venerdì 2 gennaio 2009

Il Phishing


Phishing, l'illecito sguazza nella Rete. Natura penale e civile della truffa.
dr.ssa Simona Carmenati

Oggi il subdolo Lupo Cattivo non si traveste più da nonnina bisognosa, ma da ben noto istituto di credito, assumendone logo, sito web e ogni altro segno distintivo che induca l’ingenua e servizievole Cappucetto Rosso che naviga in Internet a fornire fiduciosa al malintenzionato i propri dati riservati per l’home banking (PIN, password, numero di carte di credito, informazioni su account personali).

Il Lupo Cattivo della Rete è il cosiddetto “phisher”, che con il semplice invio di un’e-mail del tutto credibile, per grafica e per il rimando a una url ingannevole che richiama quello della propria banca (un po’ meno credibile sarebbe invece questa stessa e-mail dal punto di vista di grammatica e sintassi italiana…) carpisce informazioni utili ad attingere ai conti correnti altrui.
Il fenomeno è sostanzioso: da marzo a settembre 2005 sono circolate ogni mese nuove e-mail truffaldine a nome di almeno 6 note realtà finanziare italiane. E sono già una quindicina, in questi primi giorni di settembre, i casi registrati a livello internazionale.
L’Avv. Luca Bovino ci guida in un percorso “anti-phishing” approfondendo il tema delle connotazioni e implicazioni legali del reato informatico.
Il “phishing” è espressamente definito e prescrivibile nell’ordinamento giuridico italiano?Non esiste una definizione del fenomeno “phishing” nel nostro ordinamento, ma non esiste neanche una definizione della parola “phishing” in alcun dizionario della lingua inglese, trattandosi di una storpiatura del verbo “to fish”, pescare. Una pesca alla quale abboccano, purtroppo, gli utenti più sprovveduti.
Ma il fatto che non vi sia una norma giuridica espressamente dedicata al phishing non significa che questa pratica sia lecita, tutt’altro.
A cosa attiene l’illiceità di questa pratica?
Per rispondere a questa domanda è opportuno ricordare che la finalità del phisher è quella di sottrarre agli utenti dati personali (come codici d’accesso, pin, password, userID, etc.) per poi sottrarre loro danaro depositato in conti correnti accessibili on-line.
Pertanto vi sono due momenti fondamentali da tener presente nel valutare l’illiceità del phisher: uno attiene ai raggiri informatici necessari per carpire i dati personali degli utenti; l’altro attiene alle manovre finanziarie e bancarie che il phisher deve porre in essere per trasferire il denaro sottratto agli utenti all’interno di posti sicuri.
Questa seconda fase è forse ancora più delicata della prima, perché una volta acquisita la disponibilità di un conto corrente on-line, il phisher dovrebbe cercare in ogni modo di nascondere le tracce, spesso in maniera illecita, delle movimentazioni che ha effettuato con il denaro altrui.
Possiamo correttamente parlare di truffa ai danni dell’utente, e di implicazioni di natura penale?
Credo proprio di sì. L’art. 640 c.p., al primo comma recita infatti «chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinquantuno euro a milletrentadue euro». Credo che gli elementi descritti dalla norma incriminatrice siano tutti ampiamente ravvisabili nella condotta del phisher. Partendo dalle e-mail maliziose contenenti un collegamento ipertestuale ingannatorio (gli artifizi ed i raggiri) che conduce verso un sito in tutto e per tutto identico a quello del proprio istituto di credito (l’induzione in errore), fino ad arrivare alla sottrazione dei codici d’accesso ai propri conti on-line e quindi la materiale sottrazione del denaro ivi custodito (ingiusto profitto ed altrui danno). Credo proprio che gli estremi dell’art. 640 c.p., comma 1, vi siano tutti. Non solo. Spesso gli attacchi di phishing integrano anche l’ipotesi di truffa aggravata prevista al n. 2) del comma 2 dell’art. 640 c.p., ipotesi che si verifica allorquando il fatto sia stato commesso «ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario». Il più delle volte capita, infatti, che il phisher nel proprio messaggio inviato al suo destinatario, lo inviti a recarsi repentinamente presso il sito della propria banca, paventando proprio rischi di truffe o altri accessi non consentiti ai propri dati.
Tuttavia, oltre alla truffa, credo che possano essere ravvisabili gli estremi di altri reati informatici e contro la privacy come ad esempio la frode informatica (art. 640 ter c.p.), l’accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615 ter c.p.) o l’illecito trattamento di dati personali (art. 167 D.Lgs. n. 196/2003).
Anche l’Istituto di credito può essere considerato parte offesa?
Anche in questo caso risponderei affermativamente. La persona offesa è il soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale che viene leso dall’azione del reo. In questo caso il bene della vita tutelato dalla norma incriminatrice, (prendiamo ad esempio sempre l’art. 640 c.p., tralasciando le altre ipotesi) è l’integrità del patrimonio durante le relazioni negoziali. Pertanto, per ritenere la banca una potenziale persona offesa, è opportuno verificare se tale truffa perpetrata dal phisher sia o meno suscettibile di arrecare un danno di natura patrimoniale anche alla banca. E la risposta non può che essere positiva. L’istituto di credito, infatti, nella maggior parte dei casi, non appena viene a conoscenza del fatto che alcuni suoi correntisti sono stati vittime di phishing è costretto ad adottare delle procedure straordinarie per informare la propria clientela e per invitarla a non divulgare i propri codici riservati. Tale tipo di informativa viene generalmente rilasciata in via riservata e non tramite pubblici annunci (per ovvi motivi legati alla pubblicità negativa che subirebbe la banca) con l’inevitabile aggravio di spesa che la comunicazione riservata comporta. Molte banche hanno attivato, inoltre, degli appositi call-center ove i clienti possano rivolgersi in caso ricevano e-mail di dubbia provenienza. Difficile non vedere come tutte queste attività comportino un costo in termini di tempo e danaro per la banca e che costituiscano un indubbio danno che essa subisce a causa dell’azione del phisher, e che pertanto la legittimerebbe alla proposizione della querela. Ma non sarebbe del tutto sbagliato nemmeno ipotizzare un illecito civile…
L’intera attività del phisher si configura come un illecito trattamento di dati personali dei soggetti colpiti. I dati vengono carpiti, infatti, senza che vi sia un effettivo consenso informato dell’interessato, anzi quest’ultimo non può sapere che in realtà le informazioni che riceve dal phisher per convincerlo a recarsi presso il proprio account sono assolutamente false. In base al disposto dell’art. 15 del codice privacy, «chiunque cagioni un danno per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile».Tuttavia non sarebbe da escludere la possibilità di leggere il phishing come un’attività lesiva lesivo del principio del neminem laedere, criterio posto alla base della responsabilità extracontrattuale descritta dall’art. 2043 c.c. Il condizionale è d’obbligo data la novità della materia e data la ritrosia di molti operatori giuridici a considerare i bit come dei dati personali.Per quanto riguarda l’utente raggirato mi viene da pensare “oltre al danno, la beffa” di essere stata parte attiva, nel fornire ingenuamente di propria mano i dati che verranno usati contro di sé. Per l’Istituto di credito, custode delle informazioni sensibili, si può riscontrare una sorta di responsabilità in questa “falla”?Certamente, nell’articolo che abbiamo pubblicato sul sito ho sostenuto proprio questa eventualità che, per quanto apparentemente paradossale, non credo sia da sottovalutare.Le norme di riferimento per comprendere meglio questa tesi sono gli artt. 15 e 31 del codice privacy, D.Lgs. n. 196/2003, e l’art. 2050 del codice civile.Alla luce di a tale combinato disposto emerge la seguente disciplina: chiunque tratti dati personali altrui, e non adoperi tutti gli accorgimenti previsti dal progresso tecnico per evitare i rischi che incombono sui dati medesimi, risponderà nelle forme previste dall’art. 2050 c.c. (quindi subendo l’inversione dell’onere della prova in giudizio) nel caso si verifichino dei danni ai soggetti a cui facciano riferimento tali dati. Il danno deve in sostanza essersi verificato, per l’appunto, per effetto del mancato ottemperamento del titolare a tali obblighi di custodia e controllo.Non è superfluo ricordare che, a mente dell’art. 31 del codice privacy, ogni titolare di un trattamento di dati personali (qual è per l’appunto l’istituto di credito riguardo i dati dei propri clienti) deve custodire e controllare i dati personali trattati in modo da ridurre al minimo il rischio di accessi non autorizzati agli stessi.In particolare, prescrive il codice privacy, tale custodia e tale controllo devono essere commisurati alla conoscenze acquisite in base all’evoluzione del progresso tecnico, oltre che del tipo di trattamento effettuato. Ergo, la gestione di conti correnti on-line, piuttosto che off-line, prevede per il titolare l’obbligo di predisporre misure ulteriori ed “evolute” per cautelarsi dal rischio di accessi non consentiti o non autorizzati. Ciò con particolare riguardo ad un rischio “nuovo” per l’istituto di credito, legato all’evoluzione del progresso tecnico in materia di software per la realizzazione di pagine web, ovvero quello di subire il pharming (ovvero una illecita “clonazione”) del sito da cui vengono gestiti gli account dei propri clienti. Il sito a cui ti riferisci è il portale www.anti-phishing.it, presso il quale sei editorialista e che rappresenta il punto di riferimento on line contro le tecniche e i comportamenti fraudolenti a cui la Rete è soggetta, per esempio il citato pharming.
Quali altre tecniche fraudolente hai approfondito, dal punto di vista legale, sul sito?
Nel sito, per il momento, vi sono due approfondimenti di natura legale: uno dedicato, per l’appunto, al phishing, un altro invece relativo allo spamming.Come avrai potuto vedere nel sito c’è un’apposita sezione dedicata agli approfondimenti, di carattere però prevalentemente divulgativo, che comprende circa 7-8 minacce telematiche come i dialers, il keylogging, il pharming, gli spyware, il cybersquatting etc..Ecco l’obiettivo, forse un po’ ambizioso, è quello di approfondire anche da un punto di vista giuridico questi fenomeni con appositi contributi da aggiungere nel sito almeno quindicinalmente. Eppoi magari ampliare la lista delle insidie da approfondire sempre seguendo questo doppio binario:divulgativo-legale. Naturalmente non pretendo di fare tutto da solo, non ne sarei assolutamente in grado, e approfitto di questa intervista per invitare a chiunque fosse interessato a farsi avanti per collaborare con noi in questo percorso di studi e di ricerca. Ma la comunità dei cyber-giuristi è molto attiva, abbiamo già ricevuto alcune proposte di collaborazione, e sono convinto che molte ancora ne arriveranno.Il prossimo argomento che affronteremo nel sito sarà, con tutta probabilità, legato a un’altra perniciosa insidia che da diversi anni si fa viva: i dialers illegali.Tornando al phishing in particolare, stiamo parlando di qualcosa che tocca molto concretamente il nostro conto corrente, ma che viaggia “nell’etere” ed è reso strutturalmente possibile solo dalla realtà di Internet. Siamo nelle mani dei colossi informatici… Ti risultano contenziosi, in materia di phishing, che coinvolgano Microsoft, per esempio?Con riferimento a Microsoft vi sono oltre 400 casi di phishing nei confronti dei suoi servizi o prodotti segnalati da istituti di ricerca americani come il Froud Watch International o Anti-phishing.org. Anzi proprio nei confronti dell’azienda di Seattle è stata riscontrata una nuova forma di phishing che prescinde dall’invio di e-mail: la truffa consisterebbe nel realizzare dei siti apparentemente della Microsoft che invitano l’utente ad effettuare dei check sui propri sistemi operativi e sui propri software per evitare il rischio di eventuali vulnerabilità.A quel punto vengono riscontrate falsi malfunzionamenti e vengono paventati rischi di vulnerabilità altissimi, suggerendo l’installazione di potenti software anti intrusione proponendoli a prezzi irrisori. Una volta che l’utente paga tali software tramite carta prepagata, carpiscono i suoi codici.Reputi che si possano riscontrare altri illeciti di natura penale a carico del phisher?Come detto in precedenza, il phishing descrive una condotta idonea ad integrare gli estremi di ulteriori reati oltre alla truffa.Ad esempio il reato di frode informatica (art. 640 ter c.p.) che, come ha ricordato più volte la giurisprudenza della Cassazione (v., in particolare Cass. sez. IV, 4 ottobre 1999, n. 3056), ha la medesima struttura, e quindi i medesimi elementi costitutivi, della truffa, dalla quale si distingue solamente perché l'attività fraudolenta dell'agente investe non la persona, bensì il sistema informatico. Inoltre nel reato di frode informatica non rileva l’eventuale “induzione in errore” che, invece, è un elemento costitutivo dell’ipotesi prevista dall’art. 640 c.p. Di talché il phishing da un lato, induce in errore la persona che fornisce inconsapevolmente i propri dati al phisher, dall’altro lato la sua azione investe il sistema informatico dell’istituto creditizio poiché interviene sine titulo all’interno dello stesso.Il comportamento del phisher è idoneo, astrattamente, ad integrare gli elementi di un ulteriore reato: l’accesso abusivo ad un sistema informatico, previsto dall’art. 615 ter c.p. ed anch’esso introdotto, come il reato di frode informatica, dalla legge n. 547/93. L’art. 615 ter c.p. punisce chiunque «abusivamente si introduce all’interno di un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo». ,Inoltre vi sarebbe, astrattamente, la possibilità di configurare il reato previsto dalla legge privacy ma l’”illecito trattamento di dati personali”, questa la rubrica dell’art. 167 del D.Lgs. 196/2003, si configura soltanto ove il fatto commesso non sia idoneo a configurare reati più gravi (quali sono appunto la truffa, la frode informatica e l’accesso abusivo.Preferirei descrivere l’intera gamma degli illeciti compiuti dal phisher nell’ambito del reato continuato, poiché il phisher commette una molteplicità di reati collegati fra loro (truffa, illecito trattamento dei dati personali, accesso abusivo, frode informatica ed eventualmente ulteriori reati fiscali) nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso, qual è appunto, quello di raggirare il malcapitato utente di servizi di home banking.Cosa ti ha spinto a sviluppare competenze mirate alla trattazione delle frodi on line? E quali, secondo la tua esperienza, le più complesse come comportamenti antigiuridici di natura penale?L’interesse verso il phishing è scaturito in parte da una mia personale passione per l’informatica e la telematica che mi ha portato ad approfondire molti argomenti in Master e corsi post universitari, apprendendo utilissime informazioni funzionali alla mia professione.Ma credo sia stato soprattutto un senso di spirito civico ad avermi spinto a collaborare alla realizzazione di Anti-Phishing Italia. Lo stesso spirito che anima tutti coloro che si battono contro le frodi on-line, le quali, spesse volte, sarebbero facilmente evitabili se vi fosse maggiore informazione intorno a questi argomenti. Per quanto riguarda le frodi più complesse… bè sicuramente quelle legate ai dialers. Lì è oggettivamente molto difficile non vedere una compartecipazione causale della persona offesa alla realizzazione del reato, la quale molto spesso porta a far sì che la condotta del reo possa vedersi scriminata dal consenso dell’avente diritto. Nel caso dei dialers, peraltro, a differenza del phishing, molto spesso non c’è nessun intento immediatamente ingannatorio o fraudolento. Si tratta di software utilizzati per navigare all’interno di siti che offrono determinati servizi a pagamento. L’illiceità attiene generalmente, (per non dire esclusivamente) alla poca trasparenza dei messaggi inseriti dai webmaster e dall’ambiguo atteggiamento degli operatori telefonici. Ma questo forse è un discorso che ci porterebbe troppo lontano…

