martedì 30 dicembre 2008

Interventi interpretativi con riguardo al patto di prova nel settore del lavoro privato

29/12/2008
Polito Antonio M.
(in Diritto & Diritti)
Il patto di prova nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione: un’analisi tematica

Una recente serie di pronunce della Corte di Cassazione si è occupata della disciplina del c.d. ‘patto di prova’ nel settore del lavoro privato. Di per sé, tali interventi interpretativi non hanno apportato letture propriamente ‘inedite’ di tale istituto, né significativi stravolgimenti nella valutazione di ciascuno dei singoli elementi tipici di tale disciplina (forma, funzione economica, onere della prova, ecc.). Tuttavia, tale rinnovato interessamento della Corte e la persistenza, nella relativa giurisprudenza, di elementi di obiettiva scivolosità e precaria determinatezza, suggeriscono la necessità di una pur agile puntualizzazione di alcuni di tali elementi, e ciò a partire proprio da quanto ribadito più recentemente.
In via preliminare, tuttavia, è opportuno riepilogare le fonti normative inerenti il ‘patto di prova’, atteso che, come si vedrà, non tutta la disciplina dell’istituto vi viene rappresentata.
Il riferimento più antico al ‘periodo di prova’, dunque, lo ritroviamo nel R.D.L. n. 1825 del 13 novembre 1924, all’art. 4, che determina non solo il vincolo di forma scritta (che si definirebbe ‘ad substantiam’) di tale patto (comma 1 e 3), ma anche il limite temporale di 3 o di 6 mesi (comma 4), a seconda di determinate categorie lavorative, oltre che l’assenza di obblighi di preavviso o indennità in caso di “risoluzione” del contratto (comma 5) controbilanciato dal riconoscimento dell’anzianità di servizio unicamente per il “periodo di prova seguito da conferma” (comma 6).
In realtà, almeno parte di tale norma è stata sostituita (pur non con espressa disposizione: cfr. art. 98 Disp. Att. Cod. Civ.) dall’articolo 2096 del Codice civile, che mantiene il vincolo di forma scritta (comma 1), l’assenza di obblighi di preavviso o di indennità in caso di “recesso” dal contratto (comma 3) ed il riconoscimento dell’anzianità di servizio solo una volta “compiuto il periodo di prova” (comma 4). Tale ultimo comma, giova dirlo per completezza, è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 189 del 22 dicembre 1980 “nella parte in cui non riconosce il diritto alla indennità di anzianità […] nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo”.
La disciplina legislativa generale del ‘patto di prova’ termina qui, atteso che solo per il contratto di apprendistato sono previste specificazioni limitatamente alla durata di tale periodo (2 mesi: cfr. L. 25/1955), escludendo la recentissima disciplina prevista dal D.L. 112/2008, convertito con L. 133/08, di cui non interessa occuparsi in questa sede.
A fronte di tale esigua regolamentazione legislativa, dunque, il ‘patto di prova ha trovato nell’interpretazione giurisprudenziale il momento più analitico della sua elaborazione, ma ciò, come subito si vedrà, non sempre senza incertezze o contraddizioni, presenti anche nelle recenti letture della Suprema Corte.

1) La durata.
Un primo elemento affrontato dalla Corte nella sentenza n.24282 del 29 settembre 2008, è quello dei limiti di durata del periodo di prova. Sul punto, la decisione, intendendo “dare continuità [a] decisioni risalenti nel tempo ma non smentite”, ha “fissato il principio per cui l’art. 2096 cod. civ., nel disciplinare l’assunzione in prova del lavoratore, non ha esaurito l’intera regolamentazione di questo speciale fenomeno nell’ambito del rapporto di lavoro, ma ha semplicemente dettato una disciplina di carattere generale che, anziché escludere, implica l’integrazione ad opera di altre norme, riguardanti elementi e modalità particolari”.
Da tale assunto, quindi, la Corte deduce la piena operatività del R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825, che non si può ritenere abrogato dalla successiva emanazione del Codice civile vigente e nello specifico non può ritenersi abrogato l’art.4 di detto R.D.L., “che fissa la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti” per i quali invece, in virtù del medesimo articolo e del medesimo ragionamento, il periodo massimo di prova deve considerarsi di sei mesi.
Il termine di sei mesi, peraltro, viene preso anche in considerazione dall’art. 10 della L. 604/1966, il quale precisa che tale legge si applica anche ai lavoratori assunti in prova, dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, dal momento in cui sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. La Corte ha quindi anche precisato che la L. 604/1966 “non ha inteso dettare una nuova disciplina del contratto di assunzione in prova e fissare un nuovo termine alla sua durata, tale da rendere inoperante la disciplina precedente” che anzi, sul punto, non si ritiene possa porre alcun problema di compatibilità.

2) La causa del patto e l’interesse delle parti.
Contrariamente all’aspetto precedente, frutto di dubbi più per motivi di ordine formale che sostanziale, uno degli aspetti più spigolosi della disciplina del patto di prova risiede proprio nella valutazione dell’interesse che le parti possono avere al suo inserimento, dalla cui fumosità derivano, come vedremo, incertezze interpretative inerenti altri aspetti dell’istituto.
Da ultima, infatti, la sentenza n. 27314 del 17 novembre 2008 specifica come “la causa del patto di prova va[da] individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
Ma è bene ricordare, invece, che la meno recente sentenza n. 22637 del 02 dicembre 2004, più analiticamente, specifica che “per la complessità degli obblighi e dei diritti rispettivi, derivanti dal contratto di lavoro, la verifica della convenienza reciproca delle parti all’instaurazione del rapporto, implica valutazioni più complesse che non quella della sola idoneità del dipendente alle mansioni che è destinato ad espletare, essendo rilevante altresì valutare complessivamente la di lui personalità, in relazione all’interesse dell’impresa, con riferimento anche agli obblighi di diligenza, disciplina e fedeltà (art. 2104 e 2105 C.c.)”.
Come è già facile intuire, pertanto, la questione appare più complicata del previsto, avendo la giurisprudenza della Corte elaborato ben più di un elemento sulla base del quale valutare la ‘reciproca convenienza del contratto’, ed in forme che, a volte in maniera poco organica ed in apparente contrasto con la sua funzione ‘nomofilattica’, hanno tuttavia l’innegabile pregio di ancorare sempre il dato interpretativo alla concreta fattispecie oggetto di causa.
Ma le difficoltà non sono finite, in quanto ancora nella sentenza n. 27314/2008 si fa riferimento, nei possibili elementi di valutazione, “non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”, aspetti la cui esatta valutazione, francamente, sfugge, lambendo sin troppo da vicino, se non debitamente limitati, dati c.d. ‘sensibili’ della persona del lavoratore, la cui valutazione appare di legalità quantomeno sospetta… Si specifica, per esattezza, che la fattispecie concreta ha per oggetto una sequenza di rapporti di lavoro e pertanto tale valutazione prende in considerazione le ‘variazioni’ di tali aspetti, ma a nostro avviso le perplessità espresse rimangono invariate.
Così come, sempre Cass. 22637/2004, fa emergere un ulteriore possibile elemento di valutazione della ‘convenienza’ al contratto da parte dell’azienda, che esula del tutto dalla persona del lavoratore, ovvero l’inserimento della “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale”. Anche qui, come in Cass. 27314/2008, il riferimento non è diretto bensì finalizzato a dar prova di un precedente rapporto di lavoro (la cui disciplina si affronterà nel prosieguo), ma l’argomentazione della Corte appare pertinente anche in fattispecie, diciamo così, più statiche: il mancato interesse dell’azienda per le prestazioni di un lavoratore potrebbe in astratto prescindere dalle qualità di questi ma dipendere dall’oggettiva, e comprovata, mancanza di inserimento organizzativo. A questo punto, però, i dubbi che potrebbero emergere atterrebbero una eventuale incapacità e responsabilità organizzativa (preliminare al rapporto lavorativo) da parte dell’azienda; un’incapacità che, come tale, sarebbe del tutto indipendente dallo svolgimento delle prestazioni da parte del lavoratore e pertanto ingiusto farla ricadere su quest’ultimo.
Ma un ulteriore aspetto che, nonostante la sua importanza, poche volte ha suscitato l’interesse della giurisprudenza della Corte, è quello dell’interesse del lavoratore alla stipula del patto. Nonostante infatti tutte le interpretazioni diano per scontata la necessità, ai fini della legittimità della apposizione, della presenza dell’interesse anche di quest’ultimo, e che lo stesso art. 2096 C.c. faccia esplicito riferimento al fatto che “il prestatore di lavoro [sia] tenut[o] a fare l’esperimento che forma oggetto di prova”, ben raramente la Corte si è interessata all’argomento, ed uno di tali rari casi è quello della recentissima sentenza n.27805 del 21 novembre 2008. Nel caso in esame, infatti, tra le doglianze promosse dalla lavoratrice ricorrente, troviamo proprio quella che, atteso il suo stato di necessità e di disoccupazione, ed atteso che la stessa ricorrente avesse già svolto le medesime mansioni per il medesimo appaltante, “nella specie il patto di prova si risolveva nella attribuzione al datore di lavoro di una prerogativa senza alcun corrispondente vantaggio per il lavoratore” e che questi “non aveva altra alternativa al suo stato di disoccupazione”. Conseguentemente, il patto di prova sarebbe dovuto essere dichiarato “nullo sia per difetto di causa sia perché la volontà del lavoratore di sottoscriverlo era del tutto mancante dovendo ritenersi coartata”.
Prescindendo in questa sede da elementi di natura probatoria, la lettura che la Corte ha dato sino ad oggi alla questione, sopra ricordata, sarebbe del tutto conforme a quanto prospettato dalla ricorrente, e con rigore giuridico bisognerebbe comparare la nullità del patto per inesistenza della ‘prova’ (in quanto per esempio già fornita in precedenza), alla nullità per inesistenza dell’interesse del prestatore di lavoro alla valutazione dell’“entità della prestazione” e delle “condizioni di svolgimento del rapporto” (Cass. 27314/2008), anche in questo caso, ad esempio, in quanto già perfettamente conosciute. Una interpretazione fedele agli stessi principi dettati dalla Corte, dunque, dovrebbe portare a tale tipo di conclusione. Al contrario, la sentenza del 21 novembre scorso non porta a compimento tali presupposti interpretativi, concludendo invece come “la mancanza da parte della lavoratrice di un interesse ad avvalersi in concreto del patto, per la sua contingente condizione di disoccupata, costituisce un motivo personale che non esclude la causa oggettiva della pattuizione” e che “va osservato che la scelta della contraente è dovuta ad una spontanea ed autonoma valutazione di convenienza che nulla ha a che vedere con la minaccia di un male ingiusto e notevole proveniente dall’altro contraente o da terzi”…
Mentre dunque la Corte di Cassazione ha, ad oggi, più volte sanzionato la nullità del patto di prova per assenza dell’interesse del datore di lavoro, non risultano precedenti, nello stesso senso, per assenza di interesse da parte del prestatore di lavoro. Tale vera e propria ‘lacuna’ giuridica, pur di origine giurisprudenziale e non normativa, suggerirebbe un attento approfondimento di tale tematica ed una particolare cautela nel suo uso in giudizio.

3) Le mansioni: a) loro determinatezza.
Argomento centrale e vero e proprio perno del patto di prova, sono però le mansioni a cui il lavoratore viene adibito. Fortunatamente, questa volta la giurisprudenza anche recente della Corte di Cassazione è stata particolarmente analitica ed attenta, dedicandovi pagine analitiche e coerenti.
Il primo aspetto oggetto di attenzione da parte della Corte, è quello relativo al loro livello di determinatezza. Ancora la sentenza n. 24282 del 29 settembre 2008 afferma che il patto di prova deve “contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletare, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate”. A nostro avviso, l’importanza di tale specificazione risiede nella individuazione del vero motivo alla base della indicazione delle mansioni, che è quello della univoca ed ‘insindacabile’ valutazione dell’esito della prova, attività giuridicamente incompatibile con una indicazione generica dell’oggetto della stessa: in altre parole, in assenza di sufficiente determinatezza nelle mansioni, mancherebbe qualsiasi elemento oggettivo per la correttezza di tale valutazione.
A tal fine, è stata valutata la possibilità, oltre che ad una puntuale elencazione delle mansioni, di inserire un più generico ed indiretto riferimento al sistema classificatorio contenuto nella contrattazione collettiva di categoria. Tale sistema di riferimento è stato dichiarato del tutto legittimo e rispettoso delle condizioni di determinatezza e specificità delle mansioni oggetto di prova, a patto che “rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata” (sempre Cass. 24282/2008).
Si ricorda infine per completezza, che la sentenza n. 17045 del 19 agosto 2005 (richiamata dalla precedente) afferma che “tale requisito implicito della specificità delle mansioni è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, tanto che sul punto può parlarsi ormai di diritto vivente”.

