mercoledì 17 dicembre 2008


Le verifiche fiscali: elementi a base dell'accertamernto analitico-induttivo

rassegna giurisprudenziale del mese di dicembre 2008 (Avv. Azzeccagarbugli)

Il cosiddetto accertamento presuntivo (o analitico-induttivo) trova origine nell’articolo 39 comma 1 lett. d) del Dpr n. 600/1973, che dispone che “per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio procede alla rettifica ……… se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi alla impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32. L’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti. ……………...”
Continuiamo in questo numero della rassegna mensile ad illustrare le ultime sentenze che si sono occupate di questi aspetti dell’accertamento, evidenziando quali possono essere gli elementi che possono legittimare il Fisco alla rettifica del reddito dichiarato.

Rinvenimento di documentazione extracontabile
Costituisce jus receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale il ritrovamento di scritture contabili informali tenute su documenti non ufficiali quali brogliacci, appunti, annotazioni ovvero il rinvenimento di matrici di assegni, agende o block-notes, costituiscono indizi forniti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza tali da legittimare l’Amministrazione finanziaria a procedere alla determinazione del maggior reddito imponibile con accertamento induttivo.
(Cassazione, sentenza n. 24206/2008)


I conti dei soci insufficienti a produrre un accertamento per la società

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale i prelevamenti e versamenti su conti correnti intestati al contribuente sono imputabili - in sede di accertamento induttivo e con presunzione ex lege - a maggiori proventi non dichiarati laddove non sia dimostrato che le relative movimentazioni siano già computate nell’ambito della dichiarazione ovvero non riferibili ad operazioni imponibili.
La disciplina dell’accertamento fondato sulle risultanze ed elementi emersi da indagini condotte su rapporti e conti correnti detenuti presso istituti di credito non contempla alcuna presunzione di imputazione di attività fiscalmente rilevante nei confronti del contribuente giusta il rapporto organico o familiare dei titolari dei conti, rapporti o posizioni verificati. Sebbene l’ambito della verifica possa naturalmente essere esteso sino a ricomprendere soggetti terzi - legati al contribuente da particolari vincoli (lavorativi o familiari) tali da ingenerare sospetti secondo la comune esperienza e l’id quod plerumque accidit - tale circostanza non è di per sé stessa sufficiente a superare il dato formale dovendosi dimostrare - con onere da assolversi a carico dell’Amministrazione finanziaria - l’intestazione fittizia e l’utilizzazione in concreto da parte del contribuente.
(Cassazione, sentenza n. 27186/2008)

Elementi extracontabili decisivi
Costituisce jus receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale la regolare tenuta della contabilità non osta all’adozione dell’accertamento con metodo induttivo da parte dell’Amministrazione finanziaria. Del pari, il rinvenimento di documenti e dati extracontabili costituisce indizio munito dei caratteri di gravità, precisione e concordanza tali da rendere complessivamente inattendibile la contabilità ufficiale, consentire la rettifica ed invertire l’onere della prova a carico del contribuente.
(Cassazione, sentenza n. 25101/2008)

No all’accertamento se ci si è avvalsi di un mutuo
Deve ritenersi illegittimo e, pertanto, meritevole di annullamento l’avviso di accertamento attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria abbia determinato con metodo sintetico-induttivo un maggior reddito nei confronti del contribuente il quale abbia documentato che i beni ritenuti indici rivelatori di capacità contributiva erano stati acquistati per il tramite di un mutuo e, dunque, non riconducibili ai proventi dell’attività.
(Cassazione, sentenza n. 11389/2008)


Il floppy dell’ex socio elemento indiziario pesante

In tema di IVA, l’uso di elementi acquisiti nell’ambito di procedure riguardanti altri soggetti non viola disposizioni che regolano l’accertamento o il principio del contraddittorio, atteso che l’art. 63, comma 1, Dpr n. 633/1972, dispone espressamente che, nell’ambito dei doveri di cooperazione con gli uffici, la Guardia di Finanza trasmette agli uffici stessi tutte le notizie acquisite, anche indirettamente, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria e che l’art. 54 del citato D.P.R. dispone che gli uffici, a loro volta, possono procedere alla rettifica sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, tratte da atti e documenti in loro possesso, anche quando si tratti di verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti (viene perciò cassata la sentenza di merito che aveva escluso la rilevanza della “contabilità in nero”, tenuta su floppy disk, di un piano bar e reperita presso l’abitazione dell’ex amministratore dell’esercizio).
(Cassazione, sentenza n. 8255/2008)


