lunedì 3 novembre 2008

il principio di offensività è legge in virtù dell'operato della Corte Costituzionale

SENTENZA N. 225
ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, promosso con ordinanza del 7 gennaio 2004 dalla Corte d’appello di Genova, nel procedimento penale a carico di A. M., iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, pervenuta alla Corte il 28 marzo 2007, la Corte d’appello di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, che contempla la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli.
La Corte rimettente premette di essere investita del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dalla norma denunciata, in quanto – essendo stata condannata per delitti determinati da motivi di lucro – veniva colta in possesso di un cacciavite con punta piatta della lunghezza di 14 centimetri, costituente strumento atto ad aprire e a sforzare serrature, senza giustificarne l’attuale destinazione.
Facendo propri gli argomenti svolti dalla difesa a sostegno dell’eccezione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice a quo muove dalla premessa che il reato in esame – definito come «di sospetto» – incrimini «fatti in sé stessi non lesivi del bene protetto ma tali da far presumere la commissione di reati». Il rimettente ricorda, altresì, come questa Corte abbia dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 707 e 708 cod. pen., nella parte in cui rendevano rilevanti, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni da essi previste, condizioni personali quali la condanna per mendicità, l’ammonizione, la sottoposizione a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta. Il giudice a quo rimarca, ancora, come la sentenza n. 370 del 1996 abbia dichiarato successivamente incostituzionale l’art. 708 cod. pen., per violazione dei principi di ragionevolezza e di tassatività, anche nel residuo riferimento ai soggetti precedentemente condannati per determinati reati; ritenendo invece conforme al principio di tassatività l’art. 707 cod. pen.: ciò, peraltro – ad avviso della Corte rimettente – senza considerare adeguatamente il principio di offensività. In ogni caso – soggiunge il giudice a quo – la sentenza n. 354 del 2002 avrebbe escluso, in relazione alla fattispecie contemplata dall’art. 688, secondo comma, cod. pen., che «lo status personale di condannato» possa «legittimare la sanzione penale».
Tanto premesso, la Corte d’appello di Genova ritiene che l’art. 707 cod. pen. si ponga in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), incriminando «non […] il fatto in sé, ma […] elementi ad esso estranei attinenti alla persona», sulla base di una «presunzione di pericolosità» riguardante «il passato» e, al tempo stesso, «troppo generica».
La norma censurata farebbe discendere, per giunta, da una condanna «effetti da essa non previsti», individuando nel pregiudicato un potenziale autore di nuovi reati: e ciò in contrasto con la valenza rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato, viceversa, socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore».
La disposizione de qua delineerebbe, quindi, una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva anche degli artt. 25 e 27, primo comma, Cost., che sanciscono i principi di offensività e della responsabilità per fatto proprio colpevole.
Un ulteriore profilo di violazione dell’art. 3 Cost. si connetterebbe alla disparità di trattamento riscontrabile tra coloro che hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice e coloro che – pur avendo commesso identici fatti – non siano stati invece condannati, a causa dell’estinzione del reato per «amnistia, prescrizione, remissione di querela, oblazione, risarcimento del danno»; ovvero in ragione dell’improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Risulterebbe violato anche il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati – diversamente che per i reati in materia di armi – non sarebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale».
La norma impugnata comprometterebbe, inoltre, il diritto di difesa (art. 24 Cost.), giacché – invertendo l’onere della prova – imporrebbe all’imputato di giustificare la destinazione o l’origine dei beni detenuti e, dunque, di dimostrare la propria innocenza: precludendo, così, anche l’esercizio della facoltà di «tacere nel processo».
Rimarrebbe lesa, di conseguenza, la «presunzione di innocenza» (recte, di non colpevolezza: art. 27, secondo comma, Cost.), in quanto la prova della destinazione criminosa degli oggetti verrebbe desunta, in via meramente presuntiva, da altri elementi (la condizione soggettiva e il possesso delle cose): ottica nella quale il fatto punito «non verrebbe più accertato in un regolare processo», con correlato vulnus anche del «principio di legalità».
Alla luce di tale complesso di rilievi – addotti dalla difesa e che la Corte rimettente condivide – sarebbe dunque necessario, ad avviso della Corte stessa, che il confine tra le ipotesi di reato e le misure volte ad affrontare la pericolosità sociale venga «meglio definito». In particolare, mentre misure di polizia e di sicurezza potrebbero risultare «compatibili con il sistema»; di dubbia costituzionalità apparirebbe la previsione – rispetto a chi si trovi in determinate condizioni soggettive, sia pure derivanti da un precedente accertamento giudiziale – di un reato di pericolo come quello in esame, che punisce atti leciti per la generalità dei cittadini, senza neppure richiedere una esclusiva o almeno «strutturale» attitudine degli oggetti posseduti ad aprire o a sforzare serrature.
2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
La difesa erariale rileva come i dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice a quo siano già stati dichiarati infondati, o manifestamente infondati, tanto da questa Corte che dalla Corte di cassazione.
Alla luce delle affermazioni di questa Corte, andrebbe esclusa, in particolare, ogni violazione dell’art. 3 Cost., essendo ben diversa la situazione di chi – definitivamente condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio – abbia il possesso ingiustificato di arnesi atti ad aprire o a sforzare serrature, rispetto a quella di chi abbia quel possesso, ma non sia stato mai condannato per gli anzidetti reati.
Né potrebbe ipotizzarsi una violazione del principio di colpevolezza. Quest’ultimo esclude che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di fatti che non può impedire, o in relazione ai quali non è in grado, senza la minima colpa, di ravvisare il dovere di evitarli; mentre, nella specie, il soggetto – che versa in una situazione di peculiare rilievo – potrebbe bene evitare la commissione del fatto incriminato (il possesso ingiustificato di grimaldelli od oggetti similari).
Ancor più evidente risulterebbe, poi, l’insussistenza della violazione del principio di tassatività, in quanto l’art. 707 cod. pen. punisce una condotta chiaramente delineata.
Non sarebbe violato nemmeno il principio di offensività, giacché il possesso ingiustificato degli arnesi di cui all’art. 707 cod. pen., da parte di chi versi nelle condizioni indicate nella norma incriminatrice, è comunemente avvertito come una situazione pericolosa per la società, meritevole di pena criminale: tanto che analogo reato non solo è stato sempre previsto dalle legislazioni unitarie e preunitarie, ma è stato ed è tuttora previsto anche dalle legislazioni penali degli altri Paesi europei.
Come puntualizzato dalla sentenza n. 265 del 2005 di questa Corte, la norma deve ritenersi volta a tutelare, di fronte a forme di esposizione a pericolo, un interesse penalmente rilevante, nel rispetto del principio dell’offensività in astratto: salva l’esigenza di una verifica particolarmente attenta dell’attualità e della concretezza di detto pericolo da parte del giudice chiamato a fare applicazione della norma, avuto riguardo, in specie, all’attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature e alle modalità di tempo e di luogo della condotta.
Egualmente insussistente risulterebbe – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – la denunciata violazione del principio della finalità rieducativa della pena. A prescindere dal rilievo che tale finalità non potrebbe essere invocata per escludere la legittimità costituzionale di fattispecie contravvenzionali, l’art. 707 cod. pen. non punisce comunque i fatti per i quali vi è già stata condanna, ma uno specifico fatto nuovo, commesso da soggetto che – in base a particolari precedenti – apparirebbe potenzialmente pericoloso e che non potrebbe essere ritenuto recuperato solo per effetto della condanna o dell’espiazione della pena.
L’art. 707 cod. pen., d’altro canto, non richiederebbe affatto che l’imputato provi la liceità della destinazione della cosa posseduta, invertendo l’onere della prova: ma si limiterebbe a pretendere un’attendibile e circostanziata giustificazione, da valutare in concreto, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento. Non sarebbe ravvisabile, dunque, alcuna violazione né della presunzione di non colpevolezza, né del diritto di difesa, riguardato anche nel particolare aspetto della facoltà di non rispondere: giacché – come già affermato da questa Corte – se è pur vero che la giustificazione delle cose indicate nell’art. 707 cod. pen. implica che una risposta sia data, è altrettanto vero che la giustificazione è essa stessa un mezzo di difesa, alla quale l’interessato può liberamente rinunciare qualora ritenga che a fini difensivi sia preferibile il silenzio.
Considerato in diritto
1. – La Corte d’appello di Genova dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dell’art. 707 del codice penale, che delinea la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli.
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata risulterebbe lesiva, anzitutto, dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto sottoporrebbe a pena non il fatto in sé, ma una condizione personale – quella di condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio – sulla base di una presunzione di pericolosità riguardante il passato e, al tempo stesso, «troppo generica».
Individuando nel condannato un potenziale autore di nuovi reati, l’art. 707 cod. pen. si porrebbe in contrasto anche con la funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore». Verrebbe così delineata una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva dei principi di offensività e della responsabilità penale per fatto proprio colpevole, sanciti dagli artt. 25 e 27, primo comma, Cost.
L’art. 3 Cost. sarebbe compromesso anche in rapporto alla disparità di trattamento riscontrabile tra chi, per il precedente reato, ha riportato condanna definitiva e chi, a fronte della commissione di un identico fatto, non è stato invece condannato a causa dell’estinzione del reato o dell’improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Risulterebbe violato, ancora, il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati non verrebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale».
La norma impugnata vulnererebbe, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), giacché – invertendo l’onere della prova – imporrebbe all’imputato di giustificare la destinazione dei beni detenuti, precludendogli, così, anche l’esercizio del diritto al silenzio.
2. – La questione non è fondata.
3. – L’ampia discrezionalità che – per costante giurisprudenza di questa Corte – va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l’opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva.
Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l’esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall’art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l’insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenza n. 263 del 2000).
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla Corte – tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità – procedere alla verifica dell’offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell’ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991).
Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso – rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva.
4. – Ciò premesso, questa Corte ha già avuto modo di chiarire come la previsione punitiva di cui all’art. 707 cod. pen. – nel testo risultante dopo la parziale declaratoria di illegittimità costituzionale operata dalla sentenza n. 14 del 1971 – non possa ritenersi contrastante con il principio di offensività «in astratto» (sentenza n. 265 del 2005).
Contrariamente a quanto assume il rimettente, la disposizione non prefigura una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», in assenza di offesa per il bene protetto; ma mira a salvaguardare il patrimonio rispetto a situazioni di pericolo normativamente tipizzate: richiedendo, a tal fine, il concorso di tre distinti elementi. In primo luogo, una particolare qualità del soggetto attivo, che deve identificarsi in persona già condannata – in via definitiva – per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio. In secondo luogo, il possesso – nel quale detto soggetto deve essere «colto» – di oggetti idonei a vincere congegni posti a difesa della proprietà (chiavi alterate o contraffatte, chiavi genuine, strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature): possesso che – come reiteratamente rilevato da questa Corte – è esso stesso una condotta, o fa comunque seguito ad una condotta, con conseguente insussistenza di un vulnus al principio di materialità del reato (sentenze n. 265 del 2005, n. 236 del 1975 e n. 14 del 1971). In terzo luogo e da ultimo, l’incapacità del soggetto di giustificare – e, amplius, per quanto si dirà, l’impossibilità di desumere aliunde – l’attuale destinazione (lecita) dei predetti strumenti. In presenza di tali elementi, non può reputarsi, in termini generali, irrazionale e arbitraria la previsione – nella quale la fattispecie in esame rinviene pacificamente la propria ratio – che l’agente si accinga a commettere reati contro il patrimonio mediante violenza sulle cose (quali furti in abitazione o su autovetture).
Sarà, per il resto, compito del giudice ordinario evitare che – a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente perspicua del fatto represso – la norma incriminatrice venga a colpire anche fatti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità. A tal fine, il giudice dovrà procedere ad un vaglio accurato sia dell’attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature; sia delle modalità e delle circostanze di tempo e di luogo con cui gli stessi sono detenuti. In particolare, quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso – come nel caso in cui si discuta di oggetti di uso comune, suscettibili di impieghi diversi e leciti – tanto più significative dovranno risultare le modalità e le circostanze spazio-temporali della detenzione, nella direzione dell’esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio (sentenza n. 265 del 2005).
Al riguardo, non va del resto dimenticato che la norma incriminatrice non punisce chi «possiede», ma chi «è colto in possesso» degli strumenti in questione: formula, questa, opportunamente valorizzabile al fine di escludere la rilevanza penale di situazioni di generica disponibilità, a fronte delle quali la possibilità di un impiego dell’oggetto per finalità criminose appaia remota e meramente congetturale.
5. – In simile prospettiva, non è quindi riscontrabile la violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), denunciata dal giudice a quo sotto il profilo che la norma incriminatrice risulterebbe basata su una presunzione di pericolosità riguardante «il passato» e «troppo generica».
A fronte di una condotta che deve già presentare, nei termini dianzi evidenziati, una potenziale proiezione verso l’offesa al patrimonio, non può considerarsi irragionevole che il legislatore tenga conto delle precedenti condanne riportate dal soggetto attivo per reati aggressivi del medesimo bene, o comunque connotati da finalità di lucro, elevandole ad elemento di selezione dei fatti punibili, in quanto idonee a rendere maggiormente concreta detta proiezione offensiva (sentenza n. 236 del 1975 e ordinanza n. 146 del 1977; nonché sentenza n. 370 del 1996).
6. – Né, d’altra parte, tale soluzione legislativa si pone in contrasto con la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): finalità che imporrebbe – secondo il giudice a quo – di considerare il condannato «socialmente recuperato».
Al legislatore non è inibito, infatti, prevedere che alla condanna, anche se seguita dall’espiazione della pena, residuino «effetti penali», al cui novero va ascritto quello in esame. Né si può ritenere che, in tale ottica, la condanna per determinati reati si trasformi in un “marchio indelebile”, che pone il condannato in una posizione di perenne sfavore rispetto alla generalità dei cittadini, senza alcuna possibilità di emenda. Per communis opinio, difatti, il condannato cessa di rientrare tra i possibili autori della contravvenzione di cui all’art. 707 cod. pen. ove abbia ottenuto la riabilitazione, che estingue gli effetti penali della condanna (art. 178 cod. pen.).
7. – Priva di consistenza appare l’ulteriore censura di violazione del principio di eguaglianza, formulata dal giudice rimettente in rapporto alla disparità di trattamento che si verificherebbe tra coloro i quali hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice censurata, e coloro che – pur avendo commesso un identico fatto – non sono stati invece condannati, a causa dell’estinzione del reato o della improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Le situazioni poste a confronto risultano, all’evidenza, non comparabili: giacché nel caso del prosciolto (anche se non nel merito) è comunque mancato un accertamento definitivo della responsabilità per il fatto anteriore.
8. – Quanto alla lamentata violazione del principio di determinatezza dell'illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.), questa Corte ha già escluso che detto principio resti vulnerato dalla locuzione descrittiva dell'oggetto materiale del reato, la quale fa perno sull'attitudine funzionale degli strumenti posseduti ad aprire o a sforzare serrature: attitudine la cui verifica non eccede il normale compito ermeneutico istituzionalmente demandato al giudice (ordinanza n. 36 del 1990).
Ma analoga conclusione si impone anche con riguardo alle modalità e alle circostanze spazio-temporali della detenzione, la cui analisi – alla luce di quanto dianzi evidenziato – si rende necessaria ai fini della verifica della concretezza e dell'attualità del pericolo per il patrimonio, specie quando si tratti di oggetti di uso comune e a destinazione “aspecifica” (si veda, in rapporto alla similare problematica postasi con riferimento alla contravvenzione di possesso ingiustificato di strumenti atti ad offendere, di cui all'art. 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, la sentenza n. 79 del 1982).
9. – Tanto meno, poi, può ritenersi compromesso il principio della responsabilità per fatto proprio colpevole (art. 27, primo comma, Cost.), il quale esige che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente, nella forma del dolo o della colpa, e al medesimo «rimproverabili» (sentenze n. 322 del 2007 e n. 1085 del 1988).
Nella specie, il presupposto soggettivo da cui dipende l'applicazione della norma incriminatrice è costituito da un dato certo e pienamente conoscibile dal soggetto attivo (la precedente condanna irrevocabile). Detto soggetto è posto quindi in condizione di evitare la realizzazione dell'elemento oggettivo del reato, in quanto l'acquisizione del possesso degli strumenti atti allo scasso avviene in un momento in cui la legge – a fronte della precedente condanna irrevocabile – impone all'agente di adottare particolari cautele (al riguardo, si veda la sentenza n. 48 del 1994). Mentre, per il resto, è pacifico che, ai fini dell'insorgenza della responsabilità penale, l'acquisto della disponibilità materiale del bene debba essere cosciente e volontario: se il possesso è inconsapevole, la contravvenzione non si configura.
10. – Questa Corte ha in più occasioni escluso, ancora, i dedotti vulnera alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) e al diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto del diritto al silenzio, legati alla circostanza che la norma impugnata stabilirebbe una inversione dell'onere della prova in danno dell'imputato (sentenza n. 236 del 1975; ordinanze n. 36 del 1990 e n. 146 del 1977).
In effetti, al di là della formulazione letterale della previsione punitiva («dei quali non giustifichi l'attuale destinazione»), ciò che la medesima prefigura è solo un onere di allegazione, da parte dell'imputato, delle circostanze da cui possa desumersi la destinazione lecita degli oggetti, che non risultino conosciute o conoscibili dal giudicante. Quest'ultimo – alla stregua di una interpretazione ormai generalmente recepita – potrà trarre comunque aliunde il convincimento in ordine alla liceità degli obiettivi di impiego degli strumenti, ove l'imputato abbia scelto la via del silenzio.
Si tratta di una situazione non dissimile, nella sostanza, da quella originata dalle numerose norme incriminatrici, presenti nell'ordinamento, che puniscono il compimento di determinate azioni od omissioni «senza giustificato motivo» (quale, ad esempio, la già ricordata disposizione incriminatrice del porto di strumenti atti a recare offesa alla persona: disposizione che prefigura una tutela in forma preventiva della vita e dell'incolumità fisica delle persone strutturalmente analoga, mutatis mutandis, a quella apprestata dall'art. 707 cod. pen. in rapporto al patrimonio; salvo a non richiedere – in correlazione al più elevato rango dell'interesse protetto – una specifica caratterizzazione del soggetto attivo). Nell'anzidetta clausola – quella dell'assenza di giustificato motivo – non può infatti scorgersi una inversione dell'onere della prova, lesiva dei parametri costituzionali evocati (sentenza n. 5 del 2004).
11. - Priva di specifica motivazione risulta, da ultimo, l'allegata violazione dell'art. 13 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Genova con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008.