4) Le mansioni: b) patto di prova e variazione ex art. 2103 C.c.
Quasi un corollario al tema precedente, ma non privo di autonome problematiche, è quello della possibilità di un eventuale ‘ius variandi’ delle mansioni oggetto di ‘prova’.
Sul punto, Cass. 17045/2005, in continuità con il discorso precedente, puntualizza che, in ordine alla necessaria specificità delle mansioni, questa non possa “spingersi fino a richiedere l’indicazione delle ‘prime’ mansioni assegnate in concreto al lavoratore in prova, perché, se solo queste fossero oggetto della prova, non sarebbero modificabili con deroga allo ‘ius variandi’”. Tuttavia, continua il ragionamento della Corte, “dall’art. 2096 C.c., pur letto alla luce di C. Cost. n.189 del 1980, non è possibile ricavare anche una tale rigidità, ossia un divieto di modificare, nel corso del periodo di prova, le mansioni del lavoratore nel rispetto dell’art. 2103 C.c.”.
Ad una generale compatibilità del periodo di prova e della dettagliata indicazione delle mansioni oggetto dello stesso, con la facoltà datoriale di cui all’art.2103 C.c., quindi, la Corte specifica come “rientr[i] semmai nell’autonomia delle parti eventualmente vincolare la prova alle sole mansioni di prima assegnazione con la conseguenza che solo dopo l’espletamento (e quindi il superamento) della prova il datore di lavoro [possa] esercitare lo ‘ius variandi’”. Eventualità che, se nella pratica è estremamente rara da rinvenire, da un punto di vista tecnico-giuridico può indubbiamente ampliare la duttilità e la completezza della fattispecie.

5) Le mansioni: c) vizi e nullità del patto.
Per ragioni sistematiche, converrà inserire sotto la tematica delle ‘mansioni’ anche la problematica inerente la loro mancata valutazione da parte datoriale, che toglie al patto di prova il suo motivo d’essere (causa), sanzionandolo con la nullità.
Al di là degli elementi collegati al recesso, che verranno trattati nel punto precedente, interessa qui occuparsi invece dei casi in cui in realtà la ‘prova’ delle abilità e/o della personalità del lavoratore non potrebbe riscontrarsi, attesa la già piena conoscenza di tale elemento, da parte datoriale, derivante da un pregresso rapporto lavorativo.
Anche questo aspetto è stato affrontato dalle recenti pronunce della Corte, che nella sentenza n. 27330 del 17 novembre 2008, dopo aver ricordato che la causa tipica del patto “mira a tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto”, sottolinea che “deve ritenersi illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni”. Nella fattispecie sottoposta all’attenzione del giudicante, la lavoratrice aveva lavorato durante il rapporto subordinato ‘in prova’ con le stesse mansioni che aveva già svolto in precedenza in virtù di un patto di Inserimento Professionale stipulato con il medesimo studio professionale.
Al contrario, tuttavia, Cass. 27314/2008 specifica che “è ben ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati dalle stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”; aspetto che in parte abbiamo già trattato negli elementi tipici del patto di prova e che qui si ripropone per sottolineare come una certa distanza temporale tra due rapporti di lavoro, tra medesimi soggetti e per la medesima tipologia di mansioni, possa anche, lì dove dimostrato, comportare la necessità di una nuova verifica delle qualità del prestatore di lavoro (nella fattispecie sottoposta alla valutazione del giudicante, l’intervallo temporale era stato di circa quattro anni).
Ma la recente analisi della Corte si è spinta anche oltre, considerando anche la possibilità di una variazione soggettiva del rapporto contrattuale.
La già citata sentenza n. 27805/2008, infatti, considera il caso in cui una lavoratrice socialmente utile ha lavorato prima per una ASL, poi per una sua ditta appaltatrice, con le medesime mansioni e per la medesima tipologia di lavoro. Ebbene, anche prescindendo da una evidenziata carenza probatoria in ordine all’“avere la [lavoratrice] già acquisito nel precedente rapporto di lavoro con la ASL le competenze necessarie allo svolgimento delle mansioni assegnate”, la Corte ritiene legittima l’apposizione, nel secondo rapporto, di un patto di prova (seguito da recesso della società appaltatrice), ritenendo “di tutta evidenza che l’avere la nuova assunta in precedenza svolto mansioni di archivio non esclude l’interesse del nuovo datore di lavoro di verificare il grado di preparazione e le attitudini allo svolgimento delle mansioni di cui la stessa sia in possesso”.
Al contrario, la poco più antica Cass. 22637/2004 insiste su un altro aspetto, che potremmo dire speculare al precedente: in questo caso, infatti, la lavoratrice presta la propria attività con le stesse mansioni e sempre all’interno della medesima struttura, ma prima in qualità di socia lavoratrice di una ditta appaltatrice, poi come diretta dipendente della struttura stessa. In questo caso, il patto di prova viene ritenuto “non funzionale alla sperimentazione della reciproca convenienza al contratto”, per “essere questa già avvenuta con esito positivo”.
Ulteriore elemento di estremo interesse, per l’oggetto della nostra analisi, è poi che la Corte ritiene dimostrabile tale circostanza anche “per presunzioni, essendo desumibile dalla sussistenza di un precedente rapporto di lavoro tra le parti o, come nella specie in esame, dall’avere in precedenza il lavoratore prestato per un congruo lasso di tempo la propria opera per il datore di lavoro”. Nel caso di specie, allora, risulta rilevante ed assorbente la circostanza per cui la “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale che ne ha tratto di fatto beneficio (e che ha poi proceduto all’assunzione del lavoratore), indipendentemente dalla circostanza, in concreto irrilevante, che il lavoratore fosse obbligato alla prestazione per l’attuazione di un diverso rapporto (nel caso ora in esame di società in una cooperativa di lavoro) e il destinatario effettivo della prestazione avesse diritto a pretenderla nei confronti di altro soggetto (la cooperativa)”.
L’interpretazione della Corte di Cassazione, dunque, appare anche qui coerente: ad essere considerato ai fini della valutazione della legittima e corretta ‘sperimentazione della convenienza’, non può essere il mero aspetto formale (tipologia del rapporto giuridico), bensì quello sostanziale (concreta possibilità di fare, o aver già fatto, tale valutazione).

6) Il recesso: a) motivazione.
Ma l’argomento sul quale la giurisprudenza, anche recente, della Corte trova le maggiori difficoltà nell’offrire un quadro giuridicamente coerente alla disciplina del patto di prova, è quello del recesso da parte del datore di lavoro e delle sue (eventuali) motivazioni. Sino ad oggi, infatti, le sentenze emanate dal Giudice delle Leggi continuano ad oscillare (a volte anche nell’ambito della stessa pronuncia) tra una tipologia di recesso ‘ad nutum’, come tale non motivato ed insindacabile da parte del prestatore di lavoro, ed una ipotetica ‘impugnabilità’ del licenziamento per insussistenza, o insufficienza, dei motivi.
Ricordiamo per un momento quanto sottolineato in precedenza: la univoca e dettagliata determinazione delle mansioni oggetto della ‘prova’ ha esattamente la funzione di rendere determinabile l’attività di valutazione stessa, che altrimenti, priva di riferimenti obiettivi, sarebbe contraria alla ratio del patto di poter sperimentare il comportamento professionale del lavoratore. Da cui, in logica conseguenza, l’eventuale nullità dello stesso in caso le motivazioni del recesso (esplicite o meno) possano prescindere da tale elemento di riferimento.
Ma tale linearità espositiva rimane in molti casi meramente teorica, come si anticipava.
La questione circa un’eventuale obbligatorietà delle motivazioni del recesso trova un (insuperabile?) ostacolo non solo nella giurisprudenza di Legittimità, bensì in quella della stessa Corte Costituzionale, che con la sentenza n.189 del 16 dicembre 1980 ha specificato come, dato che “nel sistema del codice civile (libro V, titolo II, sez. III) non è previsto l’obbligo dell’imprenditore di motivare il recesso dal contratto a tempo indeterminato e che tale obbligo è stato introdotto con l’art. 2 della legge n. 604 del 1966” e che “l’art. 2096, terzo comma, c.c., al di fuori dell’ambito di operatività della legge n. 604 del 1966, non sembra confliggere con gli invocati parametri costituzionali”, “ne deriva che la disposizione del c.c. (art. 2118) sul recesso dal contratto a tempo indeterminato [che obbliga solo nel dare il preavviso, ma non a fornire motivazione, n.d.r.] ha tuttora un suo campo di applicazione”. Ricordiamo infatti che l’art. 10 della L. 604/1966 esclude espressamente l’applicabilità di tale legge (che limita le possibilità di licenziamento in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai casi di giusta causa (art.1) o giustificato motivo (art.3), debitamente motivati) ai lavoratori “assunti in prova”, se non dal momento in cui “l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”.
La Corte Costituzionale sul punto è perentoria: non c’è previsione normativa che stabilisca l’obbligo di motivazione del recesso durante il patto di prova, così come né l’art. 35 né l’art. 4 della Carta garantiscono “il diritto alla conservazione del posto di lavoro”, né tantomeno una “applicazione indiscriminata del principio della giusta causa e del giustificato motivo nei licenziamenti, ma ‘lascia’ al legislatore ampia discrezionalità in materia” (da sent. Corte Cost. n. 129 del 1976).
Sin qui il ragionamento diretto alle fonti normative riferite, condivisibile o meno, appare logicamente consequenziale e giuridicamente esente da vizi. Ma è nel prosieguo che emergono le difficoltà.
A fronte di una, a nostro avviso condivisibile, ordinanza di rimessione del Giudice del Merito che lamentava la possibilità, in caso di recesso non doverosamente motivato, di una “assoluta discrezionalità garantita al datore di lavoro” e la possibilità di conseguenti comportamenti “vessatori e lesivi della dignità del lavoratore”, la Corte risponde che, attesa la presenza del precetto normativo del secondo comma dell’art. 2096 C.c. obbligante le parti “a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, “ne discende un primo limite alla discrezionalità dell’imprenditore”. Pertanto, il licenziamento intimato durante il periodo di prova “può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita […] quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato”.
Il Giudice delle Leggi, dunque, anche dalla lettura del dato normativo, sottolinea come il recesso non possa essere ‘assolutamente discrezionale’, ovvero tecnicamente ‘ad nutum’, ammettendo che “il lavoratore il quale ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale”. Il ragionamento della Suprema Corte, dunque, termina con la rassicurante conclusione che non riscontra “nelle disposizioni di legge censurate alcun attentato alla libertà ed alla dignità del lavoratore, soprattutto quando si riconosca la sindacabilità nei limiti anzidetti […] e l’annullabilità dell’atto nel quale si esprime, tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”.
A ben vedere, però, qui il ragionamento invece che chiarirsi, si fa inaspettatamente più confuso.
Ricapitoliamo: la Corte Costituzionale asserisce tanto la mancata presenza, nel nostro ordinamento, di un ‘principio generale di giustificazione del licenziamento’, individuabile esclusivamente nell’ambito applicativo della L. 604/1966, che l’inesistenza del dovere di motivare un atto giuridico di recesso che debba, però, tener conto dell’effettivo ‘esperimento’ delle proprie qualità, tecniche ma anche ‘personali’. Per far ciò, la Corte perviene così ad un concetto che lambisce da vicino un ossimoro logico e giuridico: quello di una discrezionalità ‘limitata’, ovvero di una “discrezionalità che si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore” ed in quanto tale suscettibile, coerentemente, di ‘prova contraria’ da parte del lavoratore.

Da qui i seguenti dubbi:
a) se la asserita ‘discrezionalità’ del datore è ‘limitata’, fino a che punto rimane ‘discrezionalità’, e fino a che punto non lo è più? Qual è il limite tra aspetti di natura soggettiva e quelli di natura oggettiva, in tale valutazione? Infatti
b) se addirittura può esser fornita ‘prova contraria’ da parte del lavoratore sulle sue competenze (e ciò la Corte lo ha chiaramente esplicitato), in cosa rimane ‘discrezionale’ la valutazione del datore di lavoro? E soprattutto
c) come può tutto questo essere compatibile con la resistente affermazione per la quale il provvedimento di recesso non avrebbe obbligo di motivazione? Al contrario non sarebbe, proprio sulla base di tale ragionamento, il ‘motivo’ posto alla base del recesso, l’unico fattore che potrebbe offrire una qualificazione ed un ambito dialettico sia alla ‘discrezionalità’ datoriale (che così si espliciterebbe) che alle eventuali contestazioni del lavoratore? Non sarebbe così, l’apposizione del motivo, l’unica garanzia in grado di rispecchiare e tutelare l’interesse di entrambe le parti?
d) Infine, non sembrerebbe la stessa Corte Costituzionale ‘suggerire’ la necessità di una motivazione quando ammette la “annullabilità dell’atto nel quale si esprime [il recesso del datore], tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”? Non si intravede quindi, anche nel parere della Corte Costituzionale, la consapevolezza che solo un recesso esplicitamente motivato potrebbe dar contezza tanto di una discrezionalità datoriale (vincolata però ad aspetti oggettivi e pertinenti) che di un legittimo (ma limitato) controllo del lavoratore?
Purtroppo, tale lontano ma autorevole precedente giurisprudenziale, con le contraddizioni che si sono illustrate, ha improntato delle sue incertezze argomentative tutta la giurisprudenza successiva del Giudice di Legittimità, che di volta in volta ha oscillato tra gli opposti di un recesso ‘ad nutum’ (la decisa maggioranza, anche recente) e quelli a favore di un maggior controllo sulla discrezionalità datoriale, molto spesso conviventi nella stessa decisione(cfr. ancora Cass. 17045/2005), ma in ciò facendo sottraendosi alla funzione c.d. ‘nomofilattica’ che ci si attende da tale giurisprudenza per ricevere un chiaro quadro di orientamento giuridico, sociale ed economico.