L’esistenza di contabilità parallela

Il ritrovamento, al di fuori della sede sociale, di una contabilità parallela costituisce indizio grave preciso e concordante nonché circostanza sufficiente a legittimare la rettifica delle dichiarazioni. E’ onere del contribuente fornire la dimostrazione dell’insussistenza di qualsiasi movimento extracontabile riferibile alle operazioni di cui ai documenti rinvenuti in sede di verifica in quanto regolarmente trascritte ovvero mai avvenute.
(Cassazione, sentenza n. 7915/2007)


Il consumo di materie sussidiarie all’attività
In materia tributaria, è sufficiente, quale prova presuntiva, un unico indizio, preciso e grave (ancorché l’art. 2729 del codice civile si esprima al plurale) e la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevolezza e probabilità. Si deve perciò ribadire che il consumo di tovaglioli costituisce sufficiente indizio per l’accertamento del reddito di un ristorante e ciò in quanto è consentito l’utilizzo di “presunzioni di secondo grado”, in cui si deduce da un fatto noto, nella specie, dal numero dei tovaglioli, un primo fatto ignoto, il numero dei coperti e da questo fatto un terzo elemento, il reddito.
(Cassazione, sentenza n. 12438/2007)


La contabilità informale innesca l’accertamento
Costituisce jus receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale il ritrovamento di scritture contabili informali tenute su documenti non ufficiali quali brogliacci, appunti, annotazioni ovvero il rinvenimento di matrici di assegni, agende o block-notes,
costituiscono indizi forniti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza tali da legittimare l’Amministrazione finanziaria a procedere alla determinazione del maggior reddito imponibile con accertamento induttivo.
(Cassazione, sentenza n. 7701/2008)


Ancora sulla documentazione extracontabile

Costituisce principio consolidato, che consente il rigetto in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. del ricorso del contribuente, l’affermazione secondo cui, in tema di IVA, alla luce delle previsioni degli artt. 52, comma quarto, e 54, comma secondo, del D.P.R. n. 633 del 1972, la documentazione extracontabile reperita presso la sede dell’impresa, ancorché consistente in annotazioni personali dell’imprenditore, costituisce elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile in sede di accertamento, indipendentemente dal contestuale riscontro di irregolarità
nella tenuta della contabilità.
(Cassazione, sentenza n. 1400/2008)


Presunzioni sui versamenti bancari
Laddove il contribuente, sul quale grava il relativo onere probatorio, non dimostri l’estraneità alla determinazione del reddito imponibile di movimenti relativi a versamenti e prelevamenti in conto corrente gli importi corrispondenti si considerano componenti del reddito, anche in virtù di relazioni economiche o personali intercorrenti fra il titolare del rapporto di conto corrente ed il soggetto verificato.
(Cassazione, sentenza n. 26836/2008)


L’incidenza dei costi per materie prime
L’accertamento dell’incidenza del costo delle materie prime sull’intero ammontare degli acquisti di un determinato periodo d’imposta può consentire all’Amministrazione finanziaria di utilizzare tale dato anche per differenti periodi d’imposta avuto riguardo all’invarianza della natura dell’attività d’impresa esercitata dal contribuente.
(Cassazione, sentenza n. 22531/2007)


L’accertamento alla società di famiglia conferitaria di soci con redditi bassi
L’Amministrazione può legittimamente presumere che i soci (che non dispongano di propri rilevanti redditi) di una società a base azionaria ristretta e familiare abbiano proceduto ad un considerevole aumento del capitale sociale mediante il versamento di utili occulti in precedenza percepito dalla società stessa; di conseguenza, può procedere ad accertamento nei confronti della società senza che sia necessaria la preventiva emissione del relativo avviso nei confronti dei singoli soci. Tali elementi, che integrano una presunzione semplice, possono essere disattesi dal giudice di merito solo all’esito di un’adeguata valutazione critica.
(Cassazione, sentenza n. 24531/2007)



Perdite frequenti originano incongruenza
L’Amministrazione finanziaria può ricorrere alla determinazione induttiva del reddito imponibile, anche fuori dai casi previsti dall’art. 39, D.P.R n. 600/1973, laddove sia riscontrabile una grave ed ingiustificabile incongruenza fra i componenti positivi dichiarati e quelli desumibili dall’attività svolta o dagli studi di settore, anche alla luce di una sequenza di esercizi nei quali si registrano come risultati costanti perdite. La circostanza che le scritture contabili siano state regolarmente tenute non costituisce causa ostativa all’accertamento.
(Cassazione, sentenza n. 24436/2008)

Rilevanti anche gli appunti trovati presso i dipendenti
Gli appunti rinvenuti in sede di verifica sono ricondotti nel novero dei documenti riepilogativi e costitutivi della situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa. È pertanto legittimo l’utilizzo, in qualità di indizio avente caratteri di gravità, precisione e concordanza, al fine di valutare l’attendibilità delle scritture contabili - ai sensi dell’art. 2709 c.c. - che contemplano tutti i documenti che rilevano fatti di gestione. Grava sull’imprenditore assolvere l’onere probatorio circa l’esclusione dei movimenti indicati dal contesto dell’attività esercitata.
(Cassazione, sentenza n. 25104/2008)

...Il decreto flussi ...


