lunedì 23 febbraio 2009

Impugnativa delibera di assemblea condominiale: motivi


Condominio. Impugnativa di delibera assembleare, vari motivi


sabato 21 febbraio 2009
Tribunale di Nola, sentenza del 7 ottobre 2008

Condominio

IMPUGNATIVA DELIBERA ASSEMBLEARE - VARI MOTIVI
DISTRIBUZIONE SPESE DI LITE – SEPARAZIONE RESPONSABILITA’ – DIRITTO DI RIVALSA – ERRORE ARITMETICO IN SEDE DI REDAZIONE DI TABELLE – REGOLAMENTO DI CONDOMINIO - SPESE DI MANUTENZIONE TERRAZZA/LASTRICO SOLARE - RIPARTIZIONE ONERI CONDOMINIALI – CAMBIO DI DESTINAZIONE DELL’AREA COMUNE
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[Tribunale di Nola, Dr. Alfonso Scermino, sentenza del 7 ottobre 2008]
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Nola - Seconda sezione civile, in persona del giudice unico dr. Alfonso Scermino, ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile iscritta al n. 3561 del Ruolo Generale dell’anno 2005, vertente
TRA
Caiox Axx e Meviax Bxx, rappresentati e difesi dall’ avv.to …, giusta procura a margine della citazione di primo grado, con cui elettivamente domiciliano in … , -attori-
CONTRO
Condominio KKKK in….alla via Cxx Zxx , in personsa dell’amministratore p.t. Exx, rappresentato e difeso, giusta mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta, dall’avv. …, con cui elettivamente domicilia in ; -convenuto-
avente ad oggetto: azione di impugnaizone delibera assembleare
CONCLUSIONI: all’udienza del 27.5.2008 i procuratori concludevano riportandosi integralmente ai propri scritti difensivi e a tutte le deduzioni di udienza e alla documentazione prodotta in giudizio.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ex art. 1137 c.c. depositato il 9.5.2005 Caiox Axx e Meviax Bxx impugnavano tempestivamente la delibera adottata in data 16.3.2005 dal loro condominio KKKK in … alla via … Cxx Zxx.
I ricorrenti svolgevano svariate censure al deliberato.
Si costituiva il condominio , instando per l’integrale rigetto dell’azione.
Negata in corso di causa la domanda di sospensiva dell’efficacia della delibera impugnata, la causa, senza che fosse necessaria alcuna attività istruttoria, era chiamata per le conclusioni al 27.5.2008, ove era trattenuta in decisione ex art. 190 c.p.c. con concessione dei termini di legge alle parti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I)
Assumeva parte istante che la delibera impugnata sarebbe stata illegittima in quanto distribuiva anche in capo ai ricorrenti le spese di lite “per la procedura da instaurare nei confronti del condomini Tiziox”, nonostante che con atto stragiudiziale notificato all’amministratore l’11.12.2004 (versato in atti) i coniugi Caiox/Meviax avessero dichiarato di separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite.
La deduzione è infondata.
E’ noto che , ai sensi dell’art. 1132 c.c., qualora l'assemblea dei condomini abbia deliberato di promuovere una lite o di resistere a una domanda, il condomino dissenziente, con atto notificato all'amministratore, può separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite.
Tuttavia, la norma prevede tale possibilità solo “per il caso di soccombenza”.
Ciò significa che soltanto quando l’azione venga promossa e successivamente il condominio perda la causa il condomino che aveva esercitato la sua facoltà di separazione vanterebbe un “diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa”.
Mentre la norma non prevede affatto che il condomino dissenziente possa , come ivi si pretenderebbe, con un mero suo atto di volontà esonerarsi dal contribuire a pagare:
- delle spese legali occorrenti hic et nunc per la difesa del condominio (caso in esame ), spese che, come è evidente, sono cosa assolutamente diversa rispetto a quelle da rifondere ex post alla controparte vittoriosa (previsione ex art. 1132 c.c.);
- delle spese legali per una causa solo da proporre (caso in esame), il cui importo - ancora una volta – costituisce una voce radicalmente differente rispetto a quella da sostenersi quando la causa si sia già perduta (previsione ex art. 1132 c.c., soccombenza).
Insomma, la contestazione non ha pregio alcuno.
In ordine all’errore aritmetico - contestato nel primo motivo di impugnazione – che avrebbe commesso il condominio in sede di redazione di talune tabelle allegate alla delibera, nulla si pronuncerà, per l’assorbente ragione che esso è stato espressamente riconosciuto dal convenuto in corso di giudizio (com. concl.) , senza incidere più, a questo punto, sulla legittimità della delibera.
2)
Con un secondo motivo di doglianza parte ricorrente assumeva che nella relazione descrittiva del Regolamento di condomino – approvato con la delibera gravata - si leggeva che ”il fabbricato era formato da 3 piani fuori terra della stessa altezza”, mentre ciò non avrebbe corrisposto al vero.
E tale errore avrebbe integrato gli estremi di una violazione di legge, in quanto influiva sulla ripartizione degli oneri condominiali.
Le censura non ha pregio.
Invero, ha ragione il Condominio quando osserva che la relazione contestata aveva un valore puramente descrittivo, onde non poteva essere di per sé pregiudizievole per le ragioni dei singoli condomini.
Mentre, qualora parte ricorrente avesse voluto dedurre una scorretta ripartizione degli oneri condominiali, avrebbe dovuto impugnare non certo una descrizione illustrativa – di per sé neutrale- , ma un preciso atto deliberativo di ripartizione, in uno ai criteri – eventualmente erronei - utilizzati dal condomino.
Nè si poteva certamente assumere, peraltro in modo criptico e generico, che una mera descrizione dell’immobile condominiale “influiva sulla ripartizione degli oneri condominiali”, senza poi spiegare perché, in che modo ed in che termini.
Peraltro, proprio il fatto che i ricorrenti si dolessero che erano in circolazione diverse tabelle non ritualmente approvate dai condomini (memoria art. 184 c.c.), rafforzava la notazione che fosse assolutamente inutile dolersi in questa della scorrettezza di criteri mai deliberati dal condominio (prospettazione dei ricorrenti).
Meglio sarebbe stato, allora, che gli interessati avessero agito – se davvero lo avessero voluto - per una rituale, valida e definitiva determinazione giudiziale di tali tabelle.
Ma tanto non hanno fatto.
3)
I ricorrenti lamentavano che il Regolamento di condomino sarebbe stato illegittimo per il fatto di non aver precisato il valore proporzionale di ciascun piano o di ciascuna porzione di piano spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini: in sostanza, ci si doleva del fatto che la delibera non aveva allegato al Regolamento approvato le tabelle millesimali del fabbricato.
Ed in tal modo – si proseguiva - sarebbe stato violato l’art. 68 disp. att. c.c. , che avrebbe previsto il relativo obbligo.
La deduzione è scorretta in diritto.
Infatti , l’art. 72 Disp .att. cit prevede che “i regolamenti di condominio non possono derogare alle (sole) disposizioni dei precedenti articoli 63, 66, 67 e 69”: dal che è evidente come l’art. 68 cit. asseritamente violato costituisca norma liberamente derogabile dai condomini (cfr, Cassazione civile , sez. II, 19 ottobre 1988, n. 5686) , ai quali, di conseguenza, non era affatto inibito approvarsi un regolamento condominiale senza contestuale deliberazione – ed allegazione - delle tabelle millesimali.
4)
I ricorrenti contestavano ancora il Regolamento in quanto, nella descrizione dei beni condominiali ivi contenuta, non vi era menzione del “vano condominiale in pian terreno, dei vialetti laterali e retrostanti l’edificio, del gabinetto di decenza e della lavanderia”. E tale incompletezza avrebbe nuovamente influito sulla correttezza della determinazione degli oneri condominiali e sul loro riparto.
La censura è infondata per quanto già osservato sub. 2.
Ad abundantiam , valga qui aggiungere che era inconsistente in partenza assumere che la mancata considerazione di beni comuni (secondo quanto allegato degli istanti) avrebbe potuto incidere sulla ripartizione degli oneri condominiali, sol che si consideri che questi ultimi, ai sensi dell’art. 1123 c.c., vengono distribuiti “in misura proporzionale al valore della proprietà esclusiva di ciascuno”, essendo dunque parametrati solo sulla proprietà di ciascun condomino a prescindere da quali siano , perciò, i beni comuni da gestire e conservare .
In ogni caso, si rinvia a sub. 2 della pronuncia.
5)
I ricorrenti, ancora, adducevano che il Regolamento sarebbe stato ulteriormente illegittimo in quanto prevedeva che “le spese per la manutenzione ed eventuali lavori di riparazione delle scale sarebbero state ripartite in base alla Tabella” delle scale (A), mentre tale ultima tabella avrebbe dovuto applicarsi solo per le spese di ordinaria amministrazione , a dispetto di quelle per la straordinaria amministrazione, da distribuirsi secondo la Tabella generale.
Il motivo è infondato .
Ai sensi dell’art. 1124 c.c. “le scale sono mantenute e ricostruite dai proprietari dei diversi piani a cui servono. La spesa relativa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzioni di piano, e per l'altra metà in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo”.
La legge, pertanto, detta un solo criterio normativo per la ripartizione delle spese riguardanti tale bene comune , il quale è chiaramente applicabile sia a quelle ordinarie (“mantenute”) che a quelle straordinarie (“ricostruite”).
Sicchè , se esisteva una Tabella (A) regolante, in applicazione dell’art. 1124 c.c., il concorso degli oneri condominiali relativamente alle scale del fabbricato, questa non poteva (e doveva) che riferirsi ad ogni spesa ad esse relativa: ne conseguiva che non aveva davvero alcun fondamento la pretesa dei ricorrenti di applicare una diversa Tabella (quella “generale”) solo per le spese straordinarie sulle scale.
Peraltro, la diversa ripartizione invocata avrebbe presentato profili di dubbia legittimità, finendo per applicare alle scale criteri di ripartizione confliggenti con quelli dettati dall’art. 1124 c.c. , salvo che fosse intervenuta diversa convenzione unanime tra i condomini (cosa, per la verità, nemmeno allegata dai ricorrenti).
6)
I condomini istanti contestavano , ancora, il fatto che l’art. 8 del Regolamento ponesse le spese di manutenzione della terrazza/lastrico solare anteriore anche a carico dei condomini sottostanti la terrazza- lastrico solare posteriore, e ciò nella misura del 7%.
Si assumeva, allora, che tale criterio di riparto sarebbe stato arbitrario e non giustificato.
Stavolta l’impugnazione era fondata.
In tema di condominio di edifìci, ogni terrazza a livello, anche se di proprietà o di uso esclusivo di un singolo condomino, assolve alla stessa funzione di copertura del lastrico solare posto alla sommità dell'edifìcio nei confronti degli appartamenti sottostanti.
Ne consegue che , anche se appartiene in proprietà o se attribuito in uso esclusivo a uno dei condomini, all'obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario o con il titolare del diritto di uso esclusivo, secondo le proporzioni stabilite dall'art. 1126 c.c., vale a dire i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, e il titolare della proprietà o dell'uso esclusivo, in ragione delle altre utilità, nella misura del terzo residuo (cfr, ex multis, Cassazione civile , sez. III, 13 dicembre 2007, n. 26239).
Ciò posto, va rilevato che la variante all’art. 1126 c.c. inserita dal condominio convenuto – secondo cui alle spese della terrazza anteriore avrebbero dovuto concorrere pure i titolari di una presunta servitù sulla stessa in ragione del 7%, nonostante essi non fossero direttamente serviti dal bene in questione – non aveva alcuna base normativa.
Perciò una tale modifica del regime delle spese avrebbe potuto essere inserita – a prescindere poi dalla specifica correttezza della determinazione del 7% - solo mediante unanime consenso di tutti i condomini .
Ciò in quanto , in tema di condominio degli edifici ed in ordine alla ripartizione delle spese comuni, le attribuzioni dell'assemblea, ai sensi dell'art. 1135 n. 2 cod. civ. sono circoscritte alla verificazione ed applicazione in concreto dei criteri fissati dalla legge e non comprendono il potere di introdurre deroghe innovative ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe , venendo direttamente ad incidere sui diritti individuali del singolo condomino attraverso un mutamento del valore della parte dell'edificio di sua esclusiva proprietà, possono scaturire soltanto da una convenzione a cui egli aderisca.
Pertanto la deliberazione assembleare che ecceda o non faccia fedele applicazione di detti criteri è inefficace nei confronti del condomino dissenziente, per nullità radicale deducibile senza limitazioni di tempo e non meramente annullabile su impugnazione da proporsi entro trenta giorni, ai sensi dell'art. 1137 commi secondo e terzo cod. civ.. (Cass. Civ. Sez. U, Sentenza n. 2928 del 05/05/1980 ; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 12375 del 19/11/1992 ; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 3042 del 15/03/1995; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 7359 del 09/08/1996).
Ne discende che va annullato – per difetto di unanimità - l’art. 8 del Regolamento condominiale approvato con la delibera del 16.3.2005 nel punto in cui recita “le spese di manutenzione della terrazza anteriore saranno anche a carico delle unità immobiliari sottostanti alla terrazza posteriore nella misura del 7% per la servitù di uci alla relazione descrittiva”.
7)
I ricorrenti lamentavano altresì che l’art. 10 del Regolamento disponesse che “le biciclette potranno essere parcheggiate nello spazio esistente nella parte posteriore del palazzo, tra il confine del zzzzzz e la parte posteriore del vano condominiale”.
In particolare , ci si doleva della mancanza della maggioranza imposta dalla legge ex art.1136 comma 5 c.c., essendosi in tal modo deliberato un cambio di destinazione dell’area comune.
La doglianza è nuovamente fondata.
Invero, la Suprema Corte ha avuto già occasione di avvertire, in numerose decisioni, come il regolamento del condominio, qual è contemplato dal primo comma dell'art. 1138 C.C. - tanto se predisposto dal proprietario o costruttore dello stabile (ancorché prima dell'entrata in vigore del Cod. Civ.) e accettato di volta in volta dai successivi acquirenti degli appartamenti venduti, quanto se formato dall'assemblea dei condomini, ove si limiti a dettare norme che disciplinano l'uso e le modalità di godimento delle cose comuni, la ripartizione delle spese relative e la tutela del decoro dell'edificio - contempla una materia che rimane nell'ambito della organizzazione della vita interna del condominio, la quale ben può esser modificata dall'organo cui quel potere di organizzazione è devoluto, vale a dire dall'assemblea dei condomini con la maggioranza prevista dall'art. 1136 C.C..
Se invece il regolamento non si limita soltanto alla disciplina dell'uso delle cose comuni in conformità dei diritti spettanti ai singoli condomini, ma pone delle norme che, incidendo sui singoli diritti, si risolvono in una alterazione, a vantaggio di alcuni dei partecipanti e in pregiudizio degli altri, della misura del godimento che ciascun condomino ha in ragione della propria quota, in tal caso nessuna modificazione, può essere ammessa senza il consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio (cfr. Cass. 27.1.1996, n. 642; 8.1.1966, n. 158).
Tanto acclarato, è stato altresì specificato come la mera indicazione, in un regolamento condominiale, della destinazione a parcheggio (nel caso , di biciclette) di parte del cortile comune non determina una connotazione reale del bene, integrando, di contro, una innovazione volta al miglior regolamento dell'uso del cortile stesso, in modo da consentire ad ogni avente diritto l'uso del parcheggio.
Nondimeno, per la natura e finalità della delibera in esame, sarebbe necessario che la delibera sia approvata a maggioranza qualificata dei condomini (tra le altre, Cassazione civile , sez. II, 29 dicembre 2004, n. 24146; Cassazione civile , sez. II, 08 novembre 2004, n. 21287; Cass. 27 gennaio 1996 n. 642; . Cass. 17.10.1998, n. 10289; 3.9.1993, n. 9311).
Tale quorum (2/3), però, non è stato rispettato nella fattispecie , solo che si vadano a sommare i millesimi (espressi nel verbale della delibera ed unici da potersi prendere a riferimento, in quanto non contestati) di tutti i condomini che approvarono la delibera, con esclusione di quelli del dissenziente Caiox (124,16) nonché dei condomini assenti Sempronio (75,85) e Tiziox (161,46).
Per cui, andrà annullato anche l’art. 10 del Regolamento ove si statuiva “le biciclette potranno essere parcheggiate nello spazio esistente nella parte posteriore del palazzo, tra il confine del zzzzzz e la parte posteriore del vano condominiale”.
8)
I ricorrenti deducevano pure l’illegittimità dell’art. 12 lett. b) del Regolamento in quanto era ivi previsto che sarebbe stato “posto un paletto fisso all’inizio dell’androne di ingresso”, al fine di impedire ai condomini l’uso del cortile, financo e per le operazioni di carico e scarico delle proprie vetture o per motivi sanitari.
La censura è fondata.
Ed invero, la disposizione di un regolamento condominiale che importi un divieto di ingresso e parcheggio di autoveicoli nelle aree comuni , incidendo sul diritto di godimento spettante a ciascun condomino " iure proprietatis " sulle parti comuni , ha natura tipicamente negoziale , con la conseguenza che una sua introduzione o modifica avrebbe dovuto essere accettata da tutti i condomini per iscritto (cfr, Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 854 del 28/01/1997; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 1830 del 18/02/2000).
In mancanza, allora, dell’unanimità richiesta, non potrà che addivenirsi ad una ulteriore pronuncia di annullamento (da ultimo, Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 17694 del 14/08/2007; Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 5626 del 18/04/2002), dovendo caducarsi l’art. 12 lett. b) del Regolamento.
9)
Da ultimo, i ricorrenti assumevano che l’art. 13 Regolamento fosse illegittimo perchè , prevedendo che “il monovano a piano terra, di proprietà dei condomini escluso il Sempronio, veniva destinato a locazione commerciale o deposito per terzi allo scopo di costituire un fondo cassa” , introduceva una nuova innovazione in mancanza delle maggioranze richieste ex art. 1136 5° comma c.c..
La censura è infondata.
Ciò per il semplice fatto che , con riguardo a tale specifica previsione, la maggioranza richiesta ex art. 1136 cit. era stata raggiunta, visto che, eliminando i millesimi del non comproprietario Sempronio nel computo del quorum, il limite dei due terzi (mill. 666) era stato rispettato .
Tuttavia, questo non si verificava perché – come erroneamente rilevato dalla difesa del condominio - dai 1000/millesimi del fabbricato andava sottratta la quota del Sempronio (75,81) per determinarsi (sul minor valore di 924,19/millesimi) una conseguente quota dei 2/3 più bassa (616,16), ma perché su tale vano – per quanto allegato dalle parti – non veniva ad esistere una situazione di condominio tecnicamente intesa, ma una mera comunione ordinaria, essendo risultato estromesso (fatto incontestato tra le parti) un compartecipe dell’intero fabbricato; per cui, nell’ambito di questa comunione ordinaria, le quote di compartecipazione di ciascun comunista, partendo da quelle condominiali , si accrescevano proporzionalmente anche della quota del Sempronio, non proprietario del vano; dal che, distribuendosi i 75,81 millesimi del Sempronio in capo agli altri condomini proprietari del vano , la delibera degli assenzienti riusciva a raggiungere i 666/millesimi del vano.
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Va dato atto che solo nelle memorie ex art. 184 c.p.c. i ricorrenti deducevano una ulteriore illegittimità afferente alle “tabelle per quanto attiene al riparto delle spese relative alle scale”: è evidente, tuttavia, che la censura, siccome avanzata solo in corso di giudizio, era inammissibile avendo integrato domanda nuova.
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Le spese potranno essere compensate tra le parti, vista la solo parziale fondatezza di un ricorso molto articolato e ricco di motivi di gravame.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunziando sulla domanda proposta da Caiox Axx e Meviax Bxx con ricorso depositato in data 9.5.2005 avverso il Condominio KKKK in … alla via …. Cxx Zxx, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattesa, cosi’ provvede:
- in parziale accoglimento della domanda , annulla la delibera condominiale adottata dal Condominio KKKK in … alla via … Cxx Zxx in data 16.3.2005 nei seguenti punti:
a) all’art. 8 del Regolamento condominiale ivi approvato , laddove si recita che “le spese di manutenzione della terrazza anteriore saranno anche a carico delle unità immobiliari sottostanti alla terrazza posteriore nella misura del 7% per la servitù di cui alla relazione descrittiva”;
b) all’art. 10 del Regolamento condominiale ivi approvato, laddove si recita che “le biciclette potranno essere parcheggiate nello spazio esistente nella parte posteriore del palazzo, tra il confine del zzzzzz e la parte posteriore del vano condominiale”;
c) all’art. 12 lett. b) del Regolamento condominiale ivi approvato, laddove si prevede il divieto di accedere e parcheggiare nel cortile comune con veicoli di ogni genere e che sarebbe stato “posto un paletto fisso all’inizio dell’androne di ingresso”;
- spese interamente compensate tra le parti.
Nola, 7.10.2008
Il Giudice dott. Alfonso Scermino
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I "falsi" incidenti stradali