7) Il recesso: b) la prova.
Da quanto sin ora illustrato, ben si comprende come l’argomento dell’onere della prova, delle sue modalità e delle sue conseguenze, sia intimamente collegato all’interpretazione del patto stesso.
A seconda infatti che il dovere di motivazione, da parte del recedente, sia più o meno qualificato, deriva un più o meno ampio ‘dovere di prova’, a fronte di uno speculare ‘diritto di prova contraria’. Da questo punto di vista, quanto più ci avviciniamo ad una interpretazione ‘ad nutum’ del patto, tanto più escludiamo la possibilità stessa che ci possa essere sia ‘prova’ dei motivi del recesso, che conseguentemente ‘prova contraria’ da parte del soggetto che il recesso subisce.
Seguendo tale premessa, ad una interpretazione pienamente ‘ad nutum’, e quindi senza alcun obbligo di motivazione, corrisponderebbe una assoluta impossibilità di fornire prova contraria. Quanto più si allarga invece la possibilità di valutare i ‘motivi’ del recesso, tanto più si allargano le maglie entro le quali può inserirsi la possibilità di offrire prova contraria avverso comportamenti rescindenti ingiusti.
Và da sé, dunque, che i forti dubbi che si sono sollevati sulla opportunità e legittimità di una interpretazione del patto di prova come un’incondizionata ‘facoltà di recesso ad nutum’, pur limitata temporalmente, attengono principalmente alla possibilità, da parte di chi è destinatario di tale recesso, di poter avere strumenti di verifica e, nel caso, di difesa avverso azioni non giustificabili.
Oltre infatti a motivazioni di ordine generale, che dovrebbero suggerire un’estrema attenzione nell’individuazione di tali forme ‘ad nutum’, luogo principe di condotte ricattatorie e strumentali soprattutto nel settore del diritto del lavoro, i dubbi che si pongono in ordine ad una interpretazione di tal specie deriva, ancora una volta, dalle stesse letture che ne ha dato la Corte.
Pur con le incongruenze già sopra sottolineate, è ancora la sentenza n. 17045/2005 che, sul punto, specifica, nelle sue motivazioni, un passaggio estremamente importante. Dopo infatti aver affermato che, nel caso di specie, il riferimento alle mansioni contenute in un CCNL richiamato “si appalesava privo del necessario requisito di specificità”, la Corte sottolinea che “da ciò consegue che il recesso intimato dalla banca datrice di lavoro non si iscrive nell’eccezionale fattispecie di recesso ad nutum di cui all’art. 2096 C.c., esentato dall’applicabilità dell’ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento (art. 10 legge n. 604 del 1966), ma consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o giustificato motivo”. Ecco dunque che, in base a tale mutazione del titolo giuridico posto alla base dell’atto del datore di lavoro, “l’allegato mancato superamento della prova per inidoneità del [lavoratore] alle mansioni in concreto svolte ridonda in allegazione di un giustificato motivo di licenziamento rispetto al quale il controllo del giudice è pieno e non già limitato, come nel caso dell’art.2096 c.c., al riscontro dell’effettività dell’esperimento fatto e della mancanza di motivi discriminatori”.
In altre parole la Corte, ribadita la ‘eccezionalità’ della previsione di cui all’art. 2096 c.c. e confermata la facoltà di recesso ‘ad nutum’, pur compatibilmente con l’obbligo dell’effettività dell’esperimento della prova ed in assenza di motivi discriminatori, sancisce la mutazione del titolo di recesso in quello di licenziamento per giustificato motivo (oggettivo e soggettivo?), in ordine al quale il Giudice torna ad avere il pieno ‘controllo’ della motivazione.
L’importanza di tale ragionamento interpretativo, dunque, la si rinviene nel rendere particolarmente evidente il rapporto tra determinatezza (‘specificità’) dell’oggetto della prova, caratteristiche ‘eccezionali’ delle facoltà (‘ad nutum’) del datore di lavoro e limitato ‘controllo’ del Giudicante, ovvero della controparte, la cui ‘eccezionale’ disciplina, venuto meno uno degli elementi necessari, riporta (o “ridonda”) il recesso in una forma di licenziamento per giustificato motivo, restituendo così piena ‘cognitio’ alla fattispecie.
Tale ragionamento, conseguentemente, trova pieno riflesso nel regime delle prove, che godono in versione specularmente invertita, come abbiamo già sottolineato in apertura di paragrafo, dei medesimi limiti e dei medesimi ambiti di libertà.
Ancora una volta, dunque, l’argomento della ‘motivazione’ diventa, pur in presenza delle ambiguità già illustrate, il campo obiettivo rispetto al quale si confrontano le facoltà di agire delle parti, unitamente alle loro potenzialità probatorie ed allo stesso potere di ‘controllo’ dell’organo giudicante.
Se la (pur non obbligatoria) motivazione del recesso rappresenta ancora una volta, dunque, la forma più trasparente e difficilmente sindacabile di tale potere, l’esercizio di tale facoltà nelle forme più libere (‘ad nutum’), oltre a creare indubbie incertezze e difficoltà interpretative, sottopone a pericolose incertezze le parti coinvolte, soprattutto in relazione ad un soggetto terzo (giudice) il cui potere di sindacabilità e ‘controllo’, lì dove ritornato ‘pieno’, difficilmente potrebbe sostituirsi a valutazioni produttive che dovrebbero, in tali limiti, rimanere scelte soggettive del singolo imprenditore.
Anche per evitare il rischio di valutazioni terze che possano “ritenere illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo” (sent. Cass. n. 27330/2008) , ovvero agire per pericolose “presunzioni” (sent. Cass. n. 22637/2004), risulta dunque quanto mai opportuno esplicitare, nell’atto di recesso, le sue motivazioni, per offrire da un lato la legittima trasparenza richiesta dalla controparte e dall’altro non dover essere costretti a fornire elementi di ‘oggettività’ a valutazioni che dovrebbero, e potrebbero, non superare tale vaglio.


Antonio M. Polito
avvocato del Lavoro

Interventi interpretativi con riguardo al patto di prova nel settore del lavoro privato

29/12/2008
Polito Antonio M.
(in Diritto & Diritti)
Il patto di prova nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione: un’analisi tematica

Una recente serie di pronunce della Corte di Cassazione si è occupata della disciplina del c.d. ‘patto di prova’ nel settore del lavoro privato. Di per sé, tali interventi interpretativi non hanno apportato letture propriamente ‘inedite’ di tale istituto, né significativi stravolgimenti nella valutazione di ciascuno dei singoli elementi tipici di tale disciplina (forma, funzione economica, onere della prova, ecc.). Tuttavia, tale rinnovato interessamento della Corte e la persistenza, nella relativa giurisprudenza, di elementi di obiettiva scivolosità e precaria determinatezza, suggeriscono la necessità di una pur agile puntualizzazione di alcuni di tali elementi, e ciò a partire proprio da quanto ribadito più recentemente.
In via preliminare, tuttavia, è opportuno riepilogare le fonti normative inerenti il ‘patto di prova’, atteso che, come si vedrà, non tutta la disciplina dell’istituto vi viene rappresentata.
Il riferimento più antico al ‘periodo di prova’, dunque, lo ritroviamo nel R.D.L. n. 1825 del 13 novembre 1924, all’art. 4, che determina non solo il vincolo di forma scritta (che si definirebbe ‘ad substantiam’) di tale patto (comma 1 e 3), ma anche il limite temporale di 3 o di 6 mesi (comma 4), a seconda di determinate categorie lavorative, oltre che l’assenza di obblighi di preavviso o indennità in caso di “risoluzione” del contratto (comma 5) controbilanciato dal riconoscimento dell’anzianità di servizio unicamente per il “periodo di prova seguito da conferma” (comma 6).
In realtà, almeno parte di tale norma è stata sostituita (pur non con espressa disposizione: cfr. art. 98 Disp. Att. Cod. Civ.) dall’articolo 2096 del Codice civile, che mantiene il vincolo di forma scritta (comma 1), l’assenza di obblighi di preavviso o di indennità in caso di “recesso” dal contratto (comma 3) ed il riconoscimento dell’anzianità di servizio solo una volta “compiuto il periodo di prova” (comma 4). Tale ultimo comma, giova dirlo per completezza, è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 189 del 22 dicembre 1980 “nella parte in cui non riconosce il diritto alla indennità di anzianità […] nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo”.
La disciplina legislativa generale del ‘patto di prova’ termina qui, atteso che solo per il contratto di apprendistato sono previste specificazioni limitatamente alla durata di tale periodo (2 mesi: cfr. L. 25/1955), escludendo la recentissima disciplina prevista dal D.L. 112/2008, convertito con L. 133/08, di cui non interessa occuparsi in questa sede.
A fronte di tale esigua regolamentazione legislativa, dunque, il ‘patto di prova ha trovato nell’interpretazione giurisprudenziale il momento più analitico della sua elaborazione, ma ciò, come subito si vedrà, non sempre senza incertezze o contraddizioni, presenti anche nelle recenti letture della Suprema Corte.

1) La durata.
Un primo elemento affrontato dalla Corte nella sentenza n.24282 del 29 settembre 2008, è quello dei limiti di durata del periodo di prova. Sul punto, la decisione, intendendo “dare continuità [a] decisioni risalenti nel tempo ma non smentite”, ha “fissato il principio per cui l’art. 2096 cod. civ., nel disciplinare l’assunzione in prova del lavoratore, non ha esaurito l’intera regolamentazione di questo speciale fenomeno nell’ambito del rapporto di lavoro, ma ha semplicemente dettato una disciplina di carattere generale che, anziché escludere, implica l’integrazione ad opera di altre norme, riguardanti elementi e modalità particolari”.
Da tale assunto, quindi, la Corte deduce la piena operatività del R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825, che non si può ritenere abrogato dalla successiva emanazione del Codice civile vigente e nello specifico non può ritenersi abrogato l’art.4 di detto R.D.L., “che fissa la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti” per i quali invece, in virtù del medesimo articolo e del medesimo ragionamento, il periodo massimo di prova deve considerarsi di sei mesi.
Il termine di sei mesi, peraltro, viene preso anche in considerazione dall’art. 10 della L. 604/1966, il quale precisa che tale legge si applica anche ai lavoratori assunti in prova, dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, dal momento in cui sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. La Corte ha quindi anche precisato che la L. 604/1966 “non ha inteso dettare una nuova disciplina del contratto di assunzione in prova e fissare un nuovo termine alla sua durata, tale da rendere inoperante la disciplina precedente” che anzi, sul punto, non si ritiene possa porre alcun problema di compatibilità.