Sono ammessi in Italia per l'anno 2008, per motivi di lavoro subordinato non stagionale, i cittadini stranieri non comunitari, entro una quota massima di 150.000 unità.
E' quanto previsto dal Decreto 3 dicembre 2008, firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) in considerazione dell’attuale congiuntura economica e dell’esigenza di dare riscontro in via prioritaria ai bisogni delle famiglie, consentendo in prevalenza gli ingressi per lavoro domestico e di assistenza alla persona.
Il particolare, sono previste le seguenti quote:
per lavoro domestico e altri settori produttivi, 44.600 cittadini di Paesi che hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere specifici accordi di cooperazione in materia migratoria, così suddifivi:
4.500 cittadini albanesi;
1.000 cittadini algerini;
3.000 cittadini del Bangladesh;
8.000 cittadini egiziani;
5.000 cittadini filippini;
1.000 cittadini ghanesi;
4.500 cittadini marocchini;
6.500 cittadini moldavi;
1.500 cittadini nigeriani;
1.000 cittadini pakistani;
1.000 cittadini senegalesi;
100 cittadini somali;
3.500 cittadini dello Sri Lanka;
4.000 cittadini tunisini.
per lavoro domestico o di assistenza alla persona, 105.400 cittadini stranieri non comunitari residenti all’estero provenienti da altri paesi.
(Altalex, 12 dicembre 2008. Si ringrazia
Cesira Cruciani per la segnalazione)
Immigrazione Flussi
DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 3 dicembre 2008
Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari non stagionali nel territorio dello Stato per l’anno 2008 (“Decreto Flussi 2008”).
Il Presidente del Consiglio dei Ministri
Visto il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni ed integrazioni, recante il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero;Visto il decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, e successive modificazioni ed integrazioni, Regolamento recante norme di attuazione del Testo unico sull’immigrazione;
Visto, in particolare, l’articolo 3 del Testo unico sull’immigrazione, che dispone che la determinazione annuale delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato avviene sulla base dei criteri generali per la definizione dei flussi d’ingresso individuati nel Documento programmatico triennale relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, e che prevede che, "in caso di mancata pubblicazione del decreto di programmazione annuale il Presidente del Consiglio dei Ministri può provvedere in via transitoria, con proprio decreto, nel limite delle quote stabilite per l’anno precedente";
Considerato che il Documento programmatico triennale non è stato emanato;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 novembre 2007, concernente la Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari stagionali nel territorio dello Stato per l’anno 2008;
Considerata l’attuale congiuntura economica e l’esigenza di dare riscontro in via prioritaria ai bisogni delle famiglie, consentendo in prevalenza gli ingressi per lavoro domestico e di assistenza alla persona;Rilevato che alla data del 31 maggio 2008 è stato, inviato agli sportelli unici per l’immigrazione un numero di richieste di concessione di nulla osta al lavoro subordinato non stagionale per cittadini extracomunitari notevolmente superiore alla corrispondente quota massima di ingressi prevista dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30 ottobre 2007;
Considerato che l’elevato numero di richieste di assunzione inviate agli sportelli unici per l’immigrazione, rimaste non soddisfatte dopo l’esaurimento delle quote relative alla programmazione transitoria per l’anno, 2007, esprime un fabbisogno socialmente rilevante, con particolare riferimento al settore dell’assistenza domiciliare che si ritiene di dover soddisfare;
Ritenuto di dover introdurre, per l’attuazione del presente provvedimento nuovi criteri di selezione rispetto alle richieste di assunzione inviate da persone fisiche di nazionalità non comunitaria, in qualità di datori di lavoro, accogliendo le istanze solo delle persone fisiche che dimostrano maggiore radicamento sul territorio nazionale e che in tal modo possono offrire, come datori di lavoro, le opportune garanzie di stabilità del rapporto di lavoro;
