Studi di settore è l’ora dell’addio |
Data Pubblicazione 28/7/2009 La Cassazione dopo dieci anni di pareri ha tirato le somme. Gli studi di settore non bastano per accertare quante tasse un lavoratore autonomo debba pagare. Lo strumento fiscale creato nel 1998 da Vincenzo Visco per dimostrare a priori e statisticamente il fatturato teorico di una Partita Iva tornano così all’idea embrionale che li aveva generati: ovvero un mero strumento statistico. Solo in caso di non congruità, il Fisco farà partire l’accertamento o avviare il processo tributario dimostrando con prove concrete la colpevolezza del contribuente. La Cassazione ha così messo la parola fine a quell’aberrazione che ha contraddistinto il 2006 e il 2007, diventata celebre come inversione dell’onere della prova. La partita Iva presunta colpevole doveva dimostrare la propria innocenza. È come se in un Paese di 5 mila anime avvenisse un omicidio e tutti i cittadini venissero accusati per il semplice fatto di abitare lì. E a loro spetti dimostrare la propria innocenza. Invece che ai magistrati raccogliere le prove per inchiodare il colpevole. Già dal 2008 la pessima abitudine era stata abbandonata dal Fisco su impulso del ministro Tremonti e delle commissioni finanze di Camera e Senato. Ma ora è tutto nero su bianco grazie agli Ermellini della Suprema Corte. E non è la prima volta che la Cassazione scende in pista per difendere i cittadini contro il fisco. Un anno e mezzo fa sentenziò in materia di Iva. La controversia nacque per una detrazione ritenuta indebita I precedenti «Se l'Amministrazione è parte attrice del rapporto tributario dedotto in giudizio, spetta al Fisco dimostrare la falsità delle fatture come documenti contabili che attestano la realizzazione dell'operazione commerciale fra soggetti corrispondenti a quelli indicati dalle carte», disse la Cassazione con la sentenza 24201/08. Gli Ermellini smontarono la tesi riportando la causa alla prima fase del giudizio: «all’Amministrazione spetta allegare elementi significativi e indizi idonei a confutare la veridicità (oggettiva e soggettiva) dei documenti contabili». Le partite Iva Senza entrare in ulteriori dettagli di merito la sostanza della sentenza dimostra come la letteratura tributaria si stia sempre più orientando alla tutela del contribuente creando un panel di leggi strutturate in grado di contrastare filosofie fiscali che vedono le tasse come un modo per raccogliere denaro. «La recente sentenza della Corte di Cassazione in materia di studi di settore ribadisce un concetto già emerso in questo ultimo anno con una serie di circolari pubblicate dall’Amministrazione finanziaria», sottolinea Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre. «Già a partire dal 2009 l’Agenzia delle Entrate ha ribadito con forza come gli studi di settore siano solo uno dei parametri sui quali si baserà il lavoro di accertamento fiscale. Se negli anni scorsi la non congruità poteva potenzialmente far scattare un accertamento da parte del fisco, oggi è stato chiarito che il mancato adeguamento non è più l'unico elemento sufficiente a sostenere le ulteriori pretese Erariali in sede di contenzioso». Ma le riflessioni del segretario degli artigiani di Mestre non si fermano qui. «Nel caso il contenzioso finisca presso la Commissione tributaria», conclude Bortolussi, «sarà l’Agenzia delle Entrate, e non più il contribuente, a dover dimostrare l’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati. Per questo, anche alla luce dell’ultima sentenza della Corte di Cassazione, stiamo invitando quegli operatori economici che sono vittime della crisi a non adeguarsi a quegli studi di settore che hanno pretese non giustificabili». Spetta ora alle numerose associazioni di categoria dal commercio all’artigianato dare indicazioni ai propri associati. Le conseguenze A tutti coloro che scelgono di non adeguarsi ai valori imposti dagli studi di settore (ed è il consiglio più diffuso nel Nordest) si apre la strada del contraddittorio. Al contribuente conviene partecipare per smontare le tesi del Fisco e dimostrare i mancati ricavi dovuti alla crisi economica. A quel punto gli uffici dell’Erario saranno costretti a “investigare” attivamente e dimostrare l’eventuale evasione lavorando al bilancio e spulciando le fatture. Se il fisco non è in grado di fornire una relazione concreta frutto di una investigazione attenta l’accusa decade. E con essa i costi del dibattimento tributario. Nel caso il contribuente che non voglia partecipare al contradditorio, potrà presentare le stesse eccezioni in sede di giudizio. A questo punto bisogna distinguere tra passato e futuro. Per le cause in corso ci sono più certezze perchè finalmente la Cassazione renderà nulle tutte le sentenze contrarie alla recente norma. Per il futuro tutto dipende da come si muoveranno le partite Iva. Il parere degli ermellini apre la strada a una valanga di contenziosi con il Fisco. Le scelte politiche Un milione e mezzo di contribuenti (tanti sono quelli non in regola secondo gli studi di settore) potrebbe chiedere giustizia tutti insieme bloccando le commissioni tributarie. E imponendo un intervento politico. A quel punto il governo dovrebbe dire addio una volta per tutte agli studi di settore e trovare un nuovo strumento per far pagare le tasse ai lavoratori autonomi. E sentite le recenti dichiarazioni di guerra lanciate da chi rappresenta il popolo delle partite Iva forse sarebbe il caso di non aspettare che la bomba esploda. |
Blog di diritto e poesia. Il diritto è quella scienza che aiuta a comporre i bisogni dell'uomo nelle relazioni interpersonali. la poesia è quell'arte che, comunicando con parole scritte, aiuta a conoscersi nel profondo.
martedì 28 luglio 2009
Studi di Settore: Addio .....!!!
Studi di Settore: Addio .....!!!
