martedì 12 maggio 2009

Sanabilità degli abusi su suol pubblico

Le opere poste in essere su suolo di pubblica proprietà sono sanabili

TAR Puglia-Bari, sez. III, sentenza 03.12.2008 n° 2770 (Alessandro Del Dotto)

Dall’art. 32, comma 5, L. 47/85, cui rinvia l’art. 32, d.l. 269/2003, emerge evidentissimo che ai fini del rilascio della sanatoria ex d.l. 269/2003 non è, in via assoluta, ostativo il fatto che gli abusi insistano su suolo pubblico: la sanatoria è anzi possibile anche in questi casi se l’ente interessato sia di fatto disponibile a concedere la porzione di suolo interessata in diritto di superficie all’interessato. In tal caso, effettuato il pagamento del valore dell’area, nella misura determinata dalla Agenzia del Demanio, e stipulata la convenzione, può essere rilasciata la concessione in sanatoria.
La norma in esame evidenzia anche come la sanatoria di che trattasi sia perfettamente ammissibile anche laddove la pratica per la concessione in uso del suolo pubblico non risulti essere già istruita al momento della presentazione della istanza di condono: anzi, la norma pare proprio prendere in considerazione l’eventualità in cui l’interessato presenti la richiesta di disponibilità dell’area demaniale dopo aver già presentato l’istanza di condono. E’ comunque evidente che laddove la richiesta di sanatoria riguardi un abuso realizzato su suolo pubblico, la definizione della concessione in uso del suolo medesimo diventa pregiudiziale rispetto alla definizione del procedimento di sanatoria.
Questa la sostanza dell’importantissima decisione del T.A.R. Puglia Bari, in merito alla illegittimità della definizione di un procedimento di sanatoria straordinaria in senso negativo sol perché le opere per le quali si domanda condono sono ubicate su suolo pubblico.
Simile decisione appare conforme, sotto il profilo logico-giuridico, ad altra sentenza già nota del Giudice amministrativo toscano (TAR Toscana-Firenze, sez. III,
sentenza 06.02.2008 n° 102) e appresta una lettura normativa orientata dell’istituto del condono edilizio meno sfavorevole per il cittadino, posto che la pubblica proprietà dell’immobile sul quale ricadono le opere oggetto di domanda di sanatoria viene letta non come un vincolo ma come un semplice presupposto la cui assenza è causa relativa di improcedibilità della sanatoria e il cui positivo accertamento in termini di concessione del diritto reale all’interessato dal rilascio del titolo sanante rende superabile l’iniziale assenza di titolo.
Resta da capire se simile costruzione giuridica, dal vago sapore di circostanza che allarga le maglie della possibilità di conseguire un condono, oltre che alla sanatoria straordinaria sia applicabile anche a casi di sanatoria ordinaria, nei quali ci si trova di fronte ad opere non sostenute da idoneo titolo ma, per la loro consistenza, sanabili con accertamento di doppia conformità: cosa che appare, logicamente plausibile, ponendo attenzione al fatto che se è vero – come’è – che tale modus procedendi, di carattere derogatorio rispetto alla disciplina tombale (normalmente interpretata restrittivamente in quanto eccezionale, intervenendo laddove manca il titolo edificatorio sia formale che sostanziale), viene riconosciuto in un procedimento (come quello dei condoni) dalle maglie strette e particolarmente rigido nella sua applicazione (e non nei suoi presupposti, che derogano – purtroppo – alle regole vigenti nella normalità delle cose), è altrettanto ammissibile ritenere che tale a regola non faccia eccezione l’accertamento della doppia conformità, istituto ordinario di un particolare tipo di sanatoria che è quello della assenza di titolo formale.

(Altalex, 7 maggio 2009. Nota di Alessandro Del Dotto)

Massima
E’ possibile procedere a sanatoria, anche laddove l’immobile abusivo sia stato realizzato su suolo pubblico.
(Fonte: Altalex Massimario 6/2009. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto)



T.A.R.
Puglia - Bari
Sezione III
Sentenza 8 ottobre – 3 dicembre 2008, n. 2770
(Presidente Urbano – Estensore Ravasio)