2) La causa del patto e l’interesse delle parti.
Contrariamente all’aspetto precedente, frutto di dubbi più per motivi di ordine formale che sostanziale, uno degli aspetti più spigolosi della disciplina del patto di prova risiede proprio nella valutazione dell’interesse che le parti possono avere al suo inserimento, dalla cui fumosità derivano, come vedremo, incertezze interpretative inerenti altri aspetti dell’istituto.
Da ultima, infatti, la sentenza n. 27314 del 17 novembre 2008 specifica come “la causa del patto di prova va[da] individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
Ma è bene ricordare, invece, che la meno recente sentenza n. 22637 del 02 dicembre 2004, più analiticamente, specifica che “per la complessità degli obblighi e dei diritti rispettivi, derivanti dal contratto di lavoro, la verifica della convenienza reciproca delle parti all’instaurazione del rapporto, implica valutazioni più complesse che non quella della sola idoneità del dipendente alle mansioni che è destinato ad espletare, essendo rilevante altresì valutare complessivamente la di lui personalità, in relazione all’interesse dell’impresa, con riferimento anche agli obblighi di diligenza, disciplina e fedeltà (art. 2104 e 2105 C.c.)”.
Come è già facile intuire, pertanto, la questione appare più complicata del previsto, avendo la giurisprudenza della Corte elaborato ben più di un elemento sulla base del quale valutare la ‘reciproca convenienza del contratto’, ed in forme che, a volte in maniera poco organica ed in apparente contrasto con la sua funzione ‘nomofilattica’, hanno tuttavia l’innegabile pregio di ancorare sempre il dato interpretativo alla concreta fattispecie oggetto di causa.
Ma le difficoltà non sono finite, in quanto ancora nella sentenza n. 27314/2008 si fa riferimento, nei possibili elementi di valutazione, “non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”, aspetti la cui esatta valutazione, francamente, sfugge, lambendo sin troppo da vicino, se non debitamente limitati, dati c.d. ‘sensibili’ della persona del lavoratore, la cui valutazione appare di legalità quantomeno sospetta… Si specifica, per esattezza, che la fattispecie concreta ha per oggetto una sequenza di rapporti di lavoro e pertanto tale valutazione prende in considerazione le ‘variazioni’ di tali aspetti, ma a nostro avviso le perplessità espresse rimangono invariate.
Così come, sempre Cass. 22637/2004, fa emergere un ulteriore possibile elemento di valutazione della ‘convenienza’ al contratto da parte dell’azienda, che esula del tutto dalla persona del lavoratore, ovvero l’inserimento della “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale”. Anche qui, come in Cass. 27314/2008, il riferimento non è diretto bensì finalizzato a dar prova di un precedente rapporto di lavoro (la cui disciplina si affronterà nel prosieguo), ma l’argomentazione della Corte appare pertinente anche in fattispecie, diciamo così, più statiche: il mancato interesse dell’azienda per le prestazioni di un lavoratore potrebbe in astratto prescindere dalle qualità di questi ma dipendere dall’oggettiva, e comprovata, mancanza di inserimento organizzativo. A questo punto, però, i dubbi che potrebbero emergere atterrebbero una eventuale incapacità e responsabilità organizzativa (preliminare al rapporto lavorativo) da parte dell’azienda; un’incapacità che, come tale, sarebbe del tutto indipendente dallo svolgimento delle prestazioni da parte del lavoratore e pertanto ingiusto farla ricadere su quest’ultimo.
Ma un ulteriore aspetto che, nonostante la sua importanza, poche volte ha suscitato l’interesse della giurisprudenza della Corte, è quello dell’interesse del lavoratore alla stipula del patto. Nonostante infatti tutte le interpretazioni diano per scontata la necessità, ai fini della legittimità della apposizione, della presenza dell’interesse anche di quest’ultimo, e che lo stesso art. 2096 C.c. faccia esplicito riferimento al fatto che “il prestatore di lavoro [sia] tenut[o] a fare l’esperimento che forma oggetto di prova”, ben raramente la Corte si è interessata all’argomento, ed uno di tali rari casi è quello della recentissima sentenza n.27805 del 21 novembre 2008. Nel caso in esame, infatti, tra le doglianze promosse dalla lavoratrice ricorrente, troviamo proprio quella che, atteso il suo stato di necessità e di disoccupazione, ed atteso che la stessa ricorrente avesse già svolto le medesime mansioni per il medesimo appaltante, “nella specie il patto di prova si risolveva nella attribuzione al datore di lavoro di una prerogativa senza alcun corrispondente vantaggio per il lavoratore” e che questi “non aveva altra alternativa al suo stato di disoccupazione”. Conseguentemente, il patto di prova sarebbe dovuto essere dichiarato “nullo sia per difetto di causa sia perché la volontà del lavoratore di sottoscriverlo era del tutto mancante dovendo ritenersi coartata”.
Prescindendo in questa sede da elementi di natura probatoria, la lettura che la Corte ha dato sino ad oggi alla questione, sopra ricordata, sarebbe del tutto conforme a quanto prospettato dalla ricorrente, e con rigore giuridico bisognerebbe comparare la nullità del patto per inesistenza della ‘prova’ (in quanto per esempio già fornita in precedenza), alla nullità per inesistenza dell’interesse del prestatore di lavoro alla valutazione dell’“entità della prestazione” e delle “condizioni di svolgimento del rapporto” (Cass. 27314/2008), anche in questo caso, ad esempio, in quanto già perfettamente conosciute. Una interpretazione fedele agli stessi principi dettati dalla Corte, dunque, dovrebbe portare a tale tipo di conclusione. Al contrario, la sentenza del 21 novembre scorso non porta a compimento tali presupposti interpretativi, concludendo invece come “la mancanza da parte della lavoratrice di un interesse ad avvalersi in concreto del patto, per la sua contingente condizione di disoccupata, costituisce un motivo personale che non esclude la causa oggettiva della pattuizione” e che “va osservato che la scelta della contraente è dovuta ad una spontanea ed autonoma valutazione di convenienza che nulla ha a che vedere con la minaccia di un male ingiusto e notevole proveniente dall’altro contraente o da terzi”…
Mentre dunque la Corte di Cassazione ha, ad oggi, più volte sanzionato la nullità del patto di prova per assenza dell’interesse del datore di lavoro, non risultano precedenti, nello stesso senso, per assenza di interesse da parte del prestatore di lavoro. Tale vera e propria ‘lacuna’ giuridica, pur di origine giurisprudenziale e non normativa, suggerirebbe un attento approfondimento di tale tematica ed una particolare cautela nel suo uso in giudizio.

3) Le mansioni: a) loro determinatezza.
Argomento centrale e vero e proprio perno del patto di prova, sono però le mansioni a cui il lavoratore viene adibito. Fortunatamente, questa volta la giurisprudenza anche recente della Corte di Cassazione è stata particolarmente analitica ed attenta, dedicandovi pagine analitiche e coerenti.
Il primo aspetto oggetto di attenzione da parte della Corte, è quello relativo al loro livello di determinatezza. Ancora la sentenza n. 24282 del 29 settembre 2008 afferma che il patto di prova deve “contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletare, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate”. A nostro avviso, l’importanza di tale specificazione risiede nella individuazione del vero motivo alla base della indicazione delle mansioni, che è quello della univoca ed ‘insindacabile’ valutazione dell’esito della prova, attività giuridicamente incompatibile con una indicazione generica dell’oggetto della stessa: in altre parole, in assenza di sufficiente determinatezza nelle mansioni, mancherebbe qualsiasi elemento oggettivo per la correttezza di tale valutazione.
A tal fine, è stata valutata la possibilità, oltre che ad una puntuale elencazione delle mansioni, di inserire un più generico ed indiretto riferimento al sistema classificatorio contenuto nella contrattazione collettiva di categoria. Tale sistema di riferimento è stato dichiarato del tutto legittimo e rispettoso delle condizioni di determinatezza e specificità delle mansioni oggetto di prova, a patto che “rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata” (sempre Cass. 24282/2008).
Si ricorda infine per completezza, che la sentenza n. 17045 del 19 agosto 2005 (richiamata dalla precedente) afferma che “tale requisito implicito della specificità delle mansioni è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, tanto che sul punto può parlarsi ormai di diritto vivente”.

4) Le mansioni: b) patto di prova e variazione ex art. 2103 C.c.
Quasi un corollario al tema precedente, ma non privo di autonome problematiche, è quello della possibilità di un eventuale ‘ius variandi’ delle mansioni oggetto di ‘prova’.
Sul punto, Cass. 17045/2005, in continuità con il discorso precedente, puntualizza che, in ordine alla necessaria specificità delle mansioni, questa non possa “spingersi fino a richiedere l’indicazione delle ‘prime’ mansioni assegnate in concreto al lavoratore in prova, perché, se solo queste fossero oggetto della prova, non sarebbero modificabili con deroga allo ‘ius variandi’”. Tuttavia, continua il ragionamento della Corte, “dall’art. 2096 C.c., pur letto alla luce di C. Cost. n.189 del 1980, non è possibile ricavare anche una tale rigidità, ossia un divieto di modificare, nel corso del periodo di prova, le mansioni del lavoratore nel rispetto dell’art. 2103 C.c.”.
Ad una generale compatibilità del periodo di prova e della dettagliata indicazione delle mansioni oggetto dello stesso, con la facoltà datoriale di cui all’art.2103 C.c., quindi, la Corte specifica come “rientr[i] semmai nell’autonomia delle parti eventualmente vincolare la prova alle sole mansioni di prima assegnazione con la conseguenza che solo dopo l’espletamento (e quindi il superamento) della prova il datore di lavoro [possa] esercitare lo ‘ius variandi’”. Eventualità che, se nella pratica è estremamente rara da rinvenire, da un punto di vista tecnico-giuridico può indubbiamente ampliare la duttilità e la completezza della fattispecie.

5) Le mansioni: c) vizi e nullità del patto.
Per ragioni sistematiche, converrà inserire sotto la tematica delle ‘mansioni’ anche la problematica inerente la loro mancata valutazione da parte datoriale, che toglie al patto di prova il suo motivo d’essere (causa), sanzionandolo con la nullità.
Al di là degli elementi collegati al recesso, che verranno trattati nel punto precedente, interessa qui occuparsi invece dei casi in cui in realtà la ‘prova’ delle abilità e/o della personalità del lavoratore non potrebbe riscontrarsi, attesa la già piena conoscenza di tale elemento, da parte datoriale, derivante da un pregresso rapporto lavorativo.
Anche questo aspetto è stato affrontato dalle recenti pronunce della Corte, che nella sentenza n. 27330 del 17 novembre 2008, dopo aver ricordato che la causa tipica del patto “mira a tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto”, sottolinea che “deve ritenersi illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni”. Nella fattispecie sottoposta all’attenzione del giudicante, la lavoratrice aveva lavorato durante il rapporto subordinato ‘in prova’ con le stesse mansioni che aveva già svolto in precedenza in virtù di un patto di Inserimento Professionale stipulato con il medesimo studio professionale.
Al contrario, tuttavia, Cass. 27314/2008 specifica che “è ben ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati dalle stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”; aspetto che in parte abbiamo già trattato negli elementi tipici del patto di prova e che qui si ripropone per sottolineare come una certa distanza temporale tra due rapporti di lavoro, tra medesimi soggetti e per la medesima tipologia di mansioni, possa anche, lì dove dimostrato, comportare la necessità di una nuova verifica delle qualità del prestatore di lavoro (nella fattispecie sottoposta alla valutazione del giudicante, l’intervallo temporale era stato di circa quattro anni).
Ma la recente analisi della Corte si è spinta anche oltre, considerando anche la possibilità di una variazione soggettiva del rapporto contrattuale.
La già citata sentenza n. 27805/2008, infatti, considera il caso in cui una lavoratrice socialmente utile ha lavorato prima per una ASL, poi per una sua ditta appaltatrice, con le medesime mansioni e per la medesima tipologia di lavoro. Ebbene, anche prescindendo da una evidenziata carenza probatoria in ordine all’“avere la [lavoratrice] già acquisito nel precedente rapporto di lavoro con la ASL le competenze necessarie allo svolgimento delle mansioni assegnate”, la Corte ritiene legittima l’apposizione, nel secondo rapporto, di un patto di prova (seguito da recesso della società appaltatrice), ritenendo “di tutta evidenza che l’avere la nuova assunta in precedenza svolto mansioni di archivio non esclude l’interesse del nuovo datore di lavoro di verificare il grado di preparazione e le attitudini allo svolgimento delle mansioni di cui la stessa sia in possesso”.
Al contrario, la poco più antica Cass. 22637/2004 insiste su un altro aspetto, che potremmo dire speculare al precedente: in questo caso, infatti, la lavoratrice presta la propria attività con le stesse mansioni e sempre all’interno della medesima struttura, ma prima in qualità di socia lavoratrice di una ditta appaltatrice, poi come diretta dipendente della struttura stessa. In questo caso, il patto di prova viene ritenuto “non funzionale alla sperimentazione della reciproca convenienza al contratto”, per “essere questa già avvenuta con esito positivo”.
Ulteriore elemento di estremo interesse, per l’oggetto della nostra analisi, è poi che la Corte ritiene dimostrabile tale circostanza anche “per presunzioni, essendo desumibile dalla sussistenza di un precedente rapporto di lavoro tra le parti o, come nella specie in esame, dall’avere in precedenza il lavoratore prestato per un congruo lasso di tempo la propria opera per il datore di lavoro”. Nel caso di specie, allora, risulta rilevante ed assorbente la circostanza per cui la “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale che ne ha tratto di fatto beneficio (e che ha poi proceduto all’assunzione del lavoratore), indipendentemente dalla circostanza, in concreto irrilevante, che il lavoratore fosse obbligato alla prestazione per l’attuazione di un diverso rapporto (nel caso ora in esame di società in una cooperativa di lavoro) e il destinatario effettivo della prestazione avesse diritto a pretenderla nei confronti di altro soggetto (la cooperativa)”.
L’interpretazione della Corte di Cassazione, dunque, appare anche qui coerente: ad essere considerato ai fini della valutazione della legittima e corretta ‘sperimentazione della convenienza’, non può essere il mero aspetto formale (tipologia del rapporto giuridico), bensì quello sostanziale (concreta possibilità di fare, o aver già fatto, tale valutazione).