Studi di settore è l’ora dell’addio |
Data Pubblicazione 28/7/2009 La Cassazione dopo dieci anni di pareri ha tirato le somme. Gli studi di settore non bastano per accertare quante tasse un lavoratore autonomo debba pagare. Lo strumento fiscale creato nel 1998 da Vincenzo Visco per dimostrare a priori e statisticamente il fatturato teorico di una Partita Iva tornano così all’idea embrionale che li aveva generati: ovvero un mero strumento statistico. Solo in caso di non congruità, il Fisco farà partire l’accertamento o avviare il processo tributario dimostrando con prove concrete la colpevolezza del contribuente. La Cassazione ha così messo la parola fine a quell’aberrazione che ha contraddistinto il 2006 e il 2007, diventata celebre come inversione dell’onere della prova. La partita Iva presunta colpevole doveva dimostrare la propria innocenza. È come se in un Paese di 5 mila anime avvenisse un omicidio e tutti i cittadini venissero accusati per il semplice fatto di abitare lì. E a loro spetti dimostrare la propria innocenza. Invece che ai magistrati raccogliere le prove per inchiodare il colpevole. Già dal 2008 la pessima abitudine era stata abbandonata dal Fisco su impulso del ministro Tremonti e delle commissioni finanze di Camera e Senato. Ma ora è tutto nero su bianco grazie agli Ermellini della Suprema Corte. E non è la prima volta che la Cassazione scende in pista per difendere i cittadini contro il fisco. Un anno e mezzo fa sentenziò in materia di Iva. La controversia nacque per una detrazione ritenuta indebita I precedenti «Se l'Amministrazione è parte attrice del rapporto tributario dedotto in giudizio, spetta al Fisco dimostrare la falsità delle fatture come documenti contabili che attestano la realizzazione dell'operazione commerciale fra soggetti corrispondenti a quelli indicati dalle carte», disse la Cassazione con la sentenza 24201/08. Gli Ermellini smontarono la tesi riportando la causa alla prima fase del giudizio: «all’Amministrazione spetta allegare elementi significativi e indizi idonei a confutare la veridicità (oggettiva e soggettiva) dei documenti contabili». Le partite Iva Senza entrare in ulteriori dettagli di merito la sostanza della sentenza dimostra come la letteratura tributaria si stia sempre più orientando alla tutela del contribuente creando un panel di leggi strutturate in grado di contrastare filosofie fiscali che vedono le tasse come un modo per raccogliere denaro. «La recente sentenza della Corte di Cassazione in materia di studi di settore ribadisce un concetto già emerso in questo ultimo anno con una serie di circolari pubblicate dall’Amministrazione finanziaria», sottolinea Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre. «Già a partire dal 2009 l’Agenzia delle Entrate ha ribadito con forza come gli studi di settore siano solo uno dei parametri sui quali si baserà il lavoro di accertamento fiscale. Se negli anni scorsi la non congruità poteva potenzialmente far scattare un accertamento da parte del fisco, oggi è stato chiarito che il mancato adeguamento non è più l'unico elemento sufficiente a sostenere le ulteriori pretese Erariali in sede di contenzioso». Ma le riflessioni del segretario degli artigiani di Mestre non si fermano qui. «Nel caso il contenzioso finisca presso la Commissione tributaria», conclude Bortolussi, «sarà l’Agenzia delle Entrate, e non più il contribuente, a dover dimostrare l’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati. Per questo, anche alla luce dell’ultima sentenza della Corte di Cassazione, stiamo invitando quegli operatori economici che sono vittime della crisi a non adeguarsi a quegli studi di settore che hanno pretese non giustificabili». Spetta ora alle numerose associazioni di categoria dal commercio all’artigianato dare indicazioni ai propri associati. Le conseguenze A tutti coloro che scelgono di non adeguarsi ai valori imposti dagli studi di settore (ed è il consiglio più diffuso nel Nordest) si apre la strada del contraddittorio. Al contribuente conviene partecipare per smontare le tesi del Fisco e dimostrare i mancati ricavi dovuti alla crisi economica. A quel punto gli uffici dell’Erario saranno costretti a “investigare” attivamente e dimostrare l’eventuale evasione lavorando al bilancio e spulciando le fatture. Se il fisco non è in grado di fornire una relazione concreta frutto di una investigazione attenta l’accusa decade. E con essa i costi del dibattimento tributario. Nel caso il contribuente che non voglia partecipare al contradditorio, potrà presentare le stesse eccezioni in sede di giudizio. A questo punto bisogna distinguere tra passato e futuro. Per le cause in corso ci sono più certezze perchè finalmente la Cassazione renderà nulle tutte le sentenze contrarie alla recente norma. Per il futuro tutto dipende da come si muoveranno le partite Iva. Il parere degli ermellini apre la strada a una valanga di contenziosi con il Fisco. Le scelte politiche Un milione e mezzo di contribuenti (tanti sono quelli non in regola secondo gli studi di settore) potrebbe chiedere giustizia tutti insieme bloccando le commissioni tributarie. E imponendo un intervento politico. A quel punto il governo dovrebbe dire addio una volta per tutte agli studi di settore e trovare un nuovo strumento per far pagare le tasse ai lavoratori autonomi. E sentite le recenti dichiarazioni di guerra lanciate da chi rappresenta il popolo delle partite Iva forse sarebbe il caso di non aspettare che la bomba esploda. |
mercoledì 22 luglio 2009
Sentenze sui "Bond CIRIO": Riceviamo e gentilmente pubblichiamo
Collocamento di Eurobond e responsabilità dell’intermediario
A cura dell'Avv. Ferdinando Bruno
* Il presente saggio è stato redatto per la rivista Il Corriere del Merito ed ivi è pubblicato, 2009
(Omissis).
Vanno disattese, alla stregua delle considerazioni di seguito espresse, le ulteriori domande di nullità tempestivamente proposte in giudizio, mentre va ritenuta accoglibile la domanda risarcitoria proposta, stimandosi sussistente una ipotesi di conflitto di interessi non segnalata relativamente alla negoziazione oggetto di causa. Sul punto si rendono opportune alcune considerazioni preliminari sulle vicende che hanno riguardato l’emissione delle obbligazioni riferite al Gruppo Cirio e, segnatamente, le obbligazioni di cui è causa.