Fatto
Il Condominio X. ha impugnato, chiedendone la sospensione, gli atti indicati in epigrafe, tutti aventi ad oggetto le opere edilizie indicate nel verbale di contravvenzione 146 del 03/08/2000, eseguite in base ad autorizzazione edilizia rilasciata in data 16/07/1998 ma revocata con atto 04/03/1999, prot. V.E. n. 422: trattasi delle opere di recinzione del Lotto 4 Zona E Piano 167 di Poggiofranco, pertinenziale al Condominio ricorrente, il quale successivamente è stato autorizzato a completarle solo relativamente alla zona retrostante al fabbricato e con esclusione della parte prospiciente la via Tommaso D’Aquino, di proprietà comunale.
Premette la ricorrente di aver altresì proposto impugnativa avverso l’ordinanza che ha ingiunto la demolizione delle opere di cui sopra, con ricorso rubricato al n. 3199/2000 R.G. di Questo Tribunale, il quale ha rigettato la domanda con sentenza confermata, nelle more del giudizio.
Il verbale di accertamento oggetto del ricorso principale viene quindi impugnato:
I.a) per violazione della ordinanza di Questo Tribunale, Sezione II, n. 596 del 03/09/99, violazione della Lg. 47/85 con riferimento alla L.R. 56/80, eccesso di potere per presupposizione e difetto assoluto di motivazione: il verbale, infatti, non tiene in alcun conto il fatto che il provvedimento revocatorio del 04/03/1999 é stato sospeso con ordinanza di Questo Tribunale n. 596/99;
I.b) per violazione dell’art. 7 L. 241/90, stante l’omesso avviso di avvio del procedimento di accertamento del presunto abuso edilizio.
Con il primo ricorso per motivi aggiunti il ricorrente ha impugnato gli ulteriori atti indicati in epigrafe, sia per vizi propri che per vizi derivati. Mentre questi ripropongono le censure già esposte in ricorso introduttivo, in riferimento ai vizi propri si deduce:
II.a) violazione ed omessa applicazione dell’art. 41 DPR 380/01, come sostituito dall’art. 32 comma 49 ter D.L. 269/2003, nonché incompetenza del Comune di Bari: l’esecuzione della demolizione delle opere abusive deve essere infatti disposta dal Prefetto;
II.b) violazione ed omessa applicazione dell’art. 38 l. 47/85, in relazione all’art. 32 D.L. 269/2003, nonché incompetenza del Comune di Bari: il ricorrente ha proposto istanza di sanatoria ex d.l. 269/2003, di guisa che mentre i precedenti provvedimenti repressivi hanno perso efficacia, sussiste l’obbligo del Comune di sospendere il procedimento relativo alla irrogazione delle sanzioni.
Con il secondo ricorso per motivi aggiunti vengono impugnati ulteriori atti, meglio indicati in epigrafe: vengono dedotti, in via derivata, i vizi già dedotti con i primi due ricorsi, nonché i seguenti vizi propri:
III.a) violazione ed omessa applicazione dell’art. 32 comma 25 e segg. d.l. 269/2003, nonché violazione della ordinanza del TAR Puglia-Bari n. 848/2005, eccesso di potere per abnormità procedimentale e per difetto assoluto di istruttoria: il provvedimento impugnato, infatti, non tiene conto del fatto che é pendente istanza di sanatoria ex d.l. 269/2003, non ancora definita, dalla quale discende, ex art. 44 L. 47/85, l’obbligo per il Comune di sospendere i procedimenti amministrativi sanzionatori in corso; vi é inoltre violazione della stessa ordinanza del Collegio n. 848/2005;
III.b) violazione del giudicato formatosi inter partes sulla sentenza di Questo Tribunale n. 5842/2002, confermata dal Consiglio di Stato, nonché violazione della sentenza di Questo Tribunale n. 744 del 16/03/2007: il condominio X. ha presentato istanza al fine di ottenere l’assegnazione della porzione di suolo della quale il Comune non autorizza la recinzione, ed il TAR Bari, con sentenza 2086/2007, ha accertato l’obbligo del Comune di Bari di definire il procedimento avviato con detta istanza, sia pure tenendo conto della posizione e delle aspettative del Condominio contro interessato: il Comune avrebbe pertanto dovuto prima provvedere sulla istanza di assegnazione presentata dalla ricorrente e poi, semmai, proseguire nella esecuzione della ordinanza di demolizione;
III.c) violazione dell’art. 7 L. 241/90, per omesso avviso dell’avvio del procedimento relativo alla demolizione delle opere di che trattasi
Si sono costituiti in giudizio, resistendo al ricorso, sia il Comune di Bari che il contro interessato Condominio Consedil Nova.
Alla udienza del 20/10/2005, con ordinanza n. 848/2005, veniva rigettata la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati con il ricorso introduttivo nonché con il primo ricorso per motivi aggiunti, per mancanza di periculum, stante la obbligatoria sospensione dei procedimenti amministrativi sanzionatori determinata dalla presentazione della istanza di condono presentata dalla ricorrente.
Alla udienza del 14/11/2007 veniva invece accolta la domanda di sospensione del provvedimento impugnato con il terzo ricorso per motivi aggiunti.
Infine, alla udienza pubblica dell’08/10/2008 i tre ricorsi venivano introitati a decisione definitiva.
Diritto
1. Al fine della corretta comprensione di quanto in appresso si dirà è necessario premettere e richiamare i fatti salienti della vicenda portata alla attenzione del Collegio.
Con deliberazione del Consiglio Comunale n. 689 del 17/07/1975 il Comune di Bari assegnava alle Cooperative X. e Consedil Nova, indivisamente tra loro, il diritto di superficie sul lotto edificabile n. 4, settore E, del piano di Zona di Poggiofranco. A tale assegnazione faceva seguito una seconda delibera consiliare, n. 755/77, con la quale, previo frazionamento del lotto, a ciascuna delle cooperative veniva assegnata in via esclusiva una quota parte di esso.
L’accesso ai fabbricati rispettivamente realizzati da parte delle due Cooperative veniva esercitato, per un certo periodo di tempo, in attraversamento del lotto assegnato alla Cooperativa X., in conformità alle previsioni di viabilità del Piano di Zona vigente. Tale sistema suscitava però inconvenienti, sicché, con delibera consiliare n. 520 del 12/05/1989, mai gravata né moficata o ritirata in autotutela, il Comune modificava le previsioni relative alla viabilità della zona istituendo una nuova strada di distribuzione all’interno dei lotti 2, 3 e 4: orbene, come si legge nella comparsa di costituzione del Comune di Bari depositata il 27/09/2005, per effetto di tale variante il lotto assegnato in via esclusiva alla Cooperativa X. si accresceva di quella superficie di 478 mq. - fisicamente situata all’interno del lotto assegnato alla Cooperativa X. e sino ad allora utilizzata per l’accesso ai lotti – che perdeva la propria vocazione a viabilità per diventare area edificatoria all’interno del lotto già assegnato alla Cooperativa X..
Per tale ragione, su richiesta di questa ultima, il Comune di Bari, con provvedimento n. 5133 del 16/07/1998, inizialmente autorizzava la Cooperativa X. a recintare il perimetro esterno del lotto di sua competenza, ivi compresa l’area, in esso situata, prima adibita a viabilità di tutto il lotto 4.
Improvvisamente privato della possibilità di usufruire del passaggio preesistente, in attraversamento del lotto assegnato in via esclusiva al condominio ricorrente, la Cooperativa Consedil Nova, con ricorso 05/11/99 promuoveva, nei confronti di quello, azione civile possessoria onde ottenere la reintegra nel passaggio.
In data 23/02/1999 il Condominio X. depositava istanza per formalizzare con concessione superficiaria il godimento della superficie di mq. 478 sottratta alla viabilità del lotto.
Poco tempo dopo, e precisamente con provvedimento 04/03/99, il Comune di Bari revocava l’autorizzazione già rilasciata, poiché – come si legge sempre a pag. 2 della memoria depositata dalla difesa del Comune di Bari in data 27/09/2005 - “erroneamente rilasciata con riferimento alla mancata definizione, mediante stipula di apposita convenzione, del diritto di superficie sull’area suddetta, ubicata all’interno del lotto assegnato al Condominio X.”: seguiva, il 05/07/1999, nuovo titolo autorizzatorio, mediante il quale il Condominio X. veniva autorizzato a recintare solo la parte del lotto ad esso assegnato retrostante il fabbricato, con esclusione della superficie di mq. 478 rimasta in proprietà comunale, ma sottratta alla viabilità dalla delibera consiliare n. 520 del 12/05/1989.
Non essendosi il Condominio X. adeguato alla nuova autorizzazione, il Comune, con provvedimento 29/08/2000 in. 32050, ingiungeva la demolizione delle opere abusive, che veniva tempestivamente gravata.
Nel frattempo precisamente con istanza 22/12/1999 (cfr. memoria Consedil Nova 19/10/2005 pag. 3), anche la controinteressata depositava istanza per formalizzare concessione superficiaria in relazione all’area di mq. 478 sottratta a viabilità del lotto.
Questa, però, veniva assegnata al Condominio X. con delibera di Giunta Municipale n. 1283 del 20/12/2001, che pure veniva tempestivamente gravata dal controinteressato Condominio Consedil Nova.
Con sentenza n.. 5842/2002, Questo Tribunale respingeva l’impugnativa proposta avverso l’ingiunzione di demolizione delle opere 29/08/2000 ed annullava la delibera di Giunta Municipale 20/12/2001 n. 1283, sul presupposto che il Comune avrebbe dovuto esperire procedura comparativa prima di decidere a quale dei due contendenti assegnare il diritto di superficie già adibito a viabilità del lotto.
Il Tribunale Civile di Bari, invece, si pronunciava sul ricorso possessorio con sentenza 1297 del 10-26/06/2002, dichiarandolo improponibile: nella motivazione ( pagg. 7-8) il Tribunale Civile dà atto che la recinzione collocata dal Condominio X. si allinea ed è perfettamente conforme alle previsioni della variante del piano di zona approvato con delibera consiliare n. 520 del 12/05/1989, deducendone la impossibilità per la Autorità Giudiziaria Ordinaria di adottare qualsivoglia provvedimento di reintegra.
Seguiva, da parte del Comune, il verbale di accertamento 11/06/2003, impugnato con ricorso introduttivo.
Ancora pendente il procedimento volto ad individuare quale dei due condomini avrebbe potuto rendersi assegnatario del diritto di superficie sull’area di 478 mq. già adibita a viabilità del lotto, il condominio ricorrente presentava, nei termini di legge, istanza per la definizione di illeciti edilizi ai sensi del d.l. 269/2003.
Nel 2005 il Comune adottava gli atti gravati con il primo ricorso per motivi aggiunti.
Con sentenza n. 2290/2006 il Consiglio di Stato si pronunciava in sede di appello avverso la sopra ricordata sentenza di Questo Tribunale n. 5842/2002, che confermava integralmente dopo aver negato la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., richiesta dal Condominio X. ex art. 44 L. 47/85.
Su richiesta del Condominio X. Questo Tribunale, con sentenza 744/2007, dichiarava la illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Bari sulla istanza 23/02/99 presentata dalla ricorrente per ottenere di diventare assegnataria della residua parte del lotto 4, oggetto di contestazione.
Con sentenza n. 2086 del 05/09/2007, invece, Questo Tribunale accoglieva il ricorso presentato dal Condominio Consedil Nova per l’ottemperanza alla sentenza del Questo Tribunale n. 5842/2002, e per l’effetto dichiarava l’obbligo del Comune di Bari sia di provvedere al riesame della istanza di assegnazione 22/12/99, presentata dal Condominio Consedil Nova, sia di portare ad esecuzione l’ingiunzione di demolizione 29/08/2000.
In esito a ciò il Comune di Bari, senza provvedere sulle istanze delle parti volte alla concessione in diritto superficiario della superficie di mq. 478 rinveniente all’interno del lotto 4 a seguito della modifica della viabilità di zona, adottava il provvedimento impugnato con il secondo ricorso per motivi aggiunti.
Il Consiglio di Stato, infine, con sentenza n. 2988/2008, in sede di appello avverso la sentenza di Questo Tribunale n. 2086/2007, affermava l’infondatezza dell’unico motivo d’appello, a mezzo del quale il Condominio X. aveva sostenuto non potersi portare ad esecuzione l’ingiunzione di demolizione in ragione della istanza di condono nel frattempo depositata.
Tanto premesso in punto di fatto, è ora possibile passare alla disamina dei ricorsi.
2. Va prioritariamente esaminato il secondo dei ricorsi per motivi aggiunti, a mezzo del quale viene dedotta l’illegittimità dell’ultimo avviso relativo all’inizio dei lavori di demolizione, meglio indicato in epigrafe, in quanto adottato dal Comune di Bari prima di aver definito il procedimento relativo alla assegnazione in concessione dell’area di mq. 478 già sede della preesistente viabilità.
La censura è meritevole di accoglimento.
2.1. Il fatto che nel caso di specie sul Comune gravasse, e gravi tuttora, l’obbligo di espletare preliminarmente il procedimento relativo alla assegnazione dell’area già adibita a viabilità del lotto 4, settore E, Piano di Zona di Poggiofranco, emerge dalla constatazione che il Condominio X. ha una aspettativa concreta a diventare concessionario dell’area delimitata dalla recinzione stessa e, perciò, ha anche una aspettativa concreta ad ottenere la sanatoria ex d.l. 269/2003 relativamente alla parte di detta recinzione abusivamente realizzata.
Significativa al proposito è la circostanza, ammessa dal Comune di Bari nelle sue difese, che l’area di mq. 478 sulla quale veniva esercitato l’accesso al lotto da parte del Condominio Consedil Nova, benché di proprietà comunale, di fatto è ubicato all’interno del lotto assegnato in via esclusiva al Condominio X.: l’accesso alle abitazioni del fabbricato Consedil Nova veniva infatti esercitato tramite un sottopassaggio, realizzato sotto al fabbricato X., il quale pertanto si frapponeva tra l’accesso al lotto ed il fabbricato Consedil Nova.
In tale situazione è evidente che nel momento in cui le previsioni di viabilità della zona vengono mutate, con istituzione di una nuova strada che consente la realizzazione di un nuovo accesso al lotto 4, collocato in posizione centrale tra i due fabbricati, vien meno l’esigenza, per gli abitanti del condominio Consedil Nova, di continuare ad accedere in attraversamento del lotto X.. E’ parimenti innegabile che in tale situazione la concessione in uso del sedime non più utilizzato a viabilità di lotto spetta, per “vocazione”, al lotto X., al cui interno è collocato.