Truffa processuale e sinistri stradali


lunedì 23 febbraio 2009
Tribunale di Nola Penale, sentenza del 10 febbraio 2009

Penale -"falsi" incidenti stradali-


TRUFFA PROCESSUALE E SINISTRI STRADALI


[Tribunale Penale di Nola, Giudice dell’Udienza preliminare dr. Francesco Gesuè Rizzi Ulmo, sentenza del 10.02.2009]


(massima a cura dell’Avv. Angelo Pignatelli)
in www.iussit.eu

AVVISO DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI E CONTESTUALE INVITO A RENDERE INTERROGATORIO: ATTO INTERRUTTIVO DELLA PRESCRIZIONE – È TALE
..
L’avviso di conclusione delle indagini non costituisce atto interruttivo della prescrizione, non essendo esso menzionato nel tassativo elenco contenuto nell’art. 160 c.p. ed atteso che l’avvertimento all’indagato, in esso contenuto, della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio è cosa diversa dall’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio menzionato dal succitato art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione.
Nel caso di specie, il menzionato avviso di conclusione delle indagini, non si limita ad avvertire gli indagati della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposti ad interrogatorio, ma contiene, alla pagina 16, un espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, con tanto di indicazione di date per ciascun indagato: tale espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, seppure contenuto formalmente nell’avviso di conclusione delle indagini, consiste pertanto in tutto e per tutto nell’invito indicato nel comma 2 dell’art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione.
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CAUSA DI ESTINZIONE DEL REATO E PROSCIOGLIMENTO NEL MERITO
NEL CORSO DELL’UDIENZA PRELIMINARE EX ART. 129 COMMA II C.P.P.
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La regola sancita dal comma 2 dell’art. 129 c.p.p., prevede che una formula liberatoria nel merito può prevalere sulla mera declaratoria di estinzione del reato solo se dagli atti acquisiti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato: laddove, invece, in presenza di situazioni di incertezza, di ambiguità, passibili di diverse interpretazioni e foriere di soluzioni “aperte”, dovrà necessariamente prevalere la mera declaratoria di estinzione del reato in quanto l’obbligo per il giudice, sancito dal comma 2 dell’art. 530 c.p.p., di pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità vale solo per il dibattimento e solo allorquando è stata portata a compimento l’intera istruzione dibattimentale (tra le tante vedi, ad esempio, Cass., sez. 5, n° 44280/05, massima pubblicata su Guida al diritto n° 24/06).
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TRUFFA PROCESSUALE IN MATERIA DI SINISTRI STRADALI:
NON CONFIGURABILITÀ DEL REATO PER CARENZA DEL PRESUPPOSTO DELL’ATTO DI DISPOSIZIONE PATRIMONIALE
Non integra gli estremi della truffa processuale ex art. art. 640 c.p. per mancanza del requisito (implicito, ma pur tuttavia pacificamente ritenuto imprescindibile elemento costitutivo del reato di truffa) dell’atto di disposizione patrimoniale: invero, pur assumendosi che il giudice possa essere tratto in inganno dagli artifizi e raggiri posti in essere da una parte del giudizio, resta il fatto che l’atto che il giudice compie come conseguenza di tali artifizi e raggiri non è un atto di disposizione patrimoniale bensì è l’emissione di una sentenza (o, comunque, di un provvedimento giurisdizionale), la quale, pur andando ad incidere sul patrimonio di una parte processuale, non è un atto di disposizione patrimoniale, ma è invece l’espressione di un potere, quale quello giurisdizionale, di natura eminentemente pubblicistica, la cui finalità è l’attuazione di norme giuridiche e la risoluzione dei conflitti. (vedi, in tal senso, tra le pronunce più recenti, Cass., sez. 5, 6.6.1996, n° 7346, Schiavone; Cass., sez. 6, 6.11.1996, Ortis; Cass., sez. 6, 2.12.1999, n° 4026; Cass., sez. 2, n° 42333/07, ques’ultima pubblicata su Guida al diritto n° 48/07)
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[Tribunale Penale di Nola, Giudice dell’Udienza preliminare dr. Francesco Gesuè Rizzi Ulmo, sentenza di non luogo a procedere emessa il 10.02.2009]


TRIBUNALE PENALE DI NOLA
(…)