6) Il recesso: a) motivazione.
Ma l’argomento sul quale la giurisprudenza, anche recente, della Corte trova le maggiori difficoltà nell’offrire un quadro giuridicamente coerente alla disciplina del patto di prova, è quello del recesso da parte del datore di lavoro e delle sue (eventuali) motivazioni. Sino ad oggi, infatti, le sentenze emanate dal Giudice delle Leggi continuano ad oscillare (a volte anche nell’ambito della stessa pronuncia) tra una tipologia di recesso ‘ad nutum’, come tale non motivato ed insindacabile da parte del prestatore di lavoro, ed una ipotetica ‘impugnabilità’ del licenziamento per insussistenza, o insufficienza, dei motivi.
Ricordiamo per un momento quanto sottolineato in precedenza: la univoca e dettagliata determinazione delle mansioni oggetto della ‘prova’ ha esattamente la funzione di rendere determinabile l’attività di valutazione stessa, che altrimenti, priva di riferimenti obiettivi, sarebbe contraria alla ratio del patto di poter sperimentare il comportamento professionale del lavoratore. Da cui, in logica conseguenza, l’eventuale nullità dello stesso in caso le motivazioni del recesso (esplicite o meno) possano prescindere da tale elemento di riferimento.
Ma tale linearità espositiva rimane in molti casi meramente teorica, come si anticipava.
La questione circa un’eventuale obbligatorietà delle motivazioni del recesso trova un (insuperabile?) ostacolo non solo nella giurisprudenza di Legittimità, bensì in quella della stessa Corte Costituzionale, che con la sentenza n.189 del 16 dicembre 1980 ha specificato come, dato che “nel sistema del codice civile (libro V, titolo II, sez. III) non è previsto l’obbligo dell’imprenditore di motivare il recesso dal contratto a tempo indeterminato e che tale obbligo è stato introdotto con l’art. 2 della legge n. 604 del 1966” e che “l’art. 2096, terzo comma, c.c., al di fuori dell’ambito di operatività della legge n. 604 del 1966, non sembra confliggere con gli invocati parametri costituzionali”, “ne deriva che la disposizione del c.c. (art. 2118) sul recesso dal contratto a tempo indeterminato [che obbliga solo nel dare il preavviso, ma non a fornire motivazione, n.d.r.] ha tuttora un suo campo di applicazione”. Ricordiamo infatti che l’art. 10 della L. 604/1966 esclude espressamente l’applicabilità di tale legge (che limita le possibilità di licenziamento in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai casi di giusta causa (art.1) o giustificato motivo (art.3), debitamente motivati) ai lavoratori “assunti in prova”, se non dal momento in cui “l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”.
La Corte Costituzionale sul punto è perentoria: non c’è previsione normativa che stabilisca l’obbligo di motivazione del recesso durante il patto di prova, così come né l’art. 35 né l’art. 4 della Carta garantiscono “il diritto alla conservazione del posto di lavoro”, né tantomeno una “applicazione indiscriminata del principio della giusta causa e del giustificato motivo nei licenziamenti, ma ‘lascia’ al legislatore ampia discrezionalità in materia” (da sent. Corte Cost. n. 129 del 1976).
Sin qui il ragionamento diretto alle fonti normative riferite, condivisibile o meno, appare logicamente consequenziale e giuridicamente esente da vizi. Ma è nel prosieguo che emergono le difficoltà.
A fronte di una, a nostro avviso condivisibile, ordinanza di rimessione del Giudice del Merito che lamentava la possibilità, in caso di recesso non doverosamente motivato, di una “assoluta discrezionalità garantita al datore di lavoro” e la possibilità di conseguenti comportamenti “vessatori e lesivi della dignità del lavoratore”, la Corte risponde che, attesa la presenza del precetto normativo del secondo comma dell’art. 2096 C.c. obbligante le parti “a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, “ne discende un primo limite alla discrezionalità dell’imprenditore”. Pertanto, il licenziamento intimato durante il periodo di prova “può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita […] quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato”.
Il Giudice delle Leggi, dunque, anche dalla lettura del dato normativo, sottolinea come il recesso non possa essere ‘assolutamente discrezionale’, ovvero tecnicamente ‘ad nutum’, ammettendo che “il lavoratore il quale ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale”. Il ragionamento della Suprema Corte, dunque, termina con la rassicurante conclusione che non riscontra “nelle disposizioni di legge censurate alcun attentato alla libertà ed alla dignità del lavoratore, soprattutto quando si riconosca la sindacabilità nei limiti anzidetti […] e l’annullabilità dell’atto nel quale si esprime, tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”.
A ben vedere, però, qui il ragionamento invece che chiarirsi, si fa inaspettatamente più confuso.
Ricapitoliamo: la Corte Costituzionale asserisce tanto la mancata presenza, nel nostro ordinamento, di un ‘principio generale di giustificazione del licenziamento’, individuabile esclusivamente nell’ambito applicativo della L. 604/1966, che l’inesistenza del dovere di motivare un atto giuridico di recesso che debba, però, tener conto dell’effettivo ‘esperimento’ delle proprie qualità, tecniche ma anche ‘personali’. Per far ciò, la Corte perviene così ad un concetto che lambisce da vicino un ossimoro logico e giuridico: quello di una discrezionalità ‘limitata’, ovvero di una “discrezionalità che si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore” ed in quanto tale suscettibile, coerentemente, di ‘prova contraria’ da parte del lavoratore.

Da qui i seguenti dubbi:
a) se la asserita ‘discrezionalità’ del datore è ‘limitata’, fino a che punto rimane ‘discrezionalità’, e fino a che punto non lo è più? Qual è il limite tra aspetti di natura soggettiva e quelli di natura oggettiva, in tale valutazione? Infatti
b) se addirittura può esser fornita ‘prova contraria’ da parte del lavoratore sulle sue competenze (e ciò la Corte lo ha chiaramente esplicitato), in cosa rimane ‘discrezionale’ la valutazione del datore di lavoro? E soprattutto
c) come può tutto questo essere compatibile con la resistente affermazione per la quale il provvedimento di recesso non avrebbe obbligo di motivazione? Al contrario non sarebbe, proprio sulla base di tale ragionamento, il ‘motivo’ posto alla base del recesso, l’unico fattore che potrebbe offrire una qualificazione ed un ambito dialettico sia alla ‘discrezionalità’ datoriale (che così si espliciterebbe) che alle eventuali contestazioni del lavoratore? Non sarebbe così, l’apposizione del motivo, l’unica garanzia in grado di rispecchiare e tutelare l’interesse di entrambe le parti?
d) Infine, non sembrerebbe la stessa Corte Costituzionale ‘suggerire’ la necessità di una motivazione quando ammette la “annullabilità dell’atto nel quale si esprime [il recesso del datore], tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”? Non si intravede quindi, anche nel parere della Corte Costituzionale, la consapevolezza che solo un recesso esplicitamente motivato potrebbe dar contezza tanto di una discrezionalità datoriale (vincolata però ad aspetti oggettivi e pertinenti) che di un legittimo (ma limitato) controllo del lavoratore?
Purtroppo, tale lontano ma autorevole precedente giurisprudenziale, con le contraddizioni che si sono illustrate, ha improntato delle sue incertezze argomentative tutta la giurisprudenza successiva del Giudice di Legittimità, che di volta in volta ha oscillato tra gli opposti di un recesso ‘ad nutum’ (la decisa maggioranza, anche recente) e quelli a favore di un maggior controllo sulla discrezionalità datoriale, molto spesso conviventi nella stessa decisione(cfr. ancora Cass. 17045/2005), ma in ciò facendo sottraendosi alla funzione c.d. ‘nomofilattica’ che ci si attende da tale giurisprudenza per ricevere un chiaro quadro di orientamento giuridico, sociale ed economico.

7) Il recesso: b) la prova.
Da quanto sin ora illustrato, ben si comprende come l’argomento dell’onere della prova, delle sue modalità e delle sue conseguenze, sia intimamente collegato all’interpretazione del patto stesso.
A seconda infatti che il dovere di motivazione, da parte del recedente, sia più o meno qualificato, deriva un più o meno ampio ‘dovere di prova’, a fronte di uno speculare ‘diritto di prova contraria’. Da questo punto di vista, quanto più ci avviciniamo ad una interpretazione ‘ad nutum’ del patto, tanto più escludiamo la possibilità stessa che ci possa essere sia ‘prova’ dei motivi del recesso, che conseguentemente ‘prova contraria’ da parte del soggetto che il recesso subisce.
Seguendo tale premessa, ad una interpretazione pienamente ‘ad nutum’, e quindi senza alcun obbligo di motivazione, corrisponderebbe una assoluta impossibilità di fornire prova contraria. Quanto più si allarga invece la possibilità di valutare i ‘motivi’ del recesso, tanto più si allargano le maglie entro le quali può inserirsi la possibilità di offrire prova contraria avverso comportamenti rescindenti ingiusti.
Và da sé, dunque, che i forti dubbi che si sono sollevati sulla opportunità e legittimità di una interpretazione del patto di prova come un’incondizionata ‘facoltà di recesso ad nutum’, pur limitata temporalmente, attengono principalmente alla possibilità, da parte di chi è destinatario di tale recesso, di poter avere strumenti di verifica e, nel caso, di difesa avverso azioni non giustificabili.
Oltre infatti a motivazioni di ordine generale, che dovrebbero suggerire un’estrema attenzione nell’individuazione di tali forme ‘ad nutum’, luogo principe di condotte ricattatorie e strumentali soprattutto nel settore del diritto del lavoro, i dubbi che si pongono in ordine ad una interpretazione di tal specie deriva, ancora una volta, dalle stesse letture che ne ha dato la Corte.
Pur con le incongruenze già sopra sottolineate, è ancora la sentenza n. 17045/2005 che, sul punto, specifica, nelle sue motivazioni, un passaggio estremamente importante. Dopo infatti aver affermato che, nel caso di specie, il riferimento alle mansioni contenute in un CCNL richiamato “si appalesava privo del necessario requisito di specificità”, la Corte sottolinea che “da ciò consegue che il recesso intimato dalla banca datrice di lavoro non si iscrive nell’eccezionale fattispecie di recesso ad nutum di cui all’art. 2096 C.c., esentato dall’applicabilità dell’ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento (art. 10 legge n. 604 del 1966), ma consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o giustificato motivo”. Ecco dunque che, in base a tale mutazione del titolo giuridico posto alla base dell’atto del datore di lavoro, “l’allegato mancato superamento della prova per inidoneità del [lavoratore] alle mansioni in concreto svolte ridonda in allegazione di un giustificato motivo di licenziamento rispetto al quale il controllo del giudice è pieno e non già limitato, come nel caso dell’art.2096 c.c., al riscontro dell’effettività dell’esperimento fatto e della mancanza di motivi discriminatori”.
In altre parole la Corte, ribadita la ‘eccezionalità’ della previsione di cui all’art. 2096 c.c. e confermata la facoltà di recesso ‘ad nutum’, pur compatibilmente con l’obbligo dell’effettività dell’esperimento della prova ed in assenza di motivi discriminatori, sancisce la mutazione del titolo di recesso in quello di licenziamento per giustificato motivo (oggettivo e soggettivo?), in ordine al quale il Giudice torna ad avere il pieno ‘controllo’ della motivazione.
L’importanza di tale ragionamento interpretativo, dunque, la si rinviene nel rendere particolarmente evidente il rapporto tra determinatezza (‘specificità’) dell’oggetto della prova, caratteristiche ‘eccezionali’ delle facoltà (‘ad nutum’) del datore di lavoro e limitato ‘controllo’ del Giudicante, ovvero della controparte, la cui ‘eccezionale’ disciplina, venuto meno uno degli elementi necessari, riporta (o “ridonda”) il recesso in una forma di licenziamento per giustificato motivo, restituendo così piena ‘cognitio’ alla fattispecie.
Tale ragionamento, conseguentemente, trova pieno riflesso nel regime delle prove, che godono in versione specularmente invertita, come abbiamo già sottolineato in apertura di paragrafo, dei medesimi limiti e dei medesimi ambiti di libertà.
Ancora una volta, dunque, l’argomento della ‘motivazione’ diventa, pur in presenza delle ambiguità già illustrate, il campo obiettivo rispetto al quale si confrontano le facoltà di agire delle parti, unitamente alle loro potenzialità probatorie ed allo stesso potere di ‘controllo’ dell’organo giudicante.
Se la (pur non obbligatoria) motivazione del recesso rappresenta ancora una volta, dunque, la forma più trasparente e difficilmente sindacabile di tale potere, l’esercizio di tale facoltà nelle forme più libere (‘ad nutum’), oltre a creare indubbie incertezze e difficoltà interpretative, sottopone a pericolose incertezze le parti coinvolte, soprattutto in relazione ad un soggetto terzo (giudice) il cui potere di sindacabilità e ‘controllo’, lì dove ritornato ‘pieno’, difficilmente potrebbe sostituirsi a valutazioni produttive che dovrebbero, in tali limiti, rimanere scelte soggettive del singolo imprenditore.
Anche per evitare il rischio di valutazioni terze che possano “ritenere illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo” (sent. Cass. n. 27330/2008) , ovvero agire per pericolose “presunzioni” (sent. Cass. n. 22637/2004), risulta dunque quanto mai opportuno esplicitare, nell’atto di recesso, le sue motivazioni, per offrire da un lato la legittima trasparenza richiesta dalla controparte e dall’altro non dover essere costretti a fornire elementi di ‘oggettività’ a valutazioni che dovrebbero, e potrebbero, non superare tale vaglio.


Antonio M. Polito
avvocato del Lavoro

...La globalizzazione: Alcuni spunti per riflettere ...