il principio di offensività è legge in virtù dell'operato della Corte Costituzionale

SENTENZA N. 225
ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, promosso con ordinanza del 7 gennaio 2004 dalla Corte d’appello di Genova, nel procedimento penale a carico di A. M., iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, pervenuta alla Corte il 28 marzo 2007, la Corte d’appello di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, che contempla la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli.
La Corte rimettente premette di essere investita del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dalla norma denunciata, in quanto – essendo stata condannata per delitti determinati da motivi di lucro – veniva colta in possesso di un cacciavite con punta piatta della lunghezza di 14 centimetri, costituente strumento atto ad aprire e a sforzare serrature, senza giustificarne l’attuale destinazione.
Facendo propri gli argomenti svolti dalla difesa a sostegno dell’eccezione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice a quo muove dalla premessa che il reato in esame – definito come «di sospetto» – incrimini «fatti in sé stessi non lesivi del bene protetto ma tali da far presumere la commissione di reati». Il rimettente ricorda, altresì, come questa Corte abbia dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 707 e 708 cod. pen., nella parte in cui rendevano rilevanti, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni da essi previste, condizioni personali quali la condanna per mendicità, l’ammonizione, la sottoposizione a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta. Il giudice a quo rimarca, ancora, come la sentenza n. 370 del 1996 abbia dichiarato successivamente incostituzionale l’art. 708 cod. pen., per violazione dei principi di ragionevolezza e di tassatività, anche nel residuo riferimento ai soggetti precedentemente condannati per determinati reati; ritenendo invece conforme al principio di tassatività l’art. 707 cod. pen.: ciò, peraltro – ad avviso della Corte rimettente – senza considerare adeguatamente il principio di offensività. In ogni caso – soggiunge il giudice a quo – la sentenza n. 354 del 2002 avrebbe escluso, in relazione alla fattispecie contemplata dall’art. 688, secondo comma, cod. pen., che «lo status personale di condannato» possa «legittimare la sanzione penale».
Tanto premesso, la Corte d’appello di Genova ritiene che l’art. 707 cod. pen. si ponga in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), incriminando «non […] il fatto in sé, ma […] elementi ad esso estranei attinenti alla persona», sulla base di una «presunzione di pericolosità» riguardante «il passato» e, al tempo stesso, «troppo generica».
La norma censurata farebbe discendere, per giunta, da una condanna «effetti da essa non previsti», individuando nel pregiudicato un potenziale autore di nuovi reati: e ciò in contrasto con la valenza rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato, viceversa, socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore».
La disposizione de qua delineerebbe, quindi, una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva anche degli artt. 25 e 27, primo comma, Cost., che sanciscono i principi di offensività e della responsabilità per fatto proprio colpevole.
Un ulteriore profilo di violazione dell’art. 3 Cost. si connetterebbe alla disparità di trattamento riscontrabile tra coloro che hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice e coloro che – pur avendo commesso identici fatti – non siano stati invece condannati, a causa dell’estinzione del reato per «amnistia, prescrizione, remissione di querela, oblazione, risarcimento del danno»; ovvero in ragione dell’improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Risulterebbe violato anche il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati – diversamente che per i reati in materia di armi – non sarebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale».
La norma impugnata comprometterebbe, inoltre, il diritto di difesa (art. 24 Cost.), giacché – invertendo l’onere della prova – imporrebbe all’imputato di giustificare la destinazione o l’origine dei beni detenuti e, dunque, di dimostrare la propria innocenza: precludendo, così, anche l’esercizio della facoltà di «tacere nel processo».
Rimarrebbe lesa, di conseguenza, la «presunzione di innocenza» (recte, di non colpevolezza: art. 27, secondo comma, Cost.), in quanto la prova della destinazione criminosa degli oggetti verrebbe desunta, in via meramente presuntiva, da altri elementi (la condizione soggettiva e il possesso delle cose): ottica nella quale il fatto punito «non verrebbe più accertato in un regolare processo», con correlato vulnus anche del «principio di legalità».
Alla luce di tale complesso di rilievi – addotti dalla difesa e che la Corte rimettente condivide – sarebbe dunque necessario, ad avviso della Corte stessa, che il confine tra le ipotesi di reato e le misure volte ad affrontare la pericolosità sociale venga «meglio definito». In particolare, mentre misure di polizia e di sicurezza potrebbero risultare «compatibili con il sistema»; di dubbia costituzionalità apparirebbe la previsione – rispetto a chi si trovi in determinate condizioni soggettive, sia pure derivanti da un precedente accertamento giudiziale – di un reato di pericolo come quello in esame, che punisce atti leciti per la generalità dei cittadini, senza neppure richiedere una esclusiva o almeno «strutturale» attitudine degli oggetti posseduti ad aprire o a sforzare serrature.
2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
La difesa erariale rileva come i dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice a quo siano già stati dichiarati infondati, o manifestamente infondati, tanto da questa Corte che dalla Corte di cassazione.
Alla luce delle affermazioni di questa Corte, andrebbe esclusa, in particolare, ogni violazione dell’art. 3 Cost., essendo ben diversa la situazione di chi – definitivamente condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio – abbia il possesso ingiustificato di arnesi atti ad aprire o a sforzare serrature, rispetto a quella di chi abbia quel possesso, ma non sia stato mai condannato per gli anzidetti reati.
Né potrebbe ipotizzarsi una violazione del principio di colpevolezza. Quest’ultimo esclude che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di fatti che non può impedire, o in relazione ai quali non è in grado, senza la minima colpa, di ravvisare il dovere di evitarli; mentre, nella specie, il soggetto – che versa in una situazione di peculiare rilievo – potrebbe bene evitare la commissione del fatto incriminato (il possesso ingiustificato di grimaldelli od oggetti similari).
Ancor più evidente risulterebbe, poi, l’insussistenza della violazione del principio di tassatività, in quanto l’art. 707 cod. pen. punisce una condotta chiaramente delineata.
Non sarebbe violato nemmeno il principio di offensività, giacché il possesso ingiustificato degli arnesi di cui all’art. 707 cod. pen., da parte di chi versi nelle condizioni indicate nella norma incriminatrice, è comunemente avvertito come una situazione pericolosa per la società, meritevole di pena criminale: tanto che analogo reato non solo è stato sempre previsto dalle legislazioni unitarie e preunitarie, ma è stato ed è tuttora previsto anche dalle legislazioni penali degli altri Paesi europei.
Come puntualizzato dalla sentenza n. 265 del 2005 di questa Corte, la norma deve ritenersi volta a tutelare, di fronte a forme di esposizione a pericolo, un interesse penalmente rilevante, nel rispetto del principio dell’offensività in astratto: salva l’esigenza di una verifica particolarmente attenta dell’attualità e della concretezza di detto pericolo da parte del giudice chiamato a fare applicazione della norma, avuto riguardo, in specie, all’attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature e alle modalità di tempo e di luogo della condotta.
Egualmente insussistente risulterebbe – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – la denunciata violazione del principio della finalità rieducativa della pena. A prescindere dal rilievo che tale finalità non potrebbe essere invocata per escludere la legittimità costituzionale di fattispecie contravvenzionali, l’art. 707 cod. pen. non punisce comunque i fatti per i quali vi è già stata condanna, ma uno specifico fatto nuovo, commesso da soggetto che – in base a particolari precedenti – apparirebbe potenzialmente pericoloso e che non potrebbe essere ritenuto recuperato solo per effetto della condanna o dell’espiazione della pena.
L’art. 707 cod. pen., d’altro canto, non richiederebbe affatto che l’imputato provi la liceità della destinazione della cosa posseduta, invertendo l’onere della prova: ma si limiterebbe a pretendere un’attendibile e circostanziata giustificazione, da valutare in concreto, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento. Non sarebbe ravvisabile, dunque, alcuna violazione né della presunzione di non colpevolezza, né del diritto di difesa, riguardato anche nel particolare aspetto della facoltà di non rispondere: giacché – come già affermato da questa Corte – se è pur vero che la giustificazione delle cose indicate nell’art. 707 cod. pen. implica che una risposta sia data, è altrettanto vero che la giustificazione è essa stessa un mezzo di difesa, alla quale l’interessato può liberamente rinunciare qualora ritenga che a fini difensivi sia preferibile il silenzio.
Considerato in diritto
1. – La Corte d’appello di Genova dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dell’art. 707 del codice penale, che delinea la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli.
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata risulterebbe lesiva, anzitutto, dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto sottoporrebbe a pena non il fatto in sé, ma una condizione personale – quella di condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio – sulla base di una presunzione di pericolosità riguardante il passato e, al tempo stesso, «troppo generica».
Individuando nel condannato un potenziale autore di nuovi reati, l’art. 707 cod. pen. si porrebbe in contrasto anche con la funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore». Verrebbe così delineata una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», lesiva dei principi di offensività e della responsabilità penale per fatto proprio colpevole, sanciti dagli artt. 25 e 27, primo comma, Cost.
L’art. 3 Cost. sarebbe compromesso anche in rapporto alla disparità di trattamento riscontrabile tra chi, per il precedente reato, ha riportato condanna definitiva e chi, a fronte della commissione di un identico fatto, non è stato invece condannato a causa dell’estinzione del reato o dell’improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Risulterebbe violato, ancora, il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati non verrebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale».