martedì 30 dicembre 2008

Interventi interpretativi con riguardo al patto di prova nel settore del lavoro privato

29/12/2008
Polito Antonio M.
(in Diritto & Diritti)
Il patto di prova nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione: un’analisi tematica

Una recente serie di pronunce della Corte di Cassazione si è occupata della disciplina del c.d. ‘patto di prova’ nel settore del lavoro privato. Di per sé, tali interventi interpretativi non hanno apportato letture propriamente ‘inedite’ di tale istituto, né significativi stravolgimenti nella valutazione di ciascuno dei singoli elementi tipici di tale disciplina (forma, funzione economica, onere della prova, ecc.). Tuttavia, tale rinnovato interessamento della Corte e la persistenza, nella relativa giurisprudenza, di elementi di obiettiva scivolosità e precaria determinatezza, suggeriscono la necessità di una pur agile puntualizzazione di alcuni di tali elementi, e ciò a partire proprio da quanto ribadito più recentemente.
In via preliminare, tuttavia, è opportuno riepilogare le fonti normative inerenti il ‘patto di prova’, atteso che, come si vedrà, non tutta la disciplina dell’istituto vi viene rappresentata.
Il riferimento più antico al ‘periodo di prova’, dunque, lo ritroviamo nel R.D.L. n. 1825 del 13 novembre 1924, all’art. 4, che determina non solo il vincolo di forma scritta (che si definirebbe ‘ad substantiam’) di tale patto (comma 1 e 3), ma anche il limite temporale di 3 o di 6 mesi (comma 4), a seconda di determinate categorie lavorative, oltre che l’assenza di obblighi di preavviso o indennità in caso di “risoluzione” del contratto (comma 5) controbilanciato dal riconoscimento dell’anzianità di servizio unicamente per il “periodo di prova seguito da conferma” (comma 6).
In realtà, almeno parte di tale norma è stata sostituita (pur non con espressa disposizione: cfr. art. 98 Disp. Att. Cod. Civ.) dall’articolo 2096 del Codice civile, che mantiene il vincolo di forma scritta (comma 1), l’assenza di obblighi di preavviso o di indennità in caso di “recesso” dal contratto (comma 3) ed il riconoscimento dell’anzianità di servizio solo una volta “compiuto il periodo di prova” (comma 4). Tale ultimo comma, giova dirlo per completezza, è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 189 del 22 dicembre 1980 “nella parte in cui non riconosce il diritto alla indennità di anzianità […] nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo”.
La disciplina legislativa generale del ‘patto di prova’ termina qui, atteso che solo per il contratto di apprendistato sono previste specificazioni limitatamente alla durata di tale periodo (2 mesi: cfr. L. 25/1955), escludendo la recentissima disciplina prevista dal D.L. 112/2008, convertito con L. 133/08, di cui non interessa occuparsi in questa sede.
A fronte di tale esigua regolamentazione legislativa, dunque, il ‘patto di prova ha trovato nell’interpretazione giurisprudenziale il momento più analitico della sua elaborazione, ma ciò, come subito si vedrà, non sempre senza incertezze o contraddizioni, presenti anche nelle recenti letture della Suprema Corte.

1) La durata.
Un primo elemento affrontato dalla Corte nella sentenza n.24282 del 29 settembre 2008, è quello dei limiti di durata del periodo di prova. Sul punto, la decisione, intendendo “dare continuità [a] decisioni risalenti nel tempo ma non smentite”, ha “fissato il principio per cui l’art. 2096 cod. civ., nel disciplinare l’assunzione in prova del lavoratore, non ha esaurito l’intera regolamentazione di questo speciale fenomeno nell’ambito del rapporto di lavoro, ma ha semplicemente dettato una disciplina di carattere generale che, anziché escludere, implica l’integrazione ad opera di altre norme, riguardanti elementi e modalità particolari”.
Da tale assunto, quindi, la Corte deduce la piena operatività del R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825, che non si può ritenere abrogato dalla successiva emanazione del Codice civile vigente e nello specifico non può ritenersi abrogato l’art.4 di detto R.D.L., “che fissa la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti” per i quali invece, in virtù del medesimo articolo e del medesimo ragionamento, il periodo massimo di prova deve considerarsi di sei mesi.
Il termine di sei mesi, peraltro, viene preso anche in considerazione dall’art. 10 della L. 604/1966, il quale precisa che tale legge si applica anche ai lavoratori assunti in prova, dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, dal momento in cui sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. La Corte ha quindi anche precisato che la L. 604/1966 “non ha inteso dettare una nuova disciplina del contratto di assunzione in prova e fissare un nuovo termine alla sua durata, tale da rendere inoperante la disciplina precedente” che anzi, sul punto, non si ritiene possa porre alcun problema di compatibilità.

