destinazione edificatoria: allo scopo si ricorda la recente interpretazione restrittiva che il legislatore ha fornito per il concetto di area edificabile. Infatti il decreto legge 223/2006 (art. 36, c. 2) ha stabilito che, ai fini dell’Iva, dell’imposta di registro, delle imposte sui redditi e dell’Ici, «un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo». In altri termini, per qualificare un’area come edificabile è sufficiente che:
l’utilizzabilità edificatoria dell’area risulti dal Piano regolatore generale del Comune o da un altro strumento urbanistico equipollente;
lo strumento urbanistico sia solamente «adottato» dal Comune.
Pertanto, per considerare, sotto il profilo fiscale, un’area come edificabile, non occorre che:
l’area sia immediatamente edificabile: non occorre cioè che la potenzialità edificatoria sia attuale ma è sufficiente che si tratti di un’edificabilità potenziale;
l’area sia inserita anche in un piano attuativo;
il piano regolatore sia approvato oltre che adottato: l’approvazione è il momento finale dell’iter che conduce all’entrata in vigore di uno strumento urbanistico, mentre l’adozione è uno stadio intermedio che evidenzia la volontà comunale, ma che non ha il crisma della definitività.
TEMPISTICA, MODALITA‘ E REGOLE: la rivalutazione deve essere eseguita nel bilancio (rendiconto per gli enti) dell’esercizio successivo a quello in corso al 31.12.2007, il cui termine di approvazione (ovviamente sempre che la stessa sia dovuta) scade dopo il 29 novembre 2008 (quindi nel bilancio relativo al 2008 per i soggetti con esercizio coincidente con l’anno solare).
E’ previsto l’obbligo di rivalutare tutti i beni immobili appartenenti alla medesima categoria omogenea; le categorie individuate dal legislatore sono due:
BENI IMMOBILI AMMORTIZZABILI: tipicamente i fabbricati strumentali per natura e per destinazione;
BENI IMMOBILI NON AMMORTIZZABILI: tipicamente i fabbricati non strumentali e i terreni, con l’esclusione per questi ultimi di quelli che, purché non edificabili, appartengono ad imprese che operano in particolari settori di attività quali le industrie dei trasporti e delle telecomunicazioni (Gruppo 19 del D.M. 31,12,1998 specie I, II, III, IV, V, XII) e quelli che, in quanto strumentali per l’esercizio dell’impresa e purché non edificabili, sono sottratti alla loro naturale destinazione e partecipano al processo produttivo (in questa casistica rientrano i terreni permanentemente adibiti da imprese edili a deposito di materiale).
Nel caso in cui alcune unità immobiliari, pur incluse in una delle due precedenti categorie omogenee, sia illegittimamente esclusa dalla rivalutazione, la conseguenza sarà il disconoscimento degli effetti fiscali della rivalutazione per tutti gli altri immobili appartenenti alla medesima categoria omogenea e il recupero a tassazione dei maggiori ammortamenti effettuati o delle minori plusvalenze o maggiori minusvalenze dichiarate applicando le sanzioni previste per l’infedele dichiarazione (Circolare n. 57/E del 18/06/2001).
Come già scritto anche nel paragrafo precedente, i beni immobili rivalutabili devono risultare dal bilancio in corso al 31.12.2007.
La formulazione legislativa è decisamente infelice (e non risulta modificata in sede di conversione) perché, anche se dal prosieguo del testo si comprende comunque l’intenzione del legislatore, non esiste un bilancio “in corso”, ma eventualmente un esercizio in corso: l’art. 10 della Legge 342/2000, infatti, più correttamente recitava: “risultanti dal bilancio relativo all’esercizio chiuso entro il 31 dicembre 1999”; nella norma attuale, quindi, il testo corretto sarebbe: “risultanti dal bilancio dell’esercizio in corso al 31.12.2007”.
L’art. 2, c. 1, del D.M. 162/2001 prevedeva che la destinazione dei beni risultanti nel bilancio relativo all’esercizio di riferimento (2007) dovevano risultare anche dal bilancio o rendiconto, in relazione al quale la rivalutazione era effettuata (2008); stabiliva, inoltre, che si possono rivalutare i beni posseduti alla fine dell’esercizio con riferimento al quale viene eseguita la rivalutazione (2008), acquisiti fino al termine dell’esercizio in corso alla data del periodo di riferimento (2007).
Il comma 3 del medesimo articolo 2 considerava avvenuta l’acquisizione dei beni alla data del trasferimento del diritto di proprietà o altro diritto reale o della consegna con clausola di riserva di proprietà, escludendo di fatto i cespiti condotti in locazione finanziaria, ancorché contabilizzati con il sistema finanziario (facoltativo per i soggetti non IAS) anziché con quello patrimoniale previsto dai principi contabili (OIC).3
Conferma in questo senso è venuta dall'Agenzia Entrate, nel corso della videoconferenza di Italia Oggi del 17.01.2009, che ha ribadito il concetto per cui i beni oggetto di contratto di leasing possono essere rivalutati esclusivamente dall'utilizzatore e purché purché il diritto di riscatto sia stato esercitato entro l'esercizio in corso alla data del 31.12.2007.
Dovendo procedere alla rivalutazione nell’esercizio successivo a quello nel quale è prevista l’iscrizione a bilancio, si pone il problema se possa essere rivalutato un bene immobile che nel bilancio di riferimento (2007) sia iscritto in modo tale da possedere i requisiti richiesti dalla norma e nell’esercizio successivo (2008) ne sia stata modificata la classificazione, perdendo i requisiti o transitando dal gruppo omogeneo dei beni ammortizzabili a quello dei non ammortizzabili. L’Amministrazione finanziaria ha già avuto modo di esprimere il proprio parere nella Circolare n. 57/E del 18.06.2001, dove ha chiarito che i requisiti di appartenenza alle diverse categorie omogenee di immobili sono quelli esistenti alla data della chiusura del bilancio in cui la rivalutazione è eseguita (2008), ferma restando la loro ininterrotta collocazione tra le immobilizzazioni materiali dell’esercizio di riferimento (2007) e dell’esercizio nel cui bilancio la rivalutazione è effettuata (2008). Non è pertanto possibile rivalutare un immobile classificato tra i beni merce nel 2008 anche se era immobilizzato nel 2007 e viceversa, ovvero un terreno che era agricolo nel 2007 divenuto edificabile nel 2008, mentre dovrebbe essere il bilancio 2008 a decidere la categoria omogenea di appartenenza (ammortizzabili o non ammortizzabili).
Anche per l'attuale rivalutazione l'Agenzia Entrate ha confermato quanto già affermato con la circolare n. 57/E del 2001 sopra citata, nel corso della videoconferenza di Italia Oggi del 17.01.2009
Per individuare il valore economico costituente il limite massimo alla rivalutazione, l’art. 11, c. 2, della Legge n. 342/2000 pone due criteri alternativi:
da un lato, il criterio del cosiddetto valore interno, basato sulla consistenza dei beni, sulla loro capacità produttiva e sulla loro effettiva possibilità di economica utilizzazione nell’impresa;
dall’altro, il criterio del valore di mercato, basato sui valori correnti e sulle quotazioni rilevate in mercati regolamentati italiani o esteri.
La rivalutazione degli immobili facenti parte di ciascuna categoria omogenea deve essere eseguita sulla base di un unico criterio per tutti gli immobili ad essa appartenenti (art. 4, c. 8, D.M. 162/2001).
I valori rivalutati iscritti in bilancio e nell’inventario non possono in nessun caso superare quelli effettivamente attribuibili, individuati con i criteri di cui sopra. In altre parole il limite massimo della rivalutazione è pari al valore di mercato, meno il valore netto contabile, diminuito anche della quota di ammortamento figurativo dell’anno 2008 calcolato sul valore non rivalutato.
L’art. 6 del D.M. 162/2001, richiamato dalla norma attuale, specifica ancora meglio tale concetto denominandolo “Limite economico della rivalutazione” e stabilendo che il valore netto del bene risultante dal bilancio nel quale la rivalutazione è eseguita, incrementato della maggiore quota di ammortamento derivante dal valore rivalutato, non può superare il valore d’uso o di mercato. Ciò significa che il valore netto del bene immobile, ottenuto stanziando la quota di ammortamento calcolata sul costo storico ante rivalutazione, rappresenta il massimo consentito.
ESEMPIO:
Supponiamo l’esistenza di un immobile iscritto in bilancio per il costo storico di euro 100.000 da 10 anni e mai rivalutato, con coefficiente di ammortamento del 3% e fondo ammortamento al 31.12.2007 pari ad euro 30.000 e conseguente valore netto contabile di euro 70.000.
Supponiamo altresì che oggi il suo valore sul mercato immobiliare sia pari ad euro 200.000. Il limite massimo di rivalutazione dovrà essere così calcolato:
LIMITE MASSIMO DI RIVALUTAZIONE: € 200.000,00 (valore di mercato) - € 70.000,00 (valore netto contabile) + € 3.000,00 (quota figurativa di ammortamento del 3% sul costo ante rivalutazione) = € 133.000
Conseguentemente avremo:
VALORE RIVALUTATO DELL’IMMOBILE: € 233.000 (100.000 + 133.000)
F.DO AMM.TO POST RIVALUTAZIONE: € 36.990 (30.000 + 6.990 quota sul valore rivalutato)
VALORE NETTO CONTABILE POST RIVALUTAZIONE: € 196.010 (233.000 - 36.990)
Risulta quindi soddisfatta l’equazione secondo la quale il nuovo valore netto contabile (196.010) già aumentato della quota di ammortamento calcolata sul nuovo valore di bilancio, non supera il valore di mercato (200.000)
Sempre il D.M. 162/2001 all’art. 5 si occupa anche delle tecniche contabili da utilizzare per rilevare l’avvenuta rivalutazione e, nel rispetto dei criteri civilistici, indica tre possibili criteri di contabilizzazione (vedi esempi in appendice):
Rivalutare sia i valori dell’attivo lordo sia i relativi fondi di ammortamento, utilizzando un unico coefficiente di rivalutazione, in modo da mantenere invariata la durata del processo di ammortamento e la misura dei coefficienti applicati. Tale modalità è consigliata dallo IAS 16 e dal principio contabile nazionale OIC 16; (rivalutazione di tipo monetario).
Rivalutare solo i valori dell’attivo lordo senza operare specularmente anche sui relativi fondi, allungando di conseguenza il relativo periodo di ammortamento; (rivalutazione di tipo economico).
Ridurre in tutto o in parte i fondi di ammortamento, modalità da utilizzarsi quando gli ammortamenti contabilizzati negli anni precedenti siano stati eccedenti rispetto a quelli fisiologici, ad esempio perché si è fruito in larga misura degli ammortamenti anticipati.
L’Agenzia delle Entrate nella Circolare 57/E del 18.06.2001, ha avuto modo di affermare che all’interno della medesima categoria omogenea possono essere utilizzate modalità contabili differenti a seconda dei beni rivalutati, tuttavia, sempre all’interno della stessa categoria deve essere utilizzato lo stesso criterio di rivalutazione (es. valore di mercato, valore interno di utilizzo, ecc.), come già evidenziato precedentemente.
Anche i beni immobili completamente ammortizzati possono essere rivalutati, purché risultino ancora iscritti in bilancio, nel rendiconto o nel libro cespiti per i soggetti in contabilità semplificata, sempre nel limite del valore di mercato, dell’effettiva possibilità di utilizzazione e della capacità produttiva (art. 2, c. 2, D.M. 162/2001). La rivalutazione di questi immobili comporta implicitamente la “riapertura” del piano di ammortamento, cioè l’allungamento della vita utile stimata del bene.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze lascia, quindi, aperte tutte le possibilità contabili e rinvia ai criteri civilistici per l’adozione della scelta più corretta, non ritenendo opportuno e nemmeno possibile regolare con norme di carattere fiscale, delle valutazioni di carattere squisitamente aziendale.
Gli amministratori e il collegio sindacale (qualora esistente) devono indicare e motivare nelle loro relazioni i criteri seguiti nella rivalutazione delle due categorie di beni ammesse e attestare che la rivalutazione non eccede il limite di valore previsto quale importo massimo rivalutabile (art. 11, c. 3, Legge 342/2000).
Al riguardo l’Assonime con la Circolare n. 13/2001, ha precisato che per poter attestare che i maggiori valori emersi in sede di rivalutazione non superino il valore economico dei beni interessati, i membri del collegio sindacale dovranno acquisire dagli amministratori informazioni in merito alle modalità seguite per la stima dei beni stessi.
Inoltre, pur non essendo obbligatoriamente richiesta, trattandosi di immobili si ritiene opportuno far redigere una perizia, salvo che i beni stessi non siano oggetto di contratti preliminari, potendosi in quel caso rifarsi al prezzo contrattualmente pattuito.
Per i soggetti in contabilità ordinaria la rivalutazione deve essere annotata nella nota integrativa (per le società di capitali e gli enti che la devono redigere) e nell’inventario relativo all’esercizio in cui la rivalutazione viene eseguita dove deve essere indicato anche il prezzo di costo, con le eventuali rivalutazioni operate in conformità a precedenti leggi di rivalutazione, dei beni rivalutati (articolo 11, commi 1 e 4, Legge 342/2000)
Per i soggetti in contabilità semplificata, la rivalutazione potrà essere effettuata per i beni che risultino acquisiti entro il 31 dicembre 2007 dai registri di cui agli articoli 16 (beni ammortizzabili) e 18 (registri IVA integrati ai fini delle imposte dirette) del DPR 600/73 e successive modificazioni. La rivalutazione è consentita a condizione che venga redatto un apposito prospetto bollato e vidimato che dovrà essere presentato, a richiesta, all’amministrazione finanziaria, dal quale risultino i prezzi di costo e la rivalutazione compiuta (art. 15, c. 2, Legge 342/2000)
Dell’avvenuta rivalutazione bisognerà darne conto all'Agenzia delle Entrate nel prossimo Modello UNICO/2009 compilando il quadro RQ.
SALDO ATTIVO DI RIVALUTAZIONE:
Il saldo attivo lordo risultante dalle rivalutazioni eseguite, per i soggetti in contabilità ordinaria, deve essere imputato a capitale o accantonato in una speciale riserva in sospensione d’imposta intitolata al D.L. 185/2008; detta riserva dovrà essere ridotta dell’imposta sostitutiva eventualmente assolta per il riconoscimento fiscale dei maggiori valori (vedi paragrafo successivo), determinando il saldo attivo netto; l’imposta sostitutiva costituisce un debito tributario ed è indeducibile (questa imposta, quindi, non transita nel conto economico, ma viene rilevata direttamente come debito in diminuzione della riserva di rivalutazione).
L’art. 13 della Legge n. 342/2000, richiamato in quanto applicabile dal D.L. 185/2008, stabiliva che, in assenza di affrancamento (vedi paragrafo successivo):
La riserva, ove non venga imputata a capitale, può essere ridotta soltanto con l’osservanza delle disposizioni dei commi secondo e terzo dell’articolo 2445 del codice civile e cioè:
Comma 2: L’avviso di convocazione dell’assemblea deve indicare le ragioni e le modalità della riduzione. La riduzione deve comunque effettuarsi con modalità tali che le azioni proprie eventualmente possedute dopo la riduzione non eccedano la decima parte del capitale sociale.
Comma 3: La deliberazione può essere eseguita soltanto dopo novanta giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione.
In caso di utilizzazione della riserva a copertura di perdite, non si può fare luogo a distribuzione di utili fino a quando la riserva non è integrata o ridotta in misura corrispondente con deliberazione dell’assemblea straordinaria, non applicandosi le disposizioni dei commi secondo e terzo dell’art. 2445 del codice civile.
Se il saldo attivo viene attribuito ai soci o ai partecipanti mediante riduzione della riserva ovvero mediante riduzione del capitale sociale o del fondo di dotazione o del fondo patrimoniale, le somme attribuite ai soci o ai partecipanti, aumentate dell’imposta sostitutiva corrispondente all’ammontare distribuito, concorrono a formare il reddito imponibile della società o dell’ente e il reddito imponibile dei soci o dei partecipanti. In caso di attribuzione, inoltre, si considera che le riduzioni del capitale deliberate dopo l’imputazione a capitale delle riserve di rivalutazione, comprese quelle già iscritte in bilancio a norma di precedenti leggi di rivalutazione, abbiano anzitutto per oggetto, fino al corrispondente ammontare, la parte del capitale formata con l’imputazione di tali riserve.
Considerato che la rivalutazione deve essere operata sul valore contabile residuo del bene, inteso come costo storico al netto degli ammortamenti effettuati (per i soggetti che eseguono la riclassificazione del bilancio in forma U.E., sostanzialmente è l’importo ivi esposto), per saldo attivo lordo si intende la differenza tra valore rivalutato e valore contabile residuo.
Nell’esempio riportato nel precedente riquadro, il saldo attivo lordo è così determinato:
VALORE DI BILANCIO 100.000FONDO AMMORTAMENTO 30.000VALORE CONTABILE NETTO 70.000
VALORE DI MERCATO 200.000VALORE CONTABILE NETTO 70.000SALDO ATTIVO DI RIVALUTAZIONE (lordo) 130.000
L’evidenziazione ed utilizzazione del saldo attivo richiede la redazione di un bilancio e, dunque, non può essere applicata dai soggetti in contabilità semplificata; per costoro, in assenza di un bilancio che dia evidenza contabile al patrimonio dell’impresa, le informazioni relative alle rivalutazioni dovranno risultare (come visto nel precedente paragrafo) da un prospetto che dovrà evidenziare solo i prezzi di costo e le rivalutazioni operate. Ne consegue, pertanto, che l’ipotesi della tassabilità della distribuzione del saldo attivo non affrancato (vedi paragrafo successivo) non è applicabile ai soggetti in contabilità semplificata (Circolare Agenzia Entrate n. 5/E del 26.01.2001)
Se l’impresa, dopo la rivalutazione, modifica il proprio regime contabile gli effetti fiscali del saldo attivo di rivalutazione (che non sia stato affrancato) vengono definiti dalla Circolare n. 57/2001 e sono i seguenti:
Passaggio dalla contabilità ordinaria alla semplificata: la riserva di rivalutazione aumentata dell’imposta sostitutiva concorre a formare il reddito imponibile nel primo esercizio di applicazione del nuovo regime di contabilità;
Passaggio dalla contabilità semplificata all’ordinaria: l’iscrizione in contabilità dei bei rivalutati non comporta la ricostruzione di alcuna riserva di rivalutazione.
IMPOSTE SOSTITUTIVE PER IL RICONOSCIMENTO FISCALE DEI MAGGIORI VALORI E PER L’AFFRANCAMENTO DELLA RISERVA:
La rivalutazione dei beni immobili in deroga alle norme del Codice civile, ha inizialmente riflessi solo civilistici di adeguamento dei valori contabili a quelli di mercato, al fine di rappresentare meglio la reale patrimonializzazione dell’azienda e aumentare il patrimonio netto contabile A COSTO ZERO (senza benefici fiscali).
Riconoscimento fiscale: Dopo le modifiche introdotte in sede di conversione del D.L. 185/2008, il maggior valore attribuito ai beni in sede di rivalutazione, può essere riconosciuto anche ai fini fiscali (imposte sui redditi e Irap) a decorrere dal quinto (precedentemente terzo) esercizio successivo a quello in cui è avvenuta la rivalutazione (2013), mediante il versamento di un’imposta sostitutiva dell’Irpef, dell’Ires, dell’Irap e di eventuali addizionali, nella misura del 7% (precedentemente 10%) per gli immobili ammortizzabili e del 4% (precedentemente 7%) per quelli non ammortizzabili. Nel caso di cessione a titolo oneroso, di assegnazione ai soci, di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero al consumo personale o familiare dell’imprenditore, degli immobili rivalutati, prima dell’inizio del sesto (precedentemente quarto) anno successivo a quello in cui è avvenuta la rivalutazione (2014), ai fini del calcolo di plusvalenze o minusvalenze si ha riguardo al valore dell’immobile prima della rivalutazione. In altri termini si prescinde dal valore rivalutato e si torna al precedente valore di bilancio. L'Agenzia Entrate, nel corso della videoconferenza di Italia Oggi del 17.01.2009, ha affermato che la condizione del trasferimento giuridico del diritto alla proprietà del bene si ritiene verificata anche nel caso in cui l'immobile fosse oggetto di un'operazione di sale and lease back. In tutti i casi di trasferimento della proprietà prima del decorso del periodo di osservazione, al soggetto che ha effettuato la rivalutazione è attribuito un credito d’imposta pari all’ammontare dell’imposta sostitutiva riferita ai bene trasferito anzitempo (Art. 3, c. 3, D.M. 86/2002). L’ammontare del credito d’imposta non transita dal conto economico, ma come l’imposta sostitutiva pagata deve essere contabilizzato (ovviamente in aumento anziché in diminuzione) nel saldo attivo di rivalutazione, nella misura relativa al maggior valore attribuito ai beni immobili oggetto del trasferimento.
Con il decreto legge soprannominato “decreto incentivi” approvato dal Consiglio dei Ministri del 06.02.2009 e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, le percentuali dell'imposta sostitutiva vengono ridotte dal 7% al 3% per gli immobili ammortizzabili e dal 4% al 1,5% per gli immobili NON ammortizzabili. Nessuna modifica viene apportata alla durata dei due periodi di sospensione dell'efficacia fiscale necessari per sfruttare i benefici previsti dalla norma. Non viene modificata nemmeno la percentuale di imposta sostitutiva dovuta per affrancare la riserva di rivalutazione in sospensione d'imposta (vedi paragrafo successivo).
Affrancamento della riserva: il saldo attivo di rivalutazione che, come abbiamo visto diventa, per i soggetti in contabilità ordinaria, una riserva in sospensione d’imposta, può essere affrancato con l’applicazione in capo alla società di una imposta sostitutiva dell’Irpef, dell’Ires, dell’Irap e di eventuali addizionali nella misura del 10%. Nessun interesse avranno a fruire dell’affrancamento, i soggetti in contabilità semplificata in quanto, come visto al paragrafo precedente non vi è ipotesi di tassabilità in caso di distribuzione. Poiché le riserve affrancate confluiscono tra quelle di utili, in caso di distribuzione troverà applicazione anche per tali riserve la presunzione di cui all’art. 47, c. 1 T.U.I.R. di prioritaria distribuzione delle riserve di utili rispetto alle riserve di capitali (Circolare Agenzia Entrate n. 6/E del 13.02.2006).
Gli effetti dell’affrancamento devono essere distinti tra società e soci:
Effetti per la società:
la riserva non è più considerata in sospensione d’imposta;
la riserva è liberamente distribuibile tra i soci;
l’eventuale distribuzione non concorre a formare il reddito imponibile della società.
Effetti per i soci partecipanti in soggetti IRES:
soci persone fisiche non imprenditori:
partecipazione qualificata: tassazione sul 49,72% del dividendo distribuito, nel modello UNICO PF;
partecipazione non qualificata: assoggettamento a ritenuta a titolo d’imposta del 12,50%;
soci che detengono la partecipazione nell’ambito dell’attività d’impresa: indipendentemente dal fatto che la partecipazione sia qualificata o non qualificata,concorre alla formazione del reddito il 49,72% del dividendo distribuito;
soci soggetti IRES: concorre alla formazione del reddito il 5% del dividendo distribuito.
Effetti per i soci partecipanti in società di persone:
Considerato che l’eventuale distribuzione non concorre a formare il reddito imponibile della società, nessuna ulteriore tassazione avverrà in capo al socio per trasparenza.
La norma prevede che entrambe le imposte sostitutive possano essere versate, a scelta del contribuente, in unica soluzione o in tre rate annuali di pari importo. La scadenza del versamento in unica soluzione o della prima rata coincide con il termine di versamento del saldo delle imposte sui redditi relative all‘anno con riferimento al quale la rivalutazione è eseguita (20.06.2009), mentre le due rate successive alla prima, maggiorate degli interessi legali del 3% annuo, scadranno con il termine di pagamento del saldo delle imposte sui redditi dei due esercizi successivi (20.06.2010 e 20.06.2011).
Le imposte, in quanto sostitutive di imposte sui redditi e Irap, sono indeducibili e sono compensabili con i crediti utilizzabili in F24.
APPENDICE
ESEMPIO DI REGISTRAZIONI CONTABILI
IMMOBILE ISCRITTO IN BILANCIO DA DIECI ANNI AL SUO VALORE STORICO E MAI RIVALUTATO PRIMA
Valore in bilancio dell’immobile: 100.000
Aliquota ammortamento: 3%
Fondo ammortamento al 10° anno: 30.000 (100.000 * 3%)
Valore netto contabile: 70.000 (100.000 – 30.000)
Valore di mercato: 200.000
Valore netto contabile: 70.000
Saldo attivo di rivalutazione: 130.000
coefficiente di rivalutazione = Valore di mercato / Valore netto contabile = 200.000/ 70.000 = 2,85714
valore bilancio rivalutato = Valore bilancio*coefficiente di rivalutazione = 100.000*2,85714 = 285.714
fondo ammortamento rivalutato = fondo ammortamento*coefficiente di rivalutazione = 30.000 * 2,85714 = 85.714
Valore prima della
Rivalutazione
Valore dopo la
Rivalutazione
Differenza
Valore contabile netto
70.000
200.000
130.000
Valore di bilancio
100.000
285.714
185.714
Fondo ammortamento
30.000
85.714
55.714
1° ipotesi: RIVALUTAZIONE DI TIPO MONETARIO: (iscrizione del maggior valore sia nei costi sia nel fondo ammortamento = invarianza durata processo di ammortamento)
Immobili a # 185.714
Fondo ammortamento 55.714
Riserva di valutazione
D.L. 185/2008 126.100
Debiti v/erario per
Imposta sostitutiva (3%)(*) 3.900
(*) importo così determinato: 130.000 * 3%
Questo metodo permette di mantenere inalterato il periodo di ammortamento fissato per il singolo bene.
Ipotizzando che il coefficiente di ammortamento sia pari al 3% si avrà che:
senza la rivalutazione: sarebbero stati necessari ancora 23,3 anni per giungere al completo ammortamento de valore netto residuo pari a € 70.000
con la rivalutazione: il risultato è analogo: applicando la medesima aliquota (3%) al valore di bilancio rivalutato del cespite ( 285.714) si determina una quota annua di ammortamento pari a 8.571,42 che, moltiplicata per 23,33 (33,33–10), ottiene 200.000 (ovvero il nuovo valore netto del cespite rivalutato).
2° ipotesi: RIVALUTAZIONE DI TIPO ECONOMICO: (iscrizione della rivalutazione solo all’attivo lordo dell’immobile)
Immobili a # 130.000
Riserva di valutazione
D.L. 185/2008 126.100
Debiti v/erario per
Imposta sostitutiva (3%) 3.900
In questo caso la rivalutazione è interamente imputata al costo del cespite, senza influenzare il valore del fondo ammortamento. Di conseguenza si verificherà un allungamento del periodo di ammortamento del bene.
3° ipotesi: (iscrizione della rivalutazione a diretta diminuzione del fondo di ammortamento)
Fondo ammortamento a # 30.000
Riserva di valutazione
D.L. 185/2008 26.100
Debiti v/erario per
Imposta sostitutiva (3%) 3.900
In questo caso il risultato ottenuto è analogo e omologo a quello descritto nella 2° ipotesi (infatti l’immobile continua ad essere iscritto al costo iniziale pari a 100.000 e il fondo ammortamento viene azzerato).
Pertanto:
le quote di ammortamento continuano ad essere conteggiate sul valore in bilancio del bene 100.000;
il processo di ammortamento è allungato.
______________
1 In merito alla possibilità di includere nell’ambito di applicazione soggettivo della norma anche i soggetti sottoposti a procedure concorsuali, si può ipotizzare un differente trattamento per le imprese interessate dalle procedure di liquidazione volontaria, concordato preventivo e amministrazione straordinaria, relativamente alle quali l’inclusione nel novero dei soggetti ammessi alla rivalutazione potrebbe derivare dalla finalità delle procedure che tendono alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica, rispetto a quello previsto per le società interessate dalle procedure di fallimento, concordato fallimentare e liquidazione coatta amministrativa la cui esclusione dall’ambito di applicazione soggettivo della norma dovrebbe derivare proprio dalla particolare situazione in cui si trovano. (Circ. Ufficio Studi Consiglio Naz. Rag. Commercialisti, Draft n. 37 del 23/11/2000)
2 Nel caso di affitto e usufrutto d’azienda l’Agenzia delle Entrate ha precisato quanto segue: “Nell’ipotesi in cui non sia stata contrattualmente prevista la deroga alle disposizioni dell’art. 2561 del codice civile, concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili, gli ammortamenti vengono calcolati e dedotti dall’affittuario o usufruttuario e, pertanto, sarà quest’ultimo che potrà effettuare la rivalutazione. Al termine dell’affitto o dell’usufrutto, l’azienda sarà trasferita al concedente, comprensiva dei beni rivalutati e della relativa riserva di rivalutazione, nell’ipotesi in cui quest’ultima non sia stata già utilizzata per copertura di perdite o distribuita. L’imposta sostitutiva riferibile alla riserva trasferita al concedente costituirà per quest’ultimo credito d’imposta usufruibile in caso di distribuzione della stessa. Nell’ipotesi in cui, invece, le parti, in deroga all’art. 2561 del c.c., si siano accordate prevedendo che il concedente continuerà a calcolare gli ammortamenti,la rivalutazione potrà essere effettuata solo da quest’ultimo.” (Circolare n. 57/E del 18/06/2001)
3 Si ricorda che nel punto 22 della Nota integrativa deve essere predisposto un prospetto informativo dei contratti di locazione finanziaria nel quale venga rappresentata l’operazione secondo il metodo finanziario previsto dallo IAS 17; più precisamente devono essere indicati il valore attuale delle rate di canone non scadute, l’onere finanziario effettivo attribuibile all’esercizio e l’ammontare complessivo del valore dei beni che sarebbe stato iscritto nell’attivo patrimoniale, se fossero stati considerati immobilizzi.