La norma impugnata vulnererebbe, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), giacché – invertendo l’onere della prova – imporrebbe all’imputato di giustificare la destinazione dei beni detenuti, precludendogli, così, anche l’esercizio del diritto al silenzio.
2. – La questione non è fondata.
3. – L’ampia discrezionalità che – per costante giurisprudenza di questa Corte – va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l’opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva.
Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l’esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall’art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l’insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenza n. 263 del 2000).
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla Corte – tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità – procedere alla verifica dell’offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell’ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991).
Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso – rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva.
4. – Ciò premesso, questa Corte ha già avuto modo di chiarire come la previsione punitiva di cui all’art. 707 cod. pen. – nel testo risultante dopo la parziale declaratoria di illegittimità costituzionale operata dalla sentenza n. 14 del 1971 – non possa ritenersi contrastante con il principio di offensività «in astratto» (sentenza n. 265 del 2005).
Contrariamente a quanto assume il rimettente, la disposizione non prefigura una responsabilità «per il modo di essere dell’autore», in assenza di offesa per il bene protetto; ma mira a salvaguardare il patrimonio rispetto a situazioni di pericolo normativamente tipizzate: richiedendo, a tal fine, il concorso di tre distinti elementi. In primo luogo, una particolare qualità del soggetto attivo, che deve identificarsi in persona già condannata – in via definitiva – per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio. In secondo luogo, il possesso – nel quale detto soggetto deve essere «colto» – di oggetti idonei a vincere congegni posti a difesa della proprietà (chiavi alterate o contraffatte, chiavi genuine, strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature): possesso che – come reiteratamente rilevato da questa Corte – è esso stesso una condotta, o fa comunque seguito ad una condotta, con conseguente insussistenza di un vulnus al principio di materialità del reato (sentenze n. 265 del 2005, n. 236 del 1975 e n. 14 del 1971). In terzo luogo e da ultimo, l’incapacità del soggetto di giustificare – e, amplius, per quanto si dirà, l’impossibilità di desumere aliunde – l’attuale destinazione (lecita) dei predetti strumenti. In presenza di tali elementi, non può reputarsi, in termini generali, irrazionale e arbitraria la previsione – nella quale la fattispecie in esame rinviene pacificamente la propria ratio – che l’agente si accinga a commettere reati contro il patrimonio mediante violenza sulle cose (quali furti in abitazione o su autovetture).
Sarà, per il resto, compito del giudice ordinario evitare che – a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente perspicua del fatto represso – la norma incriminatrice venga a colpire anche fatti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità. A tal fine, il giudice dovrà procedere ad un vaglio accurato sia dell’attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature; sia delle modalità e delle circostanze di tempo e di luogo con cui gli stessi sono detenuti. In particolare, quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso – come nel caso in cui si discuta di oggetti di uso comune, suscettibili di impieghi diversi e leciti – tanto più significative dovranno risultare le modalità e le circostanze spazio-temporali della detenzione, nella direzione dell’esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio (sentenza n. 265 del 2005).
Al riguardo, non va del resto dimenticato che la norma incriminatrice non punisce chi «possiede», ma chi «è colto in possesso» degli strumenti in questione: formula, questa, opportunamente valorizzabile al fine di escludere la rilevanza penale di situazioni di generica disponibilità, a fronte delle quali la possibilità di un impiego dell’oggetto per finalità criminose appaia remota e meramente congetturale.
5. – In simile prospettiva, non è quindi riscontrabile la violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), denunciata dal giudice a quo sotto il profilo che la norma incriminatrice risulterebbe basata su una presunzione di pericolosità riguardante «il passato» e «troppo generica».
A fronte di una condotta che deve già presentare, nei termini dianzi evidenziati, una potenziale proiezione verso l’offesa al patrimonio, non può considerarsi irragionevole che il legislatore tenga conto delle precedenti condanne riportate dal soggetto attivo per reati aggressivi del medesimo bene, o comunque connotati da finalità di lucro, elevandole ad elemento di selezione dei fatti punibili, in quanto idonee a rendere maggiormente concreta detta proiezione offensiva (sentenza n. 236 del 1975 e ordinanza n. 146 del 1977; nonché sentenza n. 370 del 1996).
6. – Né, d’altra parte, tale soluzione legislativa si pone in contrasto con la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): finalità che imporrebbe – secondo il giudice a quo – di considerare il condannato «socialmente recuperato».
Al legislatore non è inibito, infatti, prevedere che alla condanna, anche se seguita dall’espiazione della pena, residuino «effetti penali», al cui novero va ascritto quello in esame. Né si può ritenere che, in tale ottica, la condanna per determinati reati si trasformi in un “marchio indelebile”, che pone il condannato in una posizione di perenne sfavore rispetto alla generalità dei cittadini, senza alcuna possibilità di emenda. Per communis opinio, difatti, il condannato cessa di rientrare tra i possibili autori della contravvenzione di cui all’art. 707 cod. pen. ove abbia ottenuto la riabilitazione, che estingue gli effetti penali della condanna (art. 178 cod. pen.).
7. – Priva di consistenza appare l’ulteriore censura di violazione del principio di eguaglianza, formulata dal giudice rimettente in rapporto alla disparità di trattamento che si verificherebbe tra coloro i quali hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice censurata, e coloro che – pur avendo commesso un identico fatto – non sono stati invece condannati, a causa dell’estinzione del reato o della improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.
Le situazioni poste a confronto risultano, all’evidenza, non comparabili: giacché nel caso del prosciolto (anche se non nel merito) è comunque mancato un accertamento definitivo della responsabilità per il fatto anteriore.
8. – Quanto alla lamentata violazione del principio di determinatezza dell'illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.), questa Corte ha già escluso che detto principio resti vulnerato dalla locuzione descrittiva dell'oggetto materiale del reato, la quale fa perno sull'attitudine funzionale degli strumenti posseduti ad aprire o a sforzare serrature: attitudine la cui verifica non eccede il normale compito ermeneutico istituzionalmente demandato al giudice (ordinanza n. 36 del 1990).
Ma analoga conclusione si impone anche con riguardo alle modalità e alle circostanze spazio-temporali della detenzione, la cui analisi – alla luce di quanto dianzi evidenziato – si rende necessaria ai fini della verifica della concretezza e dell'attualità del pericolo per il patrimonio, specie quando si tratti di oggetti di uso comune e a destinazione “aspecifica” (si veda, in rapporto alla similare problematica postasi con riferimento alla contravvenzione di possesso ingiustificato di strumenti atti ad offendere, di cui all'art. 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, la sentenza n. 79 del 1982).
9. – Tanto meno, poi, può ritenersi compromesso il principio della responsabilità per fatto proprio colpevole (art. 27, primo comma, Cost.), il quale esige che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente, nella forma del dolo o della colpa, e al medesimo «rimproverabili» (sentenze n. 322 del 2007 e n. 1085 del 1988).
Nella specie, il presupposto soggettivo da cui dipende l'applicazione della norma incriminatrice è costituito da un dato certo e pienamente conoscibile dal soggetto attivo (la precedente condanna irrevocabile). Detto soggetto è posto quindi in condizione di evitare la realizzazione dell'elemento oggettivo del reato, in quanto l'acquisizione del possesso degli strumenti atti allo scasso avviene in un momento in cui la legge – a fronte della precedente condanna irrevocabile – impone all'agente di adottare particolari cautele (al riguardo, si veda la sentenza n. 48 del 1994). Mentre, per il resto, è pacifico che, ai fini dell'insorgenza della responsabilità penale, l'acquisto della disponibilità materiale del bene debba essere cosciente e volontario: se il possesso è inconsapevole, la contravvenzione non si configura.
10. – Questa Corte ha in più occasioni escluso, ancora, i dedotti vulnera alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) e al diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto del diritto al silenzio, legati alla circostanza che la norma impugnata stabilirebbe una inversione dell'onere della prova in danno dell'imputato (sentenza n. 236 del 1975; ordinanze n. 36 del 1990 e n. 146 del 1977).
In effetti, al di là della formulazione letterale della previsione punitiva («dei quali non giustifichi l'attuale destinazione»), ciò che la medesima prefigura è solo un onere di allegazione, da parte dell'imputato, delle circostanze da cui possa desumersi la destinazione lecita degli oggetti, che non risultino conosciute o conoscibili dal giudicante. Quest'ultimo – alla stregua di una interpretazione ormai generalmente recepita – potrà trarre comunque aliunde il convincimento in ordine alla liceità degli obiettivi di impiego degli strumenti, ove l'imputato abbia scelto la via del silenzio.
Si tratta di una situazione non dissimile, nella sostanza, da quella originata dalle numerose norme incriminatrici, presenti nell'ordinamento, che puniscono il compimento di determinate azioni od omissioni «senza giustificato motivo» (quale, ad esempio, la già ricordata disposizione incriminatrice del porto di strumenti atti a recare offesa alla persona: disposizione che prefigura una tutela in forma preventiva della vita e dell'incolumità fisica delle persone strutturalmente analoga, mutatis mutandis, a quella apprestata dall'art. 707 cod. pen. in rapporto al patrimonio; salvo a non richiedere – in correlazione al più elevato rango dell'interesse protetto – una specifica caratterizzazione del soggetto attivo). Nell'anzidetta clausola – quella dell'assenza di giustificato motivo – non può infatti scorgersi una inversione dell'onere della prova, lesiva dei parametri costituzionali evocati (sentenza n. 5 del 2004).
11. - Priva di specifica motivazione risulta, da ultimo, l'allegata violazione dell'art. 13 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Genova con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008.