MOTIVI DELLA DECISIONE
All’esito della udienza preliminare osserva questo giudice quanto segue.
La vicenda oggetto del presente processo riguarda il deprecabile e non raro fenomeno dei “falsi” incidenti stradali, inscenati da parti, avvocati e faccendieri vari per lucrare, ai danni delle assicurazioni, somme di denaro a titolo di risarcimento, ottenute ai danni degli enti di assicurazione a volte in via stragiudiziale sulla base della sola – mendace - denuncia di sinistro, altre volte ricorrendo alla via giudiziale, con il conforto di false testimonianze e di falsi certificati medici.
L’indagine, che è consistita essenzialmente in attività di intercettazione telefonica nonché nell’acquisizione e nell’esame di documentazione varia, è compendiata, in principal modo, in due informative, quella datata 2.4.2001 (che ha fatto seguito ad una informativa preliminare del 14.11.2000) e quella datata 14.11.2001.
L’estinzione per prescrizione
Essendosi giunti solo nel gennaio 2007 agli avvisi di conclusione delle indagini, per una serie di reati commessi nell’ambito della vicenda che qui ci occupa già è stata dichiarata la prescrizione dal G.I.P. con decreto di archiviazione, mentre su altri reati, come si dirà da qui a poco, la prescrizione deve essere rilevata in questa sede.
Va subito detto che, sebbene la richiesta di rinvio a giudizio sia datata 21.10.2008, non è maturata per alcun reato la prescrizione ordinaria, atteso che l’avviso di conclusione delle indagini è datato 23.1.2007 e contiene un espresso invito agli imputati a rendere interrogatorio dinanzi al P.M.
E’ ben vero che le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n° 21833/07, Codrut, hanno sancito il condivisibile principio che l’avviso di conclusione delle indagini non costituisce atto interruttivo della prescrizione, non essendo esso menzionato nel tassativo elenco contenuto nell’art. 160 c.p. ed atteso che l’avvertimento all’indagato, in esso contenuto, della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio è cosa diversa dall’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio menzionato dal succitato art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione (perché in questo secondo caso è il pubblico ministero che invita l’indagato a presentarsi, mentre nel primo caso la presentazione al pubblico ministero viene lasciata ad una iniziativa spontanea dell’indagato, che viene per l’appunto avvisato di avere tale facoltà).
Tuttavia nel caso di specie, come si è già accennato, il menzionato avviso di conclusione delle indagini non si limita ad avvertire gli indagati della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposti ad interrogatorio, ma contiene, alla pagina 16, un espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, con tanto di indicazione di date per ciascun indagato: tale espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, seppure contenuto formalmente nell’avviso di conclusione delle indagini, consiste pertanto in tutto e per tutto nell’invito indicato nel comma 2 dell’art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione.
Ciò premesso, va tuttavia detto che per alcuni reati è comunque oramai maturata anche la prescrizione massima, da calcolare secondo i più favorevoli termini dettati dalla formulazione dell’art. 157 c.p. risultante a seguito delle modifiche apportate dalla L. n° 251/2005.
In particolare, quanto al reato associativo di cui al capo A) dell’imputazione, la condotta di promotore è contestata al solo XX, mentre a tutti gli altri imputati è contestata la sola partecipazione.
Orbene, la pena massima per la mera partecipazione all’associazione è, ai sensi del comma 2 dell’art. 416 c.p., di anni cinque di reclusione, motivo per il quale il tempo massimo necessario a prescrivere è pari, ai sensi del combinato disposto del comma 1 dell’art. 157 c.p. e del comma 2 dell’art. 161 c.p., ad anni sette e mesi sei, ed è quindi integralmente decorso al 29.10.2008 (la richiesta di rinvio a giudizio è pervenuta in Tribunale solo in data 23.10.2008, per cui non è stato possibile fissare l’udienza preliminare prima del decorso del detto termine), atteso che l’esistenza della associazione è contestata fino al 29.4.2001 (data fino alla quale si sono svolte le intercettazioni telefoniche che ne hanno documentato l’esistenza; la precisa individuazione nel tempo della durata della permanenza preclude al giudice la possibilità, salvo modifiche dell’imputazione, di tener conto di un eventuale ulteriore protrarsi della condotta criminosa: cfr., sul punto, ad esempio, Cass., sez. 6, n° 36696/08, massima pubblicata su Guida al diritto n° 42/08; Cass., sez. 3, n° 21996/05, massima pubblicata su Guida al diritto n° 39/05) ed irrilevante essendo, ai sensi del comma 2 dell’art. 157 c.p., l’aggravante di cui al comma 5 dell’art. 416 c.p.
Ne consegue che deve essere dichiarata l’estinzione per prescrizione del reato contestato al capo A) dell’imputazione in relazione agli imputati …., …., …, …, …., …, ….
Per gli imputati …, …., …., …, …., …., ai quali pure viene contestata la partecipazione all’associazione, si deve invece pervenire ad una pronuncia di non luogo a procedere con formula di merito in quanto, per le ragioni che verranno sviluppate nel paragrafo successivo, gli elementi per sostenere la tesi di una loro compartecipazione all’associazione sono particolarmente carenti, se non del tutto assenti.
Va precisato che non si intende sostenere che per gli imputati in relazione ai quali ci si è limitati ad una declaratoria di prescrizione vi fossero elementi sufficienti per pervenire, all’esito di un giudizio di merito, ad una pronuncia di colpevolezza, bensì solamente che, in presenza di una accertata causa di estinzione del reato, vale la regola sancita dal comma 2 dell’art. 129 c.p.p., alla luce del quale una formula liberatoria nel merito può prevalere sulla mera declaratoria di estinzione del reato solo se dagli atti acquisiti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato: laddove, invece, in presenza di situazioni di incertezza, di ambiguità, passibili di diverse interpretazioni e foriere di soluzioni “aperte”, dovrà necessariamente prevalere la mera declaratoria di estinzione del reato in quanto l’obbligo per il giudice, sancito dal comma 2 dell’art. 530 c.p.p., di pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità vale solo per il dibattimento e solo allorquando è stata portata a compimento l’intera istruzione dibattimentale (tra le tante vedi, ad esempio, Cass., sez. 5, n° 44280/05, massima pubblicata su Guida al diritto n° 24/06).
Va dichiarata la prescrizione anche del delitto di falsità ideologica in atto pubblico (ammesso che tale possa essere qualificato il certificato medico di cui si parla nell’imputazione) contestato al capo O) agli imputati XX e N.P., atteso che la pena edittale massima per tale reato è di anni sei di reclusione, e che pertanto il tempo massimo necessario a prescrivere è pari, ai sensi del combinato disposto del comma 1 dell’art. 157 c.p. e del comma 2 dell’art. 161 c.p., ad anni sette e mesi sei, ed è quindi integralmente decorso al 2.8.2008, essendosi consumato il reato in data 2.2.2001.
L’analisi delle posizioni per le quali gli elementi a comprova della partecipazione al delitto associativo risultano particolarmente carenti
Ci si riferisce agli imputati …, .., …, …, …, …,
Quanto all’imputato BB si legge alla pagina 121 dell’informativa del 2.4.2001 che “P.C. è uno dei legali cui XX affida numerose pratiche”; e che “Il numero della pratiche a lui affidate è sicuramente notevole”.
Ma si legge pure che: “Dal solo ascolto telefonico non sono emersi chiari elementi di prova circa la natura illecita delle pratiche trattate, eccezion fatta per quella citata al par. 2” (cd. caso n° 7).
Orbene, appare evidente che la (presunta) illiceità di una sola pratica trattata (altre pratiche illecite curate dal P. non sono state individuate nemmeno nella successiva informativa del 14.11.2001) non è sufficiente, alla luce dell’assenza di elementi di prova circa la natura illecita anche di altre pratiche trattate, a far ritenere il P. compartecipe dell’associazione a delinquere: la mancanza di una accertata ripetizione delle condotte delittuose fa venire meno uno dei criteri fondamentali per valutare la partecipazione ad un’associazione a delinquere, ed il voler giungere alla conclusione che il P. fosse parte integrante di tale associazione solo perché il XX gli affidava numerose pratiche finisce per essere un mero assioma accusatorio, tenuto conto che non si può certo sostenere in maniera del tutto tautologica ed apodittica che, solo perché il G.G. curava e predisponeva (anche) pratiche per falsi incidenti stradali, tutte le pratiche da costui affidate ai suoi legali di fiducia fossero false.
Praticamente speculare è la posizione dell’imputato ZZ in relazione al quale si legge alla pagina 132 dell’informativa del 14.11.2001 che “dei quattro legali ai quali XX affida le pratiche dei propri clienti, l’avvocato ZZ è sicuramente colui con il quale ha contatti meno frequenti. Per Z., inoltre, nel servizio di ascolto telefonico non sono state individuate, a differenza degli altri legali, evidenti pratiche truffaldine, a parte quella citata al paragrafo 2 caso n° 11...” (si tratta della vicenda trasfusa nel capo P dell’imputazione).
Appare, allora, evidente che per l’A. devono essere ribadite tutte le considerazioni già effettuate per il P., trattandosi poi di una assoluta illazione della P.G., del tutto priva di riscontri, quella che l’A., in quanto collaboratore dell’avvocato KK, fiduciario delle Generali S.p.A., agisse a favore del G. quale agevolatore che operava all’interno delle fila nemiche attraverso un classico doppio gioco.
Discorso non dissimile vale per l’imputata R.T. alla quale viene contestata la partecipazione all’associazione a delinquere con il ruolo di consulente medico - legale di parte alla quale il XX ricorreva per le pratiche di infortunistica da lui curate.
Tuttavia, come chiaramente si legge alla pagina 151 dell’informativa del 2.4.2001, l’unica vicenda in cui la predetta è coinvolta è quella relativa a tale DDD, indicata nella predetta informativa come “caso 5” (illustrato alle pagine 33 e seguenti) e trasfusa nel capo H) dell’imputazione (e null’altro viene evidenziato nella successiva informativa del 14.11.2001).
Appare, allora, anche in questo caso evidente che la (presunta) compartecipazione ad un’unica pratica illecita non è sufficiente a fare ritenere la T. soggetto organicamente partecipe dell’associazione a delinquere, tanto più che, come si evidenzia alla già richiamata pagina 151 dell’informativa, dalle intercettazioni espletate non è emerso alcun contatto telefonico tra la T. ed il G. laddove è noto che uno dei criteri per stabilire l’esistenza di una partecipazione a delinquere è proprio quello dei continui contatti tra i soggetti agenti.
Quanto all’imputato L.M. risulta dalle informative che egli stipula per conto del XX polizze assicurative - auto; e dall’esame delle intercettazioni l’unica telefonata di (apparente) interesse è quella n° 926 del 9.1.2001, riportata alla pagina 26 dell’informativa del 2.4.2001, che attiene alla pratica sospetta oggetto del capo E) dell’imputazione, dalla quale conversazione telefonica risulta solo che il M. fornisce al G. il nome del testimone (rivelatosi falso a seguito delle indagini espletate) Mi. Se. ma dalla quale risulta anche che, a sua volta, al M. tale nome è stato fornito da D.C., cliente del M. (come evidenziato anche alla pagina 29 della predetta informativa, dove si legge: “...come si rileva dalla telefonata n° 926 ut. 081/8237763 del 9.1.2001, è stato proprio lui – il C. – a fornire il nome del testimone a M. L.”).
Ebbene, non si vede da che cosa possa desumersi che il M. dovesse essere a conoscenza della falsità del testimone indicatogli dal suo cliente, né tanto meno si vede come si possa desumere il suo ruolo di compartecipe dell’associazione dal fatto che egli stipulasse pratiche per conto del G..
Quanto all’imputato A.C. la sua posizione è delineata alle pagine 201 e seguenti dell’informativa del 14.11.2001, dove vengono riportate alcune conversazioni telefoniche (ben poche, tra l’altro) dalle quali si desume che egli procaccia al XX. clienti per stipulare polizze assicurative nonché per pratiche di infortunistica stradale.