Ritenuta l’urgenza di definire, per le esigenze del mercato del lavoro italiano, la quota di lavoratori extracomunitari non stagionali da ammettere nel territorio dello Stato per l’anno 2008;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 ottobre 2007, con il quale la quota complessiva massima dei lavoratori extracomunitari non stagionali ammessi in Italia per l’anno 2007 è stata determinata in 170.000 unità;
Visto l’articolo 21 del Testo unico sull’immigrazione, circa la previsione di quote riservate a favore di Paesi che collaborano nelle politiche di regolamentazione dei flussi di ingresso e nelle procedure di riammissione;
Decreta:
Art. 1
1. In via di programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari non stagionali nel territorio dello Stato per l’anno 2008, sono ammessi in Italia, per motivi di lavoro subordinato non stagionale, i cittadini stranieri non comunitari, entro una quota massima di 150.000 unità da ripartire tra le regioni e le province autonome a cura del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, in base ai dati forniti dal Ministero dell’interno sulle richieste inviate agli sportelli unici per l’immigrazione entro il 31 maggio 2008.
Art. 2
1. Nell’ambito della quota di cui all’articolo 1, sono ammessi in Italia, per motivi di lavoro subordinato non stagionale, da riferire al lavoro domestico e altri settori produttivi, 44.600 cittadini di Paesi che hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere specifici accordi di cooperazione in materia migratoria, così ripartiti:
a) 4.500 cittadini albanesi;b) 1.000 cittadini algerini;c) 3.000 cittadini del Bangladesh;d) 8.000 cittadini egiziani;e) 5.000 cittadini filippini;f) 1.000 cittadini ghanesi;g) 4.500 cittadini marocchini;h) 6.500 cittadini moldavi;i) 1.500 cittadini nigeriani;l) 1.000 cittadini pakistani;m) 1.000 cittadini senegalesi;n) 100 cittadini somali;o) 3.500 cittadini dello Sri Lanka;p) 4.000 cittadini tunisini.
Art. 3
1. Nell’ambito della quota di cui all’articolo 1, sono ammessi in Italia per motivi di lavoro subordinato non stagionale, i cittadini stranieri non comunitari residenti all’estero provenienti dai paesi non elencati all’articolo 2, entro una quota di 105.400 unità per motivi di lavoro domestico o di assistenza alla persona.
Art 4.
1. La quota complessiva massima di 150,000 unità di cui all’articolo 1, è soddisfatta tramite le domande di nulla-osta al lavoro valide ed ammissibili presentate ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 ottobre 2007, risultate in esubero rispetto alla quota complessiva di ingressi autorizzata sulla base dell’articolo 1 dello stesso decreto 30 ottobre 2007.
2. Le domande di cui al precedente comma saranno utilizzate per soddisfare la quota massima di cui all’articolo 1 del presente decreto, sulla base del rispettivo ordine cronologico di presentazione.
3. Nel caso in cui la domanda di nulla-osta al lavoro sia stata presentata da un datore di lavoro non comunitario, persona fisica, è necessario che il richiedente sia in possesso del titolo di soggiorno di cui all’articolo 9 del D.Lgs. 25 luglio 1998, n.286, o ne abbia presentato richiesta, alla data di pubblicazione del presente decreto.
4. Entro il termine perentorio di venti giorni a decorrere dal 15 dicembre 2008, il datore di lavoro non comunitario deve confermare, a pena di esclusione, il permanere dell’interesse all’assunzione del lavoratore straniero in favore del quale aveva presentato l’istanza di nulla-osta, ai sensi del D.P.C.M. 30 ottobre 2007, nonché il possesso del requisito prescritto di cui al comma 3 del presente articolo. La conferma dovrà essere effettuata attraverso la compilazione di una apposita pagina web resa disponibile sul sito
www.interno.it.
Art. 5
1. Trascorsi sessanta giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, qualora vengano rilevate quote significative non utilizzate, le quote stabilite nel presente decreto, ferma restando la quota massima di cui all’articolo 1, possono essere diversamente ripartite, tenendo conto di quanto previsto all’articolo 3; sulla base delle effettive necessità riscontrate nel mercato del lavoro.
Roma, 3 dicembre 2008
Silvio Berlusconi