I disservizi: il caso telecom

Telefonia, riparazione, gestore, responsabilità, misura cautelare
Tribunale Paola, sez. I civile, sentenza 18.02.2009

Telefonia – riparazione – gestore – responsabilità – misura cautelare
In materia di Telefonia, costituisce periculum in mora il pregiudizio derivabile dall’inadempimento del gestore del servizio di telefonia, con riferimento alle ripercussioni alla propria sfera giuridica negli specifici aspetti dei diritti alla salute, alla vita di relazione ed alla comunicazione, travalicanti, dunque il certamente leso diritto di credito.
Occorre ricordare, trattandosi di danni non patrimoniali, che essi sono risarcibili solo entro il limite segnato dall’ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno.

(Fonte:
Altalex Massimario 9/2009. Si ringrazia per la segnalazione Giuseppe Buffone)
Comunicazioni Telefonia

Tribunale di Paola
Sezione I Civile
Ordinanza 18 febbraio 2009
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI PAOLA
- PRIMA SEZIONE CIVILE -

Il giudice, dott.ssa Francesca Goggiamani, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 17.2.2009,
ha emesso la seguente

ORDINANZA

nel procedimento cautelare Rg 43/2009 , proposto da X.
Rilevato:
che X. ha presentato ricorso ex art. 700 c.p.c. dinanzi al Tribunale di Paola per il ripristino dell’utenza telefonica della propria abitazione (0982/Y.);
che a sostegno dell’istanza deduce in punto di fumus boni iuris che la propria linea risulta fuori servizio dal 15.10.2008 e che, nonostante le ripetute segnalazioni, la Telecom Italia s.p.a. non aveva provveduto alla riparazione, perpetrando così inadempimento alle obbligazioni contrattuali cui potevano derivare pregiudizi alla controparte;
che sotto il profilo del periculum in mora ha allegato le conseguenze negative che potevano derivare dall’inadempimento, atteso che lei e il marito hanno problemi di salute e dimorano in luogo isolato e non coperto da rete mobile;
che si è costituita la Telecom Italia s.p.a. eccependo preliminarmente la avvenuta riparazione del guasto e dunque chiedendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere e deducendo comunque nel merito l’infondatezza della domanda, posto che da un lato 3 interventi erano stati da lei eseguiti per provvedere al guasto il 24.10, il 9.11 e il 23.11.2008, con un ritardo rispetto alle previsioni delle condizioni di abbonamento di soli 7 giorni, ristorabile con l’indennizzo ivi previsto, e dall’altro che nessun pregiudizio imminente e irreparabile era riscontrabile, potendo soddisfarsi la ricorrente in via ordinaria con l’azione di risarcimento per equivalente e potendo evitare autonomamente il pericolo con sottoscrizione di contratto con altro gestore;
che nell’istruzione sommaria sono state assunte sommarie informazioni ed acquisiti i documenti prodotti.
Considerato in punto di fumus boni iuris:
in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (legale o negoziale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (v. per tutte Cassazione civile, SEZIONI UNITE, 30 ottobre 2001 n. 13533);
che secondo lo stipulato contratto Telecom è tenuta a fornire alla XXXX il servizio di telefonia fissa ed ai sensi dell’art. 7 delle condizioni generali di abbonamento è tenuta alla riparazione entro due giorni non festivi compreso il sabato, salvo per guasti di particolare complessità;
che la riattivazione della linea eccepita dalla resistente è rimasta priva di dimostrazione e, ancor prima, di tentativo di prova e piuttosto dall’informatrice condotta dalla controparte - credibile per precisione e coerenza nelle dichiarazioni - è emerso che la linea, pur a seguito delle plurime incontestate segnalazioni avvenute a partire dall’ottobre 2008 da parte dell’utente e successivamente da parte del suo legale (v. fax 17,20,25.11, 15,23.12.2008) continua a non funzionare in chiamata e ricezione, pur risultando libera se contattata;
che il Gestore, che non ha fornito prova degli allegati interventi su pali e cavo, non ha di certo provveduto ad inviare alcun tecnico nella abitazione, accontentandosi di riscontrare che la linea chiamata risultasse libera;
che tale comportamento non risulta consono alla diligenza del professionista e che, pertanto, inadempiente risulta la resistente;
che il comportamento del gestore non risulta altresì rispettoso dell’obbligo di buona fede su di lui incombente per la protezione degli interessi del creditore diversi da quelli strettamente contrattuali, e specificamente di quello alla salute, posto che delle proprie condizioni di malattia la X. con diversi fax aveva edotto la controparte e che successivamente a tale informazione nessun comportamento attivo il debitore ha perpetrato (v. Cass. civ., sez. II, 16/11/2000, n.14865);
che all’azione di adempimento ex art. 1453 c.c. può accompagnarsi l’azione risarcitoria come preannunciato dalla X.;
Considerato in punto di periculum in mora:
che paventa quale pregiudizio derivabile dall’inadempimento del gestore del servizio di telefonia ripercussioni alla propria sfera giuridica negli specifici aspetti dei diritti alla salute, alla vita di relazione ed alla comunicazione, travalicanti, dunque il certamente leso diritto di credito;
che occorre ricordare, trattandosi di danni non patrimoniali, che essi sono risarcibili solo entro il limite segnato dall’ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno;
che è emerso dall’istruttoria sommaria che: -) la X., sessantenne, ed il marito, settantenne, dimorano in casa di campagna, isolata e distante 7 km dal centro isolato; -) che gli stessi hanno problemi di salute (v. certificati medici); -) che il solo marito, da poco operato al ginocchio, guida e -) che la zona è priva di copertura di telefonia mobile;
che il protrarsi dell’inadempimento e la violazione dell’obbligo di buona fede in senso protettivo potrebbe, alla luce di tutte queste circostanze di fatto, arrecare danni al diritto (costituzionale) alla salute ed incolumità della coppia di anziani;
che il ristoro dei pregiudizi alla salute non è, per definizione, pienamente ristorabile con il risarcimento per equivalente;
che le condizioni concrete di età e di salute della X. e del marito, il luogo ove dimorano e le condizioni della stagione in corso rendono concreto il pregiudizio paventato, non potendo essi chiamare soccorso in caso di necessità;
che la soluzione prospettata dalla Telecom di evitare da parte dell’istante il pericolo lamentato ricorrendo alla conclusione di contratto con altro gestore telefonico non appare escludere la concedibilità della tutela cautelare, considerati i relativi tempi di attesa;
Ritenuto:
che sussistono i presupposti per la fase cautelare;
che le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo come da nota (sottratte dai diritti le voci precisazione della conclusioni e esame delle conclusioni avversarie, stante il rito cautelare)

P.Q.M.

Il Tribunale di Paola sul ricorso cautelare di cui in epigrafe così provvede:
condanna la Telecom Italia s.p.a. all’immediata riparazione dell’utenza telefonica n. 0982/******* intestata a X. con invio di tecnici presso l’abitazione;
condanna la Telecom Italia s.p.a. a rifondere a X. le spese di lite che liquida in €. 2.046,78 di cui €. 235,78 per spese, €. 836 per diritti, €. 975 per onorari ed oltre spese generali, iva e cpa come per legge.
Paola, 18 febbraio 2009
Il Giudice Monocratico
dott. Francesca Goggiamani

I disservizi: il caso telecom

Telefonia, riparazione, gestore, responsabilità, misura cautelare
Tribunale Paola, sez. I civile, sentenza 18.02.2009

Telefonia – riparazione – gestore – responsabilità – misura cautelare
In materia di Telefonia, costituisce periculum in mora il pregiudizio derivabile dall’inadempimento del gestore del servizio di telefonia, con riferimento alle ripercussioni alla propria sfera giuridica negli specifici aspetti dei diritti alla salute, alla vita di relazione ed alla comunicazione, travalicanti, dunque il certamente leso diritto di credito.
Occorre ricordare, trattandosi di danni non patrimoniali, che essi sono risarcibili solo entro il limite segnato dall’ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno.