Tra Oriente e Occidente
L’economia e il diritto nel raffronto tra due culture
di
Sergio Sabetta

La crescita economica nell’Est asiatico che ha coinvolto prepotentemente il continente Cina, pone il problema del confronto/raffronto fra due culture, due sistemi di pensiero maturati nei millenni i quali coinvolgono la visione che l’uomo ha di se stesso anche nel processo economico e quindi giuridico.
La prima e fondamentale questione è come si pone l’individuo nei confronti della collettività e la struttura gerarchica che ne deriva.
Vi sono due tipologie di poteri il “potere di fare” e il “potere di decidere”, il primo consiste nella suddivisione di procedure precise e rigide senza possibilità di variabili negli input – output, con attività standardizzate ripetitive efficaci nella produzione seriale di beni fisici, in cui il singolo ha una propria autonomia limitata e ben definita dalla sezione di procedura a lui assegnata, il secondo è sostanzialmente un potere di controllo costituito da una delega adeguata a gestire la variabilità nel settore assegnato e dal controllo sui subordinati addetti alle procedure a loro affidate.
Questa distinzione così rigida che presuppone una stretta gerarchia è di massima efficacia nella produzione di beni materiali, mentre viene a perdere efficacia nella produzione di servizi in cui si accresce la necessità dell’adattabilità decisionale del singolo alle variabili ambientali (Croci).
La gerarchia nel codificare la distribuzione del potere all’interno della comunità ne tutela al contempo la sopravvivenza nell’insieme a scapito dell’individualità, gli sforzi vengono coordinati e concentrati sia nella produzione che nella lotta agli elementi e alle altre comunità umane.
La gerarchia sostenibile presuppone un rispetto per il riconoscimento del ruolo e quindi la necessità per i vertici di restituire la delega di potere in termini di cura dei bisogni della base, interviene il principio di inclusione/esclusione nella comunità come premio/punizione al fine di motivare gli individui, i quali collaborano per il solo fatto di restare inclusi nella comunità il premio infatti è l’inclusione nella comunità stessa. La comunità come collettività è quindi posta al centro del tessuto sociale e non semplicemente una comunità composta da singoli individui.
Se l’esecuzione passiva delle procedure è alla base del sistema gerarchico cinese, l’individuo deve comunque essere convinto del suo agire pertanto la punizione in caso di violazione degli obblighi deve possedere una valenza rieducativa.
Nel suo agire quotidiano il singolo accumula un “patrimonio di rispettabilità” quale prodotto dei risultati ottenuti e dei suoi rapporti sociali, la rispettabilità è intesa quale combinazione di prestigio sociale e dignità personale, si crea quindi l’armonia sociale confuciana tramite il rispetto del potere gerarchico questo tuttavia non comporta una cieca obbedienza essendo la verità pragmaticamente adattabile alle situazioni quotidiane.
L’aggressività umana è controllata dalla gerarchia di rango che poggia sul riconoscimento dei meriti, questo tuttavia compromette in parte l’iniziativa del singolo il quale è naturalmente portato a scaricare la responsabilità lungo la scala gerarchica fino al giusto livello.
Ma qualsiasi sistema ha bisogno di un correttivo che nella cultura cinese è la rete di relazioni utili o guanxi, la quale consiste nell’obbligo di reciprocità senza limiti di spazio e di tempo fondata sul concetto di utilità e non necessariamente di amicizia. Questa permette di superare le eventuali disfunzioni che il sistema gerarchico presenti, ma perché funzioni l’obbligo di reciprocità deve essere certo ,pena l’esclusione dalla rete, i due sistemi non sono in contraddizione ma vengono ad integrarsi (Croci).
L’etica si risolve in una semplificazione organizzativa per una prevedibilità comportamentale, lo sviluppo economico è quindi slegato da una premessa democratica anche se si risolverà nel tempo in una democratizzazione più consona alla necessità di movimenti di merci e capitali con i minori controlli possibili ( Gavazzi, Tabelloni).
Toulmin sostiene che la funzione dell’etica è quella di armonizzare gli interessi dell’insieme, ossia le azioni della gente, si che il concetto di dovere è ineliminabile dalla meccanica sociale infatti attraverso il riconoscimento dei doveri comuni si ha la formazione di un’unica comunità, questo tuttavia non esclude l’evoluzione del codice morale in sintonia con i mutamenti della società in modo che le stesse regole possano apparire o eccessivamente rigide o pericolosamente molli.
Sebbene i giudizi etici acquistano per tale via una certa flessibilità di loro permane tuttavia il carattere imperativo (Hare), il quale peraltro può assumere un aspetto individuale ossia soggettivo, affrancandosi dalla preminenza della collettività.
Spinoza su tale via afferma con decisione il diritto del singolo di perseguire la sua “utilitas”, di piegare le leggi naturali ai suoi scopi senza andare contro di essa ma utilizzandole.
Riconoscendo nell’uomo una anima desiderante (cupiditas) si pone l’individuo al centro della ricerca non come immagine divina, ma come essere posto nella natura e manipolatore di essa. Vi è quindi uno sviluppo del “libero arbitrio” di San Tommaso in cui l’uomo determina se stesso ad agire in cui tuttavia la prima causa resta Dio, anche se questo toglie nulla alla auto-causalità dell’uomo stesso.
Tipica dell’uomo è la mobilità con un passaggio da uno stato all’altro dei desideri e delle conoscenze, sia verso l’alto che verso il basso, con una sua necessaria auto-espansione comunque consapevole delle condizioni esistenti anche di tipo politico.
Se vi è la necessità di cambiare le proprie condizioni per rendere la vita più sicura, tuttavia l’intervento sul mondo dipende dalla capacità di utilizzare le situazioni per creare lo spazio di movimento necessario alle modifiche, è pertanto l’organizzazione che viene ad influire sull’etica secondo un concetto di etica organizzativa in cui l’interpretazione del mondo non è in contrasto con il cambiamento del mondo, da qui tuttavia nasce anche l’esigenza di modificare il mondo per modificare le coscienze (Marx).
Spinoza si avvicina all’etica cinese della persuasione quando, negando la riduzione della politica al solo timore per costringere all’obbedienza delle leggi (Hobbes), recupera la collettività e la necessità di una convinzione all’azione collettiva al fine di una possibile crescita reciproca.
Vi è quindi una impossibilità da giustificare in assoluto i giudizi etici (Ross) se non sulla base di principi sui quali ci sia accordo (Scarpelli).
Questo porta nell’occidente ad affermare che l’uomo non è niente all’inizio, ma sarà solo in seguito per quello che si sarà fatto, quindi è il singolo che si fa che si definisce nel mondo (esistenzialismo). Su ogni uomo ricade la responsabilità totale della sua esistenza non in termini puramente individuali, ma anche verso gli altri individui, il nostro punto di partenza è la soggettività dell’individuo, ma è solo tramite l’altro che si definisce, si scopre così l’intersoggettività ossia l’universalità umana di “condizione”, ossia i limiti a priori che definiscono la situazione dell’individuo nell’universo questa tuttavia non è data ma è in un perpetuo costituirsi (Sartre).
La libertà diventa per Sartre il fondamento di ogni altro valore, ma questa nostra libertà è il frutto di un interscambio di libertà. La libertà è stata anche vista come una “possibilità” (Abbagnano) o libertà condizionata pertanto relativa (Gurvitch).
Comunque mentre in un caso la libertà risiede nella sicurezza dell’inclusione nella comunità, nel secondo la libertà è l’interscambio della ricerca individuale di cui si discute esclusivamente dell’ampiezza.
Vi è un ben definito diritto naturale del singolo alla libera ricerca della propria “utilitas” nel rapporto con la comunità a cui non devono essere trasferiti in modo assoluto e inappellabile i propri diritti, attraverso un confronto / raffronto il bilanciamento degli interessi e delle volontà singole si forgeranno nello stato democratico. Le conseguenze di questo porsi dell’individuo nei confronti della collettività che affonda le sue radici già nel mondo antico in particolare con gli stoici, viene ripreso dal giusnaturalismo di Grozio e Rousseau che sebbene criticato nella sua distinzione tra diritto giusto e diritto ingiusto, fino a parlare della giustizia solo come di un “valore interno” al diritto e pertanto frutto di una scelta arbitraria (Kelsen, Ross), non può negare lo spirito individuale della ricerca e la libertà che ne consegue di cui circolarmente ne è anche fondamento.
Le conseguenze politiche ed economiche sono quindi profondamente differenti dal modello di comunità confuciano proprio della Cina, basti pensare allo sviluppo del pensiero sociale di Comte e Marx da cui nacquero nel XIX secolo i sindacati e nel XX secolo il welfare, in economia al liberismo e al keynesismo fino all’attuale sviluppo nell’ambito del management delle teorie relative alle risorse umane, come il knolewdge management. Questo sebbene vi siano stati nell’età moderna il fordismo e la produzione tayloristica, gli assolutismi ideologici e le dittature quali estremismi di un irrigidimento produttivo e sociale della Grande Guerra frutto avvelenato di un tecnicismo non elaborato pragmaticamente, bensì idealizzato o demonizzato.
______________
Bibliografia
A. Merli, Quei leader senza democrazia, Il Sole 24 Ore, 28/5/08 (Festival dell’Economia);
M. Croci, L’importanza della gerarchia in Cina, “E. & M.” S.D.A. Bocconi, 43-52, 4/08;
R. Bodei, La filosofia di Spinoza: l’importanza delle passioni, Emsf.rai.it/interviste;
G. Carcatezza, Principi di giustizia e fondamento del diritto A. A. 2004/2005, I-LEX.it/quaderni/4, 4/2/2006;
A. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET, 1974;
F. Guoato – L. Riveda, Una visione strategica del knowledge management, in Harvard Business Review, 56-65, 7- 8/2008.

...La globalizzazione: Alcuni spunti per riflettere ...

Tra Oriente e Occidente
L’economia e il diritto nel raffronto tra due culture
di
Sergio Sabetta