2) La causa del patto e l’interesse delle parti.
Contrariamente all’aspetto precedente, frutto di dubbi più per motivi di ordine formale che sostanziale, uno degli aspetti più spigolosi della disciplina del patto di prova risiede proprio nella valutazione dell’interesse che le parti possono avere al suo inserimento, dalla cui fumosità derivano, come vedremo, incertezze interpretative inerenti altri aspetti dell’istituto.
Da ultima, infatti, la sentenza n. 27314 del 17 novembre 2008 specifica come “la causa del patto di prova va[da] individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
Ma è bene ricordare, invece, che la meno recente sentenza n. 22637 del 02 dicembre 2004, più analiticamente, specifica che “per la complessità degli obblighi e dei diritti rispettivi, derivanti dal contratto di lavoro, la verifica della convenienza reciproca delle parti all’instaurazione del rapporto, implica valutazioni più complesse che non quella della sola idoneità del dipendente alle mansioni che è destinato ad espletare, essendo rilevante altresì valutare complessivamente la di lui personalità, in relazione all’interesse dell’impresa, con riferimento anche agli obblighi di diligenza, disciplina e fedeltà (art. 2104 e 2105 C.c.)”.
Come è già facile intuire, pertanto, la questione appare più complicata del previsto, avendo la giurisprudenza della Corte elaborato ben più di un elemento sulla base del quale valutare la ‘reciproca convenienza del contratto’, ed in forme che, a volte in maniera poco organica ed in apparente contrasto con la sua funzione ‘nomofilattica’, hanno tuttavia l’innegabile pregio di ancorare sempre il dato interpretativo alla concreta fattispecie oggetto di causa.
Ma le difficoltà non sono finite, in quanto ancora nella sentenza n. 27314/2008 si fa riferimento, nei possibili elementi di valutazione, “non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”, aspetti la cui esatta valutazione, francamente, sfugge, lambendo sin troppo da vicino, se non debitamente limitati, dati c.d. ‘sensibili’ della persona del lavoratore, la cui valutazione appare di legalità quantomeno sospetta… Si specifica, per esattezza, che la fattispecie concreta ha per oggetto una sequenza di rapporti di lavoro e pertanto tale valutazione prende in considerazione le ‘variazioni’ di tali aspetti, ma a nostro avviso le perplessità espresse rimangono invariate.
Così come, sempre Cass. 22637/2004, fa emergere un ulteriore possibile elemento di valutazione della ‘convenienza’ al contratto da parte dell’azienda, che esula del tutto dalla persona del lavoratore, ovvero l’inserimento della “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale”. Anche qui, come in Cass. 27314/2008, il riferimento non è diretto bensì finalizzato a dar prova di un precedente rapporto di lavoro (la cui disciplina si affronterà nel prosieguo), ma l’argomentazione della Corte appare pertinente anche in fattispecie, diciamo così, più statiche: il mancato interesse dell’azienda per le prestazioni di un lavoratore potrebbe in astratto prescindere dalle qualità di questi ma dipendere dall’oggettiva, e comprovata, mancanza di inserimento organizzativo. A questo punto, però, i dubbi che potrebbero emergere atterrebbero una eventuale incapacità e responsabilità organizzativa (preliminare al rapporto lavorativo) da parte dell’azienda; un’incapacità che, come tale, sarebbe del tutto indipendente dallo svolgimento delle prestazioni da parte del lavoratore e pertanto ingiusto farla ricadere su quest’ultimo.
Ma un ulteriore aspetto che, nonostante la sua importanza, poche volte ha suscitato l’interesse della giurisprudenza della Corte, è quello dell’interesse del lavoratore alla stipula del patto. Nonostante infatti tutte le interpretazioni diano per scontata la necessità, ai fini della legittimità della apposizione, della presenza dell’interesse anche di quest’ultimo, e che lo stesso art. 2096 C.c. faccia esplicito riferimento al fatto che “il prestatore di lavoro [sia] tenut[o] a fare l’esperimento che forma oggetto di prova”, ben raramente la Corte si è interessata all’argomento, ed uno di tali rari casi è quello della recentissima sentenza n.27805 del 21 novembre 2008. Nel caso in esame, infatti, tra le doglianze promosse dalla lavoratrice ricorrente, troviamo proprio quella che, atteso il suo stato di necessità e di disoccupazione, ed atteso che la stessa ricorrente avesse già svolto le medesime mansioni per il medesimo appaltante, “nella specie il patto di prova si risolveva nella attribuzione al datore di lavoro di una prerogativa senza alcun corrispondente vantaggio per il lavoratore” e che questi “non aveva altra alternativa al suo stato di disoccupazione”. Conseguentemente, il patto di prova sarebbe dovuto essere dichiarato “nullo sia per difetto di causa sia perché la volontà del lavoratore di sottoscriverlo era del tutto mancante dovendo ritenersi coartata”.
Prescindendo in questa sede da elementi di natura probatoria, la lettura che la Corte ha dato sino ad oggi alla questione, sopra ricordata, sarebbe del tutto conforme a quanto prospettato dalla ricorrente, e con rigore giuridico bisognerebbe comparare la nullità del patto per inesistenza della ‘prova’ (in quanto per esempio già fornita in precedenza), alla nullità per inesistenza dell’interesse del prestatore di lavoro alla valutazione dell’“entità della prestazione” e delle “condizioni di svolgimento del rapporto” (Cass. 27314/2008), anche in questo caso, ad esempio, in quanto già perfettamente conosciute. Una interpretazione fedele agli stessi principi dettati dalla Corte, dunque, dovrebbe portare a tale tipo di conclusione. Al contrario, la sentenza del 21 novembre scorso non porta a compimento tali presupposti interpretativi, concludendo invece come “la mancanza da parte della lavoratrice di un interesse ad avvalersi in concreto del patto, per la sua contingente condizione di disoccupata, costituisce un motivo personale che non esclude la causa oggettiva della pattuizione” e che “va osservato che la scelta della contraente è dovuta ad una spontanea ed autonoma valutazione di convenienza che nulla ha a che vedere con la minaccia di un male ingiusto e notevole proveniente dall’altro contraente o da terzi”…
Mentre dunque la Corte di Cassazione ha, ad oggi, più volte sanzionato la nullità del patto di prova per assenza dell’interesse del datore di lavoro, non risultano precedenti, nello stesso senso, per assenza di interesse da parte del prestatore di lavoro. Tale vera e propria ‘lacuna’ giuridica, pur di origine giurisprudenziale e non normativa, suggerirebbe un attento approfondimento di tale tematica ed una particolare cautela nel suo uso in giudizio.

3) Le mansioni: a) loro determinatezza.
Argomento centrale e vero e proprio perno del patto di prova, sono però le mansioni a cui il lavoratore viene adibito. Fortunatamente, questa volta la giurisprudenza anche recente della Corte di Cassazione è stata particolarmente analitica ed attenta, dedicandovi pagine analitiche e coerenti.
Il primo aspetto oggetto di attenzione da parte della Corte, è quello relativo al loro livello di determinatezza. Ancora la sentenza n. 24282 del 29 settembre 2008 afferma che il patto di prova deve “contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletare, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate”. A nostro avviso, l’importanza di tale specificazione risiede nella individuazione del vero motivo alla base della indicazione delle mansioni, che è quello della univoca ed ‘insindacabile’ valutazione dell’esito della prova, attività giuridicamente incompatibile con una indicazione generica dell’oggetto della stessa: in altre parole, in assenza di sufficiente determinatezza nelle mansioni, mancherebbe qualsiasi elemento oggettivo per la correttezza di tale valutazione.
A tal fine, è stata valutata la possibilità, oltre che ad una puntuale elencazione delle mansioni, di inserire un più generico ed indiretto riferimento al sistema classificatorio contenuto nella contrattazione collettiva di categoria. Tale sistema di riferimento è stato dichiarato del tutto legittimo e rispettoso delle condizioni di determinatezza e specificità delle mansioni oggetto di prova, a patto che “rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata” (sempre Cass. 24282/2008).
Si ricorda infine per completezza, che la sentenza n. 17045 del 19 agosto 2005 (richiamata dalla precedente) afferma che “tale requisito implicito della specificità delle mansioni è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, tanto che sul punto può parlarsi ormai di diritto vivente”.

4) Le mansioni: b) patto di prova e variazione ex art. 2103 C.c.
Quasi un corollario al tema precedente, ma non privo di autonome problematiche, è quello della possibilità di un eventuale ‘ius variandi’ delle mansioni oggetto di ‘prova’.
Sul punto, Cass. 17045/2005, in continuità con il discorso precedente, puntualizza che, in ordine alla necessaria specificità delle mansioni, questa non possa “spingersi fino a richiedere l’indicazione delle ‘prime’ mansioni assegnate in concreto al lavoratore in prova, perché, se solo queste fossero oggetto della prova, non sarebbero modificabili con deroga allo ‘ius variandi’”. Tuttavia, continua il ragionamento della Corte, “dall’art. 2096 C.c., pur letto alla luce di C. Cost. n.189 del 1980, non è possibile ricavare anche una tale rigidità, ossia un divieto di modificare, nel corso del periodo di prova, le mansioni del lavoratore nel rispetto dell’art. 2103 C.c.”.
Ad una generale compatibilità del periodo di prova e della dettagliata indicazione delle mansioni oggetto dello stesso, con la facoltà datoriale di cui all’art.2103 C.c., quindi, la Corte specifica come “rientr[i] semmai nell’autonomia delle parti eventualmente vincolare la prova alle sole mansioni di prima assegnazione con la conseguenza che solo dopo l’espletamento (e quindi il superamento) della prova il datore di lavoro [possa] esercitare lo ‘ius variandi’”. Eventualità che, se nella pratica è estremamente rara da rinvenire, da un punto di vista tecnico-giuridico può indubbiamente ampliare la duttilità e la completezza della fattispecie.