Il conflitto
La quasi totalità delle obbligazioni emesse dal Gruppo Cirio, tutte esclusivamente destinate ad investitori istituzionali, come previsto dalla varie “Offering Circulars”, sono state integralmente offerte e collocate in Italia, prevalentemente presso piccoli risparmiatori. Pur tuttavia, come si rileva chiaramente dal Contratto di Sottoscrizione e Vendita allegato alle Offering Circulars, i managers avevano garantito e concordato di non offrire o vendere alcun titolo nella Repubblica italiana nelle forme della sollecitazione al pubblico. E per tale motivo l’offerta non è stata oggetto di richiesta di autorizzazione presso la Consob ai sensi dell’art. 94 I comma T.U.F. Pur prescindendosi dall’indagine sulla legittimità della procedura di collocamento dei titoli di cui è causa e di successiva vendita ad investitori non istituzionali, valorizzata dalla difesa attrice che deduce, altresì, la dolosa preordinazione fra le Banche creditrici del Gruppo Cirio nell’organizzazione delle modalità di acquisto incrociato e di successivo collocamento dei bonds ai risparmiatori, non appare revocabile in dubbio la presenza, nella specie, di un conflitto di interessi non segnalato, alla stregua della sequenza dei fatti di seguito descritto: (i) il 30/1/01 viene lanciata sul mercato l’obbligazione di cui è causa, la quale fa parte di sette emissioni; (ii) nell’operazione, la Banca risulta aver rivestito la qualità di bookrunner; (iii) nell’Invitation Telex emerge che fra i chiamati alla sottoscrizione vi è anche la Banca; (iv) la Banca accetta di partecipare al Consorzio di Collocamento; (v) la Banca riveste il ruolo di lead manager; (vi) dalla documentazione in atti risulta che la Banca aveva concesso linee di credito per scoperto di conto corrente a Cirio Finanziaria per 3.0 milioni di euro. I fatti e le circostanze sopra descritte evidenziano che la vendita dei titoli, avvenuta nella fase del c.d. grey market, ha costituito innanzitutto un indubbio vantaggio per l’intermediario che doveva “liberarsi” della giacenza appena acquisita. Inoltre, attraverso l’emissione delle obbligazioni, il Gruppo Cirio si è finanziato senza fare ulteriore ricorso al sistema bancario ed anzi i proventi delle entrate costituite dalla vendita dei bonds Cirio hanno concorso a ridurre il debito nei confronti degli istituti di credito. Nella vicenda di specie la Banca ha assunta la triplice veste di finanziatore per linee di credito nei confronti del gruppo Cirio con diritto di voto nelle assemblee delle società di tale gruppo quale creditore pignoratizio, di lead manager nel consorzio di collocamento dei bonds oggetto di causa e, da ultimo, di intermediario finanziario nella vendita di alcune emissioni delle obbligazioni in oggetto. Giova poi evidenziare che il prezzo della vendita in contropartita diretta applicato agli odierni attori è stato molto più alto di entrambi i prezzi di collocamento; e anche da questo più modesto, ma pur significativo, particolare emerge che la Banca ha perseguito il proprio interesse e non quello del cliente. Il rimedio in caso di conflitto: nullità - annullamento - risarcimento danni da inadempimento. Ciò premesso, occorre ora individuare il rimedio applicabile alle fattispecie di conflitto e la conseguente sanzione. Come è noto, la recente pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte ha escluso il rimedio della nullità nelle ipotesi di violazione degli obblighi comportamentali posti a carico dell’intermediario dalle norme del T.U.F. e dai Regolamenti attuativi che, nei casi di conflitto (così come nei casi di inadeguatezza della operazione finanziaria) prescrivono che gli intermediari devono in linea di principio astenersi, quindi rendere evidente il profilo di conflitto/inadeguatezza e solo dopo aver dato le opportune avvertenze ed avere ricevuto (con evidenza documentazione) la indicazione di procedere, possono dare corso all’ordine. Parte della dottrina, mantenendo - almeno in un primo momento - un atteggiamento critico nei confronti dell’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, ha invocato il rimedio della nullità per le operazioni compiute in conflitto di interessi, ovvero per le operazioni inadeguate, in assenza delle prescrizioni contenute nella normativa di riferimento. La critica si è incentrata sulla constatazione che non siamo di fronte ad un generico dovere comportamentale, ad un mero obbligo di diligenza, ma ad un vero e proprio divieto legale che può essere scriminato solo in presenza di specifiche modalità esecutive. Dunque la sanzione più appropriata dovrebbe essere la nullità per illiceità, in omaggio all’esigenza di ordine pubblico economico di garantire l’integrità dei mercati contro la diffusione di operazioni pericoloso e molto probabilmente dannose (nullità virtuale ex art. 1418 c.c.). Parte della giurisprudenza, invero precedente alla pronuncia delle Sezioni Unite, aveva molto suggestivamente costruito la sanzione di nullità seguendo un altro percorso e cioè ritenendo che la mancanza di avvertimento e di autorizzazione scritta da parte dell’investitore (nei casi di conflitto o di inadeguatezza) non configurasse una mera violazione di una regola di condotta, bensì la violazione di un requisito di forma intrinseco alla fattispecie negoziale (così, il Trib. Venezia, 22.10.07). Ed è stato ancora sostenuto che l’omissione di informazioni espressamente dovute per legge o per regolamento per assicurare la formazione di un consenso consapevole del cliente potrebbe operare quale causa di annullamento per raggiro omissivo, anche colposo, ai sensi dell’art. 1439 c.c. ogni volta che il cliente provi che la specifica informazione che l’intermediario non ha fornito non era già in suo possesso, con la conseguenza che la dichiarazione reticente o l’omessa informazione avrebbero inciso sul suo consenso rendendolo meno consapevole di quanto avrebbe dovuto essere. Ciò premesso, premesso altresì che dal carattere imperativo di una norma non può inferirsi in via automatica che la sua violazione dia luogo a nullità ed in ossequio alla funzione nomofilattica della giurisprudenza delle Sezioni Unite, questo collegio ritiene nella specie accoglibile la domanda risarcitoria formulata dalla difesa attrice subordinatamente alla domanda di nullità, quale naturale conseguenza dell’accertato inadempimento della convenuta agli obblighi sopra evidenziati e non assolti in punto conflitto.