Ma è di tutta evidenza che la circostanza che il C. sia un procacciatore di clienti per il G. è un elemento del tutto neutro in quanto per nessuna pratica specifica di quelle procacciate dal C. vi sono indizi di falsità e non si può certo sostenere in maniera del tutto tautologica ed apodittica che, solo perché il G. curava e predisponeva (anche) pratiche per falsi incidenti stradali, tutte le pratiche al G. procacciate e dal G. curate fossero false e che tutti coloro che gli procuravano le pratiche fossero complici dell’associazione a delinquere.
Quanto, infine, all’imputato A.G. va evidenziato che non solo non risulta alcuna sua partecipazione ad alcuna pratica sospetta, ma anche che l’unica telefonata intercettata intercorsa tra di lui ed il XX è quella riportata alla pagina 208 dell’informativa del 14.11.2001, dalla quale emerge esclusivamente che egli deve portare un qualcosa al XX (qualcosa che il G.A. ha in numero di tre o quattro e che il XX pretende invece di avere nel numero di una decina): ma ciò posto, che si tratti di “documenti verosimilmente acquisiti in modo illecito e utili al XX .per la sua attività” ed il desumerne quindi la partecipazione del G.A. all’associazione a delinquere finiscono per essere delle vere e proprie illazioni della P.G.
La mancanza di querela
Il maggior numero di imputazioni consiste in varie ipotesi di truffa, consumate o tentate, ipotizzate come commesse ai danni delle imprese assicuratrici attraverso una serie di artifizi e raggiri, rivolti alle imprese assicuratrici stesse nonché al giudice di pace ed aventi lo scopo di far apparire come avvenuti sinistri stradali in realtà inesistenti.
Va subito detto che, rispetto all’ipotesi di induzione in errore del giudice di pace, le contestazioni sono chiaramente riconducibili all’ambito della cosiddetta truffa processuale, la quale, secondo la giurisprudenza assolutamente predominante della Suprema Corte (applicata già più volte anche dallo scrivente giudice), non integra gli estremi dell’illecito penale, non rientrando essa nella previsione dell’art. 640 c.p. per mancanza del requisito (implicito, ma pur tuttavia pacificamente ritenuto imprescindibile elemento costitutivo del reato di truffa) dell’atto di disposizione patrimoniale: invero, pur assumendosi che il giudice possa essere tratto in inganno dagli artifizi e raggiri posti in essere da una parte del giudizio, resta il fatto che l’atto che il giudice compie come conseguenza di tali artifizi e raggiri non è un atto di disposizione patrimoniale bensì è l’emissione di una sentenza (o, comunque, di un provvedimento giurisdizionale), la quale, pur andando ad incidere sul patrimonio di una parte processuale, non è un atto di disposizione patrimoniale, ma è invece l’espressione di un potere, quale quello giurisdizionale, di natura eminentemente pubblicistica, la cui finalità è l’attuazione di norme giuridiche e la risoluzione dei conflitti (vedi, in tal senso, tra le pronunce più recenti, Cass., sez. 5, 6.6.1996, n° 7346, Schiavone; Cass., sez. 6, 6.11.1996, Ortis; Cass., sez. 6, 2.12.1999, n° 4026; Cass., sez. 2, n° 42333/07, ques’ultima pubblicata su Guida al diritto n° 48/07).
Tuttavia nei fatti nel caso di specie contestati è ricompresa anche l’attività rivolta a tentare di indurre in errore le stesse imprese di assicurazione (che non possono ovviamente sapere, per conoscenza diretta, se nella realtà gli incidenti denunciati si siano verificati o meno) sull’effettivo verificarsi del sinistro: attività concretizzatasi nell’inoltro di mendaci denunce di sinistri e di messe in mora, ai sensi degli artt. 5 del d.l. n° 857/1976, convertito in L. n° 39/77, e 22 della L. n° 990/69 (norme vigenti all’epoca dei fatti), nonché nell’ulteriore artifizio della presentazione di mendaci querele per lesioni ed omissione di soccorso aventi lo scopo di rafforzare l’idea dell’effettivo verificarsi del sinistro; il tutto al fine di tentare di ottenere dalle imprese di assicurazione, già in via stragiudiziale e spontanea, il risarcimento dei presunti danni.
Attualmente il denunciare all’impresa di assicurazione un sinistro non accaduto integra lo specifico delitto previsto dal comma 2 dell’art. 642 c.p. nella formulazione risultante a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n° 273 del 12.12.2002; ma non appare discutibile che prima dell’introduzione di tale specifico reato il comportamento sopra descritto avesse tutti i requisiti per rientrare nel paradigma della truffa, consumata o tentata a seconda dell’effettivo conseguimento o meno dell’indennizzo, rispetto alla quale, infatti, la Suprema Corte (cfr. Cass., sez. 6, n° 2506 del 13.11.2003) non dubita che la fattispecie di cui all’art. 642 c.p. costituisca un’ipotesi speciale (punita con pena più grave).
Così puntualizzato il motivo per il quale non è possibile in relazione alle truffe in contestazione pervenire ad una declaratoria di inconfigurabilità del reato, va comunque per esse ritenuta la procedibilità a querela e conseguentemente rilevata la mancanza della stessa.
Nei capi di imputazione tali truffe vengono contestate come aggravate ai sensi del comma 2 n° 1 dell’art. 640 c.p., il che renderebbe il reato procedibile d’ufficio ai sensi dell’ultimo comma del medesimo articolo.
Va tuttavia rilevato che, pur essendo le richieste di risarcimento destinate in ultima analisi a gravare (dopo l’anticipazione delle somme ad opera dell’impresa designata ai sensi dell’art. 20 della L. n° 990/69, nella fattispecie le Generali S.p.A.) sulla Consap S.p.A. - gestione autonoma del Fondo di garanzia per le vittime della strada - ai sensi dell’art. 19 della L. n° 990/69 (vigente all’epoca dei fatti), ciononostante la truffa non può essere qualificata come perpetrata ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico.
Infatti, la Suprema Corte ha più volte ribadito il principio che, allorquando la truffa è commessa ai danni di società aventi natura giuridica di enti di diritto privato, quali sono le società per azioni (e quindi la Consap S.p.A.), l’aggravante in esame non è configurabile nonostante che tali società siano partecipate o costituite dallo Stato o da altri enti pubblici e gestiscano un pubblico servizio (cfr. Cass., sez. 2, n° 7226 del 7.2.2006; Cass., sez. 2, 28 gennaio 2005, n° 8771; Cass., sez. 2, n° 8797 dell’11.2.2003, quest’ultima in relazione alle Poste Italiane S.p.A.; Cass., sez. 2, n° 5028 del 17.3.1999, in relazione alle Ferrovie dello Stato; Cass., sez. 1, 23 marzo 1987, Lucarelli).
L’inconfigurabilità della aggravante prevista dal n° 1 del comma 2 dell’art. 640 c.p. comporta il venir meno della procedibilità d’ufficio, e la conseguente necessità della querela, nel caso di specie mancante, con conseguente declaratoria di non luogo a procedere in relazione ai reati di cui ai capi di imputazione: B) – imputati .. .. .. (in questo caso l’ipotesi di truffa non è stata nemmeno perpetrata contro le Generali S.p.A., e per il tramite di essa contro la Consap S.p.A., bensì contro la Toro Assicurazioni); D) imputati .. .. ..; F) - imputati; H) - imputati; L) - imputati (per tale reato l’aggravante non è stata nemmeno contestata); N) - imputati (anche per tale reato l’aggravante non è stata nemmeno contestata); P) imputati
In relazione a quest’ultimo reato va puntualizzato che insussistente è anche l’aggravante di cui all’art. 111 c.p. comma 2, che, come qualsiasi aggravante, sarebbe anch’essa idonea, se configurabile, a rendere il delitto di truffa perseguibile a querela ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 640 c.p.
Invero, non si vede come si possa sostenere che sia stato determinato a commettere il reato anche il minore D.G., figlio dell’imputato C. se è vero come è vero che egli, al contrario, non ha partecipato in alcun modo alla commissione dell’episodio criminoso, atteso che anche se le lesioni di cui si chiedeva il risarcimento erano state asseritamente da lui subite, tuttavia l’iniziativa di intraprendere la richiesta di risarcimento del danno è stata presa dal padre e gli atti a ciò necessari sono stati sottoscritti dal padre e dalla madre quali esercenti la patria potestà (vedi le pagine 18 e seguenti dell’informativa datata 14.11.2001, nonché il fascicoletto contenente gli atti relativi all’episodio in questione, rinvenibile nel faldone 4).
La mancanza di querela deve essere rilevata anche in relazione al reato contestato al capo I) dell’imputazione agli imputati XX, BB. e C.G.: infatti, il reato di cui all’art. 485 c.p. è punibile, ai sensi dell’art. 493/bis c.p., esclusivamente a querela di parte, fatta salva la sola ipotesi della falsificazione del testamento olografo: querela nel caso di specie mancante.
Va precisato, infine, che la mancanza di una condizione di procedibilità dell’azione penale impedisce (a differenza dell’ipotesi di sussistenza di una causa estintiva del reato, rispetto alla quale deve prevalere, se risultante dagli atti, un proscioglimento nel merito) qualsiasi valutazione sulla effettiva sussistenza della prova della penale responsabilità dell’imputato, essendo tale mancanza di condizione di procedibilità, per la sua stessa natura, ostativa ad un qualsiasi addentrarsi nei fatti di causa (Cass., sez. 3, n° 3445/95).
Il delitto di falsa testimonianza contestato a N.I. al capo G) dell’imputazione
A N.I. viene contestato di aver reso falsa testimonianza a favore di tale G.C. in una causa da costui intentata nei confronti del Fondo di garanzia per le vittime della strada.
Gli elementi emersi in relazione a tale vicenda sono evidenziati alle pagine 31 e 32 dell’informativa del 2.4.2001, dalle quali si evince che non è stata intercettata alcuna conversazione telefonica che veda lo Iossa come soggetto colloquiante e dalle quali emerge, inoltre, che l’unico elemento sul quale si dovrebbe basare in giudizio l’accusa di falsa testimonianza nei confronti dello I. è la seguente frase, pronunciata dal XX. nei confronti del C. che lo aveva chiamato perché preoccupato di un’eventuale convocazione da parte dei carabinieri: “Eh...vi chiameranno, ma voi sapete la poesia qual’è...e gliela ripetete...con la bicicletta andavo verso … e una macchina mi ha pigliato e mi ha buttato per aria...”.
Orbene, appare ictu oculi evidente l’insussistenza di una qualche seria possibilità a che in dibattimento si possa giungere ad una condanna dello I. per falsa testimonianza in virtù puramente e semplicemente della suddetta frase, che è stata pronunciata tra soggetti diversi dallo I., che ha avuto ad oggetto ciò che il C. (e non lo I.) avrebbe dovuto dire in caso di convocazione da parte dei carabinieri e che, per quanto di contenuto sospetto, non può essere univocamente interpretata nel senso di una sicura falsità dell’incidente del C., potendosi anche sostenere che il C. fosse preoccupato del fatto in sé di essere convocato dai carabinieri e che il G. abbia inteso rassicurarlo.
P.Q.M.
Letto l’art. 425 c.p.p., dichiara il non luogo a procedere:
1) nei confronti degli imputati .. .. in relazione al reato loro ascritto al capo A) dell’imputazione perché estinto per prescrizione;
2) nei confronti degli imputati ..in relazione al reato loro ascritto al capo A) dell’imputazione per non aver commesso il fatto;
3) nei confronti degli imputati… in relazione al reato loro ascritto al capo B) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
4) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo C) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
5) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo D) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
6) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo E) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
7) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo F) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
8) nei confronti di … in relazione al reato a lui ascritto al capo G) dell’imputazione perché il fatto non sussiste;
9) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo H) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
10) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo I) dell’imputazione per mancanza di querela;
11) nei confronti degli imputati…in relazione al reato loro ascritto al capo L) dell’imputazione per mancanza di querela;
12) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo N) dell’imputazione per mancanza di querela;
13) nei confronti degli imputati… in relazione al reato loro ascritto al capo O) dell’imputazione perché estinto per prescrizione;
14) nei confronti degli imputati… in relazione al reato loro ascritto al capo P) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità delle aggravanti contestate.
Nola, 10.2.2009