Principio di Offensività e misure cautelari: Prime applicazioni alla luce della sentenza della Consulta 225/08

Offensività e misure cautelari: interpretazione adeguatrice dell’art. 276, ter, c.p.p.
Tribunale Catanzaro, sez. I penale, ordinanza 17.10.2008

Ai sensi dell’art. 276 comma I-ter c.p.p. (aggiunto dall'art. 16, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4), in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, “il giudice dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere”.
La norma impugnata - lungi dall'assolvere a finalità sanzionatorie estranee alle misure di custodia preventiva, le quali non possono soddisfare altro che esigenze di carattere cautelare o comunque strettamente inerenti al processo (Corte cost. sentenze n. 1 del 1980 e n. 64 del 1970) - integra un caso di “presunzione di inadeguatezza di ogni misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere una volta che la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione al suo contenuto essenziale”.
Circa la materia regolamentata dalla disposizione de qua, la Consulta ha in diverse occasione (seppur non con riguardo allo specifico articolo in esame) che “non appare irragionevole ritenere che il volontario allontanamento dalla propria abitazione costituisca l'indice di una radicale insofferenza alle prescrizioni da parte della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, tale da incidere sulla valutazione circa l'adeguatezza di questa specifica misura cautelare, cui è connaturato un maggior grado di affidamento nel comportamento di chi vi è assoggettato, rispetto a ogni altra misura” (cfr. corte costituzionale, sentenza n. 406 del 1997; ordinanza n. 332 del 1995).
Conclusivamente: se l’imputato che si trova agli arresti domiciliari viola la misura cautelare allontanandosi dal domicilio, il giudice deve sostituire la misura in atto con la custodia cautelare in carcere. Un regime, in verità, particolarmente rigido che sembrerebbe quantomeno “eccessivo” in talune ipotesi del tutto peculiari.
Un esempio è quello affrontato dal tribunale catanzarese nell’ordinanza in commento.
I fatti
Un diciottenne agli arresti domiciliari si trovava solo in casa con la madre, immobilizzata per una frattura del piede. Il cane della suddetta, per una disattenzione, riusciva a fuggire davanti alla abitazione. Il ragazzo ristretto dalla misura in casa, non curante degli obblighi su di lui gravanti, usciva da casa per recuperare l’animale appena davanti alla abitazione. Sorpreso dalle autorità di polizia veniva arrestato e condotto dinnanzi al Giudice per la convalida dell’arresto. Avendo formalmente violato la misura cautelare, il P.M. chiedeva l’automatica applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p.: custodia i carcere.
Il Tribunale di Catanzaro, pur convalidando l’arresto, boccia la richiesta.
L’interpretazione “adeguatrice” dell’art. 276, comma 1-ter c.p.p.
Il giudice catanzarese si trova dinnanzi ad una norma che, pur non scritta in termini di obbligo imposto, è interpretata dalla giurisprudenza di legittimità come “automatica” nella ipotesi fattuale descritta dal comma 1-ter dell’art. 276 cit. E, tuttavia, siffatto “automatismo”, nel caso di specie, secondo il giudicante, condurrebbe quantomeno a conseguenze apparentemente incompatibili col dettato costituzionale il che porta a dover sperimentare un tentativo salvifico in punto di interpretazione ortopedica adeguatrice e, in caso di fallimento, a dover rimettere gli atti alla Consulta. Trai i diversi significati giuridici astrattamente possibili, infatti, il Giudice deve selezionare quello che sia conforme alla Costituzione; il sospetto di illegittimità costituzionale, cioè, è legittimo solo allorquando nessuno dei significati, che è possibile estrapolare dalla disposizione normativa, si sottragga alle censure di incostituzionalità (Corte cost., 12/03/1999, n. 65 in Cons. Stato, 1999, II, 366).
Il giudice, per siffatta via, reputa che la disposizione normativa sia suscettibile di interpretazione adeguatrice: ma da quale parametro costituzionale attingere? In modo innovativo, il Tribunale calabrese decide di attingere direttamente dal principio di offensività, richiamando, all’uopo, la recentissima giurisprudenza costituzionale che, invero, ha definitivamente inscritto il principio de quo nella volta dei principi costituzionali.
Il Tribunale, in primis, richiama proprio “il principio di necessaria offensività del reato” che è desumibile dall'art. 25, secondo comma, Cost., “in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignità umana»” (Corte costituzionale, sentenza 20 giugno 2008 n. 225).
Il principio in parola è richiamato per far presente che, in tanto la previsione ex art. 276 comma I-ter c.p.p. si può giustificare in quanto il “fatto” di reato posto in essere dal trasgressore (l’evasione) sia dotato di una componente offensiva rilevante al punto da giustificare la ratio della previsione legislativa. Altrimenti detto: non ogni trasgressione alla misura degli arresti domiciliari può ritenersi utile a determinare il meccanismo automatico di sostituzione con la custodia in carcere. Il giudice, di volta in volta, deve verificare la portata lesiva della violazione posta in essere.
L’ermeneutica sposata dal tribunale catanzarese trova conforto in un autorevole precedente della Corte Costituzionale. Questa, adita proprio sospettando della legittimità costituzionale dell’art. 276 comma I-ter c.p.p., ha avuto modo di precisare che – ai fini della previsione – se è vero che il meccanismo di sostituzione è autonomo (e non irragionevole) è anche vero che il Giudice conserva il potere di sindacare in concreto la “lesività del fatto” e, dunque, la sua offensività.
Secondo la corte delle Leggi “una volta che alla nozione di allontanamento dalla propria abitazione si riconosca una valenza rivelatrice in ordine alla sopravvenuta inadeguatezza degli arresti domiciliari”, non è escluso che “il fatto idoneo a giustificare la sostituzione della misura, tipizzato dal legislatore nella anzidetta formula normativa, possa essere apprezzato dal giudice in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche, per verificare se la condotta di trasgressione in concreto realizzata presenti quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la "violazione" che la norma impugnata assume a presupposto della sostituzione” (Corte costituzionale, 06 marzo 2002, n. 40 in Giur. cost. 2002, 550 ed in Cass. pen. 2002, 2086).
Osservazioni: art. 276 comma I-ter c.p.p. e infraventunenni
L’indirizzo sposato dal Tribunale catanzarese risulta minoritario. Il prevalente insegnamento della cassazione penale, infatti, è nel senso di affermare che “in caso di trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari precedentemente disposti, l'art. 276 c.p.p. comma I-ter rende obbligatoria la revoca degli arresti domiciliari ed il ripristino della custodia cautelare in carcere, senza che al giudice possa essere riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari” (Cass. pen., Sez. VI, 13/11/2003, n. 942; per lo specifico caso dell’evasione: Cass. pen., Sez. V, 17/11/2004, n. 47643). Secondo siffatta lettura, in particolare, l'art. 276, comma 1 ter, c.p.p., “non lascia al giudice alcun margine di valutazione in ordine alla gravità della trasgressione, la cui accertata sussistenza, quindi, comporta automaticamente la conseguenza prevista dalla norma” (Cass. pen., Sez. VI, 17/01/2005, n.9245).
L’indirizzo maggioritario, però, appare senz’altro censurabile se non altro in casi analoghi a quelli trattati dal Tribunale catanzarese. Si pensi, infatti, alle conseguenze irragionevoli che discendono, in ipotesi analoghe, dalla rigida applicazione della norma: viene applicata in itinere un provvedimento restrittivo poi sicuramente non confermato con la decisione finale. Si vuol dire: se il reato è stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto ma inferiore agli anni ventuno, la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni e sei mesi (art. 163, comma III c.p.). Bene, ai sensi dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., “non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”.
Altrimenti detto: l’imputato sconterà il carcere fino alla condanna per poi, a seguito della sospensione, uscire dalle mura detentive.
Ed, allora, almeno per il caso di cui si tratta è auspicabile una rimeditazione della questione cogliendo, opportunamente, il valido suggerimento della Consulta.
(Altalex, 28 ottobre 2008. Nota di Maria Grazia Travaglia Cicirello e Stefania Buffone)