Quanto sopra, naturalmente, non vale ad affermare che anche il Condominio Consedil Nova non potesse e non possa ambire a divenire concessionario di questa residua parte del lotto 4, rimasta non assegnata; né implica che il Comune possa procedere alla assegnazione dell’area di che trattasi prescindendo da quella comparazione - tra le istanze presentate dai due condomini – già raccomandata da Questo Tribunale allo scopo di tutelare sia l’interesse pubblico che le aspettative che il Condominio Consedil Nova può aver riposto nel fatto di divenire concessionario. Quanto sopra significa semplicemente che il Condominio X. aveva ed ha una aspettativa particolarmente qualificata a divenire concessionario, trovandosi l’area oggetto di contesa all’interno del lotto di sua esclusiva pertinenza e sussistendo ormai, per il Condominio Consedil Nova, la concreta possibilità di accedere al proprio lotto da altro ingresso. Ed è possibile che la Giunta Municipale, allorché con delibera 1283/2001 decise di assegnare l’area in uso esclusivo al ricorrente, abbia tenuto conto proprio di considerazioni simili.
2.2. La sussistenza, a favore del ricorrente, di una aspettativa di tal sorta, determinata dalla stessa morfologìa dei luoghi, già di per sé doveva indurre il Comune a completare la procedura di affidamento in uso dell’area stessa prima di dare esecuzione alla ingiunzione di demolizione, e ciò in ossequio ai principi generali che impongono alla Pubblica Amministrazione di mantenere, nel proprio agire, una particolare correttezza e ragionevolezza.
2.3. Ma il medesimo principio è anche sotteso ad una norma di legge: si allude all’art. 32 comma 5 L. 47/85, cui rinvia l’art. 32 d.l. 269/2003, a mente del quale “Per le opere eseguite da terzi su aree di proprietà di enti pubblici territoriali, in assenza di un titolo che abiliti al godimento del suolo, il rilascio della concessione o della autorizzazione in sanatoria è subordinato anche alla disponibilità dell’ente proprietario a concedere onerosamente, alle condizioni previste dalle leggi statali o regionali vigenti, l’uso del suolo su cui insiste la costruzione. La disponibilità all’uso del suolo, anche se gravato da usi civici, viene espressa dagli enti pubblici territoriali proprietari entro il termine di 180 giorni dalla richiesta. La richiesta di disponibilità all’uso del suolo deve essere limitata alla superficie occupata dalle costruzioni oggetto della sanatoria e alle pertinenze strettamente necessarie, con un massimo di tre volte rispetto all’area coperta dal fabbricato…. (omissis)…..L’atto di disponibilità, regolato con convenzione di cessione del diritto di superficie per una durata massima di anni sessanta, è stabilito dall’ente proprietario non oltre sei mesi dal versamento dell’importo come sopra determinato.”
Dalla norma dianzi ricordata emerge evidentissimo che ai fini del rilascio della sanatoria ex d.l. 269/2003 non è, in via assoluta, ostativo il fatto che gli abusi insistano su suolo pubblico: la sanatoria è anzi possibile anche in questi casi se l’ente interessato sia di fatto disponibile a concedere la porzione di suolo interessata in diritto di superficie all’interessato. In tal caso, effettuato il pagamento del valore dell’area, nella misura determinata dalla Agenzia del Demanio, e stipulata la convenzione, può essere rilasciata la concessione in sanatoria.
Ma la norma in esame evidenzia anche come la sanatoria di che trattasi sia perfettamente ammissibile anche laddove la pratica per la concessione in uso del suolo pubblico non risulti essere già istruita al momento della presentazione della istanza di condono: anzi, la norma pare proprio prendere in considerazione l’eventualità in cui l’interessato presenti la richiesta di disponibilità dell’area demaniale dopo aver già presentato l’istanza di condono. E’ comunque evidente che laddove la richiesta di sanatoria riguardi un abuso realizzato su suolo pubblico, la definizione della concessione in uso del suolo medesimo diventa pregiudiziale rispetto alla definizione del procedimento di sanatoria.
Nel caso di specie il ricorrente aveva presentato istanza per ottenere l’uso in via esclusiva dell’area già dal 23/02/1999, ed il Comune, con la delibera di Giunta Municipale n. 1283 del 2001 aveva dimostrato di essere concretamente disponibile a cedere in uso non solo il sedime corrispondente alla superficie concretamente occupata dalle opere abusive, ma l’intera superficie di mq. 478. Con questo precedente, e pur tenendo conto della aleatorietà insita nella rinnovazione della procedura di assegnazione dell’area, il Condominio X. a buon diritto riponeva fiducia nella circostanza che anche la domanda di condono sarebbe stata quantomeno correttamente istruita e che il Comune non avrebbe posto in essere comportamenti in grado di pregiudicarne l’esito.
2.4. Per tali ragioni il Comune non avrebbe dovuto adottare gli atti esecutivi della ingiunzione di demolizione, prima di aver espletato la procedura relativa alla concessione in uso dell’area in contestazione e la conseguente pratica di sanatoria: è invero contrario ad ogni logica nonché all’evidente ratio della normativa sul condono l’applicazione di provvedimenti repressivi e sanzionatori ordinari, che frustrano l’effetto della eventuale successiva sanatoria. Non è un caso che la legge sul condono disponga la sospensione dei procedimenti amministrativi e penali aventi ad oggetto abusi edilizi di cui sia stata richiesta la sanatoria: ma, si deve rimarcare, la normativa in parte qua non fa altro che positivizzare un evidente principio di ragionevolezza ed equità sostanziale.
Non si comprende, pertanto, per quale motivo il Comune nel 2005 abbia deciso di “riesumare” il procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, nonostante la contemporanea pendenza sia del procedimento per la sanatoria degli abusi, sia del procedimento - pregiudiziale rispetto a quello - finalizzato alla concessione in uso del suolo interessato dagli abusi: tanto più che ad un canone di comportamento corretto il Comune si era invece attenuto in passato, posto che, pur dopo aver emesso l’ingiunzione di demolizione, si era astenuto dall’adottare ogni provvedimento consequenziale, giungendo nel 2001 ad assegnare l’uso dell’area in via esclusiva al ricorrente.
L’avviso impugnato del cui esame si tratta, in quanto adottato prima della definizione della istanza di concessione in uso esclusivo della superficie recintata nonché prima della definizione della istanza di sanatoria, deve considerarsi illegittimo per violazione di quei principi di correttezza e ragionevolezza che debbono informare l’agire della Pubblica Amministrazione quale mezzo per assicurare il buon andamento dell’amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost.
2.5. Il Comune non può poi giustificarsi adducendo che i provvedimenti impugnati con il ricorso per motivi aggiunti costituiscano mera esecuzione del giudicato contenuto nella sentenza di Questo Tribunale n. 5842/2002: è ben vero che nella specie vengono in considerazione atti di natura vincolata, ma è altrettanto vero che nel momento in cui essi venivano adottati non sussistevano, per i motivi sopra detti, le condizioni per portare ad esecuzione l’ingiunzione di demolizione: al proposito vale la pena sottolineare che l’obbligo di conformarsi ad un giudicato non equivale affatto ad una licenza per l’Amministrazione di porre in essere la necessaria attività conformativa in violazione di normative o in spregio ai canoni di comportamento cui essa deve attenersi.
2.6. Né, infine, il Comune o la controinteressata possono invocare a proprio favore le sentenze del Consiglio di Stato nn. 2290/06 e 2988/08, con le quali è stata affermata la non sanabilità dell’abuso commesso dal ricorrente: sul punto, infatti, i menzionati pronunciamenti non sono idonei a dar luogo a giudicato.
Non è idonea a dar luogo a giudicato la affermazione, contenuta nella motivazione della sentenza n. 2290/06, secondo la quale “..la contestata recinzione del condominio X. ha inglobato un’area di pacifica prorprietà pubblica, perpetrando quindi una tipologìa di abuso non avente carattere propriamente edilizio e quindi non sussumibile nelle ipotesi cui si applica la richiamata normativa”. Trattasi di affermazione resa nel contesto dell’esame di una eccezione di carattere meramente processuale, con la quale il Condominio X. chiedeva la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. in relazione alla pendenza della istanza di sanatoria: la sanabilità o meno dell’abuso non era in quella sede oggetto del thema decidendum e la relativa affermazione deve essere intesa come un mero obiter dictum, sul quale, come noto, non scende il giudicato.
Allo stesso modo non è idonea a dar luogo a giudicato la affermazione medesima, richiamata nella sentenza n. 2988/08, con la quale il Consiglio di Stato ha respinto l’appello del Condominio X. avverso la sentenza di Questo Tribunale n. 2086/2007, pronunciata in sede di ottemperanza. La ragione per cui neppure l’affermazione contenuta nella sentenza in esame è idonea a far scendere un giudicato in ordine alla non sanabilità degli abusi commessi dal ricorrente, è data da ciò: che secondo l’insegnamento della Suprema Corte regolatrice, il giudicato si forma sulla domanda proposta come identificabile dal petitum e dalla causa petendi e non si estende alla motivazione se non nei limiti in cui essa risolve questioni di fatto pregiudiziali in senso logico (ad es. Cass. 14/03/1995 n. 2645; Cass. 23/12/1999 n. 14477, Cass. 18/10/1997 n. 10196): in particolare non rimane coperta da giudicato la interpretazione della norma (Cass. 23/01/1991 n. 660) né l’accertamento meramente incidentale (arg. Ex art. 34 c.p.c.).
La affermazione del Consiglio di Stato che qui si sta esaminando costituisce, a ben vedere, una mera interpretazione della normativa sul condono, della quale il Supremo Collegio si è servito non per valutare la legittimità o meno di un provvedimento avente ad oggetto l’istanza di sanatoria presentata dal ricorrente, bensì per respingere l’eccezione di illegittimità, in relazione all’obbligo di sospensione di tutti i procedimenti amministrativi e penali aventi ad oggetto abusi oggetto di domanda di condono, degli atti esecutivi dell’ordine di demolizione 29/08/2000. Pertanto essa non è idonea a dar luogo a giudicato sia perché, come detto, essa si estrinseca in una interpretazione della normativa sul condono con la quale viene affrontata, in via meramente incidentale, una questione di ordine giuridico ma non anche una questione di fatto di orgine logico-pregiudiziale; sia perché la questione della sanabilità o meno dell’abuso di che trattasi, in quanto involgente un suolo pubblico, non era stata introdotta nel thema decidendum. Va al proposito ricordato che il giudicato amministrativo va riferito solo agli atti oggetto di impugnativa ed ai vizi in concreto dedotti ( si veda l’articolo di A. Travi “Il giudicato amministrativo”, in Dir. Proc. Amm., 4/2006): non è quindi possibile che l’affermazione che si sta esaminando, contenuta nei citati pronunziamenti del Consiglio di Stato, sia idonea a condizionare le valutazioni che il Comune dovrà compiere in sede di decisione sulla istanza di sanatoria presentata dal ricorrente, posto che alcuna decisione su detta istanza è mai stata adottata né portata alla attenzione del Giudice Amministrativo.
A tutto voler concedere, quindi, la sentenza n. 2988/08 del Consiglio di Stato può far stato solo in ordine alla insussistenza di una illegittimità degli atti impugnati per violazione dell’art. 44 L. 47/85. Certamente essa non fa stato sulla affermata – ma non condivisibile – non sanabilità dell’abuso di che trattasi, né preclude una declaratoria di illegittimità degli atti impugnati per violazione dei principi generali di correttezza e ragionevolezza che devono assistere la azione amministrativa.
2.7. Il secondo dei ricorsi per motivi aggiunti può conclusivamente essere accolto per le ragioni sopra esposte, con assorbimento di ogni ulteriore censura.
3. Devono invece essere dichiarati improcedibili i primi due ricorsi per sopravvenuto difetto di interesse.
3.1. Va dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo, mediante il quale si impugna il verbale di accertamento di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione n. 134 del 11/06/2003: trattasi infatti di atto avente natura meramente accertativa, privo di autonoma lesività e pertanto allo stato insuscettibile di creare pregiudizio al ricorrente, tenuto conto del fatto che, in conseguenza delle statuizioni che precedono, il Comune non potrà riadottare gli atti necessari a portare in esecuzione l’ingiunzione di demolizione 29/08/2000 se non dopo aver esperito la procedura necessaria ad assegnare il suolo conteso ad un delle due Cooperative ed essersi eventualmente pronunciato in senso negativo sulla istanza di condono ex d.l. 269/2003 presentata dal condominio ricorrente.
3.2. Per le medesime ragioni il Collegio ravvisa sopravvenuto difetto di interesse anche relativamente all’annullamento degli atti impugnati con il primo dei ricorsi per motivi aggiunti: il Comune, si ribadisce, non potrà adottare alcun ulteriore atto di esecuzione sintantoché il Comune non abbia espletato la procedura di assegnazione del suolo e quella relativa alla sanatoria delle opere abusive, a meno, evidentemente, di non voler incorrere nella illegittimità censurata con il secondo dei ricorsi per motivi aggiunti.
3.3. Tenuto conto di quanto sopra è possibile prescindere dall’esame dei motivi articolati a mezzo del ricorso introduttivo e del primo ricorso per motivi aggiunti.
4. Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio, in relazione agli equivoci che può aver ingenerato l’interpretazione delle sentenze rese inter partes dal Consiglio di Stato.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia-Bari, sezione III, definitivamente pronunciando sui ricorsi in epigrafe:
dichiara improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse il ricorso introduttivo del giudizio nonché il ricorso per motivi aggiunti, depositato il 23/09/2005;
accoglie il ricorso per motivi aggiunti depositato il 25/10/2007 e per l’effetto annulla la nota dirigenziale del Comune di Bari, Ripartizione Edilizia Pubblica prot. 264542 del 04/10/2007, recante comunicazione di inizio lavori di demolizione delle opere abusive e ripristino dello stato dei luoghi.
Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità.