Il nesso causale
La difesa convenuta, più volte, ed anche in sede di discussione avanti il Collegio, ha contestato la sussistenza di un nesso causale fra inadempimento e danno. La questione è delicata e affatto trascurabile. Le Sezioni Unite, nel censurare la pronuncia della Corte di Appello di Torino nella parte in cui “non si è soffermata a valutare se sussistesse o meno la situazione di conflitto di interessi (…) poiché ha escluso che comunque vi fosse la prova della dannosità dell’eventuale conflitto” (…) “sulla base della considerazione che le operazioni in questione, se anche compiute con un diverso intermediario, non avrebbero dato risultati differenti” hanno chiarito che “se la situazione di conflitto (è) configurabile, non (solo) le concrete e specifiche modalità esecutive a venire in questione, ma il compimento stesso dell’operazione che non avrebbe dovuto affatto avere luogo”. Benché la nota pronuncia non si sia particolarmente diffusa sulle ipotesi di conflitto e di inadeguatezza e sulle conseguenze che una siffatta situazione, ove accertata, determina sul piano risarcitorio, può dirsi che almeno sul rimedio (risarcimento e non nullità) e sul nesso inadempimento e danno (da considerarsi in re ipsa per il semplice fatto della violazione del divieto) non residuano spazi di dubbio. E questo Collegio, al di là del doveroso rispetto per l’autorevole pronuncia, ritiene di condividere il principio per cui nella fattispecie di conflitto (e di inadeguatezza) deve considerarsi irrilevante l’indagine sul nesso causale fra inadempimento e danno. Proprio perché il divieto legale a carico dell’intermediario di compiere operazioni in difetto di informazione e di successiva autorizzazione del cliente opera sul semplice presupposto della presenza di un interesse in conflitto (situazione) ed indipendentemente dall’incidenza dell’interesse sulla condotta dell’intermediario (azione) o sui termini dell’operazione (risultato dell’azione), deve ritenersi irrilevante accertare il nesso di causalità fra la violazione dell’obbligo di astensione ed il pregiudizio patito dal cliente, consistito nella perdita totale o parziale dell’investimento. È ben vero che la perdita di valore di uno strumento finanziario dipende essenzialmente dall’andamento sfavorevole del mercato e che dunque può condividersi in linea di principio l’assunto secondo cui la eventuale perdita si registrerebbe negli stessi termini anche se l’operazione venisse compiuta da altro intermediario non portatore di quell’interesse in conflitto, pur tuttavia la precisione di un divieto legale di agire, che le Sezioni Unite si sono incaricate di individuare e valorizzare, ha proprio la precipua funzione di prevenire e - in caso di violazione - di trasferire il rischio sul soggetto che viola il divieto (nella specie sull’intermediario). Neppure la circostanza che le operazioni di investimento siano per la loro natura aleatorie vale a vanificare tale nesso: aleatorio è infatti il risultato economico delle operazioni (in quanto legato all’andamento del mercato), ma non il contenuto dell’obbligazione di fedeltà e diligenza dell’intermediario nel rapporto con l’investitore che, anzi, deve atteggiarsi in modo ancor più stringente laddove si consideri che le operazioni di investimento sono intrinsecamente pericolose (potendo comportare la perdita totale o parziale del capitale investito o, in certe operazioni, addirittura di una capitale maggiore di quello inizialmente investito). Deve al contrario ritenersi che, proprio in quanto rischio tipico del settore, l’andamento sfavorevole del mercato non valga ad interrompere il nesso di causalità. D’altro canto costituisce un canone generale dell’ordinamento più volte teorizzato dalla dottrina e reso concreto dalla giurisprudenza il principio secondo cui qualora l’agente abbia violato non il generale precetto di condotta prudente bensì un precetto specifico e precostituito, la responsabilità si estende a tutti gli eventi che siano realizzazione del pericolo in relazione al quale la regola di condotta è stata posta, indipendentemente da ciò che l’agente abbia previsto o potesse prevedere. La ricostruzione della volontà ipotetica dell’investitore (come l’informazione omessa avrebbe inciso sulla formazione dalla volontà del cliente) al pari del giudizio ipotetico sull’ordine degli eventi che si sarebbero altrimenti verificati, resta dunque irrilevante, atteso che una volta riconosciuto che si è in presenza di un divieto legale di agire, l’illecito consiste e si consuma nel semplice fatto di agire in violazione di un divieto. Ciò che unicamente rileva è il fatto che l’intermediario ha posto l’investitore in una situazione di pericolo che il legislatore intendeva prevenire per scongiurare il rischio di un pregiudizio ritenuto insito in quella condotta…(omissis)…
Il quantum risarcibile
Se la violazione della diligenza professionale dell’intermediario risiede nel fatto di non essersi astenuto dal complimento dell’operazione, il danno che consegue in via immediata e diretta al compimento dell’operazione è l’intero interesse positivo: cioè la perdita integrale o parziale del capitale, restando del tutto irrilevanti, come precisazione le Sezioni Unite, “le modalità con cui l’operazione è stata in concreto realizzata o avrebbe potuto esserlo con altro intermediario”. Peraltro, solo la sanzione risarcitoria dell’intero interesse positivo rende effettivo il precetto che, diversamente, sarebbe del tutto svuotato di contenuto e rifluirebbe nel generico dovere di diligenza professionale.
(Omissis).
Il commento
di Ferdinando Bruno
Il fatto e la questione
I sigg.ri A e B (gli Attori) convenivano dinanzi al Tribunale di Milano la Banca C (la Banca) deducendo la nullità/invalidità/inefficacia dell’operazione di investimento in titoli Cirio Holding Sa 6,25% avvenuta in data 13 dicembre 2001 con addebito sul loro conto corrente di € 50.482,44; contestando la illegittimità del comportamento tenuto dalla Banca in occasione della vicenda in oggetto; lamentando plurime violazioni delle norme del T.U.F. e del Reg. Consob n. 11522/1998 e chiedendo quanto segue: (i) nel merito, in via principale, accertare e dichiarare la nullità ex art. 1418 c.c. del contratto e/o comunque della negoziazione 13 febbraio 2001 avente ad oggetto le obbligazioni Cirio tra gli attori e la convenuta, per violazione delle rilevanti norme imperative di cui al T.U.F. e al Reg. Consob; (ii) in via subordinata, dichiarare l’annullamento del contratto e/o della suddetta negoziazione ai sensi dell’art. 1427 ss. c.c.; (iii) per l’effetto, condannare la Banca convenuta alla restituzione integrale in favore dell’attore della somma di Euro…omissis…oltre agli interessi legali e rivalutazione monetaria secondo indici ISTAT dal giorno di valuta sino all’effettivo soddisfo; (iv) in via ulteriormente subordinata, dichiarare che la Banca si è resa inadempiente nei confronti degli attori per tutti i comportamenti tenuti in occasione della compravendita del bond Cirio de quo, violando le rilevanti norme del T.U.F. e Reg. Consob; (v) in ogni caso dichiarare che la Banca non si è comportata secondo correttezza e buona fede, e per l’effetto dichiararla responsabile ex art. 1337 c.c. e/o ex art 2403 c.c.; (vi) per l’effetto condannare in tutti i casi la banca al risarcimento dei danni patiti epatiendi, patrimoniali (perdita dell’investimento) e non patrimoniali (danno morale, biologico e psicologico) determinati in corso di causa. Il Tribunale, nel decidere secondo quanto riportato in premessa, ha menzionato attori ed istituti del mercato degli Eurobond1 quali manager, offering circular, invitation telex, ecc.: menzioni, queste, che necessitano, al fine della corretta comprensione della fattispecie de qua, un approfondimento su un argomento non adeguatamente effettuato, a quanto ci consta (anche per la particolare connessione all’operatività dei capital markets) in dottrina.
Gli Eurobonds
All’interno del mercato dei titoli obbligazionari si è soliti distinguere tra mercato internazionale e mercato domestico. Il mercato internazionale delle obbligazioni è costituito da emissioni in larga parte collocate al di fuori del paese di residenza dell’emittente, distribuite di solito attraverso un sindacato di collocamento, quotate su uno o più mercati borsistici.
Il mercato domestico raggruppa invece le obbligazioni emesse da emittenti italiani, regolate dalla legge italiana e collocate in misura prevalente in Italia.
Al mercato internazionale si accede attraverso l’emissione di Eurobond: questa è normalmente un’obbligazione assoggettata ad una normativa diversa rispetto a quella cui è sottoposto l’emittente(la prassi di mercato riconosce la legge inglese.