(Fonte:
Altalex Massimario 9/2009. Si ringrazia per la segnalazione Giuseppe Buffone)
Comunicazioni Telefonia

Tribunale di Paola
Sezione I Civile
Ordinanza 18 febbraio 2009
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI PAOLA
- PRIMA SEZIONE CIVILE -

Il giudice, dott.ssa Francesca Goggiamani, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 17.2.2009,
ha emesso la seguente

ORDINANZA

nel procedimento cautelare Rg 43/2009 , proposto da X.
Rilevato:
che X. ha presentato ricorso ex art. 700 c.p.c. dinanzi al Tribunale di Paola per il ripristino dell’utenza telefonica della propria abitazione (0982/Y.);
che a sostegno dell’istanza deduce in punto di fumus boni iuris che la propria linea risulta fuori servizio dal 15.10.2008 e che, nonostante le ripetute segnalazioni, la Telecom Italia s.p.a. non aveva provveduto alla riparazione, perpetrando così inadempimento alle obbligazioni contrattuali cui potevano derivare pregiudizi alla controparte;
che sotto il profilo del periculum in mora ha allegato le conseguenze negative che potevano derivare dall’inadempimento, atteso che lei e il marito hanno problemi di salute e dimorano in luogo isolato e non coperto da rete mobile;
che si è costituita la Telecom Italia s.p.a. eccependo preliminarmente la avvenuta riparazione del guasto e dunque chiedendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere e deducendo comunque nel merito l’infondatezza della domanda, posto che da un lato 3 interventi erano stati da lei eseguiti per provvedere al guasto il 24.10, il 9.11 e il 23.11.2008, con un ritardo rispetto alle previsioni delle condizioni di abbonamento di soli 7 giorni, ristorabile con l’indennizzo ivi previsto, e dall’altro che nessun pregiudizio imminente e irreparabile era riscontrabile, potendo soddisfarsi la ricorrente in via ordinaria con l’azione di risarcimento per equivalente e potendo evitare autonomamente il pericolo con sottoscrizione di contratto con altro gestore;
che nell’istruzione sommaria sono state assunte sommarie informazioni ed acquisiti i documenti prodotti.
Considerato in punto di fumus boni iuris:
in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (legale o negoziale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (v. per tutte Cassazione civile, SEZIONI UNITE, 30 ottobre 2001 n. 13533);
che secondo lo stipulato contratto Telecom è tenuta a fornire alla XXXX il servizio di telefonia fissa ed ai sensi dell’art. 7 delle condizioni generali di abbonamento è tenuta alla riparazione entro due giorni non festivi compreso il sabato, salvo per guasti di particolare complessità;
che la riattivazione della linea eccepita dalla resistente è rimasta priva di dimostrazione e, ancor prima, di tentativo di prova e piuttosto dall’informatrice condotta dalla controparte - credibile per precisione e coerenza nelle dichiarazioni - è emerso che la linea, pur a seguito delle plurime incontestate segnalazioni avvenute a partire dall’ottobre 2008 da parte dell’utente e successivamente da parte del suo legale (v. fax 17,20,25.11, 15,23.12.2008) continua a non funzionare in chiamata e ricezione, pur risultando libera se contattata;
che il Gestore, che non ha fornito prova degli allegati interventi su pali e cavo, non ha di certo provveduto ad inviare alcun tecnico nella abitazione, accontentandosi di riscontrare che la linea chiamata risultasse libera;
che tale comportamento non risulta consono alla diligenza del professionista e che, pertanto, inadempiente risulta la resistente;
che il comportamento del gestore non risulta altresì rispettoso dell’obbligo di buona fede su di lui incombente per la protezione degli interessi del creditore diversi da quelli strettamente contrattuali, e specificamente di quello alla salute, posto che delle proprie condizioni di malattia la X. con diversi fax aveva edotto la controparte e che successivamente a tale informazione nessun comportamento attivo il debitore ha perpetrato (v. Cass. civ., sez. II, 16/11/2000, n.14865);
che all’azione di adempimento ex art. 1453 c.c. può accompagnarsi l’azione risarcitoria come preannunciato dalla X.;
Considerato in punto di periculum in mora:
che paventa quale pregiudizio derivabile dall’inadempimento del gestore del servizio di telefonia ripercussioni alla propria sfera giuridica negli specifici aspetti dei diritti alla salute, alla vita di relazione ed alla comunicazione, travalicanti, dunque il certamente leso diritto di credito;
che occorre ricordare, trattandosi di danni non patrimoniali, che essi sono risarcibili solo entro il limite segnato dall’ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno;
che è emerso dall’istruttoria sommaria che: -) la X., sessantenne, ed il marito, settantenne, dimorano in casa di campagna, isolata e distante 7 km dal centro isolato; -) che gli stessi hanno problemi di salute (v. certificati medici); -) che il solo marito, da poco operato al ginocchio, guida e -) che la zona è priva di copertura di telefonia mobile;
che il protrarsi dell’inadempimento e la violazione dell’obbligo di buona fede in senso protettivo potrebbe, alla luce di tutte queste circostanze di fatto, arrecare danni al diritto (costituzionale) alla salute ed incolumità della coppia di anziani;
che il ristoro dei pregiudizi alla salute non è, per definizione, pienamente ristorabile con il risarcimento per equivalente;
che le condizioni concrete di età e di salute della X. e del marito, il luogo ove dimorano e le condizioni della stagione in corso rendono concreto il pregiudizio paventato, non potendo essi chiamare soccorso in caso di necessità;
che la soluzione prospettata dalla Telecom di evitare da parte dell’istante il pericolo lamentato ricorrendo alla conclusione di contratto con altro gestore telefonico non appare escludere la concedibilità della tutela cautelare, considerati i relativi tempi di attesa;
Ritenuto:
che sussistono i presupposti per la fase cautelare;
che le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo come da nota (sottratte dai diritti le voci precisazione della conclusioni e esame delle conclusioni avversarie, stante il rito cautelare)

P.Q.M.

Il Tribunale di Paola sul ricorso cautelare di cui in epigrafe così provvede:
condanna la Telecom Italia s.p.a. all’immediata riparazione dell’utenza telefonica n. 0982/******* intestata a X. con invio di tecnici presso l’abitazione;
condanna la Telecom Italia s.p.a. a rifondere a X. le spese di lite che liquida in €. 2.046,78 di cui €. 235,78 per spese, €. 836 per diritti, €. 975 per onorari ed oltre spese generali, iva e cpa come per legge.
Paola, 18 febbraio 2009
Il Giudice Monocratico
dott. Francesca Goggiamani