lunedì 4 maggio 2009

focus: I rapporti tra negozi a titolo gratuito e liberalità


Approfondimento

Il rapporto fra negozi a titolo gratuito e liberalità.
Caratteri, struttura e requisiti della donazione

La donazione in senso stretto: definizione
Ai sensi dell’art. 769 la donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio (art. 771), o assumendo verso la stessa un’obbligazione.
I requisiti della donazioneAlla luce di tale definizione codicistica è possibile affermare che due sono gli elementi qualificatori della figura in esame: lo spirito di liberalità e l’arricchimento del donatario.
L’animus donandi: la differenza fra volontarietà e spontaneità
Il primo parametro (detto anche animus donandi) presenta carattere soggettivo, concretandosi nell’intenzione del donante di attribuire al donatario un’attività patrimoniale non dovuta, con la consapevolezza di tale indebenza e, dunque, in modo volontario (1).Non sarebbe sufficiente, allora, per integrare tale requisito, la presenza di un’intenzione di arricchire senza corrispettivo.È necessario, invece, che il soggetto abbia la volontà di attribuire un quid senza esservi tenuto e con la consapevolezza di tale stato di non coercizione.La “volontarietà”, che contraddistingue l’atto donativo, non deve, inoltre, essere confusa con la “spontaneità”, cui il legislatore fa espresso riferimento in tema di adempimento delle obbligazioni naturali (art. 2034).Quest’ultimo concetto, difatti, descrive semplicemente la necessità che l’atto adempitivo non sia frutto d’una costrizione esogena, essendo, invece, irrilevante la credenza che l’obbligato abbia di essere tenuto, “secondo diritto”, a soddisfare il creditore.Viceversa, come detto, la “volontarietà” descrive lo stato di piena contezza del donante circa l’assenza di qualsivoglia vincolo, non solo giuridico ma anche morale o sociale, al compimento dell’attribuzione patrimoniale:
Giurisprudenza
Il negozio di liberalità – che costituisce una categoria generale nella quale rientrano varie figure negoziali, tra cui la donazione, che è tipizzata distintamente dal legislatore perché sottoposta ad una particolare disciplina – è quello con il quale un soggetto, consapevole di non esservi tenuto in virtù di un vincolo giuridico o di un vincolo extragiuridico rilevante per la legge, opera liberamente e spontaneamente un’attribuzione patrimoniale gratuita a favore di un altro soggetto allo scopo di arricchirlo. Conseguentemente, la causa di tale negozio è costituita dall’effettuazione di una attribuzione patrimoniale gratuita, che comporti un arricchimento del destinatario, qualificata soggettivamente dalla consapevolezza, nell’autore di essa, che la medesima è operata in assenza di un qualsiasi dovere, giuridico oppure soltanto morale o sociale, e, perciò, in definitiva, per quello spirito di liberalità, che è legislativamente riferito al contratto di donazione (art. 769 c.c.) (Cass. 3 giugno 1980, n. 3621, rv. 407474).
L’ondivaga nozione di arricchimento: l’accezione economica e quella giuridica
Il secondo elemento ha, viceversa, un consistenza oggettiva, sostanziandosi nel meccanismo di mutamento diretto delle poste patrimoniali pertinenti alle sfere giuridiche dei contraenti.Perché si versi in materia di donazione, allora, sarà necessario che il contratto attributivo sia costruito in modo tale da comportare un depauperamento del patrimonio del donante cui corrisponda un diretto ed equivalente arricchimento di quello del donatario.Più precisamente è necessario che gli elementi patrimoniali, di cui il donante risulta impoverito, confluiscano nella sfera del donatario, incrementandone la consistenza patrimoniale.Come è desumibile dall’art. 769, tale effetto attributivo può consistere sia nel trasferimento/costituzione di un diritto reale o nel trasferimento di diritto di credito (c.d. donazione a effetti reali), sia nella costituzione di un diritto di credito a carico del donante e favore del donatario (c.d. donazione ad effetti obbligatori):
Giurisprudenza
Per aversi donazione non basta l’elemento soggettivo o spirito di liberalità, consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, ma occorre anche l’elemento oggettivo costituito dall’incremento del patrimonio altrui (l’arricchimento del donatario) ed il depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto l’obbligo (l’impoverimento del donante), mentre non assumono rilievo i motivi interni psicologici che inducono a compiere la donazione (Cass. 26 maggio 2000, n. 6994 rv. 536971 - conforme Cass. 28 agosto 2008, n. 2178, rv. 604650).
In realtà la rappresentazione di tale elemento costituisce oggetto di un’annosa diatriba dottrinaria, che tuttora non ha trovato sicuro esito.Una prima tesi, infatti, (detta dell’arricchimento in senso economico) assevera che di donazione (e più in generale di liberalità) si possa parlare solo quando la donazione importi un plusvalore patrimoniale nella sfera del donatario. Ne discenderebbe che non donazione, ma negozio a titolo gratuito sarebbe quello ove il vantaggio patrimoniale non vi sia (come nel caso in cui esso sia totalmente assorbito dall’imposizione di un modus) o via sia addirittura una riduzione dello spessore economico del patrimonio del donatario (come nel caso di donazione d’eredità dannosa).Altra parte della dottrina (2) (tesi dell’arricchimento in senso giuridico), viceversa, sostiene che l’arricchimento ex art. 769 debba intendersi come semplice addizione di un nuovo diritto alla sfera giuridica del donatario, ancorché esso non determini incrementi economici. Tale impostazione muove, infatti, dallo stesso testo dell’art. 769, norma che pare chiarire il concetto di arricchimento proprio indicandone le due modalità alternative di realizzazione: disponendo di un diritto o assumendo un obbligo verso il donatario. Ne discende che l’incremento economico è effetto normale, ma non necessario, della donazione.
I problematici rapporti fra i negozi a titolo gratuito ed i negozi liberali:Dubbi sono i rapporti intercorrenti fra i negozi a titolo gratuito e quelli liberali.
Tale ultima figura rappresenta un genus compendiantesi nelle categorie della liberalità donativa (art. 769) e non donativa (fondamentalmente composta dalle donazioni indirette e dalle liberalità d’uso).Di tale genus la donazione ex art. 769 costituisce certamente paradigma, dacché potremo limitarci ad analizzare i profili ad essa pertinenti, rinviando ad un momento successivo per l’esame delle liberalità non donative.
a) La teoria del rapporto di genus ad speciem e la soluzione “oggettiva”Una parte della dottrina ritiene che fra gratuità e liberalità intercorra un rapporto di genus ad speciem. Non ogni atto gratuito (ad es: comodato) sarebbe liberale, ma certamente ogni liberalità sarebbe a titolo gratuito. Peculiarità della gratuità sarebbe data, infatti, dalla presenza di un’attribuzione senza corrispettivo, caratteristica certamente presente nelle donazioni.Tuttavia queste ultime presenterebbero un elemento ultroneo, non riscontrabile in ogni atto gratuito ma solo, appunto, in quelli qualificabili come liberali: il depauperamento di un contraente per l’arricchimento dell’altro.Nei generici negozi a titolo gratuito, infatti, il vantaggio conferito consisterebbe nella semplice “non richiesta” di una contropartita per il beneficio procurato (es: godimento di un bene nel comodato, disponibilità di beni fungibili nel mutuo senza interessi, ecc.).I negozi gratuiti generici, allora, darebbero luogo ad uno svantaggio e ad un vantaggio patrimoniale qualitativamente diversi da quelli tipici della donazione.Lo svantaggio, difatti, si compendierebbe in una semplice omissio adquirendi e non in un depauperamento patrimoniale strictu sensu.Il vantaggio patrimoniale, parimenti, si sostanzierebbe in una “mancata spesa”, correlata a quel beneficio, e non in un incremento del patrimonio (3).
b) la teoria dell’alterità e la soluzione soggettiva Altra parte della dottrina, viceversa, sostiene che il distinguo fra le due categorie debba essere letto non in senso di specialità ma d’eterogenesi (4).Mentre, infatti, i negozi gratuiti sarebbero peculiarizzati dalla destinazione a realizzare un interesse patrimoniale del contraente, le liberalità sarebbero caratterizzate dalla presenza di un interesse non patrimoniale, causa giuridica dell’atto donativo.Il discrimen fra le due categorie negoziali sarebbe, allora, ontologico e non semplicemente dato da un elemento specializzante (tesi dell’inconfigurabilità di un rapporto di genus ad speciem).

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria del rapporto di genus ad speciem
La problematica, com’è evidente, è strettamente correlata alla soluzione della questione inerente la sussunzione della causa del contratto di donazione, paradigma causale degli atti liberali.Secondo i fautori della prima corrente esposta (teoria del rapporto di genus ad speciem), infatti, la causa della donazione dovrebbe rintracciarsi esattamente nell’elemento oggettivo (depauperamento/arricchimento) (5). Tale arricchimento, poi, dovrebbe essere letto, secondo tale tesi, in senso giuridico e non economico, nel senso surriferito. Sotto il profilo causale, allora, la donazione ed i negozi gratuiti sarebbero davvero parzialmente sovrapponibili. Anche in questa prima, infatti, come negli ultimi, il proprium causale sarebbe rintracciabile in un vantaggio patrimoniale non corrisposto, correlato ad un certo svantaggio d’identica natura. L’unica differenza sarebbe identificabile nel “tipo” di vantaggio/svantaggio cui il negozio darebbe luogo. Nei generici atti a titolo gratuito, infatti, le poste patrimoniali del contraente che conferisce il vantaggio e quella del beneficiario che lo percepisce resterebbero immutate. L’una, infatti, non patirebbe alcuna decurtazione, l’altra, ovviamente, non subirebbe alcun aumento.Lo svantaggio, come detto, si concreterebbe in una mera omissio adquirendi, cioè nel non pretendere alcunché per il vantaggio reso. Il vantaggio, come accennato, s’atteggerebbe non nella percezione d’alcunché, ma in una mancata spesa.Nella donazione, viceversa, lo svantaggio si concreterebbe in una contrazione patrimoniale, che convoglierebbe nella sfera del beneficiario, determinandone un incremento. La distinzione causale fra negozi genericamente gratuiti e donativi sarebbe riferibile, allora, solo alla sostanza del sacrificio/beneficio delle parti, pur presente in ambedue.Tale impostazione, a ben vedere, incide anche sulla questione relativa all’oggetto della donazione.Affermare, infatti, che il distinguo fra donazione e atti gratuiti riposa unicamente nel carattere addittivo/decurtativo, vuol dire dover identificare dei negozi attributivi (cioè non di mero accertamento) non aventi tale qualità, onde riconoscergli il nomen atti gratuiti, pena l’abrogatio ermeneutica dell’intera categoria.In altri termini la tesi del distinguo oggettivo e della specialità impone di identificare un vantaggio patrimoniale, attribuito per contratto, che non incrementi la sfera del percipiente e non impoverisca quella del conferente (perciò proprio di un negozio gtatuito non liberale).La corrente in esame (6), allora, ritiene di poter risolvere il problema asseverando la manchevolezza di tale qualità presso i negozi (non sinallagmatici) aventi ad oggetto l’obbligo d’un facere (o di un non facere), quali il comodato, il mutuo non feneratizio, ecc.L’assunzione di un tale obbligo infatti, si dice, non decurterebbe il patrimonio di chi si impegna, come non arricchirebbe quello di chi ne beneficia.Ne avremo che ogni negozio (non corrispettivo o solutorio), non importa se tipico o meno, che abbia ad oggetto l’assunzione d’un obbligo di tal fatta, sarà catalogabile come atto a titolo gratuito.Ne discenderà che la donazione ad effetti obbligatori non potrà mai avere ad oggetto un facere (o un non facere), ma solo un dare, qualificandosi altrimenti come negozio a titolo gratuito. Secondo questa tesi, dunque, l’assunzione di un obbligo di fare (o non fare), non impoverisce il patrimonio del conferente come non arricchisce quella del percipiente.Questa soluzione, tuttavia, non convince.Non pare dubbio, infatti, che l’assunzione di un obbligo di fare, non diversamente da quella d’un obbligo di dare, importa una decurtazione patrimoniale di chi si impegna (per aumento delle poste patrimoniali passive) e un arricchimento per chi riceve l’impegno (per aumento delle poste patrimoniali attive) (7). Non a caso l’art. 769, nel prevedere che la donazione può avere ad oggetto anche l’assunzione di un obbligo, non distingue tra obblighi di dare e di fare. Pare, allora, scorretta la ripartizione fra negozi gratuiti e donazioni in ragione del rapporto di specialità nel profilo oggettivo, avendo ambedue le figure carattere incrementativo/decurtativo, estensibile ad ogni forma di attribuzione, reale o obbligatoria.Parimenti scorretta ci pare, di conseguenza, l’individuazione della causa della donazione nel momento oggettivo e la riduzione della donazione obbligatoria alla specie delle liberalità di dare.