Va evidenziato come l’emissione di Eurobond si distinguono, inter alia, in base al tipo di collocamento, emissioni pubbliche e collocamenti privati (“private placement”). Le emissioni pubbliche sono operazioni rivolte ad una pluralità di investitori istituzionali e collocate sul mercato per il tramite di uno o più Bookrunner2. I collocamenti privati sono operazioni collocate prevalentemente da un singolo intermediario in qualità di Manager e rivolte a singoli investitori che cercano soluzioni di investimento fortemente personalizzate3.
Ai fini qui rilevanti appare opportuno individuare e descrivere brevemente i soggetti che intervengono in una tipica emissione di Eurobond. La terminologia riportata è quella normalmente utilizzata in tali operazioni4: (i) Lead Manager: il Lead Manager è il soggetto cui viene conferito il mandato dall'emittente al fine di strutturare l'operazione di emissione di Eurobond. Di solito tale soggetto sarà anche il "bookrunner", cioè la banca che si occupa di raccogliere le expression of interest (i.e. le richieste degli emittendi Eurobond) degli investitori istituzionali; (ii) Joint Lead Manager: il Joint Lead Manager è il soggetto, insieme con gli altri Joint Lead Manager, responsabile per le attività del sindacato di emissione (i.e. il raggruppamento di più banche (consorzio, sindacato) al fine di effettuare insieme un'emissione di titoli), inclusa l'attività di distribuzione dei titoli a ciascun sottoscrittore. Tale soggetto partecipa anche, solitamente, alla fase di due diligence ed alle drafting session.; (iii) Co-lead Manager: il Co-lead Managerè un membro del sindacato di emissione che partecipa ad alcune funzioni del "Lead Manager".
L’invitation telex è il documento con cui viene formalizzato il consorzio di collocamento già concordato verbalmente. L'invitation telex si limita eventualmente e confermare la predetta costituzione del consorzio: esso contiene i principali commercial terms dell'emissione, incluso la presenza o l'assenza di un rating.
Alla luce di quanto sopra i tratti caratteristici delle emissioni di Eurobond sono dunque5: a) assenza di un prospetto di sollecitazione, in quanto l'offerta dei titoli in discorso, a prescindere dalle modalità con le quali viene effettuata, è comunque destinata solo ad investitori professionali6; b) normale presenza di un documento informativo (Offering Circular), redatto per l'offerta di investitori professionali e i cui contenuti possono essere utilizzati anche come prospetto di quotazione nella Borsa Valori del Lussemburgo; c) esistenza di contrattazioni nella fase di grey market7 (dalla data di lancio dell'operazione alla data di primo regolamento), che anticipano il momento della sottoscrizione dei titoli (mercato primario vero e proprio) e, a maggior ragione, la quotazione sul mercato ufficiale. Le negoziazioni che intervengono nella fase di grey market hanno modalità del tutto simili a quelle tipiche di un "mercato secondario"8.
L’Offering Circular
Come visto la sentenza menziona l’offering circular, cioè il documento di emissione redatto per investitori istituzionali. Dobbiamo evidenziare come le emissioni di Eurobond possano essere effettuate senza l'utilizzo di un'Offering Circular; tale circostanza è rara, ma va ricordato come le Offering Circular sono sia documenti che hanno una funzione di disclosure, sia documenti necessari per illisting delle obbligazioni. Tanto atteso, nel caso in cui non vi sia nessun listing e nessun approccio formale (i.e. marketing) al mercato, l'Offering Circular non viene utilizzata.
Ovviamente, in generale, ciò accade nel caso in cui vi sia emittente ben conosciuto sul mercato e con un basso livello di rischio.
Si segnala come, nonostante quanto sopra evidenziato, l'Offering Circular sia un documento chiave nell'ambito di un'emissione di Eurobond9; esso contiene le informazioni descrittive dell'emittente, ed in particolare una descrizione analitica della storia, del business, del management, delle attività svolte e di quelle programmate e un'analisi dell'andamento finanziario, nonché una descrizione delle securities10.
Va rilevato come la responsabilità dell'Offering Circular, ed in particolare della business description, è sempre in capo all'emittente, il quale ha il compito e l'obbligo di fornire informazioni corrette: tale obbligo assume particolare rilevanza in ragione del fatto che gli investitori istituzionali (quali, ad esempio le banche) fondano la propria decisione di investimento sul contenuto dell'Offering Circular.
La necessità di disclosure dell'Offering Circular è determinata dalla necessità di fornire ai potenziali investitori le informazioni aggiuntive al fine di consentire loro di decidere se investire o meno negli strumenti di debito del determinato emittente.
Il livello di dettaglio e di accuratezza delle informazioni contenute nell'Offering Circular dipenderà, tra l’altro, dai seguenti fattori: (i) dal medesimo emittente, in quanto una maggior quantità di informazioni sarà richiesta per una società sconosciuta al mercato ed operante in attività ad alto tasso di rischio; (ii) dalle caratteristiche dei titoli (ed il rischio loro connesso); (iii) dalla giurisdizione. Le Offering Circular per gli emittenti di giurisdizioni meno sviluppate spesso contengono informazioni dettagliate sullo stato dell'emittente e del settore industriale in cui opera.
Alcune problematiche del mercato degli Eurobond: conflitto di interessi ed inducements
Il mercato degli Eurobond, ed il relativo collocamento, presenta problematiche sensibili quali, ad esempio, il conflitto di interessi e gli inducement.