domenica 1 marzo 2009

Ancora sugli incidenti sul lavoro: l'amianto


Corte di Cassazione Penale sez.IV 12/11/2008 n. 42128; Pres. Morgigni A.
Amianto - Azienda - Datore di lavoro - Responsabilità - Omicidio colposo
MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il Tribunale di Lecco ha affermato la responsabilità di C. F. e C.C.N. in ordine al reato di, omicidio colposo in danno di L.G..
La pronunzia è stata riformata dalla Corte d'appello di Milano che ha adottato pronunzia assolutoria perchè il fatto non sussiste.
Secondo l'ipotesi accusatoria, fatta propria dal Tribunale, gli imputati, amministratori del Mollificio Codega, hanno determinato la morte del lavoratore L. a seguito di mesotelioma pleurico determinato dall'inalazione di fibre d'amianto, che venivano sprigionate da tubature coibentate con la sostanza in questione.
L'addebito che viene loro mosso è di non aver adottato misure idonee ad evitare la dispersione delle fibre e la loro inalazione da parte del lavoratore.
La Corte d'appello è invece pervenuta alla pronunzia assolutoria accogliendo uno dei motivi di gravame della difesa dell'imputato, con il quale si prospettava che la vittima ben avrebbe potuto contrarre l'affezione altrove e segnatamente presso gli altri opifici in cui aveva lavorato, oppure ancora negli stessi luoghi di dimora posti in prossimità della stazione ferroviaria di Lecco.
La pronunzia dà atto che la vittima per lunghi anni operò nel locale caldaia dello stabilimento in cui si trovavano le coibentazioni in questione.
Tuttavia, si afferma, il mesotelioma non è malattia di origine esclusivamente professionale ma è connessa a fattori ambientali uniti alla predisposizione soggettiva e dunque l'accertamento in concreto della sua causa avrebbe richiesto il vaglio di un più ampio spettro di possibilità.
Invece, nel caso in esame nulla è dato sapere del rischio amianto imputabile alle precedenti attività lavorative, sulle quali piuttosto superficialmente si è ritenuto di non indagare perchè non più esistenti; nè si sono esaminate ulteriori possibilità di contatto con la amosite, che la parte lesa potrebbe aver avuto anche in ambito extra lavorativo.
Infine la presenza di amosite avrebbe dovuto essere accertata risalendo all'epoca del supposto contatto del lavoratore con le tubazioni, ovvero oltre 20 anni prima.
Tale prova e segnatamente la presenza sin da allora di alterazioni del rivestimento delle tubature della caldaie, dalle quali avrebbe potuto generarsi la dispersione di fibre di amosite, non è stata affatto raggiunta e semmai si ha prova del contrario, perchè come risulta dalla deposizione dell'ex capo reparto, all'epoca dell'attività di accensione e pulizie svolta dalla vittima, il rivestimento delle tubature della caldaia era intatto e dunque ben difficilmente avrebbe potuto disperdere nel locale quella amosite che si assume inalata dalla parte lesa, tanto più che oggi, a distanza di molti anni e dopo un lungo periodo di incuria, il medesimo materiale di coibentazione si presenta non particolarmente danneggiato a fronte di un modesto rilascio di fibre di amianto.
A tale ultimo riguardo si rammenta che se il materiale di coibentazione contenente amosite è in buone condizioni, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre d'amianto.
La pronunzia conclude, rispondendo ad ulteriori deduzioni difensive, che.. qualora fosse stata accertata la genesi della patologia nell'ambito lavorativo, la responsabilità degli imputati sarebbe conseguita de plano atteso che già all'epoca dei fatti la nota pericolosità dell'amianto avrebbe dovuto indurre ad evitare l'esposizione ad esso da parte del lavoratore.
2. Ammesso la pronunzia assolutoria ricorrono le parti civili deducendo due motivi.
2.1 Con il primo si prospetta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Si evidenzia che la Corte d'appello ha erroneamente ritenuto che la forte dispersione ambientale di amosite una varietà di amianto) nell'opificio ormai chiuso non ha alcun rilievo nell'accertamento di una causa che avrebbe dovuto accertarsi facendo riferimento alla situazione esistente nella lontana epoca in cui ebbe luogo il contatto del lavoratore con la sostanza dannosa, in proposito i ricorrenti pongono in luce che le analisi, condotte nel novembre 2004 hanno evidenziato la presenza di amosite in elevate concentrazioni, superiori al 50%.
L'opificio era stato chiuso nel 2002 e si presentava nel 2004 nell'identico stato di fatto in cui versava al momento della chiusura.
Diversi testi hanno evidenziato il nesso tra la presenza della sostanza nell'ambiente di lavoro e l'innesco della malattia professionale ed hanno chiarito che, mentre le tubazioni nuove non erano nocive, lo sono diventate qualche anno dopo il loro posizionamento per effetto del deterioramento della coibentazione.
Le indagini processuali hanno inoltre escluso la presenza di ulteriori fattori causali come il fumo o l'inalazione dell'amianto in altri contesti.
I testi hanno altresì evidenziato che qualunque indagine sulla pregressa attività lavorativa della vittima sarebbe stata inutile.
Ciò nonostante la Corte d'appello accoglie acriticamente le doglianze degli imputati, parla di altre generiche possibili cause che non hanno trovato il benchè minimo riscontro probatorio;
mentre ha trovato riscontro l'ipotesi accusatoria, visto che l'imputato frequentava i locali caldaia determinando la movimentazione delle particene nocive, altamente cancerogene.
Il processo ha inoltre chiarito che il disfacimento della coibentazione in amianto è avvenuto nel corso di un lungo periodo, giacchè erano il lavoro e la movimentazione a creare il progressivo deterioramento delle strutture e dei tubi qualche anno dopo il loro posizionamento, a causa della temperatura, di sfregamento ed urti durante l'utilizzo.
La Corte d'appello d'altra parte ha illogicamente attribuito rilievo ad un apodittica affermazione del capo reparto (che almeno dal punto di vista psicologico potrebbe sentirsi coinvolto quale responsabile della salute del lavoratore) che contrasta con la testimonianza del dottor A. e dei familiari della vittima che hanno parlato di caldaie vecchie e di un locale sporco e pieno di polvere.
Ancora, la Corte d'appello ha omesso di considerare il ruolo eziologico dell'esposizione all'amianto non solo quale possibile causa primaria del mesotelioma, ma anche quale acceleratore dei tempi di insorgenza dell'affezione, come ripetutamente ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
Dunque, anche a voler ipotizzare la presenza di una concausa, la Corte d'appello ha errato nel non cogliere il nesso causale tra la presenza dell'amianto nel locale caldaia e l'evento morboso.
2.2 Con il secondo motivo si lamenta che la Corte d'appello non ha considerato che, essendosi in presenza di causalità omissiva, si sarebbe dovuto accertare che l'intervento omesso, se tempestivamente e correttamente eseguito, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabilità di successo.
Nel caso di specie gli accorgimenti avrebbero potuto giungere fino ad impedire l'accesso del lavoratore nei locali incriminati; e tale provvedimento avrebbe consentito con alto grado di probabilità di evitare l'evento.
2.3 Le difese degli imputati hanno presentato memorie a sostegno della sentenza impugnata.
3. Il primo motivo di ricorso è fondato ed assorbente, atteso che esso coglie il punto della decisione che ha fondato la pronunzia assolutoria: quello della connessione causale tra la patologia letale e l'esposizione lavorativa ad amianto subita nello stabilimento degli imputati.
Occorre premettere che le prospettazioni di cui alla parte finale del primo motivo, afferenti all'effetto acceleratore dell'insorgenza della patologia determinato dall'esposizione protratta alla sostanza nociva non possono avere ingresso nella presente sede di legittimità.
Occorre a tale riguardo rammentare che questa Suprema corte non è giudice del sapere scientifico, e non detiene proprie conoscenze privilegiate. Essa è chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto.
Il tema del ruolo acceleratore dell'esposizione protratta all'amianto e della sua conseguente rilevanza causale, connessa all'abbreviazione della latenza ed alla anticipazione dell'evento letale, è venuto in evidenza ripetutamente nella giurisprudenza di merito.
Al riguardo è pure reiteratamente intervenuta questa Corte suprema, chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'utilizzazione delle discusse enunciazioni scientifiche in ordine all'effetto acceleratore della latenza, determinato dalla protratta esposizione (Particolarmente Cass. 4^, 11 luglio 2002, Macola; Sez. 4^, 29 novembre 2004, Marchioriello).
Tale questione, prospettata per la prima volta nella presente sede di legittimità, non ha conseguentemente ingresso, atteso che nel caso in esame tutto il giudizio di merito si è mosso attorno ad altri temi problematici e segnatamente, come si è accennato, alla riconducibilità dell'insorgenza della patologia all'esposizione lavorativa di cui si discute.
A tale riguardo la sentenza d'appello è affetta da grave vizio logico che la corrompe radicalmente.
Essa, infatti, ha dato corpo ad un dubbio che non è sorretto da basi fattuali ma si presenta come meramente congetturale.
Ancor più, la motivazione trascura o distorce emergenze concrete ben esposte ed analizzate nella pronunzia del primo giudice.
Si tratta di approccio che non solo confligge con i canoni della logica formale ma si pone in contrasto con l'insegnamento di questa Corte a Sezioni unite, secondo cui il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (S.U. 12 luglio 2005, Mannino).
Il Tribunale, infatti, ha dimostrato alcune decisive emergenze che possono essere sintetizzate nei termini seguenti.
Le tubazioni del locale caldaie erano rivestite con una sostanza costituita da un impasto contenente amosite in misura superiore al 50%.
Tale materiale si presentava sgretolato, come riscontrato in occasione di sopralluogo eseguito dopo i fatti.
L'effetto era dovuto alle sollecitazioni termiche ed all'attività di manutenzione.
La caldaia era vetusta.
La vittima provvedeva alla periodica pulitura del locale e in conseguenza movimentava la polvere di amianto.
L'amosite costituisce una varietà di amianto, ritenuta dagli studi recenti come la principale causa delle patologie respiratorie per via delle microscopiche dimensioni della fibra facilmente penetrabile negli, alveoli polmonari.
Dal questionario compilato dalla vittima e dagli accertamenti compiuti non è emersa altra fonte di esposizione all'amianto.
Sono state determinate le attività svolte in precedenza ed è stato escluso che esse implicassero l'esposizione all'amianto.
Sono state escluse anche esposizioni significative extralavorative.
La quantità e la durata dell'esposizione sono irrilevanti.
Il periodo di latenza del mesotelioma pleurico varia da 20 a 40 anni;
e la data d'insorgenza della patologia nel caso esaminato è compatibile con tale intervallo temporale.
Sulla base di tali emergenze il giudice è pervenuto a ritenere con argomentazione coerente ed immune da vizi logici che le coibentazioni furono sottoposte ad una costante e progressiva azione di sgretolamento con conseguente continua dispersione di fibre di amianto, che si volatilizzavano e venivano quindi inalate anche per effetto delle pulizie del locale.
Tali fibre hanno un privilegiato ruolo causale, sulla base di affidabili acquisizioni scientifiche, poichè particolarmente sottili e quindi dotate di elevata capacità di penetrazione nei tessuti.
E' stata quindi individuata una causa definita; mentre non si sono riscontrate altre concrete, plausibili fonti di esposizione alla sostanza nociva.
Come si è accennato la Corte d'appello giunge ad un giudizio di dubbio irresolubile sulla causa dell'evento, senza analizzare e confutare compiutamente le valutazioni espresse dal primo giudice.
La sentenza, infatti, si muove su due enunciazioni di fondo: non vi è prova che nell'epoca, ormai remota, in cui l'amosite avrebbe dovuto innescare il processo carcinogenetico, fossero in atti dispersioni della sostanza.
Tale enunciato oblitera decisive emergenze di segno contrario poste in luce dal primo giudice e già accennate.
Il primo dato è che l'amosite è particolarmente efficace nell'innescare il meccanismo tumorale per le ridotte dimensioni della fibra e che tale attività non dipende significativamente dalla dose:
anche l'inalazione di poche fibre può essere eziologica.
Altro dato di non minore rilievo, pure esso pretermesso, è che la coibentazione pericolosa conteneva ben il 50% di amosite e che essa era soggetta ad un procedimento di progressivo deterioramento dovuto alle sollecitazioni termiche ed alle attività manutentive.
Dunque, sin dall'inizio dell'attività lavorativa da parte della vittima era in atto un processo che determinava dispersioni altamente pericolose anche in piccoli quantitativi.
Infine si pretermette di considerare che l'attività di pulizia svolta dal lavoratore ridetto determinava la continua volatilizzazione delle microfibre che, così, potevano essere facilmente inalate.
La pretermissione di tali emergenze vulnera alla radice il ragionamento probatorio.
Pure censurabile appare il ragionamento probatorio per quanto attiene alla valutazione di altre fonti di contaminazione.
All'argomento il primo giudice dedica un'analisi diffusa che da conto di accertamenti compiuti sia valutando la situazione esistente nell'abitazione, sia considerando la natura ed il contesto delle pregresse attività lavorative.
Al riguardo la Corte d'appello prospetta un dubbio che risulta meramente teorico se raffrontato al dato obiettivo, certo, della protratta esposizione, in situazione sfavorevole (continua volatilizzazione delle microfibre), ad una varietà di amianto che ha un ruolo altamente privilegiato nell'innesco del processo carcinogenetico.
Dunque, pure sotto tale profilo la motivazione appare altamente radicalmente censurabile sul piano logico.
La sentenza deve essere conseguentemente annullata e le parti vanno rimesse davanti al giudice civile competente per materia in grado d'appello, ai sensi dell'art. 622 c.p.p. La liquidazione delle spese va rimessa al definitivo di merito.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Milano in sede civile.
Riserva la liquidazione delle spese al definitivo di
merito.