5) Le mansioni: c) vizi e nullità del patto.
Per ragioni sistematiche, converrà inserire sotto la tematica delle ‘mansioni’ anche la problematica inerente la loro mancata valutazione da parte datoriale, che toglie al patto di prova il suo motivo d’essere (causa), sanzionandolo con la nullità.
Al di là degli elementi collegati al recesso, che verranno trattati nel punto precedente, interessa qui occuparsi invece dei casi in cui in realtà la ‘prova’ delle abilità e/o della personalità del lavoratore non potrebbe riscontrarsi, attesa la già piena conoscenza di tale elemento, da parte datoriale, derivante da un pregresso rapporto lavorativo.
Anche questo aspetto è stato affrontato dalle recenti pronunce della Corte, che nella sentenza n. 27330 del 17 novembre 2008, dopo aver ricordato che la causa tipica del patto “mira a tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto”, sottolinea che “deve ritenersi illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni”. Nella fattispecie sottoposta all’attenzione del giudicante, la lavoratrice aveva lavorato durante il rapporto subordinato ‘in prova’ con le stesse mansioni che aveva già svolto in precedenza in virtù di un patto di Inserimento Professionale stipulato con il medesimo studio professionale.
Al contrario, tuttavia, Cass. 27314/2008 specifica che “è ben ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati dalle stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”; aspetto che in parte abbiamo già trattato negli elementi tipici del patto di prova e che qui si ripropone per sottolineare come una certa distanza temporale tra due rapporti di lavoro, tra medesimi soggetti e per la medesima tipologia di mansioni, possa anche, lì dove dimostrato, comportare la necessità di una nuova verifica delle qualità del prestatore di lavoro (nella fattispecie sottoposta alla valutazione del giudicante, l’intervallo temporale era stato di circa quattro anni).
Ma la recente analisi della Corte si è spinta anche oltre, considerando anche la possibilità di una variazione soggettiva del rapporto contrattuale.
La già citata sentenza n. 27805/2008, infatti, considera il caso in cui una lavoratrice socialmente utile ha lavorato prima per una ASL, poi per una sua ditta appaltatrice, con le medesime mansioni e per la medesima tipologia di lavoro. Ebbene, anche prescindendo da una evidenziata carenza probatoria in ordine all’“avere la [lavoratrice] già acquisito nel precedente rapporto di lavoro con la ASL le competenze necessarie allo svolgimento delle mansioni assegnate”, la Corte ritiene legittima l’apposizione, nel secondo rapporto, di un patto di prova (seguito da recesso della società appaltatrice), ritenendo “di tutta evidenza che l’avere la nuova assunta in precedenza svolto mansioni di archivio non esclude l’interesse del nuovo datore di lavoro di verificare il grado di preparazione e le attitudini allo svolgimento delle mansioni di cui la stessa sia in possesso”.
Al contrario, la poco più antica Cass. 22637/2004 insiste su un altro aspetto, che potremmo dire speculare al precedente: in questo caso, infatti, la lavoratrice presta la propria attività con le stesse mansioni e sempre all’interno della medesima struttura, ma prima in qualità di socia lavoratrice di una ditta appaltatrice, poi come diretta dipendente della struttura stessa. In questo caso, il patto di prova viene ritenuto “non funzionale alla sperimentazione della reciproca convenienza al contratto”, per “essere questa già avvenuta con esito positivo”.
Ulteriore elemento di estremo interesse, per l’oggetto della nostra analisi, è poi che la Corte ritiene dimostrabile tale circostanza anche “per presunzioni, essendo desumibile dalla sussistenza di un precedente rapporto di lavoro tra le parti o, come nella specie in esame, dall’avere in precedenza il lavoratore prestato per un congruo lasso di tempo la propria opera per il datore di lavoro”. Nel caso di specie, allora, risulta rilevante ed assorbente la circostanza per cui la “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale che ne ha tratto di fatto beneficio (e che ha poi proceduto all’assunzione del lavoratore), indipendentemente dalla circostanza, in concreto irrilevante, che il lavoratore fosse obbligato alla prestazione per l’attuazione di un diverso rapporto (nel caso ora in esame di società in una cooperativa di lavoro) e il destinatario effettivo della prestazione avesse diritto a pretenderla nei confronti di altro soggetto (la cooperativa)”.
L’interpretazione della Corte di Cassazione, dunque, appare anche qui coerente: ad essere considerato ai fini della valutazione della legittima e corretta ‘sperimentazione della convenienza’, non può essere il mero aspetto formale (tipologia del rapporto giuridico), bensì quello sostanziale (concreta possibilità di fare, o aver già fatto, tale valutazione).

6) Il recesso: a) motivazione.
Ma l’argomento sul quale la giurisprudenza, anche recente, della Corte trova le maggiori difficoltà nell’offrire un quadro giuridicamente coerente alla disciplina del patto di prova, è quello del recesso da parte del datore di lavoro e delle sue (eventuali) motivazioni. Sino ad oggi, infatti, le sentenze emanate dal Giudice delle Leggi continuano ad oscillare (a volte anche nell’ambito della stessa pronuncia) tra una tipologia di recesso ‘ad nutum’, come tale non motivato ed insindacabile da parte del prestatore di lavoro, ed una ipotetica ‘impugnabilità’ del licenziamento per insussistenza, o insufficienza, dei motivi.
Ricordiamo per un momento quanto sottolineato in precedenza: la univoca e dettagliata determinazione delle mansioni oggetto della ‘prova’ ha esattamente la funzione di rendere determinabile l’attività di valutazione stessa, che altrimenti, priva di riferimenti obiettivi, sarebbe contraria alla ratio del patto di poter sperimentare il comportamento professionale del lavoratore. Da cui, in logica conseguenza, l’eventuale nullità dello stesso in caso le motivazioni del recesso (esplicite o meno) possano prescindere da tale elemento di riferimento.
Ma tale linearità espositiva rimane in molti casi meramente teorica, come si anticipava.
La questione circa un’eventuale obbligatorietà delle motivazioni del recesso trova un (insuperabile?) ostacolo non solo nella giurisprudenza di Legittimità, bensì in quella della stessa Corte Costituzionale, che con la sentenza n.189 del 16 dicembre 1980 ha specificato come, dato che “nel sistema del codice civile (libro V, titolo II, sez. III) non è previsto l’obbligo dell’imprenditore di motivare il recesso dal contratto a tempo indeterminato e che tale obbligo è stato introdotto con l’art. 2 della legge n. 604 del 1966” e che “l’art. 2096, terzo comma, c.c., al di fuori dell’ambito di operatività della legge n. 604 del 1966, non sembra confliggere con gli invocati parametri costituzionali”, “ne deriva che la disposizione del c.c. (art. 2118) sul recesso dal contratto a tempo indeterminato [che obbliga solo nel dare il preavviso, ma non a fornire motivazione, n.d.r.] ha tuttora un suo campo di applicazione”. Ricordiamo infatti che l’art. 10 della L. 604/1966 esclude espressamente l’applicabilità di tale legge (che limita le possibilità di licenziamento in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai casi di giusta causa (art.1) o giustificato motivo (art.3), debitamente motivati) ai lavoratori “assunti in prova”, se non dal momento in cui “l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”.
La Corte Costituzionale sul punto è perentoria: non c’è previsione normativa che stabilisca l’obbligo di motivazione del recesso durante il patto di prova, così come né l’art. 35 né l’art. 4 della Carta garantiscono “il diritto alla conservazione del posto di lavoro”, né tantomeno una “applicazione indiscriminata del principio della giusta causa e del giustificato motivo nei licenziamenti, ma ‘lascia’ al legislatore ampia discrezionalità in materia” (da sent. Corte Cost. n. 129 del 1976).
Sin qui il ragionamento diretto alle fonti normative riferite, condivisibile o meno, appare logicamente consequenziale e giuridicamente esente da vizi. Ma è nel prosieguo che emergono le difficoltà.
A fronte di una, a nostro avviso condivisibile, ordinanza di rimessione del Giudice del Merito che lamentava la possibilità, in caso di recesso non doverosamente motivato, di una “assoluta discrezionalità garantita al datore di lavoro” e la possibilità di conseguenti comportamenti “vessatori e lesivi della dignità del lavoratore”, la Corte risponde che, attesa la presenza del precetto normativo del secondo comma dell’art. 2096 C.c. obbligante le parti “a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, “ne discende un primo limite alla discrezionalità dell’imprenditore”. Pertanto, il licenziamento intimato durante il periodo di prova “può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita […] quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato”.
Il Giudice delle Leggi, dunque, anche dalla lettura del dato normativo, sottolinea come il recesso non possa essere ‘assolutamente discrezionale’, ovvero tecnicamente ‘ad nutum’, ammettendo che “il lavoratore il quale ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale”. Il ragionamento della Suprema Corte, dunque, termina con la rassicurante conclusione che non riscontra “nelle disposizioni di legge censurate alcun attentato alla libertà ed alla dignità del lavoratore, soprattutto quando si riconosca la sindacabilità nei limiti anzidetti […] e l’annullabilità dell’atto nel quale si esprime, tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”.
A ben vedere, però, qui il ragionamento invece che chiarirsi, si fa inaspettatamente più confuso.
Ricapitoliamo: la Corte Costituzionale asserisce tanto la mancata presenza, nel nostro ordinamento, di un ‘principio generale di giustificazione del licenziamento’, individuabile esclusivamente nell’ambito applicativo della L. 604/1966, che l’inesistenza del dovere di motivare un atto giuridico di recesso che debba, però, tener conto dell’effettivo ‘esperimento’ delle proprie qualità, tecniche ma anche ‘personali’. Per far ciò, la Corte perviene così ad un concetto che lambisce da vicino un ossimoro logico e giuridico: quello di una discrezionalità ‘limitata’, ovvero di una “discrezionalità che si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore” ed in quanto tale suscettibile, coerentemente, di ‘prova contraria’ da parte del lavoratore.