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria dell’alterità
Meglio articolata pare, invece, la prospettazione formulata dai fautori della tesi avversa (del rapporto di non specificazione fra gratuità e liberalità) che, in punto di causa, sottolinea l’importanza dell’elemento soggettivo.Tale corrente ritiene che ciò che qualifica la donazione sotto il profilo causale (e in tal senso la distingue dai negozi gratuiti) sia proprio l’elemento soggettivo.Tale elemento, tuttavia, non deve essere apprezzato (a tal fine) nella sua accezione negativa (cioè come spirito di liberalità o animus donandi), essendo questi i profili che non concorrono a descriverne la finalità concreta.Esso, invece, deve essere inteso in chiave positiva, ovvero come motivo che spinge il soggetto ad attribuire un bene ad un altro soggetto.Tale motivo assume le vesti d’un “interesse non patrimoniale”, che viene soddisfatto per tramite dell’attribuzione e che della stessa è causa (8).Lo spirito di liberalità, allora, (inteso come consapevolezza della non debenza dell’attribuzione) non è rilevante in sé (descrivendo un profilo non qualificante in termini causali) se non legato ad un elemento peculiarizzante di natura positiva.Tale elemento, allora, è dato dall’interesse non patrimoniale (morale, religioso, ecc.) che il donante, tramite l’operazione negoziale, mira a soddisfare.Il distinguo ripetto ai negozi gratuiti, allora, sarebbe rinvenibile non nel carattere attributivo/decurtativo, presente in ambedue, ma nell’interesse sottostante (e dunque nella causa), avente carattere non patrimoniale nella donazione e patrimoniale negli atti gratuiti.Ne discenderebbe l’assoluta eterogeneità (ovvero la non specialità) delle due figure. Secondo tale tesi, allora, non risiedendo la distinzione fra negozi gratuiti e donazioni nel requisito oggettivo (incremento/decurtazione), essi potranno ben avere identico contenuto (reale o obbligatorio, relativo ad un dare, facere, non facere), con piena ammissibilità delle donazioni di fare.
La donazione come negozio acausale
Vi è poi da aggiungere come, secondo una parte dei fautori della ricostruzione qui sostenuta (9), l’interesse non patrimoniale resti normalmente al di fuori della struttura del contratto donativo, relegato a mero motivo.Ne discende che tale contratto avrebbe normalmente carattere “acausale”.Questo tratto, com’è noto, costituirebbe un’eccezione in un sistema giuridico qual è il nostro, che non ammette attribuzioni non giustificate e, dunque, negozi “sostanzialmente astratti”.Ciò farebbe della donazione un negozio doppiamente “debole”:1) perché avrebbe indole (e non contenuto) non patrimoniale, contravvenendo alla normale natura del contratto (art. 1321);2) perché difetterebbe normalmente di causa.Tale debolezza verrebbe compensata dalla forma forte (atto pubblico con due testimoni) che la legge impone ad substantiam.
________(1) A. TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU e F. MESSINEO, Milano, 1956, pp. 25 e ss. (2) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol. III, parte I, pp. 5 e ss. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 765.(4) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss.; G. BALBI, La donazione, in Trattato di diritto civile, diretto da G. GROSSO e F. SANTORO PASSARELLI, Milano, 1964, pp. 19 e ss. (5) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol.III, parte I, pp. 5 e ss. (6) A. TORRENTE, op. ult. cit., pp. 219 e ss.(7) B. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. VASSALLI, Torino, 1961, pp. 380 e ss. (8) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss. (9) F. GAZZONI, op. et loc. ult. cit.
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Tratto daSUCCESSIONI E DONAZIONI di Francesco Lupia
Maggioli Editore, 2009

focus: I rapporti tra negozi a titolo gratuito e liberalità


Approfondimento

Il rapporto fra negozi a titolo gratuito e liberalità.
Caratteri, struttura e requisiti della donazione

La donazione in senso stretto: definizione
Ai sensi dell’art. 769 la donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio (art. 771), o assumendo verso la stessa un’obbligazione.
I requisiti della donazioneAlla luce di tale definizione codicistica è possibile affermare che due sono gli elementi qualificatori della figura in esame: lo spirito di liberalità e l’arricchimento del donatario.
L’animus donandi: la differenza fra volontarietà e spontaneità
Il primo parametro (detto anche animus donandi) presenta carattere soggettivo, concretandosi nell’intenzione del donante di attribuire al donatario un’attività patrimoniale non dovuta, con la consapevolezza di tale indebenza e, dunque, in modo volontario (1).Non sarebbe sufficiente, allora, per integrare tale requisito, la presenza di un’intenzione di arricchire senza corrispettivo.È necessario, invece, che il soggetto abbia la volontà di attribuire un quid senza esservi tenuto e con la consapevolezza di tale stato di non coercizione.La “volontarietà”, che contraddistingue l’atto donativo, non deve, inoltre, essere confusa con la “spontaneità”, cui il legislatore fa espresso riferimento in tema di adempimento delle obbligazioni naturali (art. 2034).Quest’ultimo concetto, difatti, descrive semplicemente la necessità che l’atto adempitivo non sia frutto d’una costrizione esogena, essendo, invece, irrilevante la credenza che l’obbligato abbia di essere tenuto, “secondo diritto”, a soddisfare il creditore.Viceversa, come detto, la “volontarietà” descrive lo stato di piena contezza del donante circa l’assenza di qualsivoglia vincolo, non solo giuridico ma anche morale o sociale, al compimento dell’attribuzione patrimoniale:
Giurisprudenza
Il negozio di liberalità – che costituisce una categoria generale nella quale rientrano varie figure negoziali, tra cui la donazione, che è tipizzata distintamente dal legislatore perché sottoposta ad una particolare disciplina – è quello con il quale un soggetto, consapevole di non esservi tenuto in virtù di un vincolo giuridico o di un vincolo extragiuridico rilevante per la legge, opera liberamente e spontaneamente un’attribuzione patrimoniale gratuita a favore di un altro soggetto allo scopo di arricchirlo. Conseguentemente, la causa di tale negozio è costituita dall’effettuazione di una attribuzione patrimoniale gratuita, che comporti un arricchimento del destinatario, qualificata soggettivamente dalla consapevolezza, nell’autore di essa, che la medesima è operata in assenza di un qualsiasi dovere, giuridico oppure soltanto morale o sociale, e, perciò, in definitiva, per quello spirito di liberalità, che è legislativamente riferito al contratto di donazione (art. 769 c.c.) (Cass. 3 giugno 1980, n. 3621, rv. 407474).
L’ondivaga nozione di arricchimento: l’accezione economica e quella giuridica
Il secondo elemento ha, viceversa, un consistenza oggettiva, sostanziandosi nel meccanismo di mutamento diretto delle poste patrimoniali pertinenti alle sfere giuridiche dei contraenti.Perché si versi in materia di donazione, allora, sarà necessario che il contratto attributivo sia costruito in modo tale da comportare un depauperamento del patrimonio del donante cui corrisponda un diretto ed equivalente arricchimento di quello del donatario.Più precisamente è necessario che gli elementi patrimoniali, di cui il donante risulta impoverito, confluiscano nella sfera del donatario, incrementandone la consistenza patrimoniale.Come è desumibile dall’art. 769, tale effetto attributivo può consistere sia nel trasferimento/costituzione di un diritto reale o nel trasferimento di diritto di credito (c.d. donazione a effetti reali), sia nella costituzione di un diritto di credito a carico del donante e favore del donatario (c.d. donazione ad effetti obbligatori):
Giurisprudenza
Per aversi donazione non basta l’elemento soggettivo o spirito di liberalità, consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, ma occorre anche l’elemento oggettivo costituito dall’incremento del patrimonio altrui (l’arricchimento del donatario) ed il depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto l’obbligo (l’impoverimento del donante), mentre non assumono rilievo i motivi interni psicologici che inducono a compiere la donazione (Cass. 26 maggio 2000, n. 6994 rv. 536971 - conforme Cass. 28 agosto 2008, n. 2178, rv. 604650).
In realtà la rappresentazione di tale elemento costituisce oggetto di un’annosa diatriba dottrinaria, che tuttora non ha trovato sicuro esito.Una prima tesi, infatti, (detta dell’arricchimento in senso economico) assevera che di donazione (e più in generale di liberalità) si possa parlare solo quando la donazione importi un plusvalore patrimoniale nella sfera del donatario. Ne discenderebbe che non donazione, ma negozio a titolo gratuito sarebbe quello ove il vantaggio patrimoniale non vi sia (come nel caso in cui esso sia totalmente assorbito dall’imposizione di un modus) o via sia addirittura una riduzione dello spessore economico del patrimonio del donatario (come nel caso di donazione d’eredità dannosa).Altra parte della dottrina (2) (tesi dell’arricchimento in senso giuridico), viceversa, sostiene che l’arricchimento ex art. 769 debba intendersi come semplice addizione di un nuovo diritto alla sfera giuridica del donatario, ancorché esso non determini incrementi economici. Tale impostazione muove, infatti, dallo stesso testo dell’art. 769, norma che pare chiarire il concetto di arricchimento proprio indicandone le due modalità alternative di realizzazione: disponendo di un diritto o assumendo un obbligo verso il donatario. Ne discende che l’incremento economico è effetto normale, ma non necessario, della donazione.
I problematici rapporti fra i negozi a titolo gratuito ed i negozi liberali:Dubbi sono i rapporti intercorrenti fra i negozi a titolo gratuito e quelli liberali.
Tale ultima figura rappresenta un genus compendiantesi nelle categorie della liberalità donativa (art. 769) e non donativa (fondamentalmente composta dalle donazioni indirette e dalle liberalità d’uso).Di tale genus la donazione ex art. 769 costituisce certamente paradigma, dacché potremo limitarci ad analizzare i profili ad essa pertinenti, rinviando ad un momento successivo per l’esame delle liberalità non donative.
a) La teoria del rapporto di genus ad speciem e la soluzione “oggettiva”Una parte della dottrina ritiene che fra gratuità e liberalità intercorra un rapporto di genus ad speciem. Non ogni atto gratuito (ad es: comodato) sarebbe liberale, ma certamente ogni liberalità sarebbe a titolo gratuito. Peculiarità della gratuità sarebbe data, infatti, dalla presenza di un’attribuzione senza corrispettivo, caratteristica certamente presente nelle donazioni.Tuttavia queste ultime presenterebbero un elemento ultroneo, non riscontrabile in ogni atto gratuito ma solo, appunto, in quelli qualificabili come liberali: il depauperamento di un contraente per l’arricchimento dell’altro.Nei generici negozi a titolo gratuito, infatti, il vantaggio conferito consisterebbe nella semplice “non richiesta” di una contropartita per il beneficio procurato (es: godimento di un bene nel comodato, disponibilità di beni fungibili nel mutuo senza interessi, ecc.).I negozi gratuiti generici, allora, darebbero luogo ad uno svantaggio e ad un vantaggio patrimoniale qualitativamente diversi da quelli tipici della donazione.Lo svantaggio, difatti, si compendierebbe in una semplice omissio adquirendi e non in un depauperamento patrimoniale strictu sensu.Il vantaggio patrimoniale, parimenti, si sostanzierebbe in una “mancata spesa”, correlata a quel beneficio, e non in un incremento del patrimonio (3).
b) la teoria dell’alterità e la soluzione soggettiva Altra parte della dottrina, viceversa, sostiene che il distinguo fra le due categorie debba essere letto non in senso di specialità ma d’eterogenesi (4).Mentre, infatti, i negozi gratuiti sarebbero peculiarizzati dalla destinazione a realizzare un interesse patrimoniale del contraente, le liberalità sarebbero caratterizzate dalla presenza di un interesse non patrimoniale, causa giuridica dell’atto donativo.Il discrimen fra le due categorie negoziali sarebbe, allora, ontologico e non semplicemente dato da un elemento specializzante (tesi dell’inconfigurabilità di un rapporto di genus ad speciem).