Ancora sugli incidenti sul lavoro: l'amianto


Corte di Cassazione Penale sez.IV 12/11/2008 n. 42128; Pres. Morgigni A.
Amianto - Azienda - Datore di lavoro - Responsabilità - Omicidio colposo
MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il Tribunale di Lecco ha affermato la responsabilità di C. F. e C.C.N. in ordine al reato di, omicidio colposo in danno di L.G..
La pronunzia è stata riformata dalla Corte d'appello di Milano che ha adottato pronunzia assolutoria perchè il fatto non sussiste.
Secondo l'ipotesi accusatoria, fatta propria dal Tribunale, gli imputati, amministratori del Mollificio Codega, hanno determinato la morte del lavoratore L. a seguito di mesotelioma pleurico determinato dall'inalazione di fibre d'amianto, che venivano sprigionate da tubature coibentate con la sostanza in questione.
L'addebito che viene loro mosso è di non aver adottato misure idonee ad evitare la dispersione delle fibre e la loro inalazione da parte del lavoratore.
La Corte d'appello è invece pervenuta alla pronunzia assolutoria accogliendo uno dei motivi di gravame della difesa dell'imputato, con il quale si prospettava che la vittima ben avrebbe potuto contrarre l'affezione altrove e segnatamente presso gli altri opifici in cui aveva lavorato, oppure ancora negli stessi luoghi di dimora posti in prossimità della stazione ferroviaria di Lecco.
La pronunzia dà atto che la vittima per lunghi anni operò nel locale caldaia dello stabilimento in cui si trovavano le coibentazioni in questione.
Tuttavia, si afferma, il mesotelioma non è malattia di origine esclusivamente professionale ma è connessa a fattori ambientali uniti alla predisposizione soggettiva e dunque l'accertamento in concreto della sua causa avrebbe richiesto il vaglio di un più ampio spettro di possibilità.
Invece, nel caso in esame nulla è dato sapere del rischio amianto imputabile alle precedenti attività lavorative, sulle quali piuttosto superficialmente si è ritenuto di non indagare perchè non più esistenti; nè si sono esaminate ulteriori possibilità di contatto con la amosite, che la parte lesa potrebbe aver avuto anche in ambito extra lavorativo.
Infine la presenza di amosite avrebbe dovuto essere accertata risalendo all'epoca del supposto contatto del lavoratore con le tubazioni, ovvero oltre 20 anni prima.
Tale prova e segnatamente la presenza sin da allora di alterazioni del rivestimento delle tubature della caldaie, dalle quali avrebbe potuto generarsi la dispersione di fibre di amosite, non è stata affatto raggiunta e semmai si ha prova del contrario, perchè come risulta dalla deposizione dell'ex capo reparto, all'epoca dell'attività di accensione e pulizie svolta dalla vittima, il rivestimento delle tubature della caldaia era intatto e dunque ben difficilmente avrebbe potuto disperdere nel locale quella amosite che si assume inalata dalla parte lesa, tanto più che oggi, a distanza di molti anni e dopo un lungo periodo di incuria, il medesimo materiale di coibentazione si presenta non particolarmente danneggiato a fronte di un modesto rilascio di fibre di amianto.
A tale ultimo riguardo si rammenta che se il materiale di coibentazione contenente amosite è in buone condizioni, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre d'amianto.
La pronunzia conclude, rispondendo ad ulteriori deduzioni difensive, che.. qualora fosse stata accertata la genesi della patologia nell'ambito lavorativo, la responsabilità degli imputati sarebbe conseguita de plano atteso che già all'epoca dei fatti la nota pericolosità dell'amianto avrebbe dovuto indurre ad evitare l'esposizione ad esso da parte del lavoratore.
2. Ammesso la pronunzia assolutoria ricorrono le parti civili deducendo due motivi.
2.1 Con il primo si prospetta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Si evidenzia che la Corte d'appello ha erroneamente ritenuto che la forte dispersione ambientale di amosite una varietà di amianto) nell'opificio ormai chiuso non ha alcun rilievo nell'accertamento di una causa che avrebbe dovuto accertarsi facendo riferimento alla situazione esistente nella lontana epoca in cui ebbe luogo il contatto del lavoratore con la sostanza dannosa, in proposito i ricorrenti pongono in luce che le analisi, condotte nel novembre 2004 hanno evidenziato la presenza di amosite in elevate concentrazioni, superiori al 50%.
L'opificio era stato chiuso nel 2002 e si presentava nel 2004 nell'identico stato di fatto in cui versava al momento della chiusura.
Diversi testi hanno evidenziato il nesso tra la presenza della sostanza nell'ambiente di lavoro e l'innesco della malattia professionale ed hanno chiarito che, mentre le tubazioni nuove non erano nocive, lo sono diventate qualche anno dopo il loro posizionamento per effetto del deterioramento della coibentazione.
Le indagini processuali hanno inoltre escluso la presenza di ulteriori fattori causali come il fumo o l'inalazione dell'amianto in altri contesti.
I testi hanno altresì evidenziato che qualunque indagine sulla pregressa attività lavorativa della vittima sarebbe stata inutile.
Ciò nonostante la Corte d'appello accoglie acriticamente le doglianze degli imputati, parla di altre generiche possibili cause che non hanno trovato il benchè minimo riscontro probatorio;
mentre ha trovato riscontro l'ipotesi accusatoria, visto che l'imputato frequentava i locali caldaia determinando la movimentazione delle particene nocive, altamente cancerogene.
Il processo ha inoltre chiarito che il disfacimento della coibentazione in amianto è avvenuto nel corso di un lungo periodo, giacchè erano il lavoro e la movimentazione a creare il progressivo deterioramento delle strutture e dei tubi qualche anno dopo il loro posizionamento, a causa della temperatura, di sfregamento ed urti durante l'utilizzo.
La Corte d'appello d'altra parte ha illogicamente attribuito rilievo ad un apodittica affermazione del capo reparto (che almeno dal punto di vista psicologico potrebbe sentirsi coinvolto quale responsabile della salute del lavoratore) che contrasta con la testimonianza del dottor A. e dei familiari della vittima che hanno parlato di caldaie vecchie e di un locale sporco e pieno di polvere.
Ancora, la Corte d'appello ha omesso di considerare il ruolo eziologico dell'esposizione all'amianto non solo quale possibile causa primaria del mesotelioma, ma anche quale acceleratore dei tempi di insorgenza dell'affezione, come ripetutamente ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
Dunque, anche a voler ipotizzare la presenza di una concausa, la Corte d'appello ha errato nel non cogliere il nesso causale tra la presenza dell'amianto nel locale caldaia e l'evento morboso.
2.2 Con il secondo motivo si lamenta che la Corte d'appello non ha considerato che, essendosi in presenza di causalità omissiva, si sarebbe dovuto accertare che l'intervento omesso, se tempestivamente e correttamente eseguito, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabilità di successo.
Nel caso di specie gli accorgimenti avrebbero potuto giungere fino ad impedire l'accesso del lavoratore nei locali incriminati; e tale provvedimento avrebbe consentito con alto grado di probabilità di evitare l'evento.
2.3 Le difese degli imputati hanno presentato memorie a sostegno della sentenza impugnata.
3. Il primo motivo di ricorso è fondato ed assorbente, atteso che esso coglie il punto della decisione che ha fondato la pronunzia assolutoria: quello della connessione causale tra la patologia letale e l'esposizione lavorativa ad amianto subita nello stabilimento degli imputati.
Occorre premettere che le prospettazioni di cui alla parte finale del primo motivo, afferenti all'effetto acceleratore dell'insorgenza della patologia determinato dall'esposizione protratta alla sostanza nociva non possono avere ingresso nella presente sede di legittimità.
Occorre a tale riguardo rammentare che questa Suprema corte non è giudice del sapere scientifico, e non detiene proprie conoscenze privilegiate. Essa è chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto.
Il tema del ruolo acceleratore dell'esposizione protratta all'amianto e della sua conseguente rilevanza causale, connessa all'abbreviazione della latenza ed alla anticipazione dell'evento letale, è venuto in evidenza ripetutamente nella giurisprudenza di merito.
Al riguardo è pure reiteratamente intervenuta questa Corte suprema, chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'utilizzazione delle discusse enunciazioni scientifiche in ordine all'effetto acceleratore della latenza, determinato dalla protratta esposizione (Particolarmente Cass. 4^, 11 luglio 2002, Macola; Sez. 4^, 29 novembre 2004, Marchioriello).
Tale questione, prospettata per la prima volta nella presente sede di legittimità, non ha conseguentemente ingresso, atteso che nel caso in esame tutto il giudizio di merito si è mosso attorno ad altri temi problematici e segnatamente, come si è accennato, alla riconducibilità dell'insorgenza della patologia all'esposizione lavorativa di cui si discute.
A tale riguardo la sentenza d'appello è affetta da grave vizio logico che la corrompe radicalmente.
Essa, infatti, ha dato corpo ad un dubbio che non è sorretto da basi fattuali ma si presenta come meramente congetturale.
Ancor più, la motivazione trascura o distorce emergenze concrete ben esposte ed analizzate nella pronunzia del primo giudice.
Si tratta di approccio che non solo confligge con i canoni della logica formale ma si pone in contrasto con l'insegnamento di questa Corte a Sezioni unite, secondo cui il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (S.U. 12 luglio 2005, Mannino).
Il Tribunale, infatti, ha dimostrato alcune decisive emergenze che possono essere sintetizzate nei termini seguenti.
Le tubazioni del locale caldaie erano rivestite con una sostanza costituita da un impasto contenente amosite in misura superiore al 50%.
Tale materiale si presentava sgretolato, come riscontrato in occasione di sopralluogo eseguito dopo i fatti.
L'effetto era dovuto alle sollecitazioni termiche ed all'attività di manutenzione.
La caldaia era vetusta.
La vittima provvedeva alla periodica pulitura del locale e in conseguenza movimentava la polvere di amianto.
L'amosite costituisce una varietà di amianto, ritenuta dagli studi recenti come la principale causa delle patologie respiratorie per via delle microscopiche dimensioni della fibra facilmente penetrabile negli, alveoli polmonari.
Dal questionario compilato dalla vittima e dagli accertamenti compiuti non è emersa altra fonte di esposizione all'amianto.
Sono state determinate le attività svolte in precedenza ed è stato escluso che esse implicassero l'esposizione all'amianto.
Sono state escluse anche esposizioni significative extralavorative.
La quantità e la durata dell'esposizione sono irrilevanti.
Il periodo di latenza del mesotelioma pleurico varia da 20 a 40 anni;
e la data d'insorgenza della patologia nel caso esaminato è compatibile con tale intervallo temporale.
Sulla base di tali emergenze il giudice è pervenuto a ritenere con argomentazione coerente ed immune da vizi logici che le coibentazioni furono sottoposte ad una costante e progressiva azione di sgretolamento con conseguente continua dispersione di fibre di amianto, che si volatilizzavano e venivano quindi inalate anche per effetto delle pulizie del locale.
Tali fibre hanno un privilegiato ruolo causale, sulla base di affidabili acquisizioni scientifiche, poichè particolarmente sottili e quindi dotate di elevata capacità di penetrazione nei tessuti.
E' stata quindi individuata una causa definita; mentre non si sono riscontrate altre concrete, plausibili fonti di esposizione alla sostanza nociva.
Come si è accennato la Corte d'appello giunge ad un giudizio di dubbio irresolubile sulla causa dell'evento, senza analizzare e confutare compiutamente le valutazioni espresse dal primo giudice.
La sentenza, infatti, si muove su due enunciazioni di fondo: non vi è prova che nell'epoca, ormai remota, in cui l'amosite avrebbe dovuto innescare il processo carcinogenetico, fossero in atti dispersioni della sostanza.
Tale enunciato oblitera decisive emergenze di segno contrario poste in luce dal primo giudice e già accennate.
Il primo dato è che l'amosite è particolarmente efficace nell'innescare il meccanismo tumorale per le ridotte dimensioni della fibra e che tale attività non dipende significativamente dalla dose:
anche l'inalazione di poche fibre può essere eziologica.
Altro dato di non minore rilievo, pure esso pretermesso, è che la coibentazione pericolosa conteneva ben il 50% di amosite e che essa era soggetta ad un procedimento di progressivo deterioramento dovuto alle sollecitazioni termiche ed alle attività manutentive.
Dunque, sin dall'inizio dell'attività lavorativa da parte della vittima era in atto un processo che determinava dispersioni altamente pericolose anche in piccoli quantitativi.
Infine si pretermette di considerare che l'attività di pulizia svolta dal lavoratore ridetto determinava la continua volatilizzazione delle microfibre che, così, potevano essere facilmente inalate.
La pretermissione di tali emergenze vulnera alla radice il ragionamento probatorio.
Pure censurabile appare il ragionamento probatorio per quanto attiene alla valutazione di altre fonti di contaminazione.
All'argomento il primo giudice dedica un'analisi diffusa che da conto di accertamenti compiuti sia valutando la situazione esistente nell'abitazione, sia considerando la natura ed il contesto delle pregresse attività lavorative.
Al riguardo la Corte d'appello prospetta un dubbio che risulta meramente teorico se raffrontato al dato obiettivo, certo, della protratta esposizione, in situazione sfavorevole (continua volatilizzazione delle microfibre), ad una varietà di amianto che ha un ruolo altamente privilegiato nell'innesco del processo carcinogenetico.
Dunque, pure sotto tale profilo la motivazione appare altamente radicalmente censurabile sul piano logico.
La sentenza deve essere conseguentemente annullata e le parti vanno rimesse davanti al giudice civile competente per materia in grado d'appello, ai sensi dell'art. 622 c.p.p. La liquidazione delle spese va rimessa al definitivo di merito.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Milano in sede civile.
Riserva la liquidazione delle spese al definitivo di
merito.

giovedì 26 febbraio 2009

I Ticket restaurant: aspetti operativi e fiscali

SOMMARIO
Il tema di ticket resturant si pone sotto un triplice aspetto: quello delle imprese che acquistano servizi sostitutivi di mensa aziendale, quello delle imprese di ristorazione collettiva che vendono i ticket restaurant e quello dei pubblici esercizi che poi forniscono beni e servizi dietro presentazione dei buoni pasto. Importanti appaiono i riflessi in termini di imposizione diretta e IVA della compravendita di servizi sostitutivi di mensa aziendale, con questioni non sempre pienamente condivise.
Aspetti generali
Non è inusuale che i datori di lavoro, in ossequio alla contrattazione collettiva nazionale e/o aziendale, siano obbligati a fornire pasti ai propri dipendenti:
1. nella forma tradizionale della mensa aziendale o interaziendale;
2. consegnando ai dipendenti buoni – pasto;
3. installando presso gli uffici, distributori automatici di alimenti e bevande;
4. riconoscendo ai dipendenti un'indennità di mensa;
5. rimborsando ai dipendenti in trasferta le spese di vitto;
6. utilizzando un sistema misto tra le soluzioni indicate in precedenza.
Quando il datore di lavoro decide di utilizzare il sistema dei buoni – pasto (ticket restaurant) allora si instaurano due distinti rapporti: il primo che riguarda la fornitura di buoni – pasto all'impresa datrice di lavoro, da parte dell'impresa di ristorazione collettiva che emette e gestisce i ticket restaurant; il secondo che si instaura tra l'esercizio convenzionato che effettua le somministrazioni di alimenti e bevande e l'impresa collettiva di ristorazione, che succesivamente procede alla fatturazione delle somministrazioni appaltate ed effettuate. In particolare, la normativa che regola l'affidamento e la gestione dei servizi sostitutivi di mensa, è contenuta del D.P.C.M. del 18/11/2005, in G.U. n. 13 del 17/01/2006.
Lo schema di funzionamento del servizio di ticket restaurant
Aspetti IVA dei servizi sostitutivi di mensa
Le prestazioni concernenti servizi sostitutivi di mensa aziendale, oggetto dei contratti, anche d'appalto, poste in essere dall'imprese di ristorazione collettiva, nei confronti dei datori di lavoro, mediante l'utilizzazione di appositi ticket restaurant, sono soggette ad aliquota IVA del 4%; mentre la fatturazione delle somministrazioni effettuate dagli esercizi convenzionati nei confronti dell'impresa di ristorazione collettiva, trattandosi in ogni caso di servizi di somministrazione di alimenti e bevande, avverrà con aliquota del 10%, se si tratta di pubblici esercizi. Va sottolineato che nel tempo il numero degli esercizi convenzionati è aumentato fino a comprendere:
a) esercizi di vendita al dettaglio di prodotti di gastronomia;
b) esercizi di vendita di prodotti alimentari di vicinato;
c) esercizi di vendita di prodotti a! limentari nella forma della grande distribuzione, i quali considerano i buoni-pasto, titoli di legittimazione utilizzabili a saldo della fornitura, che ovviamente può contemplare merci sottoposte ad aliquote IVA differenti.
In quest'ultimo caso la fatturazione a carico dell'impresa gerente il servizio sostitutivo di mensa, dovrebbe avvenire tenendo conto delle differenti aliquote applicate per la fornitura dei prodotti, da parte degli esercizi convenzionati.
Il regime di detraibilità I. V. A. dei servizi sostitutivi di mensa aziendale
Per quanto attiene il rapporto al 4 % tra l'impresa fornitrice dei ticket restaurant e il datore di lavoro, non vi sono oggi dubbi sulla detraibilità dell'IVA, almeno per le forniture eseguite a decorrere dal 01/09/2008. Da tale data come è noto, è stata abrogata con il D.L. 25/06/2008 n. 112, convertito in L. 06/08/2008 n. 133, quella parte dell'art. 19 bis1 del Decreto IVA, che escludeva la detrazione dell'IVA per le spese di ristorazione sostenute dall'imprese, tra le quali è possibile includere i servizi sostitutivi di mensa aziendale a favore dei dipendenti. Il diritto alla detrazione dell'IVA sui servizi sostitutivi di mensa, resterebbe in ogni caso condizionato, unicamente, dal «principio di inerenza» di tali spese rispetto all'attività dell'impresa utilizzatrice. Anche l'IVA al 10%, rigu! ardante il rapporto tra l'esercizio convenzionato e l'impresa fornitrice di servizi sostitutivi di mensa aziendale, sarà detraibile se relativo a servizi acquistati nell'esercizio dell'impresa, ai sensi dell'art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 .
a cura del Dott. E. Larocca in www.commercialistatelematico.com