...Il decreto flussi ...


Sono ammessi in Italia per l'anno 2008, per motivi di lavoro subordinato non stagionale, i cittadini stranieri non comunitari, entro una quota massima di 150.000 unità.
E' quanto previsto dal Decreto 3 dicembre 2008, firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) in considerazione dell’attuale congiuntura economica e dell’esigenza di dare riscontro in via prioritaria ai bisogni delle famiglie, consentendo in prevalenza gli ingressi per lavoro domestico e di assistenza alla persona.
Il particolare, sono previste le seguenti quote:
per lavoro domestico e altri settori produttivi, 44.600 cittadini di Paesi che hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere specifici accordi di cooperazione in materia migratoria, così suddifivi:
4.500 cittadini albanesi;
1.000 cittadini algerini;
3.000 cittadini del Bangladesh;
8.000 cittadini egiziani;
5.000 cittadini filippini;
1.000 cittadini ghanesi;
4.500 cittadini marocchini;
6.500 cittadini moldavi;
1.500 cittadini nigeriani;
1.000 cittadini pakistani;
1.000 cittadini senegalesi;
100 cittadini somali;
3.500 cittadini dello Sri Lanka;
4.000 cittadini tunisini.
per lavoro domestico o di assistenza alla persona, 105.400 cittadini stranieri non comunitari residenti all’estero provenienti da altri paesi.
(Altalex, 12 dicembre 2008. Si ringrazia
Cesira Cruciani per la segnalazione)
Immigrazione Flussi
DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 3 dicembre 2008
Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari non stagionali nel territorio dello Stato per l’anno 2008 (“Decreto Flussi 2008”).
Il Presidente del Consiglio dei Ministri
Visto il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni ed integrazioni, recante il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero;Visto il decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, e successive modificazioni ed integrazioni, Regolamento recante norme di attuazione del Testo unico sull’immigrazione;
Visto, in particolare, l’articolo 3 del Testo unico sull’immigrazione, che dispone che la determinazione annuale delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato avviene sulla base dei criteri generali per la definizione dei flussi d’ingresso individuati nel Documento programmatico triennale relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, e che prevede che, "in caso di mancata pubblicazione del decreto di programmazione annuale il Presidente del Consiglio dei Ministri può provvedere in via transitoria, con proprio decreto, nel limite delle quote stabilite per l’anno precedente";
Considerato che il Documento programmatico triennale non è stato emanato;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 novembre 2007, concernente la Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari stagionali nel territorio dello Stato per l’anno 2008;
Considerata l’attuale congiuntura economica e l’esigenza di dare riscontro in via prioritaria ai bisogni delle famiglie, consentendo in prevalenza gli ingressi per lavoro domestico e di assistenza alla persona;Rilevato che alla data del 31 maggio 2008 è stato, inviato agli sportelli unici per l’immigrazione un numero di richieste di concessione di nulla osta al lavoro subordinato non stagionale per cittadini extracomunitari notevolmente superiore alla corrispondente quota massima di ingressi prevista dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30 ottobre 2007;
Considerato che l’elevato numero di richieste di assunzione inviate agli sportelli unici per l’immigrazione, rimaste non soddisfatte dopo l’esaurimento delle quote relative alla programmazione transitoria per l’anno, 2007, esprime un fabbisogno socialmente rilevante, con particolare riferimento al settore dell’assistenza domiciliare che si ritiene di dover soddisfare;
Ritenuto di dover introdurre, per l’attuazione del presente provvedimento nuovi criteri di selezione rispetto alle richieste di assunzione inviate da persone fisiche di nazionalità non comunitaria, in qualità di datori di lavoro, accogliendo le istanze solo delle persone fisiche che dimostrano maggiore radicamento sul territorio nazionale e che in tal modo possono offrire, come datori di lavoro, le opportune garanzie di stabilità del rapporto di lavoro;