Da qui i seguenti dubbi:
a) se la asserita ‘discrezionalità’ del datore è ‘limitata’, fino a che punto rimane ‘discrezionalità’, e fino a che punto non lo è più? Qual è il limite tra aspetti di natura soggettiva e quelli di natura oggettiva, in tale valutazione? Infatti
b) se addirittura può esser fornita ‘prova contraria’ da parte del lavoratore sulle sue competenze (e ciò la Corte lo ha chiaramente esplicitato), in cosa rimane ‘discrezionale’ la valutazione del datore di lavoro? E soprattutto
c) come può tutto questo essere compatibile con la resistente affermazione per la quale il provvedimento di recesso non avrebbe obbligo di motivazione? Al contrario non sarebbe, proprio sulla base di tale ragionamento, il ‘motivo’ posto alla base del recesso, l’unico fattore che potrebbe offrire una qualificazione ed un ambito dialettico sia alla ‘discrezionalità’ datoriale (che così si espliciterebbe) che alle eventuali contestazioni del lavoratore? Non sarebbe così, l’apposizione del motivo, l’unica garanzia in grado di rispecchiare e tutelare l’interesse di entrambe le parti?
d) Infine, non sembrerebbe la stessa Corte Costituzionale ‘suggerire’ la necessità di una motivazione quando ammette la “annullabilità dell’atto nel quale si esprime [il recesso del datore], tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”? Non si intravede quindi, anche nel parere della Corte Costituzionale, la consapevolezza che solo un recesso esplicitamente motivato potrebbe dar contezza tanto di una discrezionalità datoriale (vincolata però ad aspetti oggettivi e pertinenti) che di un legittimo (ma limitato) controllo del lavoratore?
Purtroppo, tale lontano ma autorevole precedente giurisprudenziale, con le contraddizioni che si sono illustrate, ha improntato delle sue incertezze argomentative tutta la giurisprudenza successiva del Giudice di Legittimità, che di volta in volta ha oscillato tra gli opposti di un recesso ‘ad nutum’ (la decisa maggioranza, anche recente) e quelli a favore di un maggior controllo sulla discrezionalità datoriale, molto spesso conviventi nella stessa decisione(cfr. ancora Cass. 17045/2005), ma in ciò facendo sottraendosi alla funzione c.d. ‘nomofilattica’ che ci si attende da tale giurisprudenza per ricevere un chiaro quadro di orientamento giuridico, sociale ed economico.

7) Il recesso: b) la prova.
Da quanto sin ora illustrato, ben si comprende come l’argomento dell’onere della prova, delle sue modalità e delle sue conseguenze, sia intimamente collegato all’interpretazione del patto stesso.
A seconda infatti che il dovere di motivazione, da parte del recedente, sia più o meno qualificato, deriva un più o meno ampio ‘dovere di prova’, a fronte di uno speculare ‘diritto di prova contraria’. Da questo punto di vista, quanto più ci avviciniamo ad una interpretazione ‘ad nutum’ del patto, tanto più escludiamo la possibilità stessa che ci possa essere sia ‘prova’ dei motivi del recesso, che conseguentemente ‘prova contraria’ da parte del soggetto che il recesso subisce.
Seguendo tale premessa, ad una interpretazione pienamente ‘ad nutum’, e quindi senza alcun obbligo di motivazione, corrisponderebbe una assoluta impossibilità di fornire prova contraria. Quanto più si allarga invece la possibilità di valutare i ‘motivi’ del recesso, tanto più si allargano le maglie entro le quali può inserirsi la possibilità di offrire prova contraria avverso comportamenti rescindenti ingiusti.
Và da sé, dunque, che i forti dubbi che si sono sollevati sulla opportunità e legittimità di una interpretazione del patto di prova come un’incondizionata ‘facoltà di recesso ad nutum’, pur limitata temporalmente, attengono principalmente alla possibilità, da parte di chi è destinatario di tale recesso, di poter avere strumenti di verifica e, nel caso, di difesa avverso azioni non giustificabili.
Oltre infatti a motivazioni di ordine generale, che dovrebbero suggerire un’estrema attenzione nell’individuazione di tali forme ‘ad nutum’, luogo principe di condotte ricattatorie e strumentali soprattutto nel settore del diritto del lavoro, i dubbi che si pongono in ordine ad una interpretazione di tal specie deriva, ancora una volta, dalle stesse letture che ne ha dato la Corte.
Pur con le incongruenze già sopra sottolineate, è ancora la sentenza n. 17045/2005 che, sul punto, specifica, nelle sue motivazioni, un passaggio estremamente importante. Dopo infatti aver affermato che, nel caso di specie, il riferimento alle mansioni contenute in un CCNL richiamato “si appalesava privo del necessario requisito di specificità”, la Corte sottolinea che “da ciò consegue che il recesso intimato dalla banca datrice di lavoro non si iscrive nell’eccezionale fattispecie di recesso ad nutum di cui all’art. 2096 C.c., esentato dall’applicabilità dell’ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento (art. 10 legge n. 604 del 1966), ma consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o giustificato motivo”. Ecco dunque che, in base a tale mutazione del titolo giuridico posto alla base dell’atto del datore di lavoro, “l’allegato mancato superamento della prova per inidoneità del [lavoratore] alle mansioni in concreto svolte ridonda in allegazione di un giustificato motivo di licenziamento rispetto al quale il controllo del giudice è pieno e non già limitato, come nel caso dell’art.2096 c.c., al riscontro dell’effettività dell’esperimento fatto e della mancanza di motivi discriminatori”.
In altre parole la Corte, ribadita la ‘eccezionalità’ della previsione di cui all’art. 2096 c.c. e confermata la facoltà di recesso ‘ad nutum’, pur compatibilmente con l’obbligo dell’effettività dell’esperimento della prova ed in assenza di motivi discriminatori, sancisce la mutazione del titolo di recesso in quello di licenziamento per giustificato motivo (oggettivo e soggettivo?), in ordine al quale il Giudice torna ad avere il pieno ‘controllo’ della motivazione.
L’importanza di tale ragionamento interpretativo, dunque, la si rinviene nel rendere particolarmente evidente il rapporto tra determinatezza (‘specificità’) dell’oggetto della prova, caratteristiche ‘eccezionali’ delle facoltà (‘ad nutum’) del datore di lavoro e limitato ‘controllo’ del Giudicante, ovvero della controparte, la cui ‘eccezionale’ disciplina, venuto meno uno degli elementi necessari, riporta (o “ridonda”) il recesso in una forma di licenziamento per giustificato motivo, restituendo così piena ‘cognitio’ alla fattispecie.
Tale ragionamento, conseguentemente, trova pieno riflesso nel regime delle prove, che godono in versione specularmente invertita, come abbiamo già sottolineato in apertura di paragrafo, dei medesimi limiti e dei medesimi ambiti di libertà.
Ancora una volta, dunque, l’argomento della ‘motivazione’ diventa, pur in presenza delle ambiguità già illustrate, il campo obiettivo rispetto al quale si confrontano le facoltà di agire delle parti, unitamente alle loro potenzialità probatorie ed allo stesso potere di ‘controllo’ dell’organo giudicante.
Se la (pur non obbligatoria) motivazione del recesso rappresenta ancora una volta, dunque, la forma più trasparente e difficilmente sindacabile di tale potere, l’esercizio di tale facoltà nelle forme più libere (‘ad nutum’), oltre a creare indubbie incertezze e difficoltà interpretative, sottopone a pericolose incertezze le parti coinvolte, soprattutto in relazione ad un soggetto terzo (giudice) il cui potere di sindacabilità e ‘controllo’, lì dove ritornato ‘pieno’, difficilmente potrebbe sostituirsi a valutazioni produttive che dovrebbero, in tali limiti, rimanere scelte soggettive del singolo imprenditore.
Anche per evitare il rischio di valutazioni terze che possano “ritenere illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo” (sent. Cass. n. 27330/2008) , ovvero agire per pericolose “presunzioni” (sent. Cass. n. 22637/2004), risulta dunque quanto mai opportuno esplicitare, nell’atto di recesso, le sue motivazioni, per offrire da un lato la legittima trasparenza richiesta dalla controparte e dall’altro non dover essere costretti a fornire elementi di ‘oggettività’ a valutazioni che dovrebbero, e potrebbero, non superare tale vaglio.


Antonio M. Polito
avvocato del Lavoro

Interventi interpretativi con riguardo al patto di prova nel settore del lavoro privato

29/12/2008
Polito Antonio M.
(in Diritto & Diritti)
Il patto di prova nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione: un’analisi tematica

Una recente serie di pronunce della Corte di Cassazione si è occupata della disciplina del c.d. ‘patto di prova’ nel settore del lavoro privato. Di per sé, tali interventi interpretativi non hanno apportato letture propriamente ‘inedite’ di tale istituto, né significativi stravolgimenti nella valutazione di ciascuno dei singoli elementi tipici di tale disciplina (forma, funzione economica, onere della prova, ecc.). Tuttavia, tale rinnovato interessamento della Corte e la persistenza, nella relativa giurisprudenza, di elementi di obiettiva scivolosità e precaria determinatezza, suggeriscono la necessità di una pur agile puntualizzazione di alcuni di tali elementi, e ciò a partire proprio da quanto ribadito più recentemente.
In via preliminare, tuttavia, è opportuno riepilogare le fonti normative inerenti il ‘patto di prova’, atteso che, come si vedrà, non tutta la disciplina dell’istituto vi viene rappresentata.
Il riferimento più antico al ‘periodo di prova’, dunque, lo ritroviamo nel R.D.L. n. 1825 del 13 novembre 1924, all’art. 4, che determina non solo il vincolo di forma scritta (che si definirebbe ‘ad substantiam’) di tale patto (comma 1 e 3), ma anche il limite temporale di 3 o di 6 mesi (comma 4), a seconda di determinate categorie lavorative, oltre che l’assenza di obblighi di preavviso o indennità in caso di “risoluzione” del contratto (comma 5) controbilanciato dal riconoscimento dell’anzianità di servizio unicamente per il “periodo di prova seguito da conferma” (comma 6).
In realtà, almeno parte di tale norma è stata sostituita (pur non con espressa disposizione: cfr. art. 98 Disp. Att. Cod. Civ.) dall’articolo 2096 del Codice civile, che mantiene il vincolo di forma scritta (comma 1), l’assenza di obblighi di preavviso o di indennità in caso di “recesso” dal contratto (comma 3) ed il riconoscimento dell’anzianità di servizio solo una volta “compiuto il periodo di prova” (comma 4). Tale ultimo comma, giova dirlo per completezza, è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 189 del 22 dicembre 1980 “nella parte in cui non riconosce il diritto alla indennità di anzianità […] nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo”.
La disciplina legislativa generale del ‘patto di prova’ termina qui, atteso che solo per il contratto di apprendistato sono previste specificazioni limitatamente alla durata di tale periodo (2 mesi: cfr. L. 25/1955), escludendo la recentissima disciplina prevista dal D.L. 112/2008, convertito con L. 133/08, di cui non interessa occuparsi in questa sede.
A fronte di tale esigua regolamentazione legislativa, dunque, il ‘patto di prova ha trovato nell’interpretazione giurisprudenziale il momento più analitico della sua elaborazione, ma ciò, come subito si vedrà, non sempre senza incertezze o contraddizioni, presenti anche nelle recenti letture della Suprema Corte.