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria del rapporto di genus ad speciem
La problematica, com’è evidente, è strettamente correlata alla soluzione della questione inerente la sussunzione della causa del contratto di donazione, paradigma causale degli atti liberali.Secondo i fautori della prima corrente esposta (teoria del rapporto di genus ad speciem), infatti, la causa della donazione dovrebbe rintracciarsi esattamente nell’elemento oggettivo (depauperamento/arricchimento) (5). Tale arricchimento, poi, dovrebbe essere letto, secondo tale tesi, in senso giuridico e non economico, nel senso surriferito. Sotto il profilo causale, allora, la donazione ed i negozi gratuiti sarebbero davvero parzialmente sovrapponibili. Anche in questa prima, infatti, come negli ultimi, il proprium causale sarebbe rintracciabile in un vantaggio patrimoniale non corrisposto, correlato ad un certo svantaggio d’identica natura. L’unica differenza sarebbe identificabile nel “tipo” di vantaggio/svantaggio cui il negozio darebbe luogo. Nei generici atti a titolo gratuito, infatti, le poste patrimoniali del contraente che conferisce il vantaggio e quella del beneficiario che lo percepisce resterebbero immutate. L’una, infatti, non patirebbe alcuna decurtazione, l’altra, ovviamente, non subirebbe alcun aumento.Lo svantaggio, come detto, si concreterebbe in una mera omissio adquirendi, cioè nel non pretendere alcunché per il vantaggio reso. Il vantaggio, come accennato, s’atteggerebbe non nella percezione d’alcunché, ma in una mancata spesa.Nella donazione, viceversa, lo svantaggio si concreterebbe in una contrazione patrimoniale, che convoglierebbe nella sfera del beneficiario, determinandone un incremento. La distinzione causale fra negozi genericamente gratuiti e donativi sarebbe riferibile, allora, solo alla sostanza del sacrificio/beneficio delle parti, pur presente in ambedue.Tale impostazione, a ben vedere, incide anche sulla questione relativa all’oggetto della donazione.Affermare, infatti, che il distinguo fra donazione e atti gratuiti riposa unicamente nel carattere addittivo/decurtativo, vuol dire dover identificare dei negozi attributivi (cioè non di mero accertamento) non aventi tale qualità, onde riconoscergli il nomen atti gratuiti, pena l’abrogatio ermeneutica dell’intera categoria.In altri termini la tesi del distinguo oggettivo e della specialità impone di identificare un vantaggio patrimoniale, attribuito per contratto, che non incrementi la sfera del percipiente e non impoverisca quella del conferente (perciò proprio di un negozio gtatuito non liberale).La corrente in esame (6), allora, ritiene di poter risolvere il problema asseverando la manchevolezza di tale qualità presso i negozi (non sinallagmatici) aventi ad oggetto l’obbligo d’un facere (o di un non facere), quali il comodato, il mutuo non feneratizio, ecc.L’assunzione di un tale obbligo infatti, si dice, non decurterebbe il patrimonio di chi si impegna, come non arricchirebbe quello di chi ne beneficia.Ne avremo che ogni negozio (non corrispettivo o solutorio), non importa se tipico o meno, che abbia ad oggetto l’assunzione d’un obbligo di tal fatta, sarà catalogabile come atto a titolo gratuito.Ne discenderà che la donazione ad effetti obbligatori non potrà mai avere ad oggetto un facere (o un non facere), ma solo un dare, qualificandosi altrimenti come negozio a titolo gratuito. Secondo questa tesi, dunque, l’assunzione di un obbligo di fare (o non fare), non impoverisce il patrimonio del conferente come non arricchisce quella del percipiente.Questa soluzione, tuttavia, non convince.Non pare dubbio, infatti, che l’assunzione di un obbligo di fare, non diversamente da quella d’un obbligo di dare, importa una decurtazione patrimoniale di chi si impegna (per aumento delle poste patrimoniali passive) e un arricchimento per chi riceve l’impegno (per aumento delle poste patrimoniali attive) (7). Non a caso l’art. 769, nel prevedere che la donazione può avere ad oggetto anche l’assunzione di un obbligo, non distingue tra obblighi di dare e di fare. Pare, allora, scorretta la ripartizione fra negozi gratuiti e donazioni in ragione del rapporto di specialità nel profilo oggettivo, avendo ambedue le figure carattere incrementativo/decurtativo, estensibile ad ogni forma di attribuzione, reale o obbligatoria.Parimenti scorretta ci pare, di conseguenza, l’individuazione della causa della donazione nel momento oggettivo e la riduzione della donazione obbligatoria alla specie delle liberalità di dare.

Causa ed oggetto della donazione alla luce della teoria dell’alterità
Meglio articolata pare, invece, la prospettazione formulata dai fautori della tesi avversa (del rapporto di non specificazione fra gratuità e liberalità) che, in punto di causa, sottolinea l’importanza dell’elemento soggettivo.Tale corrente ritiene che ciò che qualifica la donazione sotto il profilo causale (e in tal senso la distingue dai negozi gratuiti) sia proprio l’elemento soggettivo.Tale elemento, tuttavia, non deve essere apprezzato (a tal fine) nella sua accezione negativa (cioè come spirito di liberalità o animus donandi), essendo questi i profili che non concorrono a descriverne la finalità concreta.Esso, invece, deve essere inteso in chiave positiva, ovvero come motivo che spinge il soggetto ad attribuire un bene ad un altro soggetto.Tale motivo assume le vesti d’un “interesse non patrimoniale”, che viene soddisfatto per tramite dell’attribuzione e che della stessa è causa (8).Lo spirito di liberalità, allora, (inteso come consapevolezza della non debenza dell’attribuzione) non è rilevante in sé (descrivendo un profilo non qualificante in termini causali) se non legato ad un elemento peculiarizzante di natura positiva.Tale elemento, allora, è dato dall’interesse non patrimoniale (morale, religioso, ecc.) che il donante, tramite l’operazione negoziale, mira a soddisfare.Il distinguo ripetto ai negozi gratuiti, allora, sarebbe rinvenibile non nel carattere attributivo/decurtativo, presente in ambedue, ma nell’interesse sottostante (e dunque nella causa), avente carattere non patrimoniale nella donazione e patrimoniale negli atti gratuiti.Ne discenderebbe l’assoluta eterogeneità (ovvero la non specialità) delle due figure. Secondo tale tesi, allora, non risiedendo la distinzione fra negozi gratuiti e donazioni nel requisito oggettivo (incremento/decurtazione), essi potranno ben avere identico contenuto (reale o obbligatorio, relativo ad un dare, facere, non facere), con piena ammissibilità delle donazioni di fare.
La donazione come negozio acausale
Vi è poi da aggiungere come, secondo una parte dei fautori della ricostruzione qui sostenuta (9), l’interesse non patrimoniale resti normalmente al di fuori della struttura del contratto donativo, relegato a mero motivo.Ne discende che tale contratto avrebbe normalmente carattere “acausale”.Questo tratto, com’è noto, costituirebbe un’eccezione in un sistema giuridico qual è il nostro, che non ammette attribuzioni non giustificate e, dunque, negozi “sostanzialmente astratti”.Ciò farebbe della donazione un negozio doppiamente “debole”:1) perché avrebbe indole (e non contenuto) non patrimoniale, contravvenendo alla normale natura del contratto (art. 1321);2) perché difetterebbe normalmente di causa.Tale debolezza verrebbe compensata dalla forma forte (atto pubblico con due testimoni) che la legge impone ad substantiam.
________(1) A. TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU e F. MESSINEO, Milano, 1956, pp. 25 e ss. (2) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol. III, parte I, pp. 5 e ss. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 765.(4) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss.; G. BALBI, La donazione, in Trattato di diritto civile, diretto da G. GROSSO e F. SANTORO PASSARELLI, Milano, 1964, pp. 19 e ss. (5) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, vol.III, parte I, pp. 5 e ss. (6) A. TORRENTE, op. ult. cit., pp. 219 e ss.(7) B. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. VASSALLI, Torino, 1961, pp. 380 e ss. (8) F. GAZZONI, Manuale diritto privato, cit., pp. 532 e ss. (9) F. GAZZONI, op. et loc. ult. cit.
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Tratto daSUCCESSIONI E DONAZIONI di Francesco Lupia
Maggioli Editore, 2009

martedì 28 aprile 2009

Ecco un tema "Caldo" - Professione forense: prospettive di Riforma

RICEVIAMO E GENTILMENTE PUBBLICHIAMO: .....
Degno di rilievo il Paragrafo 7 "Principio di abolizione delle incompatibilità"
Il problema dell’accesso alla professione forense:
necessaria una riforma che non sia nel segno del vecchio modello

di Marco Bona

Sommario:
Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione -
1. Principio della necessità di una selezione -
2. Principio della selezione sin dall’università -
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati -
4. Principio del tirocinio quale selezione finale -
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato -
6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità.