Il Giudice della Udienza Preliminare
Dr. Francesco Gesuè Rizzi Ulmo

I "falsi" incidenti stradali


Truffa processuale e sinistri stradali


lunedì 23 febbraio 2009
Tribunale di Nola Penale, sentenza del 10 febbraio 2009

Penale -"falsi" incidenti stradali-


TRUFFA PROCESSUALE E SINISTRI STRADALI


[Tribunale Penale di Nola, Giudice dell’Udienza preliminare dr. Francesco Gesuè Rizzi Ulmo, sentenza del 10.02.2009]


(massima a cura dell’Avv. Angelo Pignatelli)
in www.iussit.eu

AVVISO DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI E CONTESTUALE INVITO A RENDERE INTERROGATORIO: ATTO INTERRUTTIVO DELLA PRESCRIZIONE – È TALE
..
L’avviso di conclusione delle indagini non costituisce atto interruttivo della prescrizione, non essendo esso menzionato nel tassativo elenco contenuto nell’art. 160 c.p. ed atteso che l’avvertimento all’indagato, in esso contenuto, della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio è cosa diversa dall’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio menzionato dal succitato art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione.
Nel caso di specie, il menzionato avviso di conclusione delle indagini, non si limita ad avvertire gli indagati della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposti ad interrogatorio, ma contiene, alla pagina 16, un espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, con tanto di indicazione di date per ciascun indagato: tale espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, seppure contenuto formalmente nell’avviso di conclusione delle indagini, consiste pertanto in tutto e per tutto nell’invito indicato nel comma 2 dell’art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione.
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CAUSA DI ESTINZIONE DEL REATO E PROSCIOGLIMENTO NEL MERITO
NEL CORSO DELL’UDIENZA PRELIMINARE EX ART. 129 COMMA II C.P.P.
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La regola sancita dal comma 2 dell’art. 129 c.p.p., prevede che una formula liberatoria nel merito può prevalere sulla mera declaratoria di estinzione del reato solo se dagli atti acquisiti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato: laddove, invece, in presenza di situazioni di incertezza, di ambiguità, passibili di diverse interpretazioni e foriere di soluzioni “aperte”, dovrà necessariamente prevalere la mera declaratoria di estinzione del reato in quanto l’obbligo per il giudice, sancito dal comma 2 dell’art. 530 c.p.p., di pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità vale solo per il dibattimento e solo allorquando è stata portata a compimento l’intera istruzione dibattimentale (tra le tante vedi, ad esempio, Cass., sez. 5, n° 44280/05, massima pubblicata su Guida al diritto n° 24/06).
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TRUFFA PROCESSUALE IN MATERIA DI SINISTRI STRADALI:
NON CONFIGURABILITÀ DEL REATO PER CARENZA DEL PRESUPPOSTO DELL’ATTO DI DISPOSIZIONE PATRIMONIALE
Non integra gli estremi della truffa processuale ex art. art. 640 c.p. per mancanza del requisito (implicito, ma pur tuttavia pacificamente ritenuto imprescindibile elemento costitutivo del reato di truffa) dell’atto di disposizione patrimoniale: invero, pur assumendosi che il giudice possa essere tratto in inganno dagli artifizi e raggiri posti in essere da una parte del giudizio, resta il fatto che l’atto che il giudice compie come conseguenza di tali artifizi e raggiri non è un atto di disposizione patrimoniale bensì è l’emissione di una sentenza (o, comunque, di un provvedimento giurisdizionale), la quale, pur andando ad incidere sul patrimonio di una parte processuale, non è un atto di disposizione patrimoniale, ma è invece l’espressione di un potere, quale quello giurisdizionale, di natura eminentemente pubblicistica, la cui finalità è l’attuazione di norme giuridiche e la risoluzione dei conflitti. (vedi, in tal senso, tra le pronunce più recenti, Cass., sez. 5, 6.6.1996, n° 7346, Schiavone; Cass., sez. 6, 6.11.1996, Ortis; Cass., sez. 6, 2.12.1999, n° 4026; Cass., sez. 2, n° 42333/07, ques’ultima pubblicata su Guida al diritto n° 48/07)
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[Tribunale Penale di Nola, Giudice dell’Udienza preliminare dr. Francesco Gesuè Rizzi Ulmo, sentenza di non luogo a procedere emessa il 10.02.2009]


TRIBUNALE PENALE DI NOLA
(…)