La crescita economica nell’Est asiatico che ha coinvolto prepotentemente il continente Cina, pone il problema del confronto/raffronto fra due culture, due sistemi di pensiero maturati nei millenni i quali coinvolgono la visione che l’uomo ha di se stesso anche nel processo economico e quindi giuridico.
La prima e fondamentale questione è come si pone l’individuo nei confronti della collettività e la struttura gerarchica che ne deriva.
Vi sono due tipologie di poteri il “potere di fare” e il “potere di decidere”, il primo consiste nella suddivisione di procedure precise e rigide senza possibilità di variabili negli input – output, con attività standardizzate ripetitive efficaci nella produzione seriale di beni fisici, in cui il singolo ha una propria autonomia limitata e ben definita dalla sezione di procedura a lui assegnata, il secondo è sostanzialmente un potere di controllo costituito da una delega adeguata a gestire la variabilità nel settore assegnato e dal controllo sui subordinati addetti alle procedure a loro affidate.
Questa distinzione così rigida che presuppone una stretta gerarchia è di massima efficacia nella produzione di beni materiali, mentre viene a perdere efficacia nella produzione di servizi in cui si accresce la necessità dell’adattabilità decisionale del singolo alle variabili ambientali (Croci).
La gerarchia nel codificare la distribuzione del potere all’interno della comunità ne tutela al contempo la sopravvivenza nell’insieme a scapito dell’individualità, gli sforzi vengono coordinati e concentrati sia nella produzione che nella lotta agli elementi e alle altre comunità umane.
La gerarchia sostenibile presuppone un rispetto per il riconoscimento del ruolo e quindi la necessità per i vertici di restituire la delega di potere in termini di cura dei bisogni della base, interviene il principio di inclusione/esclusione nella comunità come premio/punizione al fine di motivare gli individui, i quali collaborano per il solo fatto di restare inclusi nella comunità il premio infatti è l’inclusione nella comunità stessa. La comunità come collettività è quindi posta al centro del tessuto sociale e non semplicemente una comunità composta da singoli individui.
Se l’esecuzione passiva delle procedure è alla base del sistema gerarchico cinese, l’individuo deve comunque essere convinto del suo agire pertanto la punizione in caso di violazione degli obblighi deve possedere una valenza rieducativa.
Nel suo agire quotidiano il singolo accumula un “patrimonio di rispettabilità” quale prodotto dei risultati ottenuti e dei suoi rapporti sociali, la rispettabilità è intesa quale combinazione di prestigio sociale e dignità personale, si crea quindi l’armonia sociale confuciana tramite il rispetto del potere gerarchico questo tuttavia non comporta una cieca obbedienza essendo la verità pragmaticamente adattabile alle situazioni quotidiane.
L’aggressività umana è controllata dalla gerarchia di rango che poggia sul riconoscimento dei meriti, questo tuttavia compromette in parte l’iniziativa del singolo il quale è naturalmente portato a scaricare la responsabilità lungo la scala gerarchica fino al giusto livello.
Ma qualsiasi sistema ha bisogno di un correttivo che nella cultura cinese è la rete di relazioni utili o guanxi, la quale consiste nell’obbligo di reciprocità senza limiti di spazio e di tempo fondata sul concetto di utilità e non necessariamente di amicizia. Questa permette di superare le eventuali disfunzioni che il sistema gerarchico presenti, ma perché funzioni l’obbligo di reciprocità deve essere certo ,pena l’esclusione dalla rete, i due sistemi non sono in contraddizione ma vengono ad integrarsi (Croci).
L’etica si risolve in una semplificazione organizzativa per una prevedibilità comportamentale, lo sviluppo economico è quindi slegato da una premessa democratica anche se si risolverà nel tempo in una democratizzazione più consona alla necessità di movimenti di merci e capitali con i minori controlli possibili ( Gavazzi, Tabelloni).
Toulmin sostiene che la funzione dell’etica è quella di armonizzare gli interessi dell’insieme, ossia le azioni della gente, si che il concetto di dovere è ineliminabile dalla meccanica sociale infatti attraverso il riconoscimento dei doveri comuni si ha la formazione di un’unica comunità, questo tuttavia non esclude l’evoluzione del codice morale in sintonia con i mutamenti della società in modo che le stesse regole possano apparire o eccessivamente rigide o pericolosamente molli.
Sebbene i giudizi etici acquistano per tale via una certa flessibilità di loro permane tuttavia il carattere imperativo (Hare), il quale peraltro può assumere un aspetto individuale ossia soggettivo, affrancandosi dalla preminenza della collettività.
Spinoza su tale via afferma con decisione il diritto del singolo di perseguire la sua “utilitas”, di piegare le leggi naturali ai suoi scopi senza andare contro di essa ma utilizzandole.
Riconoscendo nell’uomo una anima desiderante (cupiditas) si pone l’individuo al centro della ricerca non come immagine divina, ma come essere posto nella natura e manipolatore di essa. Vi è quindi uno sviluppo del “libero arbitrio” di San Tommaso in cui l’uomo determina se stesso ad agire in cui tuttavia la prima causa resta Dio, anche se questo toglie nulla alla auto-causalità dell’uomo stesso.
Tipica dell’uomo è la mobilità con un passaggio da uno stato all’altro dei desideri e delle conoscenze, sia verso l’alto che verso il basso, con una sua necessaria auto-espansione comunque consapevole delle condizioni esistenti anche di tipo politico.
Se vi è la necessità di cambiare le proprie condizioni per rendere la vita più sicura, tuttavia l’intervento sul mondo dipende dalla capacità di utilizzare le situazioni per creare lo spazio di movimento necessario alle modifiche, è pertanto l’organizzazione che viene ad influire sull’etica secondo un concetto di etica organizzativa in cui l’interpretazione del mondo non è in contrasto con il cambiamento del mondo, da qui tuttavia nasce anche l’esigenza di modificare il mondo per modificare le coscienze (Marx).
Spinoza si avvicina all’etica cinese della persuasione quando, negando la riduzione della politica al solo timore per costringere all’obbedienza delle leggi (Hobbes), recupera la collettività e la necessità di una convinzione all’azione collettiva al fine di una possibile crescita reciproca.
Vi è quindi una impossibilità da giustificare in assoluto i giudizi etici (Ross) se non sulla base di principi sui quali ci sia accordo (Scarpelli).
Questo porta nell’occidente ad affermare che l’uomo non è niente all’inizio, ma sarà solo in seguito per quello che si sarà fatto, quindi è il singolo che si fa che si definisce nel mondo (esistenzialismo). Su ogni uomo ricade la responsabilità totale della sua esistenza non in termini puramente individuali, ma anche verso gli altri individui, il nostro punto di partenza è la soggettività dell’individuo, ma è solo tramite l’altro che si definisce, si scopre così l’intersoggettività ossia l’universalità umana di “condizione”, ossia i limiti a priori che definiscono la situazione dell’individuo nell’universo questa tuttavia non è data ma è in un perpetuo costituirsi (Sartre).
La libertà diventa per Sartre il fondamento di ogni altro valore, ma questa nostra libertà è il frutto di un interscambio di libertà. La libertà è stata anche vista come una “possibilità” (Abbagnano) o libertà condizionata pertanto relativa (Gurvitch).
Comunque mentre in un caso la libertà risiede nella sicurezza dell’inclusione nella comunità, nel secondo la libertà è l’interscambio della ricerca individuale di cui si discute esclusivamente dell’ampiezza.
Vi è un ben definito diritto naturale del singolo alla libera ricerca della propria “utilitas” nel rapporto con la comunità a cui non devono essere trasferiti in modo assoluto e inappellabile i propri diritti, attraverso un confronto / raffronto il bilanciamento degli interessi e delle volontà singole si forgeranno nello stato democratico. Le conseguenze di questo porsi dell’individuo nei confronti della collettività che affonda le sue radici già nel mondo antico in particolare con gli stoici, viene ripreso dal giusnaturalismo di Grozio e Rousseau che sebbene criticato nella sua distinzione tra diritto giusto e diritto ingiusto, fino a parlare della giustizia solo come di un “valore interno” al diritto e pertanto frutto di una scelta arbitraria (Kelsen, Ross), non può negare lo spirito individuale della ricerca e la libertà che ne consegue di cui circolarmente ne è anche fondamento.
Le conseguenze politiche ed economiche sono quindi profondamente differenti dal modello di comunità confuciano proprio della Cina, basti pensare allo sviluppo del pensiero sociale di Comte e Marx da cui nacquero nel XIX secolo i sindacati e nel XX secolo il welfare, in economia al liberismo e al keynesismo fino all’attuale sviluppo nell’ambito del management delle teorie relative alle risorse umane, come il knolewdge management. Questo sebbene vi siano stati nell’età moderna il fordismo e la produzione tayloristica, gli assolutismi ideologici e le dittature quali estremismi di un irrigidimento produttivo e sociale della Grande Guerra frutto avvelenato di un tecnicismo non elaborato pragmaticamente, bensì idealizzato o demonizzato.
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Bibliografia
A. Merli, Quei leader senza democrazia, Il Sole 24 Ore, 28/5/08 (Festival dell’Economia);
M. Croci, L’importanza della gerarchia in Cina, “E. & M.” S.D.A. Bocconi, 43-52, 4/08;
R. Bodei, La filosofia di Spinoza: l’importanza delle passioni, Emsf.rai.it/interviste;
G. Carcatezza, Principi di giustizia e fondamento del diritto A. A. 2004/2005, I-LEX.it/quaderni/4, 4/2/2006;
A. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET, 1974;
F. Guoato – L. Riveda, Una visione strategica del knowledge management, in Harvard Business Review, 56-65, 7- 8/2008.

martedì 23 dicembre 2008

L'IRAP ed i piccoli professionisti


Irap piccoli professionisti
S. Bottero (Approfondimento 17/10/2008)

La scintilla che ha determinato la presentazione di numerosi ricorsi è stata la sentenza della Corte Costituzionale 21 maggio 2001, n. 156 in cui i giudici considerarono legittimo l'assoggettamento all'IRAP di ogni tipo di attività autonomamente organizzata sia imprenditoriale sia professionale, ma allo stesso tempo evidenziarono la possibilità di attività di lavoro autonomo prive di organizzazione e, quindi, probabili escluse dall'applicazione del tributo.In sostanza, la Corte Costituzionale ha dato il via alla presentazione dei ricorsi da parte di tutti i lavoratori autonomi non operanti tramite una stabile organizzazione.L'Amministrazione finanziaria ha sempre sostenuto in giudizio che l'organizzazione è un elemento presente in ogni attività imprenditoriale o professionale. Nell'ultimo periodo, però, l'Agenzia delle Entrate ha dovuto prendere atto dell'ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione con la circolare 13 giugno 2008, n. 45/E.
Un po' di storia: le tre tesiLa Corte di Cassazione, con la sentenza 7 marzo 2007, n. 3676, ha fornito una ricostruzione puntuale delle tre tesi in merito all'ambito di applicazione dell'IRAP.Secondo la tesi, sostenuta dagli esercenti arti e professioni, essi non sono soggetti passivi di imposta data la prevalenza dell'aspetto professionale su quello organizzativo. L'intuitus personae, ovvero l'importanza del professionista e della sua opera professionale, è talmente rilevante da non consentire allo studio di avere un going concern indipendente nonostante la presenza di un'organizzazione. L'IRAP, pertanto, in base a questo orientamento, non è dovuta.A tale interpretazione, si contrappone la tesi dell'Agenzia delle Entrate secondo cui coloro che svolgono un'arte o una professione, ai sensi dell'art. 49, comma 1, lett. a), D.P.R. n. 917/1986 (T.U.I.R.), sono sempre e comunque soggetti passivi di imposta, nonostante il legislatore abbia inserito l'espressione "autonomamente organizzata" nell'art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, istitutivo dell'IRAP. L'inserimento, appena citato, infatti sarebbe solo una conferma di ciò che era già desumibile dalla norma originaria ovvero che sono soggette all'IRAP tutte le attività gestite in proprio e non sotto la direzione o all'interno di una struttura altrui. Per l'Agenzia delle Entrate, quindi, rientrano tra i soggetti obbligati al versamento del tributo tutti i titolari di partita IVA, esclusi i co.co.co. e gli occasionali.Tra i due orientamenti, appena esposti, la Corte di Cassazione ha adottato, come già anticipato, una via intermedia, sostenendo che la risposta deve ricercarsi nel concreto dello svolgimento dell'attività professionale, verificando se il professionista si giovi o meno di un supporto organizzativo.Pertanto, secondo la Corte Suprema, l'espressione "autonoma organizzazione", aggiunta dall'art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 137/1998 all'art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, non è ininfluente.L'autonoma organizzazione non esisterebbe per il solo svolgimento di un'attività artistica o professionale, ma bensì per l'esistenza di un apparato distinto dal professionista e composto da beni strumentali e lavoro altrui.Quindi, per la Corte di Cassazione, ad esempio nel caso del medico-pediatra trattato con la pronuncia 16 febbraio 2007, n. 3674, è errato quanto asserito dalla Commissione Tributaria Regionale, ovvero che l'elemento organizzativo viene meno quando l'opera del professionista sia prevalente su capitali e lavoro altrui. Tale ipotesi, infatti, comporterebbe nella maggior parte dei casi la non applicazione dell'IRAP data la tradizionale struttura delle attività professionali costituite in Italia.
Gli elementi da verificareL'esclusione dall'IRAP, secondo i giudici della Corte di Cassazione, non sarebbe giustificata dalla prevalenza della struttura rispetto al lavoro del titolare, ma bensì dalla mancanza di un insieme di fattori generatori di una condizione più favorevole per il professionista.In sostanza, ogni giudice di merito deve valutare caso per caso con un mero accertamento di fatto, cercando di individuare l'eventuale "surplus" che crea valore aggiunto rispetto alla sola attività intellettuale.Due sono gli elementi qualificanti secondo la Corte di Cassazione affinché ci sia un'autonoma organizzazione:· la responsabilità dell'organizzazione;· la presenza di una struttura, composta da uomini e da mezzi, operante al servizio del professionista.La mancanza o la carenza di questi fattori, che il contribuente deve dimostrare, determina l'inapplicabilità dell'IRAP.Sul punto, la Corte di Cassazione, con la sentenza 16 febbraio 2007, n. 3678, afferma che "è il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista nelle incombenze ordinarie ad essere interessato dall'imposizione che colpisce l'incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività autoorganizzata del solo lavoro personale". Inoltre, la sentenza n. 3678/2007 contiene indicazioni per il giudice di merito che deve verificare il quadro RE del modello Unico in cui si determina il reddito di lavoro autonomo ai fini IRPEF, focalizzando la propria attenzione sulla composizione dei costi (righi da 16 a 18).In particolare, le voci di maggiore interesse al fine di valutare l'applicabilità o meno dell'IRAP sono le quote di ammortamento dei beni strumentali, i canoni di locazione finanziaria e non, le spese relative agli immobili, le spese per prestazioni di lavoro dipendente, per le collaborazioni e i compensi elargiti a terzi e gli interessi passivi.Nel caso in cui il giudice, con una valutazione sia logica sia socio-economica, non rilevi la presenza di dipendenti e/o collaboratori o l'impiego di beni strumentali oltre quelli indispensabili alla professione, quali ad esempio il pc o il lettino per le visite, sarà possibile dichiarare l'assenza di una struttura organizzativa e produttiva tassabile ai fini IRAP.
La circolare n. 45/E/2008L'Agenzia delle Entrate con la circolare 13 giugno 2008, n. 45/E ha affermato che, preso atto dell'ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione, non è ulteriormente sostenibile la tesi interpretativa dell'assoggettamento generalizzato all'IRAP degli esercenti arti e professioni. Tale intervento dell'Amministrazione finanziaria, che rappresenta sicuramente un passo avanti a favore del contribuente, si aggiunge alle indicazioni rinvenibili nella circolare del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili 5 giugno 2008, n. 2/IR e nella risposta all'Interrogazione parlamentare 4 giugno 2008, n. 5-00072.Nonostante questi primi segnali positivi oltre alle sentenze della Suprema Corte, l'Agenzia delle Entrate non ha inserito limiti "numerici" così da consentire un'identificazione oggettiva dei professionisti per i quali l'IRAP non è dovuta, ma ha analizzato alcuni concetti.In particolare, nella circolare, l'Agenzia afferma che, ai fini dell'esistenza dell'autonoma organizzazione:· rileva la disponibilità di beni strumentali eccedenti il minimo per lo svolgimento dell'attività, anche qualora non siano acquisiti direttamente, ma da terzi a qualunque titolo;· i beni strumentali, così come indicati, rilevano anche quando il loro costo è stato interamente dedotto.Il test sui beni strumentali è da considerare superato, ai fini della non assoggettabilità all'IRAP, se il professionista ha i requisiti per l'adesione ai regimi dei minimi.Ovviamente, è escluso da IRAP il professionista che ha anche gli altri requisiti previsti dal citato regime, quali per esempio la mancanza di spese sostenute per lavoro dipendente o per collaboratori.Una prima base di valutazione è, pertanto, il regime dei contribuenti minimi. Al di fuori di questa ipotesi, è necessario valutare caso per caso. Per quanto riguarda la fattispecie in esame, pur mancando indicazioni puntuali, è plausibile ritenere che il professionista sia escluso dall'applicazione dell'IRAP in quanto il fatto di lavorare presso terzi senza una propria struttura rappresenta una condizione oggettiva difficilmente contestabile.
Riferimenti normativi- D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2- D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 49- Agenzia delle Entrate, Circolare 13 giugno 2008, n. 45/E- Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Circolare 5 giugno 2008, n. 2/IR- Risposta all'interrogazione parlamentare 4 giugno 2008, n. 5-00072- Corte di Cassazione, sentenza 7 marzo 2007, n. 5258- Corte di Cassazione, sentenze 16 febbraio 2007, dalla n. 3672 alla n. 3682- Corte Costituzionale, sentenza 10 aprile 2002, n. 103- Corte Costituzionale, sentenza 23 luglio 2001, n. 286- Corte Costituzionale, sentenza 21 maggio 2001, n. 156