Ritenuta l’urgenza di definire, per le esigenze del mercato del lavoro italiano, la quota di lavoratori extracomunitari non stagionali da ammettere nel territorio dello Stato per l’anno 2008;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 ottobre 2007, con il quale la quota complessiva massima dei lavoratori extracomunitari non stagionali ammessi in Italia per l’anno 2007 è stata determinata in 170.000 unità;
Visto l’articolo 21 del Testo unico sull’immigrazione, circa la previsione di quote riservate a favore di Paesi che collaborano nelle politiche di regolamentazione dei flussi di ingresso e nelle procedure di riammissione;
Decreta:
Art. 1
1. In via di programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari non stagionali nel territorio dello Stato per l’anno 2008, sono ammessi in Italia, per motivi di lavoro subordinato non stagionale, i cittadini stranieri non comunitari, entro una quota massima di 150.000 unità da ripartire tra le regioni e le province autonome a cura del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, in base ai dati forniti dal Ministero dell’interno sulle richieste inviate agli sportelli unici per l’immigrazione entro il 31 maggio 2008.
Art. 2
1. Nell’ambito della quota di cui all’articolo 1, sono ammessi in Italia, per motivi di lavoro subordinato non stagionale, da riferire al lavoro domestico e altri settori produttivi, 44.600 cittadini di Paesi che hanno sottoscritto o stanno per sottoscrivere specifici accordi di cooperazione in materia migratoria, così ripartiti:
a) 4.500 cittadini albanesi;b) 1.000 cittadini algerini;c) 3.000 cittadini del Bangladesh;d) 8.000 cittadini egiziani;e) 5.000 cittadini filippini;f) 1.000 cittadini ghanesi;g) 4.500 cittadini marocchini;h) 6.500 cittadini moldavi;i) 1.500 cittadini nigeriani;l) 1.000 cittadini pakistani;m) 1.000 cittadini senegalesi;n) 100 cittadini somali;o) 3.500 cittadini dello Sri Lanka;p) 4.000 cittadini tunisini.
Art. 3
1. Nell’ambito della quota di cui all’articolo 1, sono ammessi in Italia per motivi di lavoro subordinato non stagionale, i cittadini stranieri non comunitari residenti all’estero provenienti dai paesi non elencati all’articolo 2, entro una quota di 105.400 unità per motivi di lavoro domestico o di assistenza alla persona.
Art 4.
1. La quota complessiva massima di 150,000 unità di cui all’articolo 1, è soddisfatta tramite le domande di nulla-osta al lavoro valide ed ammissibili presentate ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 ottobre 2007, risultate in esubero rispetto alla quota complessiva di ingressi autorizzata sulla base dell’articolo 1 dello stesso decreto 30 ottobre 2007.
2. Le domande di cui al precedente comma saranno utilizzate per soddisfare la quota massima di cui all’articolo 1 del presente decreto, sulla base del rispettivo ordine cronologico di presentazione.
3. Nel caso in cui la domanda di nulla-osta al lavoro sia stata presentata da un datore di lavoro non comunitario, persona fisica, è necessario che il richiedente sia in possesso del titolo di soggiorno di cui all’articolo 9 del D.Lgs. 25 luglio 1998, n.286, o ne abbia presentato richiesta, alla data di pubblicazione del presente decreto.
4. Entro il termine perentorio di venti giorni a decorrere dal 15 dicembre 2008, il datore di lavoro non comunitario deve confermare, a pena di esclusione, il permanere dell’interesse all’assunzione del lavoratore straniero in favore del quale aveva presentato l’istanza di nulla-osta, ai sensi del D.P.C.M. 30 ottobre 2007, nonché il possesso del requisito prescritto di cui al comma 3 del presente articolo. La conferma dovrà essere effettuata attraverso la compilazione di una apposita pagina web resa disponibile sul sito
www.interno.it.
Art. 5
1. Trascorsi sessanta giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, qualora vengano rilevate quote significative non utilizzate, le quote stabilite nel presente decreto, ferma restando la quota massima di cui all’articolo 1, possono essere diversamente ripartite, tenendo conto di quanto previsto all’articolo 3; sulla base delle effettive necessità riscontrate nel mercato del lavoro.
Roma, 3 dicembre 2008
Silvio Berlusconi