1) La durata.
Un primo elemento affrontato dalla Corte nella sentenza n.24282 del 29 settembre 2008, è quello dei limiti di durata del periodo di prova. Sul punto, la decisione, intendendo “dare continuità [a] decisioni risalenti nel tempo ma non smentite”, ha “fissato il principio per cui l’art. 2096 cod. civ., nel disciplinare l’assunzione in prova del lavoratore, non ha esaurito l’intera regolamentazione di questo speciale fenomeno nell’ambito del rapporto di lavoro, ma ha semplicemente dettato una disciplina di carattere generale che, anziché escludere, implica l’integrazione ad opera di altre norme, riguardanti elementi e modalità particolari”.
Da tale assunto, quindi, la Corte deduce la piena operatività del R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825, che non si può ritenere abrogato dalla successiva emanazione del Codice civile vigente e nello specifico non può ritenersi abrogato l’art.4 di detto R.D.L., “che fissa la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti” per i quali invece, in virtù del medesimo articolo e del medesimo ragionamento, il periodo massimo di prova deve considerarsi di sei mesi.
Il termine di sei mesi, peraltro, viene preso anche in considerazione dall’art. 10 della L. 604/1966, il quale precisa che tale legge si applica anche ai lavoratori assunti in prova, dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, dal momento in cui sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. La Corte ha quindi anche precisato che la L. 604/1966 “non ha inteso dettare una nuova disciplina del contratto di assunzione in prova e fissare un nuovo termine alla sua durata, tale da rendere inoperante la disciplina precedente” che anzi, sul punto, non si ritiene possa porre alcun problema di compatibilità.

2) La causa del patto e l’interesse delle parti.
Contrariamente all’aspetto precedente, frutto di dubbi più per motivi di ordine formale che sostanziale, uno degli aspetti più spigolosi della disciplina del patto di prova risiede proprio nella valutazione dell’interesse che le parti possono avere al suo inserimento, dalla cui fumosità derivano, come vedremo, incertezze interpretative inerenti altri aspetti dell’istituto.
Da ultima, infatti, la sentenza n. 27314 del 17 novembre 2008 specifica come “la causa del patto di prova va[da] individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
Ma è bene ricordare, invece, che la meno recente sentenza n. 22637 del 02 dicembre 2004, più analiticamente, specifica che “per la complessità degli obblighi e dei diritti rispettivi, derivanti dal contratto di lavoro, la verifica della convenienza reciproca delle parti all’instaurazione del rapporto, implica valutazioni più complesse che non quella della sola idoneità del dipendente alle mansioni che è destinato ad espletare, essendo rilevante altresì valutare complessivamente la di lui personalità, in relazione all’interesse dell’impresa, con riferimento anche agli obblighi di diligenza, disciplina e fedeltà (art. 2104 e 2105 C.c.)”.
Come è già facile intuire, pertanto, la questione appare più complicata del previsto, avendo la giurisprudenza della Corte elaborato ben più di un elemento sulla base del quale valutare la ‘reciproca convenienza del contratto’, ed in forme che, a volte in maniera poco organica ed in apparente contrasto con la sua funzione ‘nomofilattica’, hanno tuttavia l’innegabile pregio di ancorare sempre il dato interpretativo alla concreta fattispecie oggetto di causa.
Ma le difficoltà non sono finite, in quanto ancora nella sentenza n. 27314/2008 si fa riferimento, nei possibili elementi di valutazione, “non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”, aspetti la cui esatta valutazione, francamente, sfugge, lambendo sin troppo da vicino, se non debitamente limitati, dati c.d. ‘sensibili’ della persona del lavoratore, la cui valutazione appare di legalità quantomeno sospetta… Si specifica, per esattezza, che la fattispecie concreta ha per oggetto una sequenza di rapporti di lavoro e pertanto tale valutazione prende in considerazione le ‘variazioni’ di tali aspetti, ma a nostro avviso le perplessità espresse rimangono invariate.
Così come, sempre Cass. 22637/2004, fa emergere un ulteriore possibile elemento di valutazione della ‘convenienza’ al contratto da parte dell’azienda, che esula del tutto dalla persona del lavoratore, ovvero l’inserimento della “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale”. Anche qui, come in Cass. 27314/2008, il riferimento non è diretto bensì finalizzato a dar prova di un precedente rapporto di lavoro (la cui disciplina si affronterà nel prosieguo), ma l’argomentazione della Corte appare pertinente anche in fattispecie, diciamo così, più statiche: il mancato interesse dell’azienda per le prestazioni di un lavoratore potrebbe in astratto prescindere dalle qualità di questi ma dipendere dall’oggettiva, e comprovata, mancanza di inserimento organizzativo. A questo punto, però, i dubbi che potrebbero emergere atterrebbero una eventuale incapacità e responsabilità organizzativa (preliminare al rapporto lavorativo) da parte dell’azienda; un’incapacità che, come tale, sarebbe del tutto indipendente dallo svolgimento delle prestazioni da parte del lavoratore e pertanto ingiusto farla ricadere su quest’ultimo.
Ma un ulteriore aspetto che, nonostante la sua importanza, poche volte ha suscitato l’interesse della giurisprudenza della Corte, è quello dell’interesse del lavoratore alla stipula del patto. Nonostante infatti tutte le interpretazioni diano per scontata la necessità, ai fini della legittimità della apposizione, della presenza dell’interesse anche di quest’ultimo, e che lo stesso art. 2096 C.c. faccia esplicito riferimento al fatto che “il prestatore di lavoro [sia] tenut[o] a fare l’esperimento che forma oggetto di prova”, ben raramente la Corte si è interessata all’argomento, ed uno di tali rari casi è quello della recentissima sentenza n.27805 del 21 novembre 2008. Nel caso in esame, infatti, tra le doglianze promosse dalla lavoratrice ricorrente, troviamo proprio quella che, atteso il suo stato di necessità e di disoccupazione, ed atteso che la stessa ricorrente avesse già svolto le medesime mansioni per il medesimo appaltante, “nella specie il patto di prova si risolveva nella attribuzione al datore di lavoro di una prerogativa senza alcun corrispondente vantaggio per il lavoratore” e che questi “non aveva altra alternativa al suo stato di disoccupazione”. Conseguentemente, il patto di prova sarebbe dovuto essere dichiarato “nullo sia per difetto di causa sia perché la volontà del lavoratore di sottoscriverlo era del tutto mancante dovendo ritenersi coartata”.
Prescindendo in questa sede da elementi di natura probatoria, la lettura che la Corte ha dato sino ad oggi alla questione, sopra ricordata, sarebbe del tutto conforme a quanto prospettato dalla ricorrente, e con rigore giuridico bisognerebbe comparare la nullità del patto per inesistenza della ‘prova’ (in quanto per esempio già fornita in precedenza), alla nullità per inesistenza dell’interesse del prestatore di lavoro alla valutazione dell’“entità della prestazione” e delle “condizioni di svolgimento del rapporto” (Cass. 27314/2008), anche in questo caso, ad esempio, in quanto già perfettamente conosciute. Una interpretazione fedele agli stessi principi dettati dalla Corte, dunque, dovrebbe portare a tale tipo di conclusione. Al contrario, la sentenza del 21 novembre scorso non porta a compimento tali presupposti interpretativi, concludendo invece come “la mancanza da parte della lavoratrice di un interesse ad avvalersi in concreto del patto, per la sua contingente condizione di disoccupata, costituisce un motivo personale che non esclude la causa oggettiva della pattuizione” e che “va osservato che la scelta della contraente è dovuta ad una spontanea ed autonoma valutazione di convenienza che nulla ha a che vedere con la minaccia di un male ingiusto e notevole proveniente dall’altro contraente o da terzi”…
Mentre dunque la Corte di Cassazione ha, ad oggi, più volte sanzionato la nullità del patto di prova per assenza dell’interesse del datore di lavoro, non risultano precedenti, nello stesso senso, per assenza di interesse da parte del prestatore di lavoro. Tale vera e propria ‘lacuna’ giuridica, pur di origine giurisprudenziale e non normativa, suggerirebbe un attento approfondimento di tale tematica ed una particolare cautela nel suo uso in giudizio.

3) Le mansioni: a) loro determinatezza.
Argomento centrale e vero e proprio perno del patto di prova, sono però le mansioni a cui il lavoratore viene adibito. Fortunatamente, questa volta la giurisprudenza anche recente della Corte di Cassazione è stata particolarmente analitica ed attenta, dedicandovi pagine analitiche e coerenti.
Il primo aspetto oggetto di attenzione da parte della Corte, è quello relativo al loro livello di determinatezza. Ancora la sentenza n. 24282 del 29 settembre 2008 afferma che il patto di prova deve “contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletare, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate”. A nostro avviso, l’importanza di tale specificazione risiede nella individuazione del vero motivo alla base della indicazione delle mansioni, che è quello della univoca ed ‘insindacabile’ valutazione dell’esito della prova, attività giuridicamente incompatibile con una indicazione generica dell’oggetto della stessa: in altre parole, in assenza di sufficiente determinatezza nelle mansioni, mancherebbe qualsiasi elemento oggettivo per la correttezza di tale valutazione.
A tal fine, è stata valutata la possibilità, oltre che ad una puntuale elencazione delle mansioni, di inserire un più generico ed indiretto riferimento al sistema classificatorio contenuto nella contrattazione collettiva di categoria. Tale sistema di riferimento è stato dichiarato del tutto legittimo e rispettoso delle condizioni di determinatezza e specificità delle mansioni oggetto di prova, a patto che “rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata” (sempre Cass. 24282/2008).
Si ricorda infine per completezza, che la sentenza n. 17045 del 19 agosto 2005 (richiamata dalla precedente) afferma che “tale requisito implicito della specificità delle mansioni è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, tanto che sul punto può parlarsi ormai di diritto vivente”.