MOTIVI DELLA DECISIONE
All’esito della udienza preliminare osserva questo giudice quanto segue.
La vicenda oggetto del presente processo riguarda il deprecabile e non raro fenomeno dei “falsi” incidenti stradali, inscenati da parti, avvocati e faccendieri vari per lucrare, ai danni delle assicurazioni, somme di denaro a titolo di risarcimento, ottenute ai danni degli enti di assicurazione a volte in via stragiudiziale sulla base della sola – mendace - denuncia di sinistro, altre volte ricorrendo alla via giudiziale, con il conforto di false testimonianze e di falsi certificati medici.
L’indagine, che è consistita essenzialmente in attività di intercettazione telefonica nonché nell’acquisizione e nell’esame di documentazione varia, è compendiata, in principal modo, in due informative, quella datata 2.4.2001 (che ha fatto seguito ad una informativa preliminare del 14.11.2000) e quella datata 14.11.2001.
L’estinzione per prescrizione
Essendosi giunti solo nel gennaio 2007 agli avvisi di conclusione delle indagini, per una serie di reati commessi nell’ambito della vicenda che qui ci occupa già è stata dichiarata la prescrizione dal G.I.P. con decreto di archiviazione, mentre su altri reati, come si dirà da qui a poco, la prescrizione deve essere rilevata in questa sede.
Va subito detto che, sebbene la richiesta di rinvio a giudizio sia datata 21.10.2008, non è maturata per alcun reato la prescrizione ordinaria, atteso che l’avviso di conclusione delle indagini è datato 23.1.2007 e contiene un espresso invito agli imputati a rendere interrogatorio dinanzi al P.M.
E’ ben vero che le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n° 21833/07, Codrut, hanno sancito il condivisibile principio che l’avviso di conclusione delle indagini non costituisce atto interruttivo della prescrizione, non essendo esso menzionato nel tassativo elenco contenuto nell’art. 160 c.p. ed atteso che l’avvertimento all’indagato, in esso contenuto, della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio è cosa diversa dall’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio menzionato dal succitato art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione (perché in questo secondo caso è il pubblico ministero che invita l’indagato a presentarsi, mentre nel primo caso la presentazione al pubblico ministero viene lasciata ad una iniziativa spontanea dell’indagato, che viene per l’appunto avvisato di avere tale facoltà).
Tuttavia nel caso di specie, come si è già accennato, il menzionato avviso di conclusione delle indagini non si limita ad avvertire gli indagati della facoltà di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di chiedere di essere sottoposti ad interrogatorio, ma contiene, alla pagina 16, un espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, con tanto di indicazione di date per ciascun indagato: tale espresso invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere interrogatorio, seppure contenuto formalmente nell’avviso di conclusione delle indagini, consiste pertanto in tutto e per tutto nell’invito indicato nel comma 2 dell’art. 160 c.p. come atto interruttivo della prescrizione.
Ciò premesso, va tuttavia detto che per alcuni reati è comunque oramai maturata anche la prescrizione massima, da calcolare secondo i più favorevoli termini dettati dalla formulazione dell’art. 157 c.p. risultante a seguito delle modifiche apportate dalla L. n° 251/2005.
In particolare, quanto al reato associativo di cui al capo A) dell’imputazione, la condotta di promotore è contestata al solo XX, mentre a tutti gli altri imputati è contestata la sola partecipazione.
Orbene, la pena massima per la mera partecipazione all’associazione è, ai sensi del comma 2 dell’art. 416 c.p., di anni cinque di reclusione, motivo per il quale il tempo massimo necessario a prescrivere è pari, ai sensi del combinato disposto del comma 1 dell’art. 157 c.p. e del comma 2 dell’art. 161 c.p., ad anni sette e mesi sei, ed è quindi integralmente decorso al 29.10.2008 (la richiesta di rinvio a giudizio è pervenuta in Tribunale solo in data 23.10.2008, per cui non è stato possibile fissare l’udienza preliminare prima del decorso del detto termine), atteso che l’esistenza della associazione è contestata fino al 29.4.2001 (data fino alla quale si sono svolte le intercettazioni telefoniche che ne hanno documentato l’esistenza; la precisa individuazione nel tempo della durata della permanenza preclude al giudice la possibilità, salvo modifiche dell’imputazione, di tener conto di un eventuale ulteriore protrarsi della condotta criminosa: cfr., sul punto, ad esempio, Cass., sez. 6, n° 36696/08, massima pubblicata su Guida al diritto n° 42/08; Cass., sez. 3, n° 21996/05, massima pubblicata su Guida al diritto n° 39/05) ed irrilevante essendo, ai sensi del comma 2 dell’art. 157 c.p., l’aggravante di cui al comma 5 dell’art. 416 c.p.
Ne consegue che deve essere dichiarata l’estinzione per prescrizione del reato contestato al capo A) dell’imputazione in relazione agli imputati …., …., …, …, …., …, ….
Per gli imputati …, …., …., …, …., …., ai quali pure viene contestata la partecipazione all’associazione, si deve invece pervenire ad una pronuncia di non luogo a procedere con formula di merito in quanto, per le ragioni che verranno sviluppate nel paragrafo successivo, gli elementi per sostenere la tesi di una loro compartecipazione all’associazione sono particolarmente carenti, se non del tutto assenti.
Va precisato che non si intende sostenere che per gli imputati in relazione ai quali ci si è limitati ad una declaratoria di prescrizione vi fossero elementi sufficienti per pervenire, all’esito di un giudizio di merito, ad una pronuncia di colpevolezza, bensì solamente che, in presenza di una accertata causa di estinzione del reato, vale la regola sancita dal comma 2 dell’art. 129 c.p.p., alla luce del quale una formula liberatoria nel merito può prevalere sulla mera declaratoria di estinzione del reato solo se dagli atti acquisiti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato: laddove, invece, in presenza di situazioni di incertezza, di ambiguità, passibili di diverse interpretazioni e foriere di soluzioni “aperte”, dovrà necessariamente prevalere la mera declaratoria di estinzione del reato in quanto l’obbligo per il giudice, sancito dal comma 2 dell’art. 530 c.p.p., di pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità vale solo per il dibattimento e solo allorquando è stata portata a compimento l’intera istruzione dibattimentale (tra le tante vedi, ad esempio, Cass., sez. 5, n° 44280/05, massima pubblicata su Guida al diritto n° 24/06).
Va dichiarata la prescrizione anche del delitto di falsità ideologica in atto pubblico (ammesso che tale possa essere qualificato il certificato medico di cui si parla nell’imputazione) contestato al capo O) agli imputati XX e N.P., atteso che la pena edittale massima per tale reato è di anni sei di reclusione, e che pertanto il tempo massimo necessario a prescrivere è pari, ai sensi del combinato disposto del comma 1 dell’art. 157 c.p. e del comma 2 dell’art. 161 c.p., ad anni sette e mesi sei, ed è quindi integralmente decorso al 2.8.2008, essendosi consumato il reato in data 2.2.2001.
L’analisi delle posizioni per le quali gli elementi a comprova della partecipazione al delitto associativo risultano particolarmente carenti
Ci si riferisce agli imputati …, .., …, …, …, …,
Quanto all’imputato BB si legge alla pagina 121 dell’informativa del 2.4.2001 che “P.C. è uno dei legali cui XX affida numerose pratiche”; e che “Il numero della pratiche a lui affidate è sicuramente notevole”.
Ma si legge pure che: “Dal solo ascolto telefonico non sono emersi chiari elementi di prova circa la natura illecita delle pratiche trattate, eccezion fatta per quella citata al par. 2” (cd. caso n° 7).
Orbene, appare evidente che la (presunta) illiceità di una sola pratica trattata (altre pratiche illecite curate dal P. non sono state individuate nemmeno nella successiva informativa del 14.11.2001) non è sufficiente, alla luce dell’assenza di elementi di prova circa la natura illecita anche di altre pratiche trattate, a far ritenere il P. compartecipe dell’associazione a delinquere: la mancanza di una accertata ripetizione delle condotte delittuose fa venire meno uno dei criteri fondamentali per valutare la partecipazione ad un’associazione a delinquere, ed il voler giungere alla conclusione che il P. fosse parte integrante di tale associazione solo perché il XX gli affidava numerose pratiche finisce per essere un mero assioma accusatorio, tenuto conto che non si può certo sostenere in maniera del tutto tautologica ed apodittica che, solo perché il G.G. curava e predisponeva (anche) pratiche per falsi incidenti stradali, tutte le pratiche da costui affidate ai suoi legali di fiducia fossero false.
Praticamente speculare è la posizione dell’imputato ZZ in relazione al quale si legge alla pagina 132 dell’informativa del 14.11.2001 che “dei quattro legali ai quali XX affida le pratiche dei propri clienti, l’avvocato ZZ è sicuramente colui con il quale ha contatti meno frequenti. Per Z., inoltre, nel servizio di ascolto telefonico non sono state individuate, a differenza degli altri legali, evidenti pratiche truffaldine, a parte quella citata al paragrafo 2 caso n° 11...” (si tratta della vicenda trasfusa nel capo P dell’imputazione).
Appare, allora, evidente che per l’A. devono essere ribadite tutte le considerazioni già effettuate per il P., trattandosi poi di una assoluta illazione della P.G., del tutto priva di riscontri, quella che l’A., in quanto collaboratore dell’avvocato KK, fiduciario delle Generali S.p.A., agisse a favore del G. quale agevolatore che operava all’interno delle fila nemiche attraverso un classico doppio gioco.
Discorso non dissimile vale per l’imputata R.T. alla quale viene contestata la partecipazione all’associazione a delinquere con il ruolo di consulente medico - legale di parte alla quale il XX ricorreva per le pratiche di infortunistica da lui curate.
Tuttavia, come chiaramente si legge alla pagina 151 dell’informativa del 2.4.2001, l’unica vicenda in cui la predetta è coinvolta è quella relativa a tale DDD, indicata nella predetta informativa come “caso 5” (illustrato alle pagine 33 e seguenti) e trasfusa nel capo H) dell’imputazione (e null’altro viene evidenziato nella successiva informativa del 14.11.2001).
Appare, allora, anche in questo caso evidente che la (presunta) compartecipazione ad un’unica pratica illecita non è sufficiente a fare ritenere la T. soggetto organicamente partecipe dell’associazione a delinquere, tanto più che, come si evidenzia alla già richiamata pagina 151 dell’informativa, dalle intercettazioni espletate non è emerso alcun contatto telefonico tra la T. ed il G. laddove è noto che uno dei criteri per stabilire l’esistenza di una partecipazione a delinquere è proprio quello dei continui contatti tra i soggetti agenti.
Quanto all’imputato L.M. risulta dalle informative che egli stipula per conto del XX polizze assicurative - auto; e dall’esame delle intercettazioni l’unica telefonata di (apparente) interesse è quella n° 926 del 9.1.2001, riportata alla pagina 26 dell’informativa del 2.4.2001, che attiene alla pratica sospetta oggetto del capo E) dell’imputazione, dalla quale conversazione telefonica risulta solo che il M. fornisce al G. il nome del testimone (rivelatosi falso a seguito delle indagini espletate) Mi. Se. ma dalla quale risulta anche che, a sua volta, al M. tale nome è stato fornito da D.C., cliente del M. (come evidenziato anche alla pagina 29 della predetta informativa, dove si legge: “...come si rileva dalla telefonata n° 926 ut. 081/8237763 del 9.1.2001, è stato proprio lui – il C. – a fornire il nome del testimone a M. L.”).
Ebbene, non si vede da che cosa possa desumersi che il M. dovesse essere a conoscenza della falsità del testimone indicatogli dal suo cliente, né tanto meno si vede come si possa desumere il suo ruolo di compartecipe dell’associazione dal fatto che egli stipulasse pratiche per conto del G..
Quanto all’imputato A.C. la sua posizione è delineata alle pagine 201 e seguenti dell’informativa del 14.11.2001, dove vengono riportate alcune conversazioni telefoniche (ben poche, tra l’altro) dalle quali si desume che egli procaccia al XX. clienti per stipulare polizze assicurative nonché per pratiche di infortunistica stradale.