In merito al primo tema, come visto in precedenza, il Lead Manager de quo si trovava in una triplice condizione di conflitto di interessi11: come evidenziato in dottrina, l’emersione di situazioni di conflitto di interessi12 nella prestazione dei servizi di investimento, specie ad opera delle banche, ha caratterizzato, sul piano empirico, nel nostro paese e all’estero le principali vicende del c.d. “risparmio tradito”. Il problema rappresenta certamente uno dei principali nervi scoperti del sistema. Il considerando 29 della Mifid ne traccia efficacemente i termini, riferibili in massima parte all’impresa di investimento bancaria: “La gestione sempre più ampia di attività che molte imprese di investimento esercitano simultaneamente ha aumentato le possibilità che vi siano conflitti tra queste diverse attività e gli interessi dei clienti. È pertanto necessario prevedere regole volte a garantire che tali conflitti non si ripercuotano negativamente sugli interessi dei loro clienti”13. La medesima dottrina rileva altresì come “il conflitto di interessi - e in particolare quello determinato dalla multifunzionalità delle imprese di investimento, e così in particolare delle banche - è inevitabile e a questa inevitabilità il legislatore deve, per così dire, “rassegnarsi”. Il conflitto non va eliminato ma va “gestito”: dunque la soluzione più coerente con questo fine è, appunto, l’adozione da parte delle imprese di misure organizzative che consentano all’impresa di individuare, prevenire, gestire il conflitto: più precisamente ancora le imprese debbono gestire il conflitto per prevenire che l’inevitabile conflitto incida negativamente sugli interessi del cliente (art. 13 Mifid). Tuttavia, riconosce il comma 2 dell’art. 18 Mifid, e con esso il CESR, se le misure organizzative non sono sufficienti allo scopo soccorre l’obbligo di disclosure del conflitto; pur se, saggiamente, il considerando 27 della direttiva 73/2006 - usando un eufemismo - precisa che non “è consentito un eccessivo affidamento sulla comunicazione senza una adeguata considerazione di come tali conflitti possano essere adeguatamente gestiti”.Ma l’inevitabilità del conflitto di interessi non è nella natura delle cose o del mercato: esperienze e recenti (le riforme israeliane) testimoniano che il legislatore può, ove il conflitto risulti troppo rischioso per l’efficienza e l’equità del mercato, vietare che una banca possa svolgere (direttamente o nell’ambito del gruppo) alcune attività di intermediazione finanziaria. E che dunque si sceglie consapevolmente di far diventare il conflitto inevitabile e si sceglie, invece di eliminarlo, di aprirsi al rischio o alla certezza (emblematico è il riferimento normative alla limitazione al minimo del conflitto di interessi e all’obbligo di disclosure) che possa manifestarsi e incidere negativamente sull’efficienza del mercato e dell’operatore, e sull’equità14.
Relativamente all’importanza del tema dei conflitti di intessi post Mifid, come evidenziato in altra sede15 la definizione del conflitto di interesse è consegnata alla direttiva 2006/73/CE della Commissione del 10 agosto 2006 recante modalità di esecuzione della Mifid16 per quanto riguarda i requisiti di organizzazione e le condizioni di esercizio dell’attività delle imprese di investimento e le definizioni di taluni termini ai fini di tale direttiva (di seguito, la Direttiva di Secondo Livello): il considerando 24 di quest’ultima prevede che, tra le circostanze che devono essere considerate tali da far sorgere un conflitto di interesse, devono rientrare le situazioni nelle quali esista un conflitto tra gli interessi dell’impresa, o di taluni soggetti collegati all’impresa o al gruppo dell’impresa, e gli obblighi dell’impresa nei confronti della clientela, oppure tra gli interessi divergenti di due o più clienti nei confronti di ciascuno dei quali l’impresa ha degli obblighi. Il Legislatore di Bruxelles, con la medesima previsione, ha chiarito come non sia sufficiente, per rientrare in tali circostanze, che l’impresa possa conseguire un utile se non vi sia nel contempo un possibile svantaggio per un cliente o che un cliente nei confronti del quale l’impresa ha degli obblighi possa conseguire un utile o evitare una perdita senza che vi sia una possibile perdita concomitante per un altro di tali clienti.
Posizione preminente è quindi rivestita dalla tutela del cliente rispetto ad una situazione negativa (svantaggio o perdita) che però non è rilevante per sè, ma solo se correlata ad una paritetica situazione negativa dell’impresa di investimento.
Viene poi cristallizzata l’indifferenza della qualità di cliente rispetto alla gestione dei conflitti di interessi, prevedendo che questi ultimi devono essere oggetto di regolamentazione quando un servizio di investimento o un servizio accessorio è fornito da un’impresa di investimento: lo status del cliente al quale il servizio è fornito (cliente al dettaglio, cliente professionale o controparte qualificata) è a tal fine irrilevante17, con la conseguenza, quindi, che un’impresa di investimento che fornisce un servizio di investimento o un servizio accessorio è sempre tenuta a regolamentare i conflitti di interesse.
La Direttiva di Secondo Livello disciplina18, poi, i conflitti di interesse potenzialmente pregiudizievoli per i clienti, prevedendo che gli Stati membri assicurino che, come criterio minimo per determinare i tipi di conflitti di interesse che possono insorgere al momento della fornitura di servizi di investimento e accessori o di una combinazione di essi e la cui esistenza può danneggiare gli interessi di un cliente, le imprese di investimento considerino se l’impresa di investimento, un soggetto rilevante o una persona avente un legame di controllo, diretto o indiretto, con l’impresa si trovi in una delle situazioni ivi individuate, sia a seguito della prestazione di servizi di investimento o accessori o di attività di investimento, sia per altra ragione19.
In merito al tema degli Inducement, si è già rilevato di recente in altra sede come20 l’articolo 52 del Regolamento recante norme di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 in materia di intermediari21 (il Regolamento Intermediari) categorizza nel genus degli incentivi ammissibili, inter alia, due distinte fattispecie: (i) compensi, commissioni o prestazioni non monetarie pagati o forniti a o da un terzo o da chi agisca per conto di questi, qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: (a) l’esistenza, la natura e l’importo di compensi, commissioni o prestazioni, o, qualora l’importo non possa essere accertato, il metodo di calcolo di tale importo sono comunicati chiaramente al cliente, in modo completo, accurato e comprensibile, prima della prestazione del servizio di investimento o accessorio e (b) il pagamento di compensi o commissioni o la fornitura di prestazioni non monetarie è volta ad accrescere la qualità del servizio fornito al cliente e non deve ostacolare l’adempimento da parte dell’intermediario dell’obbligo di servire al meglio gli interessi del cliente (che, ai fini del presente lavoro, ci permettiamo di definire “Inducement Propri o Incentivi Propri”); (ii) compensi adeguati che rendano possibile la prestazione dei servizi o siano necessari a tal fine, come ad esempio i costi di custodia, le commissioni di regolamento e cambio, i prelievi obbligatori o le spese legali, e che, per loro natura, non possano entrare in conflitto con il dovere dell’impresa di agire in modo onesto, equo e professionale per servire al meglio gli interessi dei suoi clienti (tale categoria, anche per ragioni di distinguo da quella precedente, definiremo, sempre ai fini del presente contesto “Inducement Impropri o Incentivi Impropri”). È evidente come la qualificazione di una somma di danaro pagato ad - e ricevuta da - un intermediario nell’una o nell’altra categoria di incentivi provochi impatti notevoli sul medesimo operatore, in termini di costi e perdita di competitività (si pensi agli obblighi di disclosure e alle verifiche sull’effettivo accrescimento della qualità del servizio in caso di Incentivi Propri).