Tribunale di Catanzaro
Sezione I Penale
Ordinanza 17 ottobre 2008
Il TRIBUNALE DI CATANZARO
Sezione Prima Penale
Il Giudice dott. Antonio Saraco, alla pubblica udienza del 17 ottobre 2008,
ha pronunciato e pubblicato mediante lettura la seguente

ORDINANZA
(omissis)
Rileva quanto segue
Il provvedimento dell’autorità è stato posto in essere sussistendo i presupposti legittimanti, avendo il B. trasgredito agli obblighi discendenti dalla misura cautelare. Ne consegue la convalida dell’arresto con le conseguenti statuizioni di legge. Il caso di specie sembrerebbe condurre alla applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p., giusta il quale la trasgressione della misura cautelare degli arresti domiciliari comporta la sostituzione della misura in atto con la custodia cautelare in carcere.
Il disposto normativo richiamato non può trovare applicazione – secondo questo Tribunale - nel caso di specie. Una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, infatti, comporta che la norma ex art. 276 cit. vada interpretata alla luce dei principi costituzionali che governano la materia dei provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Orbene, in primo luogo, il disposto in esame, dal punto di vista letterale, non impone quale atto dovuto la sostituzione della misura come pure avviene in altre disposizioni di rito: ciò vuol dire che resta integra e salva la discrezionalità del giudice di verificare l’”adeguatezza” della prescrizione de qua al caso di specie. E nel caso dell’arrestato B. la misura è del tutto inadeguata.
In primis, sono ostative ragioni sottese alla peculiarità del caso di specie. Il fatto astrattamente configurabile come reato di evasione è, in concreto, minimamente offensivo per le modalità concrete attraverso le quali si è perfezionato: il B., solo, in casa con la madre impossibilitata a muoversi (per un piede rotto), ha superato la soglia del domicilio per ragioni estranee all’intento di violare apertamente la misura e, infatti, ciò è avvenuto per recuperare un animale domestico fuggito da casa.
Il principio di offensività, come ha affermato la Consulta di recente, garanzia “dei valori della dignità umana” in uno Stato democratico, impone di tenere conto della concreta portata lesiva del fatto di reato e, nella specie, conduce a ritenere, per tale aspetto, inoperativo il disposto ex art. 276, comma 1-ter c.p.p..
Ulteriori elementi significativi sono: 1) l’età dell’arrestato, appena diciottenne; 2) il fatto che l’udienza cui strumentale la misura cautelare violata sia fissata a meno di un mese dalla commissione della trasgressione; 3) la condotta del B. assunta in sede di ascolto durante la fase della convalida.
E’ di ostacolo, infine, all’applicazione della misura cautelare richiesta, la prevedibile concessione, al caso di specie, della sospensione condizionale della pena che, in concreto, data l’età del B., conosce un limite pari a due anni e mezzo (art. 163, comma III, c.p.).
P.Q.M.
Convalida l’arresto;
rigetta la richiesta di custodia cautelare in carcere;
(omissis)
17 ottobre 2008
Il Giudice
Dott. Antonio Saraco

Principio di Offensività e misure cautelari: Prime applicazioni alla luce della sentenza della Consulta 225/08

Offensività e misure cautelari: interpretazione adeguatrice dell’art. 276, ter, c.p.p.
Tribunale Catanzaro, sez. I penale, ordinanza 17.10.2008