Premessa: nuove proposte di riforma, ma nessuna innovazione
Una rivisitazione delle modalità di accesso alla professione forense è sicuramente necessaria ed auspicabile: la situazione attuale, infatti, rimane inaccettabile, soprattutto per la lotteria costituita dalle prove scritte, ma anche per la semplicissima ragione che i meccanismi di accesso oggi operanti non premiano chi ha dedicato seriamente il suo tempo alla pratica e denota di avere le qualità giuste per divenire avvocato.
Nondimeno, a leggere le varie proposte di riforma pendenti sul tavolo, non mi sembra che si staglino particolari mutamenti strutturali e, per così dire, “culturali”: la direzione di queste proposte è e rimane sempre la stessa, semplicemente con alcune “rifiniture” (in peius per gli aspiranti praticanti).
Tra le proposte più recenti viene in rilievo il
disegno di legge approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 27 febbraio 2009, in seguito apprezzato anche dal Ministro Alfano e dal Parlamento.
Tale disegno, tuttavia, pone dinanzi a scenari tali da non lasciare intravedere, almeno a prima vista, processi di autentica innovazione del sistema di accesso alla professione forense: semmai, l’iter diviene ancora più irto di ostacoli (test d’ingresso, prova di preselezione informatica, ecc.), senza che all’inasprimento ed all’intensificarsi dei filtri selettivi si accompagni la garanzia di un giudizio serio sul merito e che premi le qualità in concreto dimostrate dal praticante nel corso del tirocinio. In realtà, si riconferma piena validità al modello imperniato sull’esame finale; la figura del praticante, inoltre, rimane tale e quale, ad esempio senza che si provveda a stabilire un trattamento economico minimo con onere per gli avvocati di corrispondere per il tirocinante i contributi pensionistici-assicurativi.
In particolare, siffatte ultime proposte di riforma sembrano accusare il medesimo vizio di altri precedenti tentativi: si conferma piena validità al modello attualmente operativo, con l’idea di base che sia sufficiente apportare dei “meri” ritocchi, senza - almeno pare - svolgere a monte una riflessione sulla percorribilità di strade per davvero alternative, tali da considerare, almeno in minima parte, l’esigenza di un accesso alla professione meno cruento di quello attuale.
In altri termini, a mio modesto avviso, ancora una volta si parla di “riforma” e di “innovazioni”, senza che ciò sia stato preceduto da una ricerca/riflessione su eventuali modelli alternativi di formazione/selezione degli aspiranti avvocati tali da permettere la tutela ed il rispetto dei praticanti.
Senza alcuna pretesa di fornire chissà quale verità od efficace soluzione, riporterò qui di seguito alcune considerazioni che mi sembrano essere mancate nei progetti di riforma ultimi.
Le esigenze fondamentali: la tutela dei cittadini e degli aspiranti avvocati
Le esigenze della selezione mi sembrano del tutto chiare (a meno che non si intenda ragionare ancora una volta secondo logiche corporative): da un lato la necessità di garantire al cittadino assistenza legale qualificata e svolta da professionisti preparati; dall’altro lato l’esigenza che siano rispettati i diritti di una cospicua moltitudine di giovani, i quali sono a tutti gli effetti dei lavoratori ed investono notevoli risorse personali ed economiche in vista di una professione.
Il primo obiettivo è evidente quanto alle sue ragioni, ma forse sfugge un dato importante: la tutela dei cittadini non implica automaticamente che si debba optare per rigorose restrizioni del novero degli avvocati, sottoponendo i praticanti a vere e proprie forche caudine. Indiscutibilmente, infatti, la concorrenza, posto che sia controllata quanto al rispetto dei principi deontologici, può offrire non pochi benefici ai cittadini: è dimostrato come essa contribuisca a ridurre i costi d’accesso alla giustizia; è altresì evidente come al contempo, nel lungo periodo, incentivi alla specializzazione.
In altri termini, la realizzazione del primo obiettivo si dovrebbe giocare esclusivamente sul piano della formazione del futuro avvocato, prescindendo cioè dalla logica di un esame aleatorio e che non premia chi ha investito seriamente nel praticantato.
In questo senso la tutela dei cittadini può essere raggiunta facendo sì che sin dall’università e poi successivamente l’aspirante avvocato acquisisca tutti gli strumenti per assistere con professionalità il cittadino. Ciò implica avere cura che il praticante non solo abbia un buon bagaglio teorico (responsabilità primaria del sistema universitario), ma altresì una significativa esperienza pratica (impegno fondamentale degli avvocati).
Il secondo obiettivo è di tutelare i praticanti in modo tale che l’acquisizione delle nozioni e delle esperienze necessarie alla realizzazione del primo fine non sia occasione di sfruttamento economico. I praticanti costituiscono una forza lavoro, già parzialmente qualificata, che non può essere impiegata senza il giusto riconoscimento di un reddito commisurato al lavoro prestato. Non si può permettere che per anni i praticanti siano trattati economicamente senza percepire reddito alcuno oppure con redditi inferiori a quelli di altri giovani avviati al lavoro o di altre forze lavoro presenti negli stessi studi legali (ad esempio, gli impiegati con mansioni di segreteria, che normalmente hanno più protezione e peraltro si trovano a lavorare con un monte orario ridotto rispetto a quello dei praticanti).
Vi è però un altro fondamentale profilo che va debitamente considerato e che i progetti di “riforma” sembrano ampiamente sottovalutare: non si può permettere che l’aspirante avvocato impieghi un arco temporale eccessivamente lungo per accedere definitivamente alla professione. In Italia, al riguardo, vi è stata una vera e propria degenerazione: mediamente, contando i tempi lunghi dell’esame e gli intoppi che si possono incontrare su questa strada (non collegati a giudizi sul merito delle capacità professionali, stando che l’esame scritto, soprattutto, è affidato alla fortuna), i giovani, che riescono a passare l’esame d’avvocato, hanno già intorno ai 28-30 anni, e li attende un futuro economico assolutamente incerto; gli aspiranti avvocati, meno fortunati (ma non necessariamente impreparati), si trovano a tentare l’esame anche dopo avere passato i 30 anni. Ciò che va evitato è che l’accesso definitivo alla professione avvenga troppo tardi, quando ormai diviene arduo pensare a delle alternative. Peraltro, una situazione siffatta finisce con il gravare eccessivamente sulle famiglie.
Tutelare gli aspiranti avvocati significa anche, come ovvio, garantire un accesso imparziale e fondato sul merito, nonché a costo zero o, comunque, ridotto, senza imporre al giovane esposizioni economiche eccessive (ormai la spesa media per ciascun praticante, tra corsi ed acquisto di pubblicazioni, supera abbondantemente € 1.000, peraltro da moltiplicarsi per il numero di volte in cui l’aspirante avvocato si trova a dover ridare l’esame e tenendo conto che spesso, nei mesi impiegati nella preparazione dell’esame, il medesimo non è “retribuito” dallo studio legale).
Infine, non si può continuare ad insistere su un sistema di selezione “ad imbuto”, in cui tutti gli investimenti e sforzi fatti dall’aspirante avvocato (ma anche dal suo dominus) vengono a giocarsi in un drammatico esame finale (nelle proposte ultime, peraltro, ripetibile solo per un numero ristretto di volte, con il rischio di una beffa finale davvero ai limiti del disumano).
Ipotesi di principi per un modello innovativo
Tutte queste esigenze (e non sono come ovvio tutte) dovrebbero comportare una rivisitazione dell’attuale esame d’avvocato, che tuttavia non si risolva in una riforma in peius, governata dalle consuete logiche.
Occorre cominciare a pensare a delle vere alternative e, giacché non mi risulta che vi siano stati particolari sforzi nell’ipotizzarle, mi cimenterò qui di seguito, senza nutrire alcuna pretesa di perfezione, a delineare alcuni principi che, a mio modestissimo avviso, dovrebbero essere considerati nella costruzione di un nuovo modello per l’accesso alla professione.
L’intento è soprattutto di dimostrare come sia ben possibile ragionare su prospettive diverse, se ovviamente lo si desidera.
Altri principi e modelli alternativi sono per certo rinvenibili, ma da qualche parte pur occorre iniziare per non restare nell’immobilismo o, peggio ancora, per non trovarsi con “innovazioni” ulteriormente negative.
1. Principio della necessità di una selezione
La selezione, ai fini della realizzazione del primo obiettivo (la tutela del cittadino), è necessaria: in taluni Stati europei (mi risulta solo la Spagna) essa non ha luogo e questo non può essere accettato. L’idea che si diventi avvocati per il semplice fatto di avere frequentato l’università è del tutto errata, in quanto non considera la necessaria formazione pratica degli aspiranti avvocati e l’opportunità che questi apprendano sul campo il know-how fondamentale per una gestione corretta dei clienti (ciò anche dal punto di vista deontologico). Il “se” della selezione non dovrebbe neppure essere posto in discussione.
La selezione è altresì opportuna al fine di garantire un futuro, economicamente sostenibile, ai giovani che decidano di investire nel percorso in questione: serve per capire le difficoltà della professione, se si è portati, se effettivamente è questa la strada.
2. Principio della selezione sin dall’università
Il vero problema è quando e come operare la selezione.
Al riguardo sembra opportuno partire dal comune denominatore europeo che, con alcune eccezioni (si pensi ad una parte dei solicitor inglesi), accomuna la stragrande maggioranza degli Stati membri: la laurea in legge.
E’ da questo momento che comincia generalmente l’odissea di ogni aspirante avvocato. E proprio questo dovrebbe essere il momento per effettuare la prima importante selezione, onde evitare che molti giovani finiscano per avviarsi sul percorso dell’accesso alla professione - lungo e tortuoso -, senza poi, magari dopo numerosi anni, riuscire a raggiungere il risultato.
Una selezione che abbia luogo sin dal principio presenta diversi vantaggi:
evita lo sfruttamento del lavoro di migliaia di laureati;
scongiura scelte di tipo transitorio/residuale, tipiche di giovani non particolarmente motivati dalla prospettiva dell’avvocatura;
fa sì che non si illudano schiere di giovani per anni, creando dei sottopagati, insoddisfatti, trentenni fuori dal mercato del lavoro.
Come attuare questa selezione?
In primo luogo la formazione universitaria deve essere adeguata e selettiva: chi perviene alla laurea deve già possedere una conoscenza approfondita del diritto, ancorché teorica. Peraltro, andrebbe fissato un termine massimo entro cui completare il corso universitario, ciò perlomeno per chi aspira all’accesso alla professione.
In secondo luogo andrebbe ipotizzata una selezione da attuarsi entro un termine massimo di tre mesi dal conseguimento della laurea, con la possibilità di affrontarla per un numero limitato di volte (almeno tre nell’arco di un anno dalla laurea). Si dovrebbe trattare di una selezione imparziale e uguale per tutti, evitando però di limitarla a test “informatici” a crocette o test consimili (così, invece, la proposta del CNF), bensì combinando questo meccanismo comunque con un esame orale, ove l’aspirante candidato possa dimostrare che gli eventuali errori commessi nei test non sono significativi di una sua impreparazione teorica di base o di una carenza di attitudini. Del resto, la professione d’avvocato, nell’era della tecnologia e delle banche dati, non è solo questione di memoria, ma di capacità nella comprensione dei problemi, d’intelligenza, di creatività, di sensibilità. I test a risposte multiple e più in generale i test informatici appiattiscono troppo la qualità delle selezione, non rendono giustizia al profilo attitudinale del candidato.
Questo primo filtro, come logico, andrebbe affidato a commissioni il più possibile neutrali.
Chiaro è che tutto ciò potrà avere luogo solo se vi siano investimenti seri sull’università italiana e un’altrettanta seria selezione dei docenti (il che è in larga misura difettato in questi anni, come dimostrano tante vicende concorsuali che gridano vendetta).
3. Principio della formazione pratica necessaria, Principio del tirocinio adeguato e Principio della responsabilizzazione degli avvocati
Si è già sottolineato come l’esperienza pratica sia necessaria, imprescindibile.
Prima che il giovane possa fregiarsi del titolo di avvocato dovrebbe intercorrere un lasso di tempo tale da permettergli di acquisire le conoscenze pratiche del caso.
Quanto deve lungo questo periodo?
Generalmente occorrono diversi anni per formare un legale che sia in grado di dare professionalità e sicurezza ai clienti, posto che vi sia un insegnamento adeguato e serio da parte dei legali che seguono l’apprendistato del giovane.
Eliminando l’esame finale (come prospettato al punto seguente), si potrebbero ipotizzare tre anni (un anno in più rispetto all’attuale, ma con le garanzie illustrate sotto al punto 5).
Evidentemente, poi, non è tanto il giovane praticante a dover essere controllato sulla regolarità della pratica, bensì l’avvocato che lo segue nell’accesso alla professione. E’ quest’ultimo che deve essere responsabilizzato e che dovrà investire sul giovane di studio. Si dovrebbe quindi pensare a delle relazioni semestrali che l’avvocato presenta all’ordine di appartenenza, con cui dimostra l’impegno profuso nella preparazione del giovane e spiega il programma di apprendimento adottato per quest’ultimo.
Inoltre, al fine di rendere il tirocinio adeguato ad una formazione completa degli aspiranti avvocati dovrebbero essere organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura (è nel loro interesse che vi siano avvocati preparati) dei corsi a carattere prevalentemente pratico con obbligo di frequenza, che però non prevalgano, quanto ad impegno, sulle ore dedicate all’esperienza pratica (si potrebbe ipotizzare un monte orario di 6 ore settimanali). I costi di questi corsi dovrebbero essere sostenuti dall’avvocatura stessa e dagli avvocati che si avvalgono dei praticanti, senza che sia richiesto a questi ultimi di contribuire.
4. Principio del tirocinio quale selezione finale
La pratica dovrebbe inoltre contribuire alla selezione finale, senza che vi siano al suo termine defatiganti esami sganciati dall’impegno profuso negli anni di tirocinio. Sarebbe, infatti, sbagliato che l’accesso alla professione sia rinviato, come accade ora e come si prevede nei progetti di riforma ultimi, ad un esame finale in cui il praticante si gioca davvero tutto: l’accesso all’avvocatura dovrebbe reggersi sulla serietà con cui il praticante ha svolto il tirocinio.
Si potrebbe allora pensare ad un meccanismo a punti, ove il praticante che affronti con dedizione, profitto e merito la pratica si troverà gradualmente ad inserirsi nella professione, senza drammi e, soprattutto, devastanti sorprese finali (che interverrebbero peraltro in un’età già avanzata, quando ormai è più difficile pensare ad altre vie).
In base a questo meccanismo il praticante, per il conseguimento del titolo, dovrà raggiungere alla fine dei tre anni di tirocinio un punteggio minimo.
In particolare, si potrebbe prevedere l’assegnazione dei punti: 1) in seno ai corsi obbligatori organizzati dagli organi rappresentativi dell’avvocatura, ove si dovranno evidentemente effettuare esami finali di verifica dell’apprendimento (tra i corsi si dovrebbe altresì preventivare un corso in lingua inglese, giacché non può accettarsi oggi che un avvocato non possegga i fondamenti almeno di questa lingua); 2) in relazione all’attività svolta presso lo studio (si potrebbe pensare all’assegnazione di una parte dei punti da parte dell’avvocato presso cui si svolge il tirocinio); 3) in relazione a particolari attività particolarmente meritorie (ad esempio, la redazione di scritti per riviste giuridiche; oppure la partecipazione ad attività organizzate dalle corti o dagli stessi organi rappresentativi, come, ad esempio, la massimazione delle sentenze di tribunale e di corte d’appello).
Questo meccanismo, unitamente a quanto previsto al punto 3, dovrebbe risolvere il problema del tirocinio fittizio, fenomeno del tutto deprecabile e che purtroppo vede partecipi gli stessi avvocati.
5. Principio del tirocinio retribuito e regolamentato
Il tirocinio è autentico rapporto di lavoro, ancorché con tutta una serie di particolarità: esso non è un rapporto di lavoro subordinato; è funzionale all’accesso ad una libera professione; inoltre, da parte del professionista vi è (o, perlomeno, dovrebbe esserci) un impegno formativo notevole, che un andrà a tutto vantaggio del praticante, quando diverrà avvocato.
Diciamo subito che le ore spese a servizio dello studio legale vanno considerate come vere e proprie ore di lavoro. Più il praticante progredisce, più queste ore dovrebbero essere adeguatamente retribuite. Dopo il primo anno di pratica, comunque retribuito (diversamente dall’indicazione di cui alla proposta del CNF), il livello del trattamento economico dovrebbe divenire pari a quello di un impiegato addetto a mansioni di segreteria (ovviamente, però, il praticante svolgerà mansioni diverse, cioè connesse al suo apprendimento).
Accanto alla retribuzione andrebbe prevista una tutela minima sia pensionistica e sia assicurativa.
Inoltre, il rapporto di lavoro dovrebbe essere formalizzato per iscritto, ciò per regolare diritti e doveri reciproci, non solo nella prospettiva del tirocinio, ma anche di quella subito successiva, onde evitare che il giovane, una volta divenuto avvocato, sia poi scaricato dall’avvocato presso cui ha svolto la pratica.
Siffatto contratto dovrebbe responsabilizzare il praticante, che a questo punto saprà esattamente quali sono le conseguenze di un suo eventuale scarso impegno. Al contempo, dovrebbe limitare il potere del legale sul tirocinante, impedendogli di abusare della sua posizione e imponendogli il rispetto di determinati limiti (anche in relazione agli orari, al tipo di mansioni e di impieghi, alle ferie, ecc.).
Il contratto, in definitiva, renderebbe certi diritti e doveri, nonché, prevedendo l’intervento dell’organo rappresentativo dell’avvocatura per eventuali controversie, dovrebbe favorire un maggior controllo esterno sul rapporto tra tirocinante e avvocato, laddove accusi dei problemi.
Così ragionando, è altresì evidente, anche per ragioni di uniformità a livello nazionale, la necessità che il CNF provveda a definire un contratto standard o collettivo, che contenga dei minimi di trattamento sotto i quali non si possa scendere.
Si noti poi - ma questo è un punto fondamentale - che l’obbligo di garantire un trattamento economico così regolato dovrebbe fare sì che i giovani accedano ad un mercato del lavoro che economicamente li possa poi supportare: evidentemente, infatti, un modello siffatto indurrebbe gli studi legali ad avviare rapporti di tirocinio solo nella misura in cui ciò sia reso loro possibile dall’andamento dei propri affari. In altri termini, l’accesso alla professione dovrebbe così risultare strettamente commisurato alle risorse economiche effettive della professione forense, senza che dalla gratuità del tirocinio i giovani, divenuti avvocati, si trovino inesorabilmente a passare a stati molto vicini alla povertà.
Tutto ciò, infine, dovrebbe pure scongiurare che la concorrenza tra studi legali sia falsata dalla particolare predisposizione di taluni studi allo sfruttamento dei giovani praticanti.