4) Le mansioni: b) patto di prova e variazione ex art. 2103 C.c.
Quasi un corollario al tema precedente, ma non privo di autonome problematiche, è quello della possibilità di un eventuale ‘ius variandi’ delle mansioni oggetto di ‘prova’.
Sul punto, Cass. 17045/2005, in continuità con il discorso precedente, puntualizza che, in ordine alla necessaria specificità delle mansioni, questa non possa “spingersi fino a richiedere l’indicazione delle ‘prime’ mansioni assegnate in concreto al lavoratore in prova, perché, se solo queste fossero oggetto della prova, non sarebbero modificabili con deroga allo ‘ius variandi’”. Tuttavia, continua il ragionamento della Corte, “dall’art. 2096 C.c., pur letto alla luce di C. Cost. n.189 del 1980, non è possibile ricavare anche una tale rigidità, ossia un divieto di modificare, nel corso del periodo di prova, le mansioni del lavoratore nel rispetto dell’art. 2103 C.c.”.
Ad una generale compatibilità del periodo di prova e della dettagliata indicazione delle mansioni oggetto dello stesso, con la facoltà datoriale di cui all’art.2103 C.c., quindi, la Corte specifica come “rientr[i] semmai nell’autonomia delle parti eventualmente vincolare la prova alle sole mansioni di prima assegnazione con la conseguenza che solo dopo l’espletamento (e quindi il superamento) della prova il datore di lavoro [possa] esercitare lo ‘ius variandi’”. Eventualità che, se nella pratica è estremamente rara da rinvenire, da un punto di vista tecnico-giuridico può indubbiamente ampliare la duttilità e la completezza della fattispecie.

5) Le mansioni: c) vizi e nullità del patto.
Per ragioni sistematiche, converrà inserire sotto la tematica delle ‘mansioni’ anche la problematica inerente la loro mancata valutazione da parte datoriale, che toglie al patto di prova il suo motivo d’essere (causa), sanzionandolo con la nullità.
Al di là degli elementi collegati al recesso, che verranno trattati nel punto precedente, interessa qui occuparsi invece dei casi in cui in realtà la ‘prova’ delle abilità e/o della personalità del lavoratore non potrebbe riscontrarsi, attesa la già piena conoscenza di tale elemento, da parte datoriale, derivante da un pregresso rapporto lavorativo.
Anche questo aspetto è stato affrontato dalle recenti pronunce della Corte, che nella sentenza n. 27330 del 17 novembre 2008, dopo aver ricordato che la causa tipica del patto “mira a tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto”, sottolinea che “deve ritenersi illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni”. Nella fattispecie sottoposta all’attenzione del giudicante, la lavoratrice aveva lavorato durante il rapporto subordinato ‘in prova’ con le stesse mansioni che aveva già svolto in precedenza in virtù di un patto di Inserimento Professionale stipulato con il medesimo studio professionale.
Al contrario, tuttavia, Cass. 27314/2008 specifica che “è ben ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati dalle stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”; aspetto che in parte abbiamo già trattato negli elementi tipici del patto di prova e che qui si ripropone per sottolineare come una certa distanza temporale tra due rapporti di lavoro, tra medesimi soggetti e per la medesima tipologia di mansioni, possa anche, lì dove dimostrato, comportare la necessità di una nuova verifica delle qualità del prestatore di lavoro (nella fattispecie sottoposta alla valutazione del giudicante, l’intervallo temporale era stato di circa quattro anni).
Ma la recente analisi della Corte si è spinta anche oltre, considerando anche la possibilità di una variazione soggettiva del rapporto contrattuale.
La già citata sentenza n. 27805/2008, infatti, considera il caso in cui una lavoratrice socialmente utile ha lavorato prima per una ASL, poi per una sua ditta appaltatrice, con le medesime mansioni e per la medesima tipologia di lavoro. Ebbene, anche prescindendo da una evidenziata carenza probatoria in ordine all’“avere la [lavoratrice] già acquisito nel precedente rapporto di lavoro con la ASL le competenze necessarie allo svolgimento delle mansioni assegnate”, la Corte ritiene legittima l’apposizione, nel secondo rapporto, di un patto di prova (seguito da recesso della società appaltatrice), ritenendo “di tutta evidenza che l’avere la nuova assunta in precedenza svolto mansioni di archivio non esclude l’interesse del nuovo datore di lavoro di verificare il grado di preparazione e le attitudini allo svolgimento delle mansioni di cui la stessa sia in possesso”.
Al contrario, la poco più antica Cass. 22637/2004 insiste su un altro aspetto, che potremmo dire speculare al precedente: in questo caso, infatti, la lavoratrice presta la propria attività con le stesse mansioni e sempre all’interno della medesima struttura, ma prima in qualità di socia lavoratrice di una ditta appaltatrice, poi come diretta dipendente della struttura stessa. In questo caso, il patto di prova viene ritenuto “non funzionale alla sperimentazione della reciproca convenienza al contratto”, per “essere questa già avvenuta con esito positivo”.
Ulteriore elemento di estremo interesse, per l’oggetto della nostra analisi, è poi che la Corte ritiene dimostrabile tale circostanza anche “per presunzioni, essendo desumibile dalla sussistenza di un precedente rapporto di lavoro tra le parti o, come nella specie in esame, dall’avere in precedenza il lavoratore prestato per un congruo lasso di tempo la propria opera per il datore di lavoro”. Nel caso di specie, allora, risulta rilevante ed assorbente la circostanza per cui la “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale che ne ha tratto di fatto beneficio (e che ha poi proceduto all’assunzione del lavoratore), indipendentemente dalla circostanza, in concreto irrilevante, che il lavoratore fosse obbligato alla prestazione per l’attuazione di un diverso rapporto (nel caso ora in esame di società in una cooperativa di lavoro) e il destinatario effettivo della prestazione avesse diritto a pretenderla nei confronti di altro soggetto (la cooperativa)”.
L’interpretazione della Corte di Cassazione, dunque, appare anche qui coerente: ad essere considerato ai fini della valutazione della legittima e corretta ‘sperimentazione della convenienza’, non può essere il mero aspetto formale (tipologia del rapporto giuridico), bensì quello sostanziale (concreta possibilità di fare, o aver già fatto, tale valutazione).

6) Il recesso: a) motivazione.
Ma l’argomento sul quale la giurisprudenza, anche recente, della Corte trova le maggiori difficoltà nell’offrire un quadro giuridicamente coerente alla disciplina del patto di prova, è quello del recesso da parte del datore di lavoro e delle sue (eventuali) motivazioni. Sino ad oggi, infatti, le sentenze emanate dal Giudice delle Leggi continuano ad oscillare (a volte anche nell’ambito della stessa pronuncia) tra una tipologia di recesso ‘ad nutum’, come tale non motivato ed insindacabile da parte del prestatore di lavoro, ed una ipotetica ‘impugnabilità’ del licenziamento per insussistenza, o insufficienza, dei motivi.
Ricordiamo per un momento quanto sottolineato in precedenza: la univoca e dettagliata determinazione delle mansioni oggetto della ‘prova’ ha esattamente la funzione di rendere determinabile l’attività di valutazione stessa, che altrimenti, priva di riferimenti obiettivi, sarebbe contraria alla ratio del patto di poter sperimentare il comportamento professionale del lavoratore. Da cui, in logica conseguenza, l’eventuale nullità dello stesso in caso le motivazioni del recesso (esplicite o meno) possano prescindere da tale elemento di riferimento.
Ma tale linearità espositiva rimane in molti casi meramente teorica, come si anticipava.
La questione circa un’eventuale obbligatorietà delle motivazioni del recesso trova un (insuperabile?) ostacolo non solo nella giurisprudenza di Legittimità, bensì in quella della stessa Corte Costituzionale, che con la sentenza n.189 del 16 dicembre 1980 ha specificato come, dato che “nel sistema del codice civile (libro V, titolo II, sez. III) non è previsto l’obbligo dell’imprenditore di motivare il recesso dal contratto a tempo indeterminato e che tale obbligo è stato introdotto con l’art. 2 della legge n. 604 del 1966” e che “l’art. 2096, terzo comma, c.c., al di fuori dell’ambito di operatività della legge n. 604 del 1966, non sembra confliggere con gli invocati parametri costituzionali”, “ne deriva che la disposizione del c.c. (art. 2118) sul recesso dal contratto a tempo indeterminato [che obbliga solo nel dare il preavviso, ma non a fornire motivazione, n.d.r.] ha tuttora un suo campo di applicazione”. Ricordiamo infatti che l’art. 10 della L. 604/1966 esclude espressamente l’applicabilità di tale legge (che limita le possibilità di licenziamento in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai casi di giusta causa (art.1) o giustificato motivo (art.3), debitamente motivati) ai lavoratori “assunti in prova”, se non dal momento in cui “l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”.
La Corte Costituzionale sul punto è perentoria: non c’è previsione normativa che stabilisca l’obbligo di motivazione del recesso durante il patto di prova, così come né l’art. 35 né l’art. 4 della Carta garantiscono “il diritto alla conservazione del posto di lavoro”, né tantomeno una “applicazione indiscriminata del principio della giusta causa e del giustificato motivo nei licenziamenti, ma ‘lascia’ al legislatore ampia discrezionalità in materia” (da sent. Corte Cost. n. 129 del 1976).
Sin qui il ragionamento diretto alle fonti normative riferite, condivisibile o meno, appare logicamente consequenziale e giuridicamente esente da vizi. Ma è nel prosieguo che emergono le difficoltà.
A fronte di una, a nostro avviso condivisibile, ordinanza di rimessione del Giudice del Merito che lamentava la possibilità, in caso di recesso non doverosamente motivato, di una “assoluta discrezionalità garantita al datore di lavoro” e la possibilità di conseguenti comportamenti “vessatori e lesivi della dignità del lavoratore”, la Corte risponde che, attesa la presenza del precetto normativo del secondo comma dell’art. 2096 C.c. obbligante le parti “a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, “ne discende un primo limite alla discrezionalità dell’imprenditore”. Pertanto, il licenziamento intimato durante il periodo di prova “può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita […] quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato”.
Il Giudice delle Leggi, dunque, anche dalla lettura del dato normativo, sottolinea come il recesso non possa essere ‘assolutamente discrezionale’, ovvero tecnicamente ‘ad nutum’, ammettendo che “il lavoratore il quale ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale”. Il ragionamento della Suprema Corte, dunque, termina con la rassicurante conclusione che non riscontra “nelle disposizioni di legge censurate alcun attentato alla libertà ed alla dignità del lavoratore, soprattutto quando si riconosca la sindacabilità nei limiti anzidetti […] e l’annullabilità dell’atto nel quale si esprime, tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”.
A ben vedere, però, qui il ragionamento invece che chiarirsi, si fa inaspettatamente più confuso.
Ricapitoliamo: la Corte Costituzionale asserisce tanto la mancata presenza, nel nostro ordinamento, di un ‘principio generale di giustificazione del licenziamento’, individuabile esclusivamente nell’ambito applicativo della L. 604/1966, che l’inesistenza del dovere di motivare un atto giuridico di recesso che debba, però, tener conto dell’effettivo ‘esperimento’ delle proprie qualità, tecniche ma anche ‘personali’. Per far ciò, la Corte perviene così ad un concetto che lambisce da vicino un ossimoro logico e giuridico: quello di una discrezionalità ‘limitata’, ovvero di una “discrezionalità che si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore” ed in quanto tale suscettibile, coerentemente, di ‘prova contraria’ da parte del lavoratore.