Il conflitto di interessi ed il relativo obbligo
del risarcimento dell’intermediario
Ora, esaminando le conclusioni della decisione in tale sede commentata, questa, dopo aver sgombrato definitivamente il campo dalla possibilità di sanzionare con il rimedio della nullità gli atti posti in essere dall’intermediario in conflitto di interessi (alla luce della recente sentenza delle Sezioni Unite22), ha asserito che il nesso tra inadempimento e danno è da considerarsi in re ipsa per il semplice fatto della violazione del divieto, e che, atteso il fatto che il divieto legale a carico dell’intermediario di compiere operazioni in difetto di informazione e di successiva autorizzazione del cliente opera sul semplice presupposto della presenza di un interesse in conflitto (situazione) ed indipendentemente dall’incidenza dell’interesse sulla condotta dell’intermediario (azione) o sui termini dell’operazione (risultato dell’azione), è irrilevante accertare il nesso di causalità fra la violazione dell’obbligo di astensione ed il pregiudizio patito dal cliente, consistito nella perdita totale o parziale dell’investimento. Quale è dunque il danno risarcibile nel caso di questa particolare responsabilità oggettiva da conflitto di interesse dell’intermediario? A riguardo, statuisce la sentenza, che se la violazione della diligenza professionale dell’intermediario risiede nel fatto di non essersi astenuto dal complimento dell’operazione, il danno che consegue in via immediata e diretta al compimento dell’operazione è l’intero interesse positivo: cioè la perdita integrale o parziale del capitale.
Conclusioni
La pronuncia cristallizza un principio importante, che, si spera, imporrà agli intermediari una maggior cautela nell’attività di collocamento, nel caso di presenza di conflitti di interesse. Non si può non rilevare come il principio declamato dai giudici meneghini rischia di assurgere quasi ad una sorta di responsabilità “oggettiva” per l’attività di collocamento svolta da un intermediario in conflitto di interesse, rectius di un conflitto di interesse non “disclosed”, cioè non evidenziato nella documentazione d’offerta. Invero, giova rammentare come i conflitti di interesse - anche in ragione delle diverse fattispecie in grado potenzialmente di originarli - siano un connotato pressoché ineluttabile dell’operatività commessa al collocamento di strumenti finanziari: il mercato dei capitali, ed in particolare la lettura dell’offering documentation di ciascun collocamento, mostra come non vi sia operazione che non sia affetta almeno da un conflitto di interesse di uno o più intermediari coinvolti nella medesima. Ora, attesa la precipuità dei conflitti di interesse nel collocamento, va evidenziato come quello che rileva, ai fini dell’eventuale responsabilità dell’intermediario portatore del conflitto, è l’aver dichiarato il conflitto di interesse ai potenziali investitori. Invero, la conoscenza della situazione di conflitto in capo ai summenzionati investitori degrada il conflitto da celato e potenzialmente negativo (per gli investitori medesimi), a declamato e quindi “innocuo”. L’estrinsecazione del conflitto sterilizza lo stesso della natura di informazione nascosta - considerata per se dannosa (a prescindere, come visto, dall’esistenza del nesso causale) - rendendolo oggetto di un’informativa ad hoc che vale ad eliminare, per ciò solo, la relativa responsabilità dell’intermediario, secondo il principio che si potrebbe riassumere: un investitore informato non può essere considerato un investitore danneggiato dall’informazione ricevuta. La conseguenza pratica del principio statuito nella sentenza in questa sede esaminata sarà inevitabilmente l’incremento dell’inclusione nelle parti della documentazione d’offerta dedicata ai conflitti di interesse di ogni tipo di conflitto, anche solo meramente ipotetico, in un’ottica del melius abundare quam deficere applicato a tale fattispecie, volta a perseguire la massima riduzione, se non l’eliminazione, del rischio di azioni giudiziarie nei confronti dell’intermediario coinvolto nel collocamento per un conflitto “dimenticato”.
1 Sulla definizione di Eurobond e sulle caratteristiche del titolo si vedano, tra gli altri: Fuller, Corporate Borrowing, Second Edition, Jordans, 1999, part. 26 ss.; Dosoo, Top of For, The Eurobond market, Woodhead-Faulkner, 2nd edition (1992); Walmsley, Global Investing: Eurobonds and Alternatives, Palgrave Macmillan (April, 1991); Clarke, Guide to eurobonds: A comprehensive analysis for issuers and practitioners (Special report), Economist Publications (1990); Bowe, Eurobonds, Irwin Professional Pub (January, 1989).
2 Le emissioni pubbliche rispondono ad un’esigenza di raccolta dell’emittente molto specifica riguardo all’ammontare (tipicamente elevato) e la tempistica (dettata dall’emittente stesso), per cui lo strumento risulta essere fortemente standardizzato, conosciuto dal mercato e quindi adatto ad un bacino di potenziali investitori quanto più allargato possibile (il mercato pubblico è detto “issuer driven”).
3 I collocamenti privati rispondono a specifiche richieste di singoli investitori, che dettano le condizioni dello strumento ricercato (ammontare, scadenza, valuta, struttura della cedola, etc.) che l’emittente si impegna a soddisfare con un’emissione ad hoc, in cambio di costo di raccolta particolarmente vantaggioso per l’emittente (il mercato privato è detto “investor driven”).
4 Cfr. Carmichael & Wells, Eurobonds: International debt finance (An explanation of what Eurobonds are and how they are issued) [August 1996] PLC 41, 2-3.
5 Consob, cit.
6 Chiaro, a riguardo, il London Stock Exchange, per cui "Eurobonds are specialist debt securities only offered to institutional investors", in A Practical Guide to Listing Debt in London, inwww.londonstockexchange.com.
7 Dal momento del lancio iniziano solitamente ad essere pubblicate sulle pagine di Bloomberg, Reuters, ecc… offerte in vendita e in acquisto (bid-ask) dei vari intermediari, sia di quelli che partecipano al consorzio sia di altri investitori qualificati (banche, imprese di investimento). Da tale momento, quindi, gli intermediari iniziano a comprare e vendere il titolo. La fase di mercato che si realizza dalla data di lancio a quella di primo regolamento (la data di primo regolamento, c.d. closing, è quella in cui avviene la consegna dei titoli da parte dell'emittente contro il pagamento del prezzo di emissione da parte dei partecipanti al relativo consorzio di collocamento) è denominata grey market.
8 Su tale concetto, e su altri aspetti dell'emissione di bonds, si vedano, tra gli altri: Davis, Industrial Structure and Dynamics of Financial Markets: The Primary Eurobond Market, in The Journal of International Securities Markets. Winter, 1988, 253-267; Euromoney, The day Mattle Gave The Gray Market A Bear Hug, January 1981, 11-22; Euromoney, How the Gray Market Became respectable, May 1982, 8-15; Euromoney,Can big players save the game?, October 1989, 52-63; Fisher, Eurobonds, Euromoney Publications, London, 1988; Gallant, The Eurobond market. Woodhead-Faulkner, New York, 1988; Giudice, Operare con gli Eurobonds: gli strumenti, le tecniche, il mercato, Etas Libri, Milano, 1993; Grabbe, International financial markets. Elsever, New York, 1986; Kerr, The Eurobond Market, the Twenty-one Years, Euromoney Publications, London, 1984; IPMA, The Eurobond Market: from offshore origins to global market, Occasional Papers, London, 1993; ISMA, A profile for the future, London, 1993; Siniscalchi, Gli strumenti finanziari dell’euromercato, Nis, Roma, 1991.