I Ticket restaurant: aspetti operativi e fiscali

SOMMARIO
Il tema di ticket resturant si pone sotto un triplice aspetto: quello delle imprese che acquistano servizi sostitutivi di mensa aziendale, quello delle imprese di ristorazione collettiva che vendono i ticket restaurant e quello dei pubblici esercizi che poi forniscono beni e servizi dietro presentazione dei buoni pasto. Importanti appaiono i riflessi in termini di imposizione diretta e IVA della compravendita di servizi sostitutivi di mensa aziendale, con questioni non sempre pienamente condivise.
Aspetti generali
Non è inusuale che i datori di lavoro, in ossequio alla contrattazione collettiva nazionale e/o aziendale, siano obbligati a fornire pasti ai propri dipendenti:
1. nella forma tradizionale della mensa aziendale o interaziendale;
2. consegnando ai dipendenti buoni – pasto;
3. installando presso gli uffici, distributori automatici di alimenti e bevande;
4. riconoscendo ai dipendenti un'indennità di mensa;
5. rimborsando ai dipendenti in trasferta le spese di vitto;
6. utilizzando un sistema misto tra le soluzioni indicate in precedenza.
Quando il datore di lavoro decide di utilizzare il sistema dei buoni – pasto (ticket restaurant) allora si instaurano due distinti rapporti: il primo che riguarda la fornitura di buoni – pasto all'impresa datrice di lavoro, da parte dell'impresa di ristorazione collettiva che emette e gestisce i ticket restaurant; il secondo che si instaura tra l'esercizio convenzionato che effettua le somministrazioni di alimenti e bevande e l'impresa collettiva di ristorazione, che succesivamente procede alla fatturazione delle somministrazioni appaltate ed effettuate. In particolare, la normativa che regola l'affidamento e la gestione dei servizi sostitutivi di mensa, è contenuta del D.P.C.M. del 18/11/2005, in G.U. n. 13 del 17/01/2006.
Lo schema di funzionamento del servizio di ticket restaurant
Aspetti IVA dei servizi sostitutivi di mensa
Le prestazioni concernenti servizi sostitutivi di mensa aziendale, oggetto dei contratti, anche d'appalto, poste in essere dall'imprese di ristorazione collettiva, nei confronti dei datori di lavoro, mediante l'utilizzazione di appositi ticket restaurant, sono soggette ad aliquota IVA del 4%; mentre la fatturazione delle somministrazioni effettuate dagli esercizi convenzionati nei confronti dell'impresa di ristorazione collettiva, trattandosi in ogni caso di servizi di somministrazione di alimenti e bevande, avverrà con aliquota del 10%, se si tratta di pubblici esercizi. Va sottolineato che nel tempo il numero degli esercizi convenzionati è aumentato fino a comprendere:
a) esercizi di vendita al dettaglio di prodotti di gastronomia;
b) esercizi di vendita di prodotti alimentari di vicinato;
c) esercizi di vendita di prodotti a! limentari nella forma della grande distribuzione, i quali considerano i buoni-pasto, titoli di legittimazione utilizzabili a saldo della fornitura, che ovviamente può contemplare merci sottoposte ad aliquote IVA differenti.
In quest'ultimo caso la fatturazione a carico dell'impresa gerente il servizio sostitutivo di mensa, dovrebbe avvenire tenendo conto delle differenti aliquote applicate per la fornitura dei prodotti, da parte degli esercizi convenzionati.
Il regime di detraibilità I. V. A. dei servizi sostitutivi di mensa aziendale
Per quanto attiene il rapporto al 4 % tra l'impresa fornitrice dei ticket restaurant e il datore di lavoro, non vi sono oggi dubbi sulla detraibilità dell'IVA, almeno per le forniture eseguite a decorrere dal 01/09/2008. Da tale data come è noto, è stata abrogata con il D.L. 25/06/2008 n. 112, convertito in L. 06/08/2008 n. 133, quella parte dell'art. 19 bis1 del Decreto IVA, che escludeva la detrazione dell'IVA per le spese di ristorazione sostenute dall'imprese, tra le quali è possibile includere i servizi sostitutivi di mensa aziendale a favore dei dipendenti. Il diritto alla detrazione dell'IVA sui servizi sostitutivi di mensa, resterebbe in ogni caso condizionato, unicamente, dal «principio di inerenza» di tali spese rispetto all'attività dell'impresa utilizzatrice. Anche l'IVA al 10%, rigu! ardante il rapporto tra l'esercizio convenzionato e l'impresa fornitrice di servizi sostitutivi di mensa aziendale, sarà detraibile se relativo a servizi acquistati nell'esercizio dell'impresa, ai sensi dell'art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 .
a cura del Dott. E. Larocca in www.commercialistatelematico.com