Da qui i seguenti dubbi:
a) se la asserita ‘discrezionalità’ del datore è ‘limitata’, fino a che punto rimane ‘discrezionalità’, e fino a che punto non lo è più? Qual è il limite tra aspetti di natura soggettiva e quelli di natura oggettiva, in tale valutazione? Infatti
b) se addirittura può esser fornita ‘prova contraria’ da parte del lavoratore sulle sue competenze (e ciò la Corte lo ha chiaramente esplicitato), in cosa rimane ‘discrezionale’ la valutazione del datore di lavoro? E soprattutto
c) come può tutto questo essere compatibile con la resistente affermazione per la quale il provvedimento di recesso non avrebbe obbligo di motivazione? Al contrario non sarebbe, proprio sulla base di tale ragionamento, il ‘motivo’ posto alla base del recesso, l’unico fattore che potrebbe offrire una qualificazione ed un ambito dialettico sia alla ‘discrezionalità’ datoriale (che così si espliciterebbe) che alle eventuali contestazioni del lavoratore? Non sarebbe così, l’apposizione del motivo, l’unica garanzia in grado di rispecchiare e tutelare l’interesse di entrambe le parti?
d) Infine, non sembrerebbe la stessa Corte Costituzionale ‘suggerire’ la necessità di una motivazione quando ammette la “annullabilità dell’atto nel quale si esprime [il recesso del datore], tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”? Non si intravede quindi, anche nel parere della Corte Costituzionale, la consapevolezza che solo un recesso esplicitamente motivato potrebbe dar contezza tanto di una discrezionalità datoriale (vincolata però ad aspetti oggettivi e pertinenti) che di un legittimo (ma limitato) controllo del lavoratore?
Purtroppo, tale lontano ma autorevole precedente giurisprudenziale, con le contraddizioni che si sono illustrate, ha improntato delle sue incertezze argomentative tutta la giurisprudenza successiva del Giudice di Legittimità, che di volta in volta ha oscillato tra gli opposti di un recesso ‘ad nutum’ (la decisa maggioranza, anche recente) e quelli a favore di un maggior controllo sulla discrezionalità datoriale, molto spesso conviventi nella stessa decisione(cfr. ancora Cass. 17045/2005), ma in ciò facendo sottraendosi alla funzione c.d. ‘nomofilattica’ che ci si attende da tale giurisprudenza per ricevere un chiaro quadro di orientamento giuridico, sociale ed economico.

7) Il recesso: b) la prova.
Da quanto sin ora illustrato, ben si comprende come l’argomento dell’onere della prova, delle sue modalità e delle sue conseguenze, sia intimamente collegato all’interpretazione del patto stesso.
A seconda infatti che il dovere di motivazione, da parte del recedente, sia più o meno qualificato, deriva un più o meno ampio ‘dovere di prova’, a fronte di uno speculare ‘diritto di prova contraria’. Da questo punto di vista, quanto più ci avviciniamo ad una interpretazione ‘ad nutum’ del patto, tanto più escludiamo la possibilità stessa che ci possa essere sia ‘prova’ dei motivi del recesso, che conseguentemente ‘prova contraria’ da parte del soggetto che il recesso subisce.
Seguendo tale premessa, ad una interpretazione pienamente ‘ad nutum’, e quindi senza alcun obbligo di motivazione, corrisponderebbe una assoluta impossibilità di fornire prova contraria. Quanto più si allarga invece la possibilità di valutare i ‘motivi’ del recesso, tanto più si allargano le maglie entro le quali può inserirsi la possibilità di offrire prova contraria avverso comportamenti rescindenti ingiusti.
Và da sé, dunque, che i forti dubbi che si sono sollevati sulla opportunità e legittimità di una interpretazione del patto di prova come un’incondizionata ‘facoltà di recesso ad nutum’, pur limitata temporalmente, attengono principalmente alla possibilità, da parte di chi è destinatario di tale recesso, di poter avere strumenti di verifica e, nel caso, di difesa avverso azioni non giustificabili.
Oltre infatti a motivazioni di ordine generale, che dovrebbero suggerire un’estrema attenzione nell’individuazione di tali forme ‘ad nutum’, luogo principe di condotte ricattatorie e strumentali soprattutto nel settore del diritto del lavoro, i dubbi che si pongono in ordine ad una interpretazione di tal specie deriva, ancora una volta, dalle stesse letture che ne ha dato la Corte.
Pur con le incongruenze già sopra sottolineate, è ancora la sentenza n. 17045/2005 che, sul punto, specifica, nelle sue motivazioni, un passaggio estremamente importante. Dopo infatti aver affermato che, nel caso di specie, il riferimento alle mansioni contenute in un CCNL richiamato “si appalesava privo del necessario requisito di specificità”, la Corte sottolinea che “da ciò consegue che il recesso intimato dalla banca datrice di lavoro non si iscrive nell’eccezionale fattispecie di recesso ad nutum di cui all’art. 2096 C.c., esentato dall’applicabilità dell’ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento (art. 10 legge n. 604 del 1966), ma consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o giustificato motivo”. Ecco dunque che, in base a tale mutazione del titolo giuridico posto alla base dell’atto del datore di lavoro, “l’allegato mancato superamento della prova per inidoneità del [lavoratore] alle mansioni in concreto svolte ridonda in allegazione di un giustificato motivo di licenziamento rispetto al quale il controllo del giudice è pieno e non già limitato, come nel caso dell’art.2096 c.c., al riscontro dell’effettività dell’esperimento fatto e della mancanza di motivi discriminatori”.
In altre parole la Corte, ribadita la ‘eccezionalità’ della previsione di cui all’art. 2096 c.c. e confermata la facoltà di recesso ‘ad nutum’, pur compatibilmente con l’obbligo dell’effettività dell’esperimento della prova ed in assenza di motivi discriminatori, sancisce la mutazione del titolo di recesso in quello di licenziamento per giustificato motivo (oggettivo e soggettivo?), in ordine al quale il Giudice torna ad avere il pieno ‘controllo’ della motivazione.
L’importanza di tale ragionamento interpretativo, dunque, la si rinviene nel rendere particolarmente evidente il rapporto tra determinatezza (‘specificità’) dell’oggetto della prova, caratteristiche ‘eccezionali’ delle facoltà (‘ad nutum’) del datore di lavoro e limitato ‘controllo’ del Giudicante, ovvero della controparte, la cui ‘eccezionale’ disciplina, venuto meno uno degli elementi necessari, riporta (o “ridonda”) il recesso in una forma di licenziamento per giustificato motivo, restituendo così piena ‘cognitio’ alla fattispecie.
Tale ragionamento, conseguentemente, trova pieno riflesso nel regime delle prove, che godono in versione specularmente invertita, come abbiamo già sottolineato in apertura di paragrafo, dei medesimi limiti e dei medesimi ambiti di libertà.
Ancora una volta, dunque, l’argomento della ‘motivazione’ diventa, pur in presenza delle ambiguità già illustrate, il campo obiettivo rispetto al quale si confrontano le facoltà di agire delle parti, unitamente alle loro potenzialità probatorie ed allo stesso potere di ‘controllo’ dell’organo giudicante.
Se la (pur non obbligatoria) motivazione del recesso rappresenta ancora una volta, dunque, la forma più trasparente e difficilmente sindacabile di tale potere, l’esercizio di tale facoltà nelle forme più libere (‘ad nutum’), oltre a creare indubbie incertezze e difficoltà interpretative, sottopone a pericolose incertezze le parti coinvolte, soprattutto in relazione ad un soggetto terzo (giudice) il cui potere di sindacabilità e ‘controllo’, lì dove ritornato ‘pieno’, difficilmente potrebbe sostituirsi a valutazioni produttive che dovrebbero, in tali limiti, rimanere scelte soggettive del singolo imprenditore.
Anche per evitare il rischio di valutazioni terze che possano “ritenere illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo” (sent. Cass. n. 27330/2008) , ovvero agire per pericolose “presunzioni” (sent. Cass. n. 22637/2004), risulta dunque quanto mai opportuno esplicitare, nell’atto di recesso, le