6. Principio della rappresentanza degli aspiranti avvocati
E’ opportuno che i praticanti, quali autentica classe di lavoratori, abbia un organismo che li rappresenti ufficialmente in seno agli organi rappresentativi dell’avvocatura, in tutta evidenza perché siano adeguatamente considerati i propri diritti e vi sia una corretta applicazione dei principi sopra esposti.
7. Principio di abolizione delle incompatibilità
L'inizio della professione forense, è, molto spesso per i giovani avvocati, privo di una cd. clientela propria.
L'avvocato agli esordi, quindi, si trova "costretto" ad espletare la propria attività, appoggiandosi presso uno studio più grande.
Il che vuol dire, in pratica, effettuare per conto di una sola struttura organizzativa (molto spesso un solo studio ove il giovane legale è tenuto a rispettare un preciso orario di ingresso ed uscita e delle specifiche direttive in tema di organizzazione e direzione del lavoro ndr) attività di sostituzione, di redazione atti, deposito memorie ... assolutamente senza un proprio portafoglio clienti e, quindi, esclusivamente alle dipendenze e sotto la direzione.
Se, dunque, ai sensi dell'art. 2094 c.c. la definizione di prestatore di lavoro subordinato corrisponde a quella di colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare prestando il proprio lavoro intellettuale e manuale alle dipendenze e sotto la direzione";
Se, ancora, i caratteri della subordinazione e le conseguenti tutele, rilevano a prescindere dall'inquadramento id diritto ma in virtù della semplice corrispondenza della situazione di fatto concretamente sussistente alla previsione normativa;
Allora ne consegue che i giovani legali privi di una propria clientela che svolgono attività esclusivamente per conto di altri studi legali più grandi, effettuano una prestazione che ha tutti i connotati della subordinazione 8salvo che le tutele giuridiche).
Quid iuris per restituire dignità a questa categoria di lavoratori?
Abrogare l'art. 3, III co. della ormai datata Legge Professionale (che è rimasta ... sic ... ancora quella del '33!) il quale stabilisce l'incompatibilità tra la professione di avvocato e qualunque impiego retribuito.
Tale disposizione, che è stata posta in origine a tutela dell'indipendenza della classe fornse, si è nell'epoca attuale di fatto tramutata in una "legalizzazzione" della mancanza di tutele per quella categoria di "subordinati" (i giovani avvocati che operano negli studi legali di fatto alle dipendenze e sotto la direzione dei titolari - "domini" del contenzioso ed i soli che hanno un proprio portafoglio clienti) che molto spesso prestano opera altamente qualificata e sono retribuiti, dagli avvocati titolari della law firm presso la quale operano, con stipendi al di sotto della fascia di povertà.
Quale indipendenza per i giovani avvocati?
Nessuna.
Non può esservi indipendenza senza le tutele mimime riconosciute ai lavoratori subordinati.
La soluzione?
Abrogare l'art. 3, co III del Regio Decreto legge 1578/33 conv. in legge 36/34.

Decreto flussi: le istruzioni per le domande di nulla osta per il lavoro in somministrazione

Le agenzie per il lavoro possono fare domanda di nulla osta per l’ingresso di lavoratori non comunitari per motivi di lavoro in somministraz...