lunedì 23 febbraio 2009

Impugnativa delibera di assemblea condominiale: motivi


Condominio. Impugnativa di delibera assembleare, vari motivi


sabato 21 febbraio 2009
Tribunale di Nola, sentenza del 7 ottobre 2008

Condominio

IMPUGNATIVA DELIBERA ASSEMBLEARE - VARI MOTIVI
DISTRIBUZIONE SPESE DI LITE – SEPARAZIONE RESPONSABILITA’ – DIRITTO DI RIVALSA – ERRORE ARITMETICO IN SEDE DI REDAZIONE DI TABELLE – REGOLAMENTO DI CONDOMINIO - SPESE DI MANUTENZIONE TERRAZZA/LASTRICO SOLARE - RIPARTIZIONE ONERI CONDOMINIALI – CAMBIO DI DESTINAZIONE DELL’AREA COMUNE
.
[Tribunale di Nola, Dr. Alfonso Scermino, sentenza del 7 ottobre 2008]
.
.
.
.
.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Nola - Seconda sezione civile, in persona del giudice unico dr. Alfonso Scermino, ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile iscritta al n. 3561 del Ruolo Generale dell’anno 2005, vertente
TRA
Caiox Axx e Meviax Bxx, rappresentati e difesi dall’ avv.to …, giusta procura a margine della citazione di primo grado, con cui elettivamente domiciliano in … , -attori-
CONTRO
Condominio KKKK in….alla via Cxx Zxx , in personsa dell’amministratore p.t. Exx, rappresentato e difeso, giusta mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta, dall’avv. …, con cui elettivamente domicilia in ; -convenuto-
avente ad oggetto: azione di impugnaizone delibera assembleare
CONCLUSIONI: all’udienza del 27.5.2008 i procuratori concludevano riportandosi integralmente ai propri scritti difensivi e a tutte le deduzioni di udienza e alla documentazione prodotta in giudizio.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ex art. 1137 c.c. depositato il 9.5.2005 Caiox Axx e Meviax Bxx impugnavano tempestivamente la delibera adottata in data 16.3.2005 dal loro condominio KKKK in … alla via … Cxx Zxx.
I ricorrenti svolgevano svariate censure al deliberato.
Si costituiva il condominio , instando per l’integrale rigetto dell’azione.
Negata in corso di causa la domanda di sospensiva dell’efficacia della delibera impugnata, la causa, senza che fosse necessaria alcuna attività istruttoria, era chiamata per le conclusioni al 27.5.2008, ove era trattenuta in decisione ex art. 190 c.p.c. con concessione dei termini di legge alle parti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I)
Assumeva parte istante che la delibera impugnata sarebbe stata illegittima in quanto distribuiva anche in capo ai ricorrenti le spese di lite “per la procedura da instaurare nei confronti del condomini Tiziox”, nonostante che con atto stragiudiziale notificato all’amministratore l’11.12.2004 (versato in atti) i coniugi Caiox/Meviax avessero dichiarato di separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite.
La deduzione è infondata.
E’ noto che , ai sensi dell’art. 1132 c.c., qualora l'assemblea dei condomini abbia deliberato di promuovere una lite o di resistere a una domanda, il condomino dissenziente, con atto notificato all'amministratore, può separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite.
Tuttavia, la norma prevede tale possibilità solo “per il caso di soccombenza”.
Ciò significa che soltanto quando l’azione venga promossa e successivamente il condominio perda la causa il condomino che aveva esercitato la sua facoltà di separazione vanterebbe un “diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa”.
Mentre la norma non prevede affatto che il condomino dissenziente possa , come ivi si pretenderebbe, con un mero suo atto di volontà esonerarsi dal contribuire a pagare:
- delle spese legali occorrenti hic et nunc per la difesa del condominio (caso in esame ), spese che, come è evidente, sono cosa assolutamente diversa rispetto a quelle da rifondere ex post alla controparte vittoriosa (previsione ex art. 1132 c.c.);
- delle spese legali per una causa solo da proporre (caso in esame), il cui importo - ancora una volta – costituisce una voce radicalmente differente rispetto a quella da sostenersi quando la causa si sia già perduta (previsione ex art. 1132 c.c., soccombenza).
Insomma, la contestazione non ha pregio alcuno.
In ordine all’errore aritmetico - contestato nel primo motivo di impugnazione – che avrebbe commesso il condominio in sede di redazione di talune tabelle allegate alla delibera, nulla si pronuncerà, per l’assorbente ragione che esso è stato espressamente riconosciuto dal convenuto in corso di giudizio (com. concl.) , senza incidere più, a questo punto, sulla legittimità della delibera.
2)
Con un secondo motivo di doglianza parte ricorrente assumeva che nella relazione descrittiva del Regolamento di condomino – approvato con la delibera gravata - si leggeva che ”il fabbricato era formato da 3 piani fuori terra della stessa altezza”, mentre ciò non avrebbe corrisposto al vero.
E tale errore avrebbe integrato gli estremi di una violazione di legge, in quanto influiva sulla ripartizione degli oneri condominiali.
Le censura non ha pregio.
Invero, ha ragione il Condominio quando osserva che la relazione contestata aveva un valore puramente descrittivo, onde non poteva essere di per sé pregiudizievole per le ragioni dei singoli condomini.
Mentre, qualora parte ricorrente avesse voluto dedurre una scorretta ripartizione degli oneri condominiali, avrebbe dovuto impugnare non certo una descrizione illustrativa – di per sé neutrale- , ma un preciso atto deliberativo di ripartizione, in uno ai criteri – eventualmente erronei - utilizzati dal condomino.
Nè si poteva certamente assumere, peraltro in modo criptico e generico, che una mera descrizione dell’immobile condominiale “influiva sulla ripartizione degli oneri condominiali”, senza poi spiegare perché, in che modo ed in che termini.
Peraltro, proprio il fatto che i ricorrenti si dolessero che erano in circolazione diverse tabelle non ritualmente approvate dai condomini (memoria art. 184 c.c.), rafforzava la notazione che fosse assolutamente inutile dolersi in questa della scorrettezza di criteri mai deliberati dal condominio (prospettazione dei ricorrenti).
Meglio sarebbe stato, allora, che gli interessati avessero agito – se davvero lo avessero voluto - per una rituale, valida e definitiva determinazione giudiziale di tali tabelle.
Ma tanto non hanno fatto.
3)
I ricorrenti lamentavano che il Regolamento di condomino sarebbe stato illegittimo per il fatto di non aver precisato il valore proporzionale di ciascun piano o di ciascuna porzione di piano spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini: in sostanza, ci si doleva del fatto che la delibera non aveva allegato al Regolamento approvato le tabelle millesimali del fabbricato.
Ed in tal modo – si proseguiva - sarebbe stato violato l’art. 68 disp. att. c.c. , che avrebbe previsto il relativo obbligo.
La deduzione è scorretta in diritto.
Infatti , l’art. 72 Disp .att. cit prevede che “i regolamenti di condominio non possono derogare alle (sole) disposizioni dei precedenti articoli 63, 66, 67 e 69”: dal che è evidente come l’art. 68 cit. asseritamente violato costituisca norma liberamente derogabile dai condomini (cfr, Cassazione civile , sez. II, 19 ottobre 1988, n. 5686) , ai quali, di conseguenza, non era affatto inibito approvarsi un regolamento condominiale senza contestuale deliberazione – ed allegazione - delle tabelle millesimali.
4)
I ricorrenti contestavano ancora il Regolamento in quanto, nella descrizione dei beni condominiali ivi contenuta, non vi era menzione del “vano condominiale in pian terreno, dei vialetti laterali e retrostanti l’edificio, del gabinetto di decenza e della lavanderia”. E tale incompletezza avrebbe nuovamente influito sulla correttezza della determinazione degli oneri condominiali e sul loro riparto.
La censura è infondata per quanto già osservato sub. 2.
Ad abundantiam , valga qui aggiungere che era inconsistente in partenza assumere che la mancata considerazione di beni comuni (secondo quanto allegato degli istanti) avrebbe potuto incidere sulla ripartizione degli oneri condominiali, sol che si consideri che questi ultimi, ai sensi dell’art. 1123 c.c., vengono distribuiti “in misura proporzionale al valore della proprietà esclusiva di ciascuno”, essendo dunque parametrati solo sulla proprietà di ciascun condomino a prescindere da quali siano , perciò, i beni comuni da gestire e conservare .
In ogni caso, si rinvia a sub. 2 della pronuncia.
5)
I ricorrenti, ancora, adducevano che il Regolamento sarebbe stato ulteriormente illegittimo in quanto prevedeva che “le spese per la manutenzione ed eventuali lavori di riparazione delle scale sarebbero state ripartite in base alla Tabella” delle scale (A), mentre tale ultima tabella avrebbe dovuto applicarsi solo per le spese di ordinaria amministrazione , a dispetto di quelle per la straordinaria amministrazione, da distribuirsi secondo la Tabella generale.
Il motivo è infondato .
Ai sensi dell’art. 1124 c.c. “le scale sono mantenute e ricostruite dai proprietari dei diversi piani a cui servono. La spesa relativa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzioni di piano, e per l'altra metà in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo”.
La legge, pertanto, detta un solo criterio normativo per la ripartizione delle spese riguardanti tale bene comune , il quale è chiaramente applicabile sia a quelle ordinarie (“mantenute”) che a quelle straordinarie (“ricostruite”).
Sicchè , se esisteva una Tabella (A) regolante, in applicazione dell’art. 1124 c.c., il concorso degli oneri condominiali relativamente alle scale del fabbricato, questa non poteva (e doveva) che riferirsi ad ogni spesa ad esse relativa: ne conseguiva che non aveva davvero alcun fondamento la pretesa dei ricorrenti di applicare una diversa Tabella (quella “generale”) solo per le spese straordinarie sulle scale.
Peraltro, la diversa ripartizione invocata avrebbe presentato profili di dubbia legittimità, finendo per applicare alle scale criteri di ripartizione confliggenti con quelli dettati dall’art. 1124 c.c. , salvo che fosse intervenuta diversa convenzione unanime tra i condomini (cosa, per la verità, nemmeno allegata dai ricorrenti).
6)
I condomini istanti contestavano , ancora, il fatto che l’art. 8 del Regolamento ponesse le spese di manutenzione della terrazza/lastrico solare anteriore anche a carico dei condomini sottostanti la terrazza- lastrico solare posteriore, e ciò nella misura del 7%.
Si assumeva, allora, che tale criterio di riparto sarebbe stato arbitrario e non giustificato.
Stavolta l’impugnazione era fondata.
In tema di condominio di edifìci, ogni terrazza a livello, anche se di proprietà o di uso esclusivo di un singolo condomino, assolve alla stessa funzione di copertura del lastrico solare posto alla sommità dell'edifìcio nei confronti degli appartamenti sottostanti.
Ne consegue che , anche se appartiene in proprietà o se attribuito in uso esclusivo a uno dei condomini, all'obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario o con il titolare del diritto di uso esclusivo, secondo le proporzioni stabilite dall'art. 1126 c.c., vale a dire i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, e il titolare della proprietà o dell'uso esclusivo, in ragione delle altre utilità, nella misura del terzo residuo (cfr, ex multis, Cassazione civile , sez. III, 13 dicembre 2007, n. 26239).
Ciò posto, va rilevato che la variante all’art. 1126 c.c. inserita dal condominio convenuto – secondo cui alle spese della terrazza anteriore avrebbero dovuto concorrere pure i titolari di una presunta servitù sulla stessa in ragione del 7%, nonostante essi non fossero direttamente serviti dal bene in questione – non aveva alcuna base normativa.
Perciò una tale modifica del regime delle spese avrebbe potuto essere inserita – a prescindere poi dalla specifica correttezza della determinazione del 7% - solo mediante unanime consenso di tutti i condomini .
Ciò in quanto , in tema di condominio degli edifici ed in ordine alla ripartizione delle spese comuni, le attribuzioni dell'assemblea, ai sensi dell'art. 1135 n. 2 cod. civ. sono circoscritte alla verificazione ed applicazione in concreto dei criteri fissati dalla legge e non comprendono il potere di introdurre deroghe innovative ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe , venendo direttamente ad incidere sui diritti individuali del singolo condomino attraverso un mutamento del valore della parte dell'edificio di sua esclusiva proprietà, possono scaturire soltanto da una convenzione a cui egli aderisca.
Pertanto la deliberazione assembleare che ecceda o non faccia fedele applicazione di detti criteri è inefficace nei confronti del condomino dissenziente, per nullità radicale deducibile senza limitazioni di tempo e non meramente annullabile su impugnazione da proporsi entro trenta giorni, ai sensi dell'art. 1137 commi secondo e terzo cod. civ.. (Cass. Civ. Sez. U, Sentenza n. 2928 del 05/05/1980 ; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 12375 del 19/11/1992 ; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 3042 del 15/03/1995; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 7359 del 09/08/1996).
Ne discende che va annullato – per difetto di unanimità - l’art. 8 del Regolamento condominiale approvato con la delibera del 16.3.2005 nel punto in cui recita “le spese di manutenzione della terrazza anteriore saranno anche a carico delle unità immobiliari sottostanti alla terrazza posteriore nella misura del 7% per la servitù di uci alla relazione descrittiva”.
7)
I ricorrenti lamentavano altresì che l’art. 10 del Regolamento disponesse che “le biciclette potranno essere parcheggiate nello spazio esistente nella parte posteriore del palazzo, tra il confine del zzzzzz e la parte posteriore del vano condominiale”.
In particolare , ci si doleva della mancanza della maggioranza imposta dalla legge ex art.1136 comma 5 c.c., essendosi in tal modo deliberato un cambio di destinazione dell’area comune.
La doglianza è nuovamente fondata.
Invero, la Suprema Corte ha avuto già occasione di avvertire, in numerose decisioni, come il regolamento del condominio, qual è contemplato dal primo comma dell'art. 1138 C.C. - tanto se predisposto dal proprietario o costruttore dello stabile (ancorché prima dell'entrata in vigore del Cod. Civ.) e accettato di volta in volta dai successivi acquirenti degli appartamenti venduti, quanto se formato dall'assemblea dei condomini, ove si limiti a dettare norme che disciplinano l'uso e le modalità di godimento delle cose comuni, la ripartizione delle spese relative e la tutela del decoro dell'edificio - contempla una materia che rimane nell'ambito della organizzazione della vita interna del condominio, la quale ben può esser modificata dall'organo cui quel potere di organizzazione è devoluto, vale a dire dall'assemblea dei condomini con la maggioranza prevista dall'art. 1136 C.C..
Se invece il regolamento non si limita soltanto alla disciplina dell'uso delle cose comuni in conformità dei diritti spettanti ai singoli condomini, ma pone delle norme che, incidendo sui singoli diritti, si risolvono in una alterazione, a vantaggio di alcuni dei partecipanti e in pregiudizio degli altri, della misura del godimento che ciascun condomino ha in ragione della propria quota, in tal caso nessuna modificazione, può essere ammessa senza il consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio (cfr. Cass. 27.1.1996, n. 642; 8.1.1966, n. 158).
Tanto acclarato, è stato altresì specificato come la mera indicazione, in un regolamento condominiale, della destinazione a parcheggio (nel caso , di biciclette) di parte del cortile comune non determina una connotazione reale del bene, integrando, di contro, una innovazione volta al miglior regolamento dell'uso del cortile stesso, in modo da consentire ad ogni avente diritto l'uso del parcheggio.
Nondimeno, per la natura e finalità della delibera in esame, sarebbe necessario che la delibera sia approvata a maggioranza qualificata dei condomini (tra le altre, Cassazione civile , sez. II, 29 dicembre 2004, n. 24146; Cassazione civile , sez. II, 08 novembre 2004, n. 21287; Cass. 27 gennaio 1996 n. 642; . Cass. 17.10.1998, n. 10289; 3.9.1993, n. 9311).
Tale quorum (2/3), però, non è stato rispettato nella fattispecie , solo che si vadano a sommare i millesimi (espressi nel verbale della delibera ed unici da potersi prendere a riferimento, in quanto non contestati) di tutti i condomini che approvarono la delibera, con esclusione di quelli del dissenziente Caiox (124,16) nonché dei condomini assenti Sempronio (75,85) e Tiziox (161,46).
Per cui, andrà annullato anche l’art. 10 del Regolamento ove si statuiva “le biciclette potranno essere parcheggiate nello spazio esistente nella parte posteriore del palazzo, tra il confine del zzzzzz e la parte posteriore del vano condominiale”.
8)
I ricorrenti deducevano pure l’illegittimità dell’art. 12 lett. b) del Regolamento in quanto era ivi previsto che sarebbe stato “posto un paletto fisso all’inizio dell’androne di ingresso”, al fine di impedire ai condomini l’uso del cortile, financo e per le operazioni di carico e scarico delle proprie vetture o per motivi sanitari.
La censura è fondata.
Ed invero, la disposizione di un regolamento condominiale che importi un divieto di ingresso e parcheggio di autoveicoli nelle aree comuni , incidendo sul diritto di godimento spettante a ciascun condomino " iure proprietatis " sulle parti comuni , ha natura tipicamente negoziale , con la conseguenza che una sua introduzione o modifica avrebbe dovuto essere accettata da tutti i condomini per iscritto (cfr, Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 854 del 28/01/1997; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 1830 del 18/02/2000).
In mancanza, allora, dell’unanimità richiesta, non potrà che addivenirsi ad una ulteriore pronuncia di annullamento (da ultimo, Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 17694 del 14/08/2007; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 5626 del 18/04/2002), dovendo caducarsi l’art. 12 lett. b) del Regolamento.
9)
Da ultimo, i ricorrenti assumevano che l’art. 13 Regolamento fosse illegittimo perchè , prevedendo che “il monovano a piano terra, di proprietà dei condomini escluso il Sempronio, veniva destinato a locazione commerciale o deposito per terzi allo scopo di costituire un fondo cassa” , introduceva una nuova innovazione in mancanza delle maggioranze richieste ex art. 1136 5° comma c.c..
La censura è infondata.
Ciò per il semplice fatto che , con riguardo a tale specifica previsione, la maggioranza richiesta ex art. 1136 cit. era stata raggiunta, visto che, eliminando i millesimi del non comproprietario Sempronio nel computo del quorum, il limite dei due terzi (mill. 666) era stato rispettato .
Tuttavia, questo non si verificava perché – come erroneamente rilevato dalla difesa del condominio - dai 1000/millesimi del fabbricato andava sottratta la quota del Sempronio (75,81) per determinarsi (sul minor valore di 924,19/millesimi) una conseguente quota dei 2/3 più bassa (616,16), ma perché su tale vano – per quanto allegato dalle parti – non veniva ad esistere una situazione di condominio tecnicamente intesa, ma una mera comunione ordinaria, essendo risultato estromesso (fatto incontestato tra le parti) un compartecipe dell’intero fabbricato; per cui, nell’ambito di questa comunione ordinaria, le quote di compartecipazione di ciascun comunista, partendo da quelle condominiali , si accrescevano proporzionalmente anche della quota del Sempronio, non proprietario del vano; dal che, distribuendosi i 75,81 millesimi del Sempronio in capo agli altri condomini proprietari del vano , la delibera degli assenzienti riusciva a raggiungere i 666/millesimi del vano.
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Va dato atto che solo nelle memorie ex art. 184 c.p.c. i ricorrenti deducevano una ulteriore illegittimità afferente alle “tabelle per quanto attiene al riparto delle spese relative alle scale”: è evidente, tuttavia, che la censura, siccome avanzata solo in corso di giudizio, era inammissibile avendo integrato domanda nuova.
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Le spese potranno essere compensate tra le parti, vista la solo parziale fondatezza di un ricorso molto articolato e ricco di motivi di gravame.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunziando sulla domanda proposta da Caiox Axx e Meviax Bxx con ricorso depositato in data 9.5.2005 avverso il Condominio KKKK in … alla via …. Cxx Zxx, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattesa, cosi’ provvede:
- in parziale accoglimento della domanda , annulla la delibera condominiale adottata dal Condominio KKKK in … alla via … Cxx Zxx in data 16.3.2005 nei seguenti punti:
a) all’art. 8 del Regolamento condominiale ivi approvato , laddove si recita che “le spese di manutenzione della terrazza anteriore saranno anche a carico delle unità immobiliari sottostanti alla terrazza posteriore nella misura del 7% per la servitù di cui alla relazione descrittiva”;
b) all’art. 10 del Regolamento condominiale ivi approvato, laddove si recita che “le biciclette potranno essere parcheggiate nello spazio esistente nella parte posteriore del palazzo, tra il confine del zzzzzz e la parte posteriore del vano condominiale”;
c) all’art. 12 lett. b) del Regolamento condominiale ivi approvato, laddove si prevede il divieto di accedere e parcheggiare nel cortile comune con veicoli di ogni genere e che sarebbe stato “posto un paletto fisso all’inizio dell’androne di ingresso”;
- spese interamente compensate tra le parti.
Nola, 7.10.2008
Il Giudice dott. Alfonso Scermino
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