Simone Bottero
Dottore Commercialista, Revisore Contabile e Pubblicista in Milano

L'IRAP ed i piccoli professionisti


Irap piccoli professionisti
S. Bottero (Approfondimento 17/10/2008)

La scintilla che ha determinato la presentazione di numerosi ricorsi è stata la sentenza della Corte Costituzionale 21 maggio 2001, n. 156 in cui i giudici considerarono legittimo l'assoggettamento all'IRAP di ogni tipo di attività autonomamente organizzata sia imprenditoriale sia professionale, ma allo stesso tempo evidenziarono la possibilità di attività di lavoro autonomo prive di organizzazione e, quindi, probabili escluse dall'applicazione del tributo.In sostanza, la Corte Costituzionale ha dato il via alla presentazione dei ricorsi da parte di tutti i lavoratori autonomi non operanti tramite una stabile organizzazione.L'Amministrazione finanziaria ha sempre sostenuto in giudizio che l'organizzazione è un elemento presente in ogni attività imprenditoriale o professionale. Nell'ultimo periodo, però, l'Agenzia delle Entrate ha dovuto prendere atto dell'ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione con la circolare 13 giugno 2008, n. 45/E.
Un po' di storia: le tre tesiLa Corte di Cassazione, con la sentenza 7 marzo 2007, n. 3676, ha fornito una ricostruzione puntuale delle tre tesi in merito all'ambito di applicazione dell'IRAP.Secondo la tesi, sostenuta dagli esercenti arti e professioni, essi non sono soggetti passivi di imposta data la prevalenza dell'aspetto professionale su quello organizzativo. L'intuitus personae, ovvero l'importanza del professionista e della sua opera professionale, è talmente rilevante da non consentire allo studio di avere un going concern indipendente nonostante la presenza di un'organizzazione. L'IRAP, pertanto, in base a questo orientamento, non è dovuta.A tale interpretazione, si contrappone la tesi dell'Agenzia delle Entrate secondo cui coloro che svolgono un'arte o una professione, ai sensi dell'art. 49, comma 1, lett. a), D.P.R. n. 917/1986 (T.U.I.R.), sono sempre e comunque soggetti passivi di imposta, nonostante il legislatore abbia inserito l'espressione "autonomamente organizzata" nell'art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, istitutivo dell'IRAP. L'inserimento, appena citato, infatti sarebbe solo una conferma di ciò che era già desumibile dalla norma originaria ovvero che sono soggette all'IRAP tutte le attività gestite in proprio e non sotto la direzione o all'interno di una struttura altrui. Per l'Agenzia delle Entrate, quindi, rientrano tra i soggetti obbligati al versamento del tributo tutti i titolari di partita IVA, esclusi i co.co.co. e gli occasionali.Tra i due orientamenti, appena esposti, la Corte di Cassazione ha adottato, come già anticipato, una via intermedia, sostenendo che la risposta deve ricercarsi nel concreto dello svolgimento dell'attività professionale, verificando se il professionista si giovi o meno di un supporto organizzativo.Pertanto, secondo la Corte Suprema, l'espressione "autonoma organizzazione", aggiunta dall'art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 137/1998 all'art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, non è ininfluente.L'autonoma organizzazione non esisterebbe per il solo svolgimento di un'attività artistica o professionale, ma bensì per l'esistenza di un apparato distinto dal professionista e composto da beni strumentali e lavoro altrui.Quindi, per la Corte di Cassazione, ad esempio nel caso del medico-pediatra trattato con la pronuncia 16 febbraio 2007, n. 3674, è errato quanto asserito dalla Commissione Tributaria Regionale, ovvero che l'elemento organizzativo viene meno quando l'opera del professionista sia prevalente su capitali e lavoro altrui. Tale ipotesi, infatti, comporterebbe nella maggior parte dei casi la non applicazione dell'IRAP data la tradizionale struttura delle attività professionali costituite in Italia.
Gli elementi da verificareL'esclusione dall'IRAP, secondo i giudici della Corte di Cassazione, non sarebbe giustificata dalla prevalenza della struttura rispetto al lavoro del titolare, ma bensì dalla mancanza di un insieme di fattori generatori di una condizione più favorevole per il professionista.In sostanza, ogni giudice di merito deve valutare caso per caso con un mero accertamento di fatto, cercando di individuare l'eventuale "surplus" che crea valore aggiunto rispetto alla sola attività intellettuale.Due sono gli elementi qualificanti secondo la Corte di Cassazione affinché ci sia un'autonoma organizzazione:· la responsabilità dell'organizzazione;· la presenza di una struttura, composta da uomini e da mezzi, operante al servizio del professionista.La mancanza o la carenza di questi fattori, che il contribuente deve dimostrare, determina l'inapplicabilità dell'IRAP.Sul punto, la Corte di Cassazione, con la sentenza 16 febbraio 2007, n. 3678, afferma che "è il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista nelle incombenze ordinarie ad essere interessato dall'imposizione che colpisce l'incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività autoorganizzata del solo lavoro personale". Inoltre, la sentenza n. 3678/2007 contiene indicazioni per il giudice di merito che deve verificare il quadro RE del modello Unico in cui si determina il reddito di lavoro autonomo ai fini IRPEF, focalizzando la propria attenzione sulla composizione dei costi (righi da 16 a 18).In particolare, le voci di maggiore interesse al fine di valutare l'applicabilità o meno dell'IRAP sono le quote di ammortamento dei beni strumentali, i canoni di locazione finanziaria e non, le spese relative agli immobili, le spese per prestazioni di lavoro dipendente, per le collaborazioni e i compensi elargiti a terzi e gli interessi passivi.Nel caso in cui il giudice, con una valutazione sia logica sia socio-economica, non rilevi la presenza di dipendenti e/o collaboratori o l'impiego di beni strumentali oltre quelli indispensabili alla professione, quali ad esempio il pc o il lettino per le visite, sarà possibile dichiarare l'assenza di una struttura organizzativa e produttiva tassabile ai fini IRAP.
La circolare n. 45/E/2008L'Agenzia delle Entrate con la circolare 13 giugno 2008, n. 45/E ha affermato che, preso atto dell'ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione, non è ulteriormente sostenibile la tesi interpretativa dell'assoggettamento generalizzato all'IRAP degli esercenti arti e professioni. Tale intervento dell'Amministrazione finanziaria, che rappresenta sicuramente un passo avanti a favore del contribuente, si aggiunge alle indicazioni rinvenibili nella circolare del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili 5 giugno 2008, n. 2/IR e nella risposta all'Interrogazione parlamentare 4 giugno 2008, n. 5-00072.Nonostante questi primi segnali positivi oltre alle sentenze della Suprema Corte, l'Agenzia delle Entrate non ha inserito limiti "numerici" così da consentire un'identificazione oggettiva dei professionisti per i quali l'IRAP non è dovuta, ma ha analizzato alcuni concetti.In particolare, nella circolare, l'Agenzia afferma che, ai fini dell'esistenza dell'autonoma organizzazione:· rileva la disponibilità di beni strumentali eccedenti il minimo per lo svolgimento dell'attività, anche qualora non siano acquisiti direttamente, ma da terzi a qualunque titolo;· i beni strumentali, così come indicati, rilevano anche quando il loro costo è stato interamente dedotto.Il test sui beni strumentali è da considerare superato, ai fini della non assoggettabilità all'IRAP, se il professionista ha i requisiti per l'adesione ai regimi dei minimi.Ovviamente, è escluso da IRAP il professionista che ha anche gli altri requisiti previsti dal citato regime, quali per esempio la mancanza di spese sostenute per lavoro dipendente o per collaboratori.Una prima base di valutazione è, pertanto, il regime dei contribuenti minimi. Al di fuori di questa ipotesi, è necessario valutare caso per caso. Per quanto riguarda la fattispecie in esame, pur mancando indicazioni puntuali, è plausibile ritenere che il professionista sia escluso dall'applicazione dell'IRAP in quanto il fatto di lavorare presso terzi senza una propria struttura rappresenta una condizione oggettiva difficilmente contestabile.
Riferimenti normativi- D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2- D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 49- Agenzia delle Entrate, Circolare 13 giugno 2008, n. 45/E- Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Circolare 5 giugno 2008, n. 2/IR- Risposta all'interrogazione parlamentare 4 giugno 2008, n. 5-00072- Corte di Cassazione, sentenza 7 marzo 2007, n. 5258- Corte di Cassazione, sentenze 16 febbraio 2007, dalla n. 3672 alla n. 3682- Corte Costituzionale, sentenza 10 aprile 2002, n. 103- Corte Costituzionale, sentenza 23 luglio 2001, n. 286- Corte Costituzionale, sentenza 21 maggio 2001, n. 156

Simone Bottero
Dottore Commercialista, Revisore Contabile e Pubblicista in Milano

Giurisprudenza Amministrativa


Appalti: illegittima l'esclusione dalla gara dell'impresa che non sia costituita sotto forma di società di capitali (Cons. Stato, n. 4242/2008)
R. Corapi (Nota a sentenza 12/12/2008)

Consiglio di Stato, sez. V, 8 settembre 2008, n. 4242
Non può essere vietata la partecipazione alle gare di appalto per la gestione dei servizi pubblici locali ai soggetti costituiti in forma diversa dalla società di capitali, in quanto una disposizione del genere deve ritenersi contraria alle prescrizioni del diritto comunitario. Lo ha chiarito la quinta sezione del Consiglio di stato con la sentenza n. 4242 dell'8 settembre 2008. La fattispecie in esame riguardava il ricorso presentato da un'impresa avverso il provvedimento con cui un'amministrazione comunale l'aveva esclusa dalla procedura di gara per l'affidamento dei servizi di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani, sul presupposto che la stessa, in quanto costituita con la forma giuridica della società in nome collettivo, non fosse abilitata a partecipare alle gare per il cui accesso l'art. 113 del Testo Unico degli enti locali prescrive la forma della società di capitali. A seguito della sentenza di rigetto ottenuta in primo grado, la società decideva di proporre appello, deducendo la violazione dell'art. 113 del Tuel, la violazione della direttiva comunitaria n. 75/442/CEE e l'eccesso di potere per difetto di istruttoria. Dopo aver esaminato la questione i giudici della quinta sezione del Consiglio di stato hanno però deciso di accogliere il primo motivo di appello, rigettando gli altri. Il collegio ha infatti spiegato che il giudice di primo grado aveva respinto il ricorso richiamandosi alla prevalente interpretazione dell'art. 113 del Testo unico degli enti locali, approvato con il d.lgs. n. 267/2000, che prevede il conferimento della titolarità di servizi pubblici locali esclusivamente alle società di capitali e esclude che le società in nome collettivo siano abilitate a ottenere l'affidamento di tali servizi. Nelle more dell'appello era però sopravvenuta la sentenza n. 357 del 18 dicembre 2007 della Corte di giustizia, alla quale il Giudice nazionale è tenuto ad attenersi, e secondo cui, diversamente da quanto in precedenza affermato, alle gare di appalto per l'affidamento della gestione dei servizi pubblici locali deve poter concorrere qualsivoglia soggetto, anche costituito in forma diversa dalla società di capitali. In tale sentenza la Corte Ue ha infatti stabilito che l'art. 26, n. 1 e 2, della direttiva del Consiglio n. 92/50/Ce osta all'applicazione di alcune disposizioni nazionali italiane, come quelle costituite dagli art. 113, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, art. 198, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 e art. 2, comma 6, della legge regionale Lombardia n. 26/2003, che impediscono agli operatori economici di partecipare agli appalti pubblici ove non rivestano la forma giuridica della società di capitali.In questi casi, come evidenziato dalla quinta sezione del Consiglio di stato, quando una norma interna risulti contraria al diritto comunitario, il giudice nazionale è obbligato a fornire un'interpretazione e un'applicazione della stessa conforme alle prescrizioni del diritto comunitario e, qualora ciò non sia possibile, a disapplicare ogni disposizione contraria a tali prescrizioni. In ragione di tali considerazioni bisogna dunque ritenere che il discrimine della forma societaria non operi nei riguardi dell'impresa partecipante a una gara quando la stessa concerna la gestione di un servizio al cui affidamento può concorrere qualsivoglia soggetto, anche costituito in forma diversa dalla società di capitali.

Dott.ssa Rossella Corapircorapi@studiolegaledirago.it

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...