Ai sensi dell’art. 276 comma I-ter c.p.p. (aggiunto dall'art. 16, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4), in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, “il giudice dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere”.
La norma impugnata - lungi dall'assolvere a finalità sanzionatorie estranee alle misure di custodia preventiva, le quali non possono soddisfare altro che esigenze di carattere cautelare o comunque strettamente inerenti al processo (Corte cost. sentenze n. 1 del 1980 e n. 64 del 1970) - integra un caso di “presunzione di inadeguatezza di ogni misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere una volta che la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione al suo contenuto essenziale”.
Circa la materia regolamentata dalla disposizione de qua, la Consulta ha in diverse occasione (seppur non con riguardo allo specifico articolo in esame) che “non appare irragionevole ritenere che il volontario allontanamento dalla propria abitazione costituisca l'indice di una radicale insofferenza alle prescrizioni da parte della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, tale da incidere sulla valutazione circa l'adeguatezza di questa specifica misura cautelare, cui è connaturato un maggior grado di affidamento nel comportamento di chi vi è assoggettato, rispetto a ogni altra misura” (cfr. corte costituzionale, sentenza n. 406 del 1997; ordinanza n. 332 del 1995).
Conclusivamente: se l’imputato che si trova agli arresti domiciliari viola la misura cautelare allontanandosi dal domicilio, il giudice deve sostituire la misura in atto con la custodia cautelare in carcere. Un regime, in verità, particolarmente rigido che sembrerebbe quantomeno “eccessivo” in talune ipotesi del tutto peculiari.
Un esempio è quello affrontato dal tribunale catanzarese nell’ordinanza in commento.
I fatti
Un diciottenne agli arresti domiciliari si trovava solo in casa con la madre, immobilizzata per una frattura del piede. Il cane della suddetta, per una disattenzione, riusciva a fuggire davanti alla abitazione. Il ragazzo ristretto dalla misura in casa, non curante degli obblighi su di lui gravanti, usciva da casa per recuperare l’animale appena davanti alla abitazione. Sorpreso dalle autorità di polizia veniva arrestato e condotto dinnanzi al Giudice per la convalida dell’arresto. Avendo formalmente violato la misura cautelare, il P.M. chiedeva l’automatica applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p.: custodia i carcere.
Il Tribunale di Catanzaro, pur convalidando l’arresto, boccia la richiesta.
L’interpretazione “adeguatrice” dell’art. 276, comma 1-ter c.p.p.
Il giudice catanzarese si trova dinnanzi ad una norma che, pur non scritta in termini di obbligo imposto, è interpretata dalla giurisprudenza di legittimità come “automatica” nella ipotesi fattuale descritta dal comma 1-ter dell’art. 276 cit. E, tuttavia, siffatto “automatismo”, nel caso di specie, secondo il giudicante, condurrebbe quantomeno a conseguenze apparentemente incompatibili col dettato costituzionale il che porta a dover sperimentare un tentativo salvifico in punto di interpretazione ortopedica adeguatrice e, in caso di fallimento, a dover rimettere gli atti alla Consulta. Trai i diversi significati giuridici astrattamente possibili, infatti, il Giudice deve selezionare quello che sia conforme alla Costituzione; il sospetto di illegittimità costituzionale, cioè, è legittimo solo allorquando nessuno dei significati, che è possibile estrapolare dalla disposizione normativa, si sottragga alle censure di incostituzionalità (Corte cost., 12/03/1999, n. 65 in Cons. Stato, 1999, II, 366).
Il giudice, per siffatta via, reputa che la disposizione normativa sia suscettibile di interpretazione adeguatrice: ma da quale parametro costituzionale attingere? In modo innovativo, il Tribunale calabrese decide di attingere direttamente dal principio di offensività, richiamando, all’uopo, la recentissima giurisprudenza costituzionale che, invero, ha definitivamente inscritto il principio de quo nella volta dei principi costituzionali.
Il Tribunale, in primis, richiama proprio “il principio di necessaria offensività del reato” che è desumibile dall'art. 25, secondo comma, Cost., “in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignità umana»” (Corte costituzionale, sentenza 20 giugno 2008 n. 225).
Il principio in parola è richiamato per far presente che, in tanto la previsione ex art. 276 comma I-ter c.p.p. si può giustificare in quanto il “fatto” di reato posto in essere dal trasgressore (l’evasione) sia dotato di una componente offensiva rilevante al punto da giustificare la ratio della previsione legislativa. Altrimenti detto: non ogni trasgressione alla misura degli arresti domiciliari può ritenersi utile a determinare il meccanismo automatico di sostituzione con la custodia in carcere. Il giudice, di volta in volta, deve verificare la portata lesiva della violazione posta in essere.
L’ermeneutica sposata dal tribunale catanzarese trova conforto in un autorevole precedente della Corte Costituzionale. Questa, adita proprio sospettando della legittimità costituzionale dell’art. 276 comma I-ter c.p.p., ha avuto modo di precisare che – ai fini della previsione – se è vero che il meccanismo di sostituzione è autonomo (e non irragionevole) è anche vero che il Giudice conserva il potere di sindacare in concreto la “lesività del fatto” e, dunque, la sua offensività.
Secondo la corte delle Leggi “una volta che alla nozione di allontanamento dalla propria abitazione si riconosca una valenza rivelatrice in ordine alla sopravvenuta inadeguatezza degli arresti domiciliari”, non è escluso che “il fatto idoneo a giustificare la sostituzione della misura, tipizzato dal legislatore nella anzidetta formula normativa, possa essere apprezzato dal giudice in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche, per verificare se la condotta di trasgressione in concreto realizzata presenti quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la "violazione" che la norma impugnata assume a presupposto della sostituzione” (Corte costituzionale, 06 marzo 2002, n. 40 in Giur. cost. 2002, 550 ed in Cass. pen. 2002, 2086).
Osservazioni: art. 276 comma I-ter c.p.p. e infraventunenni
L’indirizzo sposato dal Tribunale catanzarese risulta minoritario. Il prevalente insegnamento della cassazione penale, infatti, è nel senso di affermare che “in caso di trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari precedentemente disposti, l'art. 276 c.p.p. comma I-ter rende obbligatoria la revoca degli arresti domiciliari ed il ripristino della custodia cautelare in carcere, senza che al giudice possa essere riconosciuto un potere di rivalutazione delle esigenze cautelari” (Cass. pen., Sez. VI, 13/11/2003, n. 942; per lo specifico caso dell’evasione: Cass. pen., Sez. V, 17/11/2004, n. 47643). Secondo siffatta lettura, in particolare, l'art. 276, comma 1 ter, c.p.p., “non lascia al giudice alcun margine di valutazione in ordine alla gravità della trasgressione, la cui accertata sussistenza, quindi, comporta automaticamente la conseguenza prevista dalla norma” (Cass. pen., Sez. VI, 17/01/2005, n.9245).
L’indirizzo maggioritario, però, appare senz’altro censurabile se non altro in casi analoghi a quelli trattati dal Tribunale catanzarese. Si pensi, infatti, alle conseguenze irragionevoli che discendono, in ipotesi analoghe, dalla rigida applicazione della norma: viene applicata in itinere un provvedimento restrittivo poi sicuramente non confermato con la decisione finale. Si vuol dire: se il reato è stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto ma inferiore agli anni ventuno, la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni e sei mesi (art. 163, comma III c.p.). Bene, ai sensi dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., “non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”.
Altrimenti detto: l’imputato sconterà il carcere fino alla condanna per poi, a seguito della sospensione, uscire dalle mura detentive.
Ed, allora, almeno per il caso di cui si tratta è auspicabile una rimeditazione della questione cogliendo, opportunamente, il valido suggerimento della Consulta.
(Altalex, 28 ottobre 2008. Nota di Maria Grazia Travaglia Cicirello e Stefania Buffone)

Tribunale di Catanzaro
Sezione I Penale
Ordinanza 17 ottobre 2008
Il TRIBUNALE DI CATANZARO
Sezione Prima Penale
Il Giudice dott. Antonio Saraco, alla pubblica udienza del 17 ottobre 2008,
ha pronunciato e pubblicato mediante lettura la seguente

ORDINANZA
(omissis)
Rileva quanto segue
Il provvedimento dell’autorità è stato posto in essere sussistendo i presupposti legittimanti, avendo il B. trasgredito agli obblighi discendenti dalla misura cautelare. Ne consegue la convalida dell’arresto con le conseguenti statuizioni di legge. Il caso di specie sembrerebbe condurre alla applicazione dell’art. 276 comma 1-ter c.p.p., giusta il quale la trasgressione della misura cautelare degli arresti domiciliari comporta la sostituzione della misura in atto con la custodia cautelare in carcere.
Il disposto normativo richiamato non può trovare applicazione – secondo questo Tribunale - nel caso di specie. Una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, infatti, comporta che la norma ex art. 276 cit. vada interpretata alla luce dei principi costituzionali che governano la materia dei provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Orbene, in primo luogo, il disposto in esame, dal punto di vista letterale, non impone quale atto dovuto la sostituzione della misura come pure avviene in altre disposizioni di rito: ciò vuol dire che resta integra e salva la discrezionalità del giudice di verificare l’”adeguatezza” della prescrizione de qua al caso di specie. E nel caso dell’arrestato B. la misura è del tutto inadeguata.
In primis, sono ostative ragioni sottese alla peculiarità del caso di specie. Il fatto astrattamente configurabile come reato di evasione è, in concreto, minimamente offensivo per le modalità concrete attraverso le quali si è perfezionato: il B., solo, in casa con la madre impossibilitata a muoversi (per un piede rotto), ha superato la soglia del domicilio per ragioni estranee all’intento di violare apertamente la misura e, infatti, ciò è avvenuto per recuperare un animale domestico fuggito da casa.
Il principio di offensività, come ha affermato la Consulta di recente, garanzia “dei valori della dignità umana” in uno Stato democratico, impone di tenere conto della concreta portata lesiva del fatto di reato e, nella specie, conduce a ritenere, per tale aspetto, inoperativo il disposto ex art. 276, comma 1-ter c.p.p..
Ulteriori elementi significativi sono: 1) l’età dell’arrestato, appena diciottenne; 2) il fatto che l’udienza cui strumentale la misura cautelare violata sia fissata a meno di un mese dalla commissione della trasgressione; 3) la condotta del B. assunta in sede di ascolto durante la fase della convalida.
E’ di ostacolo, infine, all’applicazione della misura cautelare richiesta, la prevedibile concessione, al caso di specie, della sospensione condizionale della pena che, in concreto, data l’età del B., conosce un limite pari a due anni e mezzo (art. 163, comma III, c.p.).
P.Q.M.
Convalida l’arresto;
rigetta la richiesta di custodia cautelare in carcere;
(omissis)
17 ottobre 2008
Il Giudice
Dott. Antonio Saraco

mercoledì 29 ottobre 2008

Le Comunità Europee ed il diritto d'Autore


Corte di Giustizia Europea 8/11/2007 n. C-20/05
Direttiva 98/34/CE - Procedura d'informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche - Legge nazionale che impone l'obbligo di apporre il contrassegno dell'ente nazionale incaricato della riscossione dei diritti d'autore su dischi compatti commercializzati

Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 1998, 98/34/CE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (GU L 204, pag. 37), come modificata con la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 luglio 1998 (GU L 217, pag. 18; in prosieguo: la «direttiva 98/34»), della direttiva del Consiglio 19 novembre 1992, 92/100/CEE, concernente il diritto di noleggio, il diritto di prestito e taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale (GU L 346, pag. 61), nonché della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 maggio 2001, 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (GU L 167, pag. 10).
2 La domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale promosso in Italia a carico del sig. Schwibbert per detenzione di compact disc (in prosieguo: i «CD») che non recavano il contrassegno dell’ente nazionale incaricato della riscossione dei diritti d’autore.
Contesto normativo
La normativa comunitaria
3 La direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE (GU L 109, pag. 8) ha istituito in diritto comunitario una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche.
4 L’art. 12 della direttiva 83/189 recita:
«1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro dodici mesi a decorrere dalla sua notifica e ne informano immediatamente la Commissione.
2. Gli Stati membri provvedono a comunicare alla Commissione il testo delle disposizioni essenziali di diritto interno adottate nel settore disciplinato dalla presente direttiva».
5 La direttiva 83/189 ha subito varie modifiche sostanziali. La direttiva 98/34 ne ha effettuato la codificazione.
6 L’art. 1 della direttiva 98/34 dispone quanto segue:
«Ai sensi della presente direttiva si intende per:
1) “prodotto”: i prodotti di fabbricazione industriale e i prodotti agricoli, compresi i prodotti della pesca;
(…)
3) “specificazione tecnica”: una specificazione che figura in un documento che definisce le caratteristiche richieste di un prodotto, quali i livelli di qualità o di proprietà di utilizzazione, la sicurezza, le dimensioni, comprese le prescrizioni applicabili al prodotto per quanto riguarda la denominazione di vendita, la terminologia, i simboli, le prove ed i metodi di prova, l’imballaggio, la marcatura e l’etichettatura, nonché le procedure di valutazione della conformità.
(…)
4) “altro requisito”: un requisito diverso da una specificazione tecnica, prescritto per un prodotto per motivi di tutela, in particolare dei consumatori o dell’ambiente, e concernente il suo ciclo di vita dopo la commercializzazione, quali le sue condizioni di utilizzazione, di riciclaggio, di reimpiego o di eliminazione qualora tali condizioni possano influenzare in modo significativo la composizione o la natura del prodotto o la sua commercializzazione;
(…)
11) “regola tecnica”: una specificazione tecnica o altro requisito o una regola relativa ai servizi, comprese le disposizioni amministrative che ad esse si applicano, la cui osservanza è obbligatoria, de jure o de facto, per la commercializzazione, la prestazione di servizi, lo stabilimento di un fornitore di servizi o l’utilizzo degli stessi in uno Stato membro o in una parte importante di esso, nonché, fatte salve quelle di cui all’articolo 10, le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che vietano la fabbricazione, l’importazione, la commercializzazione o l’utilizzo di un prodotto oppure la prestazione o l’utilizzo di un servizio o lo stabilimento come fornitore di servizi.
(…)»
7 Gli artt. 8 e 9 della direttiva 98/34 impongono agli Stati membri, da un lato, di comunicare alla Commissione delle Comunità europee i progetti di regole tecniche che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva in parola, salvo che si tratti del semplice recepimento integrale di una norma internazionale o europea, nel qual caso è sufficiente una semplice informazione sulla norma stessa, e, dall’altro, di rinviare di vari mesi l’adozione di tali progetti al fine di consentire alla Commissione di verificare se sono compatibili con il diritto comunitario, segnatamente con la libera circolazione delle merci, o di proporre, nel settore di cui trattasi, une direttiva, un regolamento o una decisione.
8 La direttiva 92/100 ha per oggetto l’armonizzazione della protezione giuridica delle opere protette dal diritto d’autore e delle realizzazioni protette dai diritti connessi. Essa è diretta a garantire agli autori e artisti interpreti o esecutori un reddito adeguato. A tal fine, la direttiva 92/100 stabilisce che gli Stati membri prevedono il diritto di autorizzare o proibire il noleggio ed il prestito di originali, di copie di opere protette dal diritto d’autore e di altre realizzazioni indicate all’art. 2, n. 1, della direttiva in parola. Nell’ambito del capo II della direttiva 92/100, relativo ai diritti connessi al diritto di autore, l’art. 9 stabilisce che gli Stati membri prevedono un diritto esclusivo di messa a disposizione del pubblico, per la vendita o altro, delle realizzazioni elencate al detto articolo.
La normativa nazionale
9 Ai sensi della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di diritto d’autore (GURI 16 luglio 1941, n. 166; in prosieguo: la «legge del 1941»), l’obbligo di apposizione del contrassegno su qualunque supporto contenente opere protette è uno strumento di autenticazione e di garanzia che permette di distinguere il prodotto legittimo da quello pirata. La Società Italiana Autori ed Editori, ente pubblico ad hoc, svolge funzioni di protezione, intermediazione e certificazione. Il contrassegno così previsto dalla legge reca le iniziali «SIAE».
10 La legge 27 marzo 1987, n. 121 (GURI 28 marzo 1987, n. 73), ha esteso l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» ad altri supporti contenenti opere dell’ingegno.
11 Nell’ambito del recepimento della direttiva 92/100, il legislatore italiano, in forza del decreto legislativo 16 novembre 1994, n. 685 (GURI 16 dicembre 1994, n. 293), che ha abrogato la legge n. 121/87, ha inserito in particolare nella legge del 1941 una disposizione, l’art. 171 ter, n. 1, lett. c), che commina sanzioni penali specifiche e dispone quanto segue:
«1. È punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire cinquecentomila a lire sei milioni chiunque:
(...)
c) vende o noleggia videocassette, musicassette od altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, non contrassegnati dalla società italiana degli autori ed editori (S.I.A.E.) ai sensi della presente legge e del regolamento di esecuzione.
(…)».
Causa principale e questione pregiudiziale
12 Il 12 febbraio 2000 la Procura della Repubblica presso il Tribunale civile e penale di Forlì ha avviato un’indagine preliminare nei confronti del sig. Schwibbert, residente in Italia, legale rappresentante della società K.J.W.S. Srl, e ha confermato che, il 9 e il 10 febbraio 2000, quest’ultimo deteneva per la vendita presso i magazzini di tale società un certo numero di CD contenenti riproduzioni di opere dei pittori Giorgio De Chirico e Mario Schifano. I CD, importati dalla Germania per conto di altre società in vista della loro commercializzazione nell’ambito di iniziative culturali, erano privi del contrassegno «SIAE».
13 Nel corso di indagini effettuate il 9 e il 10 febbraio 2000 da agenti della Guardia di Finanza – Comando Tenenza di Cesena, veniva redatto un verbale di sequestro dei CD di cui è causa, conformemente al codice di procedura penale, nel quale veniva indicato che, ad un primo esame, tale merce appariva contraffatta.
14 Il 23 maggio 2001 la Procura della Repubblica presso il Tribunale civile e penale di Forlì ha rinviato a giudizio il sig. Schwibbert, imputato del delitto di cui all’art. 171 ter, n. 1, lett. c), della legge del 1941, dinanzi al medesimo Tribunale.
15 L’udienza dinanzi al Tribunale civile e penale di Forlì si è svolta il 14 dicembre 2004. Nel verbale d’udienza il giudice del rinvio sottolinea che è posto a carico del sig. Schwibbert non già il fatto di avere riprodotto abusivamente le opere, dato che quest’ultimo era in possesso delle necessarie autorizzazioni, bensì esclusivamente la circostanza che i CD fossero privi del contrassegno «SIAE».
16 Nel corso di tale udienza, il difensore del sig. Schwibbert ha chiesto al giudice a quo di sottoporre una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte. Il Tribunale civile e penale di Forlì ha accolto tale istanza, ma, nell’ordinanza di rinvio, ha semplicemente incluso in allegato la memoria dell’avvocato, senza formulare quesiti precisi.
17 Conformemente all’art. 104, n. 5, del regolamento di procedura, il 17 luglio 2006 la Corte ha chiesto chiarimenti al giudice del rinvio. La risposta del giudice in parola è pervenuta alla Corte il 31 ottobre 2006.
18 Da tale risposta risulta che la questione formulata dal Tribunale civile e penale di Forlì è la seguente:
«Se le norme nazionali in tema di contrassegno SIAE siano compatibili con gli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE, 1, 8, 10 e 11 della direttiva 22 giugno 1998, 98/34/CE, e con le direttive 92/100 e 2001/29».
Sulla questione pregiudiziale
Sulla ricevibilità
19 Il governo italiano, sia nell’ambito delle osservazioni scritte sia in udienza, fa valere che la domanda di pronuncia pregiudiziale dovrebbe essere dichiarata irricevibile. Secondo detto governo, infatti, la domanda di cui trattasi non contiene tutte le informazioni necessarie per consentire alla Corte di risolvere utilmente la questione sottoposta. A tale proposito, il governo italiano sostiene che, contrariamente a quanto richiesto dall’art. 20 dello Statuto della Corte di giustizia, la domanda in parola non precisa i motivi per cui l’interpretazione delle norme di diritto comunitario sarebbe necessaria e non evidenzia chiaramente le disposizioni nazionali che si applicano effettivamente alla causa principale. In ogni caso, detta domanda sarebbe irrilevante rispetto alla soluzione del giudizio di cui trattasi.
20 Quanto alla Commissione, nelle sue osservazioni scritte essa rileva che la questione pregiudiziale, laddove concerne l’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e la direttiva 92/100, va dichiarata irricevibile poiché l’ordinanza di rinvio non contiene sufficienti indicazioni.
21 Va rammentato che le informazioni fornite nelle decisioni di rinvio pregiudiziale devono non solo consentire alla Corte di fornire risposte utili, ma altresì dare ai governi degli Stati membri nonché alle altre parti interessate la possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’art. 20 dello Statuto della Corte di giustizia (ordinanza 2 marzo 1999, causa C-422/98, Colonia Versicherung e a., Racc. pag. I-1279, punto 5). Compete alla Corte vigilare affinché tale possibilità sia salvaguardata, tenuto conto del fatto che, a norma della disposizione citata, alle parti interessate vengono notificate solo le decisioni di rinvio (sentenza 1° aprile 1982, cause riunite 141/81-143/81, Holdijk e a., Racc pag. 1299, punto 6; ordinanza 13 marzo 1996, causa C-326/95, Banco de Fomento e Exterior, Racc. pag. I-1385, punto 7, nonché sentenza 13 aprile 2000, causa C-176/96, Lehtonen e Castors Braine, Racc. pag. I-2681, punto 23). Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, è indispensabile che il giudice nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle norme comunitarie di cui chiede l’interpretazione e sul rapporto che egli ritiene esista fra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia (v., in particolare, ordinanza 28 giugno 2000, causa C-116/00, Laguillaumie, Racc. pag. I-4979, punto 16, nonché sentenza 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 38).
22 Nel caso di specie, come risulta dal punto 17 della presente sentenza, il giudice del rinvio, su richiesta della Corte, ha fornito chiarimenti relativamente ai fatti oggetto della causa principale così come in merito al contesto giuridico nazionale e comunitario. Inoltre, la Società Italiana degli Autori ed Editori, il governo italiano e la Commissione hanno ritenuto possibile, sulla base delle informazioni fornite da tale giudice, presentare osservazioni alla Corte.
23 Per quanto riguarda la direttiva 98/34, la posizione delle parti interessate è divergente relativamente al punto se l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» valga anche per i CD in questione nella causa principale e, eventualmente, in che momento tale obbligo sia stato esteso a detti supporti, e cioè se anteriormente o successivamente all’introduzione nel diritto comunitario dell’obbligo di comunicazione dei progetti di regole tecniche. Nel caso di specie, non è in discussione che fosse stato promosso un procedimento penale a carico del sig. Schwibbert per non aver apposto il contrassegno «SIAE» in parola. Tuttavia, stabilire il momento in cui l’obbligo di apposizione è stato effettivamente introdotto nella normativa italiana concerne l’interpretazione del diritto nazionale, per la quale la Corte non è competente. In ogni caso, l’incertezza su tale punto non è tale da privare di utilità la soluzione chiesta alla Corte relativamente alla questione sottoposta così come precisata dal giudice del rinvio nella sua risposta alla richiesta di chiarimenti.