lunedì 15 dicembre 2008

Ecco un link per riflettere ....

Ecco un link per riflettere oggi, 15 dicembre 2008, a 60 anni e 5 giorni dal 10 dicembre 1948.
30 sono gli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite, ma ancora oggi essi sono lettera morta in molte parti del mondo.

"Io ho un sogno" M.L. King ...

http://docs.google.com/Presentation?id=d478px7_0cchvscz8

Ecco un link per riflettere ....

Ecco un link per riflettere oggi, 15 dicembre 2008, a 60 anni e 5 giorni dal 10 dicembre 1948.
30 sono gli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite, ma ancora oggi essi sono lettera morta in molte parti del mondo.

"Io ho un sogno" M.L. King ...

http://docs.google.com/Presentation?id=d478px7_0cchvscz8

giovedì 11 dicembre 2008

Danno esistenziale. le nuove frontiere

Corte di Cassazione- Sezioni Unite Civili
Sentenza 11 novembre 2008, n. 26972

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L.A., sottoposto nel maggio del 1989 ad intervento chirurgico per ernia inguinale sinistra, subì la progressiva atrofizzazione del testicolo sinistro che gli fu asportato nel giugno del 1990 in seguito ad inutili terapie antalgiche.
Nel marzo del 1992 convenne in giudizio il dott. F.S. e la U.L.S.S. n. 8 (in seguito n. 6) di Vicenza, assumendo che il secondo intervento era stato reso necessario da errori connessi al primo e domandando la condanna dei convenuti al risarcimento di tutti i danni patiti.
Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.7.1998, riconosciuto il danno biologico, condannò i convenuti a versare all'attore la somma ulteriore di £ 6.411.484 a titolo di interessi maturati sulla somma di £ 23.000.000 già corrisposta nel 1995 dall'assicuratore dei convenuti.
Con sentenza n. 1933/04 la corte d'appello di Venezia ha rigettato il gravame dell'A. in punto di liquidazione del danno sui rilievi: che dalla espletata consulenza tecnica era inequivocamente emerso che la perdita del testicolo non aveva inciso sulla capacità riproduttiva, rimasta integra, provocando soltanto un limitato danno permanente all'integrità fisica dell'A., apprezzato nella misura del 6%; che la richiesta di liquidazione del danno esistenziale, in quanto formulata per la prima volta in grado di appello, costituiva domanda nuova, come tale inammissibile ex art. 345 c.p.c. nella previgente formulazione; e che del pari inammissibili erano le richieste istruttorie di prove orali articolate per supportare la relativa domanda.
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l'A., affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso F.S.
L'intimata U.L.S.S. n. 6 di Vicenza non ha svolto attività difensiva.
All'udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al ed. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l'ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.
Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle sezioni unite.
MOTIVI DELLA DECISIONE
A) Esame della questione di particolare importanza
1. L'ordinanza di rimessione n. 4712/2008 - relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l'ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame - rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l'uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale - inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell'integrità psico-fisica, e dal ed. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto - l'altro contrario.
Osserva l'ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell'art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.
A questo orientamento, prosegue l'ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del "danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.
Ricorda ancora l'ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito "esistenziale": tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perché non presuppone l'esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perché non costituirebbe un mero patema d'animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest'ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.
L'ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.
Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.
Così riassunti i contrapposti orientamenti, l'ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto "quesiti".
1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.
2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.
3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale "tipico", nega la concepibilità del danno esistenziale.
4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell'ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell'illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.
5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.
6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.
7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il ed. danno tanatologico o da morte immediata.
8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.
2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'art. 2059 c.c. ("Danni non patrimoniali") secondo cui "Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge ".
All'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 del codice penale del 1930.
La giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel ed. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte.
2.1. L'insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Sorreggono l'affermazione i seguenti argomenti:
a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/1998; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998; art. 2 1. n. 89/2001, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall'art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;
b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell'integrità psichica e fisica della persona;
c) l'estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);
d) l'esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perché in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perché il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.
2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all'art. 2059 c.c. e la completano nei termini seguenti.
2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c.
L'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).
2.4. L'art. 2059 c.c. è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. L'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.
2.5. Si tratta, in primo luogo, dell'art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato ("Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui").
2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/1998: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 1. n. 89/2001: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).
2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).
Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).
Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).
2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n.8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).
Sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto.
Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).
2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.
2.10. Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
La limitazione alla tradizionale figura del ed. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l'art. 2059 c.c. né l'art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza. al tempo di vita effettiva: n.19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005) .
Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato é risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.
2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.
Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte cost. n. 87/1979).
Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poiché la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, né può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007).
2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.
2.13. In tali ipotesi non emergono, nell'ambito della categoria generale "danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.
E' solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo negli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito", e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.
In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte costituzionale.
Le menzionate sentenze, d'altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003) , e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003) . Considerazioni che le Sezioni unite condividono.
2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.
La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.
3. Si pone ora la questione se, nell'ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale.
3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni '90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all'epoca risarcito nell'ambito dell'art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell'integrità psicofisica, e dal ed. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell'art. 2059 c.c. in collegamento all'art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.
Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell'art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell'ambito dell'art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.
Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l'espressione "danno esistenziale"
Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona. Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perché non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica.
3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell'art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l'alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all'ammissione a risarcimento.
Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull'ingiustizia del danno (per lesione dell'interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.
La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c. e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all'epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all'educazione ed all'istruzione, integrante danno-evento. La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall'accertata lesione di un interesse rilevante.
La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l'agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Né, d'altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.
In tema di danno da irragionevole durata del processo (art. 2 della legge n. 89/2001) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una "voce" del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.
Altre decisioni hanno riconosciuto, nell'ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia.
3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.
Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.
3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.
3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.
La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955), e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso.
3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (ed. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).
In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.
Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del ed. "danno estetico" che del ed. "danno alla vita di relazione"), saranno risarcibili purché siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.
Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell'illecito che, cagionando ad una persona coniugata l'impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio. Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.
3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.
Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all'interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell'alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell'interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.