9 "…there is another key document - the “prospectus”, “offering memorandum” or l”offering circular”, as it is vairously called. This is the document the purpose of which is to induce investors to subscribe for the bonds whose terms it describes", Hughes, Bond Issues - a banking lawyer's perspective, 2000, 7, JIBFL, 265.
10 "As well as describing the terms of the issue, an offering circular will describe, in considerable detail, the issuer and its history, business, management, past and proposed activities, and recent (and projected) financial performance", Hughes, cit.
11 Maffeis, Conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 2002; Stesuri, Il conflitto di interessi, Milano, 1999; Fici, Il conflitto di interessi nelle gestioni individuali di patrimoni mobiliari, in Riv. crit. dir. priv., 1997, 323 ss; Gabrielli, Il conflitto di interessi autorizzato, in Contratto e impresa, 2007, 97 ss; Maffeis, Forme informative, cura dell'interesse ed organizzazione dell'attività nella prestazione dei servizi di investimento, in Riv. dir. priv., 2005, 576 ss; Perego, Spunti sul conflitto di interessi nella rappresentanza volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 1435 ss.; Pugliatti, Abuso di rappresentanza e conflitto di interessi, in Riv. dir. comm., 1940, 238 ss; Sartori, Il conflitto di interessi fra intermediari e clienti nello svolgimento dei servizi di investimento e accessori: un problema risolto, in Riv. dir. civ., 2001, 196 ss; Scotti-Camuzzi, I conflitti di interessi fra intermediari finanziari e clienti nella direttiva MIFID, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, 121 ss: Sirena, Alienità dell'affare e conflitto di interessi fra rappresentante e rappresentato ex art .1394 c.c., in Riv. dir. civ., 1994, 92 ss; Zana, Buona fede e contratto con se stesso, in Foro padano, 1972, 759 ss.; Durante, Il conflitto di interessi dell'intermediario finanziario nel recente dibattito giurisprudenziale, in www.ambientediritto.it; Grisafi, L'obbligo informativo in materia di investimenti finanziari. Obiettivi della disciplina, contenuto delle prescrizioni e sanzionamento delle violazioni, inwww.consumoediritti.it
12 Sul conflitto di interessi dell’intermediario in giurisprudenza: Trib. Venezia, 2 novembre 2004; Trib. Milano, 22 novembre 2006, n. 2839/2007; Trib. Mantova, 18 marzo 2004; Trib. Firenze, 30 maggio 2004; Trib, Venezia, 22 novembre 2004; Trib. Monza, 16 dicembre 2004; Trib. Mantova, 3 febbraio 2005; Trib. Milano, 9 marzo 2005; Trib. Mantova, 5 aprile 2005; Trib. Trani, 7 giugno 2005; Cass. 31 marzo/29 settembre 2005, n. 19024; Trib. Venezia, 29 settembre 2005.
13 Presti-Rescigno, Il conflitto di interessi nella prestazione dei servizi di investimento: diagnosi e terapie, Intervento tenuto nell'ambito del Seminario su: “Nuove prospettive per l’intermediazione finanziaria nell’evoluzione del contesto economico”, Castello dell’Oscano - Perugia, 23 marzo 2007, Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa Università Cattolica del Sacro Cuore Facoltà di Scienze Bancarie Finanziarie e Assicurative, Quaderno n. 235.
14 Presti-Rescigno cit. che aggiungono altresì come: “Del resto, se si pensa che la misura organizzativa principe è quella delle barriere informative fra le varie aree preposte alle attività nel cui ambito possono crearsi i conflitti, si comprende bene che il regolatore chiede alle imprese di creare al loro interno gli effetti di una preclusione di commistione di attività che egli non ha ritenuto di imporre. Appare sfuggente la razionalità dell’impostazione e debole la distinzione che pure emerge dalla norma fra conflitto inevitabile ed evitabile nocumento del cliente: salvo voler ravvisare la ratio della scelta nella volontà di soppesare rischi del conflitto e ipotetiche sinergie (che dovrebbero però venir meno per effetto delle misure organizzative)”.
15 Bruno-Rozzi, Il destino dell’operatore qualificato alla luce della MiFID, in Le Società, 2007, 3, 277-289.
16 Su cui: JGiraud-D'Hondtk, MiFID: Convergence towards a unified European capital markets industry, Risk Books, 2006; Skinner, Trading in Europe's Investment Markets in a Post-MiFID World, Hardcover, 2007; McPherson-Bonfanti, MiFID: The Last Thunderbolt from Brussels, Digital, 2007; Ferrarini (Editor), Wymeersch (Editor), Investor Protection in Europe: Corporate Law Making, the MiFID and Beyond, Oxford University Press, 2006.
17 Considerando 25 MiFID.
18 L’articolo 21 della Direttiva di Secondo Livello.
19 E cioè quando: "a) è probabile che l’impresa o tale soggetto realizzino un guadagno finanziario o evitino una perdita finanziaria, a spese del cliente; b) l’impresa o tale soggetto hanno nel risultato del servizio prestato al cliente o dell’operazione realizzata per conto di quest’ultimo un interesse distinto da quello del cliente; c) l’impresa o tale soggetto hanno un incentivo finanziario o di altra natura a privilegiare gli interessi di un altro cliente o gruppo di clienti rispetto a quelli del cliente interessato; d) l’impresa o tale soggetto svolgono la stessa attività del cliente; e) l’impresa o tale soggetto ricevono o riceveranno da una persona diversa dal cliente un incentivo, in relazione con il servizio prestato al cliente, sotto forma di denaro, di beni o di servizi, diverso dalle commissioni o dalle competenze normalmente fatturate per tale servizio".
20 Bruno, Inducements ed Euromarket: il rapporto tra l’istituto della MiFID ed il mercato degli Eurobonds, collocati sia tramite sindacato che tramite private placements, in MIFID, La nuova disciplina dei mercati, servizi e strumenti finanziari, II Edizione, 2009, Zitiello (a cura di).
21 Adottato dalla Consob con delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007 e successivamente modificato con delibera n. 16736 del 18 dicembre 2008.
22 Su cui rimandiamo a Bruno-Rozzi, Le Sezioni Unite sciolgono i dubbi sugli effetti della violazione degli obblighi di informazione, in Giur. commerciale, 2008, 3, pt. 2, 612-625.
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