Ma è di tutta evidenza che la circostanza che il C. sia un procacciatore di clienti per il G. è un elemento del tutto neutro in quanto per nessuna pratica specifica di quelle procacciate dal C. vi sono indizi di falsità e non si può certo sostenere in maniera del tutto tautologica ed apodittica che, solo perché il G. curava e predisponeva (anche) pratiche per falsi incidenti stradali, tutte le pratiche al G. procacciate e dal G. curate fossero false e che tutti coloro che gli procuravano le pratiche fossero complici dell’associazione a delinquere.
Quanto, infine, all’imputato A.G. va evidenziato che non solo non risulta alcuna sua partecipazione ad alcuna pratica sospetta, ma anche che l’unica telefonata intercettata intercorsa tra di lui ed il XX è quella riportata alla pagina 208 dell’informativa del 14.11.2001, dalla quale emerge esclusivamente che egli deve portare un qualcosa al XX (qualcosa che il G.A. ha in numero di tre o quattro e che il XX pretende invece di avere nel numero di una decina): ma ciò posto, che si tratti di “documenti verosimilmente acquisiti in modo illecito e utili al XX .per la sua attività” ed il desumerne quindi la partecipazione del G.A. all’associazione a delinquere finiscono per essere delle vere e proprie illazioni della P.G.
La mancanza di querela
Il maggior numero di imputazioni consiste in varie ipotesi di truffa, consumate o tentate, ipotizzate come commesse ai danni delle imprese assicuratrici attraverso una serie di artifizi e raggiri, rivolti alle imprese assicuratrici stesse nonché al giudice di pace ed aventi lo scopo di far apparire come avvenuti sinistri stradali in realtà inesistenti.
Va subito detto che, rispetto all’ipotesi di induzione in errore del giudice di pace, le contestazioni sono chiaramente riconducibili all’ambito della cosiddetta truffa processuale, la quale, secondo la giurisprudenza assolutamente predominante della Suprema Corte (applicata già più volte anche dallo scrivente giudice), non integra gli estremi dell’illecito penale, non rientrando essa nella previsione dell’art. 640 c.p. per mancanza del requisito (implicito, ma pur tuttavia pacificamente ritenuto imprescindibile elemento costitutivo del reato di truffa) dell’atto di disposizione patrimoniale: invero, pur assumendosi che il giudice possa essere tratto in inganno dagli artifizi e raggiri posti in essere da una parte del giudizio, resta il fatto che l’atto che il giudice compie come conseguenza di tali artifizi e raggiri non è un atto di disposizione patrimoniale bensì è l’emissione di una sentenza (o, comunque, di un provvedimento giurisdizionale), la quale, pur andando ad incidere sul patrimonio di una parte processuale, non è un atto di disposizione patrimoniale, ma è invece l’espressione di un potere, quale quello giurisdizionale, di natura eminentemente pubblicistica, la cui finalità è l’attuazione di norme giuridiche e la risoluzione dei conflitti (vedi, in tal senso, tra le pronunce più recenti, Cass., sez. 5, 6.6.1996, n° 7346, Schiavone; Cass., sez. 6, 6.11.1996, Ortis; Cass., sez. 6, 2.12.1999, n° 4026; Cass., sez. 2, n° 42333/07, ques’ultima pubblicata su Guida al diritto n° 48/07).
Tuttavia nei fatti nel caso di specie contestati è ricompresa anche l’attività rivolta a tentare di indurre in errore le stesse imprese di assicurazione (che non possono ovviamente sapere, per conoscenza diretta, se nella realtà gli incidenti denunciati si siano verificati o meno) sull’effettivo verificarsi del sinistro: attività concretizzatasi nell’inoltro di mendaci denunce di sinistri e di messe in mora, ai sensi degli artt. 5 del d.l. n° 857/1976, convertito in L. n° 39/77, e 22 della L. n° 990/69 (norme vigenti all’epoca dei fatti), nonché nell’ulteriore artifizio della presentazione di mendaci querele per lesioni ed omissione di soccorso aventi lo scopo di rafforzare l’idea dell’effettivo verificarsi del sinistro; il tutto al fine di tentare di ottenere dalle imprese di assicurazione, già in via stragiudiziale e spontanea, il risarcimento dei presunti danni.
Attualmente il denunciare all’impresa di assicurazione un sinistro non accaduto integra lo specifico delitto previsto dal comma 2 dell’art. 642 c.p. nella formulazione risultante a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n° 273 del 12.12.2002; ma non appare discutibile che prima dell’introduzione di tale specifico reato il comportamento sopra descritto avesse tutti i requisiti per rientrare nel paradigma della truffa, consumata o tentata a seconda dell’effettivo conseguimento o meno dell’indennizzo, rispetto alla quale, infatti, la Suprema Corte (cfr. Cass., sez. 6, n° 2506 del 13.11.2003) non dubita che la fattispecie di cui all’art. 642 c.p. costituisca un’ipotesi speciale (punita con pena più grave).
Così puntualizzato il motivo per il quale non è possibile in relazione alle truffe in contestazione pervenire ad una declaratoria di inconfigurabilità del reato, va comunque per esse ritenuta la procedibilità a querela e conseguentemente rilevata la mancanza della stessa.
Nei capi di imputazione tali truffe vengono contestate come aggravate ai sensi del comma 2 n° 1 dell’art. 640 c.p., il che renderebbe il reato procedibile d’ufficio ai sensi dell’ultimo comma del medesimo articolo.
Va tuttavia rilevato che, pur essendo le richieste di risarcimento destinate in ultima analisi a gravare (dopo l’anticipazione delle somme ad opera dell’impresa designata ai sensi dell’art. 20 della L. n° 990/69, nella fattispecie le Generali S.p.A.) sulla Consap S.p.A. - gestione autonoma del Fondo di garanzia per le vittime della strada - ai sensi dell’art. 19 della L. n° 990/69 (vigente all’epoca dei fatti), ciononostante la truffa non può essere qualificata come perpetrata ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico.
Infatti, la Suprema Corte ha più volte ribadito il principio che, allorquando la truffa è commessa ai danni di società aventi natura giuridica di enti di diritto privato, quali sono le società per azioni (e quindi la Consap S.p.A.), l’aggravante in esame non è configurabile nonostante che tali società siano partecipate o costituite dallo Stato o da altri enti pubblici e gestiscano un pubblico servizio (cfr. Cass., sez. 2, n° 7226 del 7.2.2006; Cass., sez. 2, 28 gennaio 2005, n° 8771; Cass., sez. 2, n° 8797 dell’11.2.2003, quest’ultima in relazione alle Poste Italiane S.p.A.; Cass., sez. 2, n° 5028 del 17.3.1999, in relazione alle Ferrovie dello Stato; Cass., sez. 1, 23 marzo 1987, Lucarelli).
L’inconfigurabilità della aggravante prevista dal n° 1 del comma 2 dell’art. 640 c.p. comporta il venir meno della procedibilità d’ufficio, e la conseguente necessità della querela, nel caso di specie mancante, con conseguente declaratoria di non luogo a procedere in relazione ai reati di cui ai capi di imputazione: B) – imputati .. .. .. (in questo caso l’ipotesi di truffa non è stata nemmeno perpetrata contro le Generali S.p.A., e per il tramite di essa contro la Consap S.p.A., bensì contro la Toro Assicurazioni); D) imputati .. .. ..; F) - imputati; H) - imputati; L) - imputati (per tale reato l’aggravante non è stata nemmeno contestata); N) - imputati (anche per tale reato l’aggravante non è stata nemmeno contestata); P) imputati
In relazione a quest’ultimo reato va puntualizzato che insussistente è anche l’aggravante di cui all’art. 111 c.p. comma 2, che, come qualsiasi aggravante, sarebbe anch’essa idonea, se configurabile, a rendere il delitto di truffa perseguibile a querela ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 640 c.p.
Invero, non si vede come si possa sostenere che sia stato determinato a commettere il reato anche il minore D.G., figlio dell’imputato C. se è vero come è vero che egli, al contrario, non ha partecipato in alcun modo alla commissione dell’episodio criminoso, atteso che anche se le lesioni di cui si chiedeva il risarcimento erano state asseritamente da lui subite, tuttavia l’iniziativa di intraprendere la richiesta di risarcimento del danno è stata presa dal padre e gli atti a ciò necessari sono stati sottoscritti dal padre e dalla madre quali esercenti la patria potestà (vedi le pagine 18 e seguenti dell’informativa datata 14.11.2001, nonché il fascicoletto contenente gli atti relativi all’episodio in questione, rinvenibile nel faldone 4).
La mancanza di querela deve essere rilevata anche in relazione al reato contestato al capo I) dell’imputazione agli imputati XX, BB. e C.G.: infatti, il reato di cui all’art. 485 c.p. è punibile, ai sensi dell’art. 493/bis c.p., esclusivamente a querela di parte, fatta salva la sola ipotesi della falsificazione del testamento olografo: querela nel caso di specie mancante.
Va precisato, infine, che la mancanza di una condizione di procedibilità dell’azione penale impedisce (a differenza dell’ipotesi di sussistenza di una causa estintiva del reato, rispetto alla quale deve prevalere, se risultante dagli atti, un proscioglimento nel merito) qualsiasi valutazione sulla effettiva sussistenza della prova della penale responsabilità dell’imputato, essendo tale mancanza di condizione di procedibilità, per la sua stessa natura, ostativa ad un qualsiasi addentrarsi nei fatti di causa (Cass., sez. 3, n° 3445/95).
Il delitto di falsa testimonianza contestato a N.I. al capo G) dell’imputazione
A N.I. viene contestato di aver reso falsa testimonianza a favore di tale G.C. in una causa da costui intentata nei confronti del Fondo di garanzia per le vittime della strada.
Gli elementi emersi in relazione a tale vicenda sono evidenziati alle pagine 31 e 32 dell’informativa del 2.4.2001, dalle quali si evince che non è stata intercettata alcuna conversazione telefonica che veda lo Iossa come soggetto colloquiante e dalle quali emerge, inoltre, che l’unico elemento sul quale si dovrebbe basare in giudizio l’accusa di falsa testimonianza nei confronti dello I. è la seguente frase, pronunciata dal XX. nei confronti del C. che lo aveva chiamato perché preoccupato di un’eventuale convocazione da parte dei carabinieri: “Eh...vi chiameranno, ma voi sapete la poesia qual’è...e gliela ripetete...con la bicicletta andavo verso … e una macchina mi ha pigliato e mi ha buttato per aria...”.
Orbene, appare ictu oculi evidente l’insussistenza di una qualche seria possibilità a che in dibattimento si possa giungere ad una condanna dello I. per falsa testimonianza in virtù puramente e semplicemente della suddetta frase, che è stata pronunciata tra soggetti diversi dallo I., che ha avuto ad oggetto ciò che il C. (e non lo I.) avrebbe dovuto dire in caso di convocazione da parte dei carabinieri e che, per quanto di contenuto sospetto, non può essere univocamente interpretata nel senso di una sicura falsità dell’incidente del C., potendosi anche sostenere che il C. fosse preoccupato del fatto in sé di essere convocato dai carabinieri e che il G. abbia inteso rassicurarlo.
P.Q.M.
Letto l’art. 425 c.p.p., dichiara il non luogo a procedere:
1) nei confronti degli imputati .. .. in relazione al reato loro ascritto al capo A) dell’imputazione perché estinto per prescrizione;
2) nei confronti degli imputati ..in relazione al reato loro ascritto al capo A) dell’imputazione per non aver commesso il fatto;
3) nei confronti degli imputati… in relazione al reato loro ascritto al capo B) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
4) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo C) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
5) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo D) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
6) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo E) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
7) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo F) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
8) nei confronti di … in relazione al reato a lui ascritto al capo G) dell’imputazione perché il fatto non sussiste;
9) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo H) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità dell’aggravante contestata;
10) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo I) dell’imputazione per mancanza di querela;
11) nei confronti degli imputati…in relazione al reato loro ascritto al capo L) dell’imputazione per mancanza di querela;
12) nei confronti degli imputati …in relazione al reato loro ascritto al capo N) dell’imputazione per mancanza di querela;
13) nei confronti degli imputati… in relazione al reato loro ascritto al capo O) dell’imputazione perché estinto per prescrizione;
14) nei confronti degli imputati… in relazione al reato loro ascritto al capo P) dell’imputazione per mancanza di querela, esclusa la configurabilità delle aggravanti contestate.
Nola, 10.2.2009