24 La Corte ritiene pertanto di essere stata sufficientemente informata per poter risolvere la questione relativamente alla direttiva 98/34.
25 Per quanto riguarda, invece, l’interpretazione degli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e della direttiva 92/100, è giocoforza constatare che l’ordinanza di rinvio non fornisce le informazioni necessarie per consentire alla Corte di fornire al giudice a quo una risposta utile.
26 Si deve infatti ricordare che le disposizioni del Trattato CE vietano, fra gli Stati membri, i dazi doganali all’importazione e all’esportazione e tutte le altre misure di effetto equivalente. Quanto alla direttiva 92/100, essa armonizza le norme sul diritto di noleggio e di prestito, nonché su taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale.
27 Orbene, le indicazioni relative alla ricostruzione dei fatti della causa principale fornite dal giudice a quo non consentono di stabilire con certezza il luogo di fabbricazione dei CD né che siano stati effettivamente importati in Italia. Quanto alle informazioni relative al contesto normativo nazionale, esse non consentono alla Corte di conoscere sufficientemente le caratteristiche del corrispettivo economico per la concessione del contrassegno «SIAE» al fine di stabilire se si tratti di un dazio doganale o di una tassa di effetto equivalente ai sensi dei menzionati articoli del Trattato CE. Infine, le indicazioni di cui trattasi non consentono nemmeno di valutare se la direttiva 92/100 osti a tali disposizioni nazionali.
28 Alla luce di quanto precede, non è possibile pronunciarsi sul punto se se gli artt. 3 CE, 23 CE-27 CE e la direttiva 92/100 ostino ad un obbligo come quello in discussione nella causa principale.
29 Occorre inoltre precisare che la questione pregiudiziale riguarda altresì l’interpretazione della direttiva 2001/29. Questa direttiva è fondata sui principi e le norme già fissati, in particolare, dalla direttiva 92/100, da essa modificata. La direttiva 2001/29 è stata adottata il 22 maggio 2001 e il suo art. 13 prevede che gli Stati membri devono conformarvisi anteriormente al 22 dicembre 2002. Orbene, i fatti all’origine della causa principale si sono svolti nel corso del febbraio 2000, data in cui la direttiva di cui trattasi non era ancora stata adottata. Pertanto, la questione pregiudiziale, laddove concerne l’interpretazione della direttiva 2001/29, è irricevibile.
30 Di conseguenza, la domanda di pronuncia pregiudiziale va considerata ricevibile solamente nella parte in cui riguarda l’interpretazione della direttiva 98/34.
Nel merito
31 Con la sua questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se gli artt. 1, 8, 10 e 11 della direttiva 98/34 ostino a disposizioni nazionali come quelle della causa principale, laddove esse prevedano, in occasione della riproduzione di opere dell’ingegno, l’apposizione sul supporto in cui queste ultime sono contenute della sigla della Società Italiana degli Autori ed Editori.
32 A tale riguardo, dagli atti depositati dinanzi alla Corte emerge che, nella causa principale, è stato promosso un procedimento penale a carico del sig. Schwibbert per non aver apposto il contrassegno in parola su CD contenenti opere d’arte figurativa. Occorre pertanto accertare se le norme di diritto comunitario richiamate dal giudice del rinvio ostino a disposizioni nazionali che prevedono tale obbligo.
33 In primo luogo, si deve verificare se l’obbligo di apporre detta sigla possa essere qualificato come «regola tecnica» ai sensi dell’art. 1 della direttiva 98/34. In caso di soluzione affermativa, andrà accertato se il progetto di regola tecnica sia stato notificato alla Commissione dalle autorità italiane, dato che in mancanza di tale notifica esso sarebbe inoppobinile al sig. Schwibbert (v., in particolare, sentenze 30 aprile 1996, causa C-194/94, CIA Security International, Racc. pag. I-2201, punti 48 e 54; 16 giugno 1998, causa C-226/97, Lemmens, Racc. pag. I-3711, punto 33, nonché 6 giugno 2002, causa C-159/00, Sapod Audic, Racc. pag. I-5031, punto 49).
34 Dall’art. 1, punto 11, della direttiva 98/34 discende che la nozione di «regola tecnica» è scomponibile in tre categorie, vale a dire, in primo luogo, la «specificazione tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 3, della detta direttiva, in secondo luogo, «altri requisiti » come definiti all’art. 1, punto 4, della direttiva in parola e, in terzo luogo, il divieto di fabbricazione, importazione, commercializzazione o utilizzo di un prodotto di cui all’art. 1, punto 11, della medesima direttiva (v., in particolare, sentenza 21 aprile 2005, causa C-267/03, Lindberg, Racc. pag. I-3247, punto 54).
35 Come già affermato dalla Corte, la nozione di «specificazione tecnica» presuppone che la misura nazionale si riferisca necessariamente al prodotto o al suo imballaggio in quanto tali, e che definisca quindi una delle caratteristiche richieste di un prodotto (v., in tal senso, sentenze 8 marzo 2001, causa C-278/99, Van der Burg, Racc. pag. I-2015, punto 20; 22 gennaio 2002, causa C-390/99, Canal Satélite Digital, Racc. pag. I-607, punto 45, nonché Sapod Audic, punto 30, e Lindberg, punto 57, già citate).
36 Nel caso di specie, è giocoforza constatare, come osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 46 e 48 delle sue conclusioni, che l’apposizione del contrassegno «SIAE», diretta ad informare i consumatori e le autorità nazionali che le copie sono legali, si effettua sul supporto stesso che contiene l’opera dell’ingegno, quindi sul prodotto stesso. Non è pertanto esatto sostenere, come asserito dalla Società Italiana degli Autori ed Editori e dal governo italiano, che tale contrassegno riguarderebbe solamente l’opera dell’ingegno.
37 Orbene, tale contrassegno costituisce una «specificazione tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 3, della direttiva 98/34, poiché rientra nelle prescrizioni applicabili ai prodotti considerati per quanto riguarda la marcatura e l’etichettatura. Pertanto, dal momento che l’osservanza di detta specificazione è obbligatoria de iure per la commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, la specificazione in parola costituisce una «regola tecnica» ai sensi dell’art. 1, punto 11, primo comma, della direttiva in questione (v., in questo senso, sentenza 20 marzo 1997, causa C-13/96, Bic Benelux, Racc. pag. I-1753, punto 23).
38 Conformemente all’art. 8 della direttiva 98/34, «gli Stati membri comunicano immediatamente alla Commissione ogni progetto di regola tecnica». Se tale obbligo non è stato rispettato, la regola tecnica non può essere opposta ai singoli, come ricordato al punto 33 della presente sentenza. Va dunque verificato se, nel caso di specie, lo Stato membro abbia rispettato gli obblighi che discendono dall’art. 8 della direttiva 98/34. In caso negativo, la regola tecnica in discussione sarebbe inopponibile al sig. Schwibbert.
39 La Società Italiana degli Autori ed Editori ed il governo italiano fanno valere che l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» ai supporti contenenti opere dell’ingegno era già previsto, ben prima dell’entrata in vigore delle pertinenti direttive comunitarie, nella legge del 1941 per i supporti cartacei, e che le modifiche legislative apportate, successivamente all’entrata in vigore delle direttive menzionate, rispettivamente, nel 1987 e nel 1994, hanno costituito semplicemente adeguamenti ai progressi tecnologici che hanno unicamente incluso nuovi supporti nell’ambito d’applicazione dell’obbligo di cui trattasi. Di conseguenza, non risultava necessario notificare alla Commissione le modifiche in parola.
40 Nel caso in esame, dal fascicolo presentato alla Corte sembra evincersi che, per quanto riguarda i supporti oggetto della causa principale, vale a dire i CD contenenti opere d’arte figurativa, l’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» è stato reso ad essi applicabile nel 1994 in forza del decreto legislativo n. 685. In tale contesto, l’obbligo di cui trattasi avrebbe dovuto essere comunicato alla Commissione dalla Repubblica italiana, dal momento che esso è stato stabilito successivamente all’istituzione, ad opera della direttiva 83/189, della procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche. Tuttavia, come ricordato al punto 23 della presente sentenza, spetta al giudice del rinvio accertare se l’obbligo di cui trattasi sia stato effettivamente introdotto nel diritto italiano in tale momento.
41 In quanto l’obbligo di apposizione del contrassegno distintivo «SIAE» sia stato esteso ai prodotti, come quelli che costituiscono oggetto della causa principale, successivamente all’entrata in vigore della direttiva 83/189, si deve ricordare che, per giurisprudenza costante, la finalità perseguita con l’art. 8, n. 1, primo comma, seconda frase, della direttiva 98/34 è quella di consentire alla Commissione di disporre di informazioni quanto più possibile complete su tutto il progetto di regola tecnica quanto al suo contenuto, alla sua portata e al suo contesto generale onde consentirle di esercitare, nel modo più efficace possibile, i poteri che le sono conferiti dalla direttiva (v., in particolare, le sentenze CIA Security International, cit., punto 50; 16 settembre 1997, causa C-279/94, Commissione/Italia, Racc. pag. I-4743, punto 40, e 7 maggio 1998, causa C-145/97, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-2643, punto 12).
42 Analogamente, conformemente al n. 1, terzo comma, del menzionato art. 8, gli «Stati membri procedono ad una nuova comunicazione (…) qualora essi apportino al progetto di regola tecnica modifiche importanti che ne alterino il campo di applicazione (…)». Orbene, l’inclusione di nuovi supporti, quali i CD, nell’ambito dell’obbligo di apposizione del contrassegno «SIAE» dev’essere considerata come una modifica di tal genere (v., in questo senso, sentenze 1º giugno 1994, causa C-317/92, Commissione/Germania, Racc. pag. I-2039, punto 25, e Lindberg, cit., punti 84 e 85).
43 Nelle sue osservazioni scritte ed in udienza, la Commissione ha affermato, senza essere contraddetta in proposito dallo Stato membro, che la Repubblica italiana non le aveva comunicato la modifica in parola.
44 Orbene, conformemente alla giurisprudenza della Corte, l’inadempimento dell’obbligo di comunicazione costituisce un vizio procedurale nell’adozione delle regole tecniche di cui è causa e comporta l’inapplicabilità delle regole tecniche considerate, di modo che esse non possono essere opposte ai privati (v., in particolare, le citate sentenze CIA Security International, punto 54, e Lemmens, punto 33). I privati possono avvalersene dinanzi al giudice nazionale, cui compete la disapplicazione di una regola tecnica nazionale che non sia stata notificata conformemente alla direttiva 98/34 (v., in particolare, le citate sentenze CIA Security International, punto 55, e Sapod Audic, punto 50).
45 Alla luce di tali elementi, occorre dichiarare che la direttiva 98/34 dev’essere interpretata nel senso che disposizioni nazionali come quelle in discussione nella causa principale, in quanto abbiano stabilito, successivamente all’entrata in vigore della direttiva 83/189, l’obbligo di apporre su CD contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno «SIAE» in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, costituiscono una regola tecnica che, qualora non sia stata notificata alla Commissione, non può essere fatta valere nei confronti di un privato.
Sulle spese
46 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 1998, 98/34/CE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, come modificata con direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 luglio 1998, 98/48/CE, dev’essere interpretata nel senso che disposizioni nazionali come quelle di cui trattasi nella causa principale, in quanto abbiano stabilito, successivamente all’entrata in vigore della direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche, l’obbligo di apporre sui dischi compatti contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno «SIAE» in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, costituiscono una regola tecnica che, qualora non sia stata notificata alla Commissione, non può essere fatta valere nei confronti di un privato.


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