La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all'evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell'ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.
Essa si risolve sostanzialmente nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente orientata, perché cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento dannoso.
3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. è incentrato sull'assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.
La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell'art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purché sia leso un interesse genericamente rilevante per l'ordinamento, contraddicendo l'affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.
E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poiché la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte cost. n. 87/1979).
3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell'art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.
Va ricordato che l'effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.u. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).
3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell'ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).
Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell'ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell'ambito del rapporto di lavoro.
Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.
3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.
In tal senso, per difetto dell'ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava "stressata" per effetto dell'istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).
E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l'uomo e l'animale, privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n.14846/2007).
3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle ed. liti bagatellari.
Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.
In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l'invocabilità dell'art. 2059 c.c.
La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell'ambito dell'area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l'offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest'ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all'art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).
3.11. La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.
Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).
Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).
3.12. I limiti fissati dall'art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.
La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).
3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata "danno esistenziale", perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).
3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.
4. 11 danno non patrimoniale conseguente all'inadempimento delle obbligazioni, secondo l'opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.
L'ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.
Per aggirare l'ostacolo, nel caso in cui oltre all'inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell'esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).
A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poiché lo riconduceva, in relazione all'azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell'art. 2059 c.c. in collegamento con l'art. 185 c.p., sicché il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.
Dalle strettoie dell'art. 2059 c.c. si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell'art. 2043 c.c. (Corte cost. n. 184/1986) .
4.1. L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.
Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.
Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni.
4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).
4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i ed. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l'inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.
In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell'ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).
I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32, comma 1, Cost.), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all'autodeterminazione (artt. 32, comma 2, e 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell'obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.
4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l'allievo e l'istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.u. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell'allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).
4.5. L'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.
E' questo il caso del contratto di lavoro. L'art. 2087 c.c. ("L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"), inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.
Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.
Nell'ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poiché i danni-conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.
4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell'integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.) .
Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all'ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all'ipotesi dell'illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.
4.7. Nell'ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.
L'art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.
D'altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall'inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all'art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell'art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l'obbligazione è sorta.
Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell'art. 1229, comma 2, c.c. (E'nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).
Varranno le specifiche regole del settore circa l'onere della prova (come precisati da Sez. un. n. 13533/2001), e la prescrizione.
4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.
Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.
Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
E' compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.
Viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del ed. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.
Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il ed. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.
Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell'integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).
Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come "voce" del danno biologico, che il ed. danno estetico pacificamente incorpora.
Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.
4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.
Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento". La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.
E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.
Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (artt. 138 e 139 d. lgs. n. 209/2005) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico- legale, non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.
B) Ricorso n. 734/06
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 345, comma 1, c.p.c, nel testo vigente prima del 30.4.1995, e vizio di motivazione su punto decisivo, in riferimento alla affermata inammissibilità della domanda di risarcimento del danno esistenziale.
Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d'appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado. Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricompresse nella nozione di danno esistenziale, all'epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell'atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali.
Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni).
2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 345, comma 1 e 2, c.p.c. nel testo vigente prima del 30.4.1995, con riferimento alla affermata inammissibilità della prova richiesta in appello in punto di disagio del leso nel mostrare i propri organi genitali e delle conseguenti limitazioni dei suoi rapporti sessuali.
La sentenza è censurata per aver ritenuto inammissibile la prova testimoniale articolata in appello sul senso di "vergogna" provato dal ricorrente nei momenti di intimità interpersonale e sul suo conseguente desiderio di limitare nel numero e nel tempo i rapporti sessuali.
Si sostiene che, una volta escluso che fosse stata proposta una domanda nuova, l'art. 345, comma 2, c.p.c, nella previgente formulazione, non sarebbe stato d'ostacolo all'ammissione della prova testimoniale, invece ritenuta inammissibile proprio perché vertente su una domanda erroneamente qualificata come nuova, e come tale inammissibile.
2.1. Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono.
Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell'aspetto concernente i rapporti sessuali, allorché dipenda da una lesione dell'integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell'integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno "esistenziale" (punto 4.9).
Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva confermata dalla definizione normativa adottata dal d. lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private ("per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito"), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli "aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato".
Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13) .
Nella specie, in primo grado, l'attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell'attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l'appello, l'attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell'art. 345 c.p.c. nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove.
La decisione non è corretta.
La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell'attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del "danno esistenziale" subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l'attuale ricorrente s'era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all'epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe.
La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall'appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell'ambito del danno biologico.
3. All'accoglimento del primo motivo per quanto di ragione consegue quello del secondo, avendo la corte d'appello escluso che la prova testimoniale fosse ammissibile per la sola ragione che essa si riferiva ad una domanda erroneamente ritenuta nuova.
4. La sentenza va dunque cassata.
5. Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d'appello in diversa composizione, non dovrà necessariamente procedere all'ammissione della prova testimoniale, non essendogli precluso di ritenere vero - anche in base a semplice inferenza presuntiva - che la lesione in questione abbia prodotto le conseguenze che si mira a provare per via testimoniale e di procedere, dunque, all'eventuale personalizzazione del risarcimento (nella specie, del danno biologico); la quale non è mai preclusa dalla liquidazione sulla base del valore tabellare differenziato di punto, segnatamente alla luce del rilievo che il consulente d'ufficio ha dichiaratamente ritenuto di non attribuire rilevanza, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, al disagio che la menomazione in questione provoca nei momenti di intimità (ed ai suoi consequenziali riflessi).
6. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.
7. Ricorrono i presupposti di cui all'art. 52, comma 2, del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in materia di protezione dei dati personali.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d'appello di Venezia in diversa composizione;
dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati.

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