Il Giudice della Udienza Preliminare
Dr. Francesco Gesuè Rizzi Ulmo

lunedì 16 febbraio 2009

natura giuridica delle circolari: Cassazione sentenza 237/09

La Cassazione conferma: circolari, atti interni all'Amministrazione

I giudici tornano sulla valenza dei documenti di prassi, illustrando una serie di principi di carattere generale
Natura ed effetti delle circolari. Potrebbe così intitolarsi la sentenza n. 237, depositata il 9 gennaio 2009, con cui la Cassazione, riprendendo il noto precedente rappresentato dalla pronuncia n. 23031 del 9 ottobre 2007, è tornata nuovamente sul tema della valenza dei documenti di prassi dell'Amministrazione finanziaria, illustrando, quasi didatticamente, una serie di principi generali relativi al ruolo delle circolari rispetto alla gerarchia delle fonti e alla portata che esse possono assumere tanto nei confronti della stessa Amministrazione emanante, globalmente considerata, quanto nei confronti dei contribuenti solo "impropriamente" destinatari delle medesime.Nulla quaestio sulla correttezza dei principi espressi dalla Suprema corte nella sentenza in esame e di seguito illustrati, anche se, giova evidenziarlo fin da subito, rispetto alla ricostruzione delle circolari quali atti interni all'Amministrazione, qualche dubbio residua rispetto alla "eccezionale" portata estrinseca che lo Statuto dei diritti del contribuente assegna alle circolari medesime e che, almeno a prima lettura, non sembra conciliarsi perfettamente con i principi contenuti nella pronuncia; salvo, come si evidenzierà nelle conclusioni, individuare dietro tale eccezionale valenza esterna un principio essenziale dell'ordinamento.Le circolari: ruolo e fondamentoLa prima affermazione desumibile dalla sentenza 237/2009 è quella secondo cui le circolari non sono atti normativi (né tanto meno sono a essi assimilabili) e, pertanto, sono prive del potere di innovare l'ordinamento giuridico.L'affermazione è pienamente in linea con l'incontestabile insegnamento della dottrina rispetto alla gerarchia delle fonti, laddove, specie nelle opere più tradizionali degli amministrativisti, si legge che col termine "circolare" più che designare un particolare tipo di atto, dalle funzioni o dal contenuto tipizzato, si individua una modalità di comunicazione di qualcosa; il termine designa, per l'appunto, il percorso di un certo atto che si diffonde "circolarmente" all'interno di una certa struttura.Certo è che, a mano a mano che la disciplina di singoli e specifici atti si è rivolta a individuarne anche le modalità di esternazione e le forme di alcuni atti sono diventate "tipiche", come nel caso dei regolamenti, la portata del termine "circolare" si è andata sempre più restringendo, fino al punto di identificarsi con quelli che oggi comunemente così chiamiamo, ossia gli atti emanati dall'Amministrazione, rivolti agli uffici, il cui contenuto può essere estremamente diversificato.Le circolari, come noto, possono contenere semplici comunicazioni, ovvero precise direttive o istruzioni in ordine alle modalità di comportamento che i destinatari devono adottare o, ancora (ed è questo l'oggetto di riflessioni nella sentenza in commento), l'interpretazione che l'organo emanante dà di un certa norma di legge.Resta inteso che l'interpretazione contenuta in una circolare altro non è se non il presupposto per individuare le concrete regole di comportamento cui i destinatari, interni all'Amministrazione, devono attenersi; si tratta cioè di un'attività strumentale all'obiettivo di indirizzare, in modo univoco, i comportamenti degli uffici su tutto il territorio nazionale.Tale conclusione appare scontata, sia se si analizza la distribuzione, a livello costituzionale, dei diversi poteri dello Stato sia, ancora di più, se ci si domanda quale sia il potere posto a fondamento della emanazione della circolare.La dottrina più tradizionale, condivisibilmente, ritiene che alla base del potere di emanare circolari sia individuabile il cosiddetto potere gerarchico o di indirizzo che alcuni organi possono esercitare nei confronti di altre strutture (normalmente interne e comunque sott'ordinate); tale potere, pertanto, potrà esplicare i suoi effetti solo nei confronti dei soggetti, ovvero degli uffici, che a tale potere soggiacciono.Le circolari: i soggetti destinatari, gli effetti sul piano interno dell'Amministrazione e gli effetti sui contribuentiIndividuato il fondamento del potere e, di conseguenza, l'ambito di soggetti che possono considerarsi "in senso proprio" destinatari del contenuto, comunicativo, precettivo o precettivo-interpretativo della circolare, si tratta di verificare quali sono gli effetti che si producono nei casi in cui la circolare stessa venga disattesa.Pur producendo di norma effetti vincolanti sul piano interno (ove il vincolo discende proprio dal rapporto gerarchico tra organo emanante e destinatari), le circolari possono essere legittimamente disattese quando in "evidente" contrasto con le norme di legge, come si desume applicando estensivamente la regola di cui all'articolo 17 della legge 3/1957, dettata dallo "Statuto degli impiegati civili dello Stato" di plurimo rilievo, anche penale.Al di fuori di questa ipotesi, che richiede l'evidenza del contrasto e che deve essere provata dalla parte che avrebbe dovuto attenersi alle istruzioni impartite dall'organo sovraordinato, la mancata osservanza delle circolari produce effetto ma solo sul piano interno e mai, come si vedrà anche a breve (almeno per quel che concerne materie caratterizzate dall'esercizio di poteri vincolati), sulla legittimità dell'atto adottato.Pertanto, l'inosservanza della circolare darà luogo a conseguenze sotto il profilo disciplinare (con applicazione delle relative sanzioni) e assumerà un ruolo essenziale ai fini dell'eventuale giudizio instaurato contro il funzionario, nel corso del quale la circostanza che l'impiegato abbia applicato ovvero disatteso le istruzioni contenute nella circolare dovrà essere vagliata dal giudice ai fini di determinare la colpa del soggetto agente, quale elemento soggettivo imprescindibile della responsabilità.Se queste sono le regole generali, si può osservare che nella sentenza in esame la Cassazione ha riaffermato i medesimi principi seppur attraverso espressioni più vaghe, non sempre correttamente interpretate e, pertanto, in alcune occasioni, strumentalizzate.Nella pronuncia si legge espressamente che "le circolari non vincolano gli uffici gerarchicamente subordinati…ai quali è data facoltà di disattendere il contenuto delle direttive senza che tale comportamento possa essere invocato quale causa di nullità o vizio dell'atto impositivo per difformità rispetto alla circolare esplicativa".La portata di quest'ultima affermazione della Corte è duplice, perché è riferibile tanto agli effetti sul piano interno, quanto ai suoi riflessi sull'atto. Solo una lettura integrale dell'intero passaggio argomentativo evidenziato consente di tracciare un quadro più chiaro e corretto, se non col rischio di concludere, come pure qualcuno ha proposto, nel senso del carattere non vincolante delle circolari anche sul piano interno.Ciò che i giudici intendevano affermare è che nell'eventualità in cui l'ufficio disattenda il contenuto della circolare, il contribuente non può per ciò solo far valere l'illegittimità dell'atto impugnato; quest'ultima, infatti, può derivare solo dal contrasto del contenuto dell'atto con le norme di legge. L'atto sarà, cioè, illegittimo solo se, a prescindere dalla sua conformità o meno a una circolare interpretativa, esso sia contrario alla legge, in quanto unico e solo parametro di valutazione della legittimità di un atto.Tale conclusione appare ovvia alla luce di quanto detto a proposito del potere posto a fondamento dell'emanazione della circolare e del suo carattere "non innovativo" dell'ordinamento giuridico.Per comprendere ancora meglio il principio affermato dalla Cassazione, un ulteriore argomento utile può essere desunto dal raffronto tra il ruolo che la circolare assume nell'ambito del giudizio tributario e quello che eventualmente può rivestire nel corso del giudizio amministrativo; la differenza consentirà di spiegare meglio la portata del principio come formulato dal giudice di legittimità.Il sistema della giustizia amministrativa conosce un vizio denominato, per l'appunto, "violazione di circolare", riconducibile alla più ampia categoria dell'eccesso di potere, del quale costituisce, secondo elaborazioni della giurisprudenza amministrativa oramai consolidate, figura tipica.Nei giudizi davanti al Tar, in altre parole, il privato può impugnare l'atto difforme dalla circolare impartita dall'Amministrazione, senza altro addurre se non l'irragionevolezza della decisione adottata, desunta, per l'appunto, dal contrasto (di norma non motivato o non ragionevolmente giustificato) tra il singolo provvedimento e una circolare.Analoga possibilità non può essere riconosciuta nel nostro sistema; l'eccesso di potere (comprese, ovviamente, le sue figure sintomatiche) è, infatti, il vizio tipico degli atti discrezionali, proprio perchè funzionale al sindacato sul corretto bilanciamento degli interessi in gioco contenuto nel provvedimento impugnato, ben poco adattabile al carattere generalmente vincolato degli atti dell'Amministrazione finanziaria.Riflessi sulla tutela giurisdizionaleSulla scia di tali principi, è possibile trarre alcune considerazioni generali in tema di tutela giurisdizionale del privato/contribuente a fronte dell'emanazione della circolare.Anche in alcune pronunce precedenti che costituiscono un importante chiave di lettura della sentenza in commento, la Cassazione ha correttamente escluso tanto l'impugnazione diretta della circolare dinanzi al giudice amministrativo, quanto la possibilità per il giudice ordinario di una disapplicazione della stessa nel corso delle controversie rimesse alla sua cognizione.Le affermazioni contenute nella sentenza sono condivisibili; esse, in sostanza, consolidano l'orientamento della prevalente giurisprudenza sul punto, respingendo per l'ennesima volta quella posizione isolata del giudice amministrativo che in passato aveva ammesso l'impugnazione immediata delle circolari.Questi principi possono essere pacificamente estesi anche all'eventuale impugnativa della circolare dinanzi alle Commissioni tributarie.Tuttavia, sul punto è necessaria una precisazione di più ampio respiro, partendo dall'affermazione, contenuta nella sentenza 237/2009, secondo cui l'impugnazione della circolare dinanzi al giudice amministrativo sarebbe preclusa a causa del difetto di giurisdizione del giudice adito. Tale affermazione, come si vedrà a breve, è corretta in sé, ma non inquadra correttamente il problema della tutela giurisdizionale del privato dinanzi alla circolare.Il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a fronte dell'impugnazione di una circolare dell'Amministrazione finanziaria, infatti, è eccepibile dal giudice in quanto con l'ampliamento e la generalizzazione della giurisdizione delle Commissioni tributarie, queste ultime sono diventate, in linea generale, il giudice per "materia".La Corte costituzionale, con la sentenza 130/2008, ha corretto in senso restrittivo la giurisdizione del giudice tributario (con riferimento, in particolare, alle sanzioni per lavoro nero irrogate dagli uffici dell'agenzia delle Entrate), ma è intervenuta in questa direzione richiamando proprio il principio della giurisdizione per materia (quella, in particolare, "dei tributi"), ribadendo, anziché negando, il carattere tendenzialmente pieno ed esclusivo della giurisdizione tributaria, pur con i suoi ancora evidenti limiti.Né in senso contrario appare decisivo il richiamo all'articolo 7, comma 4, dello Statuto dei diritti del contribuente, che non esclude la possibilità di ricorso agli organi della giustizia amministrativa per gli atti di natura tributaria; tale norma non nega la pienezza della giurisdizione tributaria, ma sembra fondare quella dei Tar rispetto ad atti per i quali il ricorso in Commissione tributaria è precluso dal carattere tendenzialmente (anche se non completamente) tassativo delle previsioni dell'articolo 19 del Dlgs 546/1992.Ad escludere l'impugnabilità delle circolari, pertanto, non vale il richiamo al difetto di giurisdizione, in quanto, ove si trattasse solo di un simile problema, occorrerebbe prevedere un canale di accesso immediato per la tutela del privato dinanzi al giudice tributario, o in via interpretativa (attraverso una difficilissima assimilazione della circolare a uno degli atti dell'articolo 19) ovvero in via normativa.Per negare la possibilità di impugnazione della circolare, appare più opportuno introdurre un altro concetto: la carenza di interesse a ricorrere. Leggendo le più recenti pronunce dei giudici amministrativi, si ritrova più che altro l'argomento secondo cui la circolare, di per sé sola, è inidonea a incidere su posizioni del privato, in quanto non ne determina una lesione immediata e diretta.In questa prospettiva, non si tratta di individuare il giudice "competente" a conoscere delle controversie generate da una circolare, quanto di escludere la possibilità di una tutela immediata in quanto non v'è alcuna lesione concreta e diretta della platea dei contribuenti ai quali può, ma solo indirettamente, essere rivolto il chiarimento interpretativo.Considerazioni conclusive sugli effetti delle circolariI principi contenuti nella sentenza sono in linea con la ricostruzione tradizionale proposta dalla dottrina a proposito del ruolo delle circolari nell'ordinamento giuridico generale.Sia sotto il profilo del potere posto a fondamento sia sotto il profilo degli effetti sul contribuente (e, di conseguenza, sul piano della tutela giurisdizionale), la circolare costituisce, anche ove a prevalente contenuto interpretativo, atto di indirizzo della condotta degli uffici cui è rivolta e mai atto vincolante per il privato, destinatario solo mediato e indiretto.Ciò premesso, si tratta a questo punto di inquadrare in questo contesto il principio contenuto nell'articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente che, in maniera del tutto eccezionale rispetto a quanto finora prospettato, assegna alla circolare, come a qualunque atto dell'Amministrazione finanziaria diverso dall'interpello ex articolo 11 dello Statuto (in quanto atto a efficacia rafforzata), un effetto "esterno", quale atto che fonda l'affidamento del contribuente e costituisce causa di esclusione per l'applicazione di sanzioni e il recupero degli interessi. In deroga, infatti, alla ricostruzione fatta a proposito della circolare quale atto che esaurisce la sua portata applicativa sul piano interno, laddove il contribuente si sia adeguato alle indicazioni contenute in un atto dell'Amministrazione, fatto salvo il recupero del tributo (il quale discende dalla doverosità del concorso al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge), al contribuente non potranno essere irrogate sanzioni né richiesti interessi.Il ben noto principio della tutela dell'affidamento, cui la stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte riconosciuto il rango di principio generale dell'ordinamento, "prevale" quindi sul carattere meramente interno delle circolari e, senza mai tradursi in un motivo di ricorso che giustifichi da solo l'annullamento dell'atto e della pretesa in esso contenuta, può incidere sul diverso piano degli accessori del tributo.
Annalisa Cazzato




pubblicato il 10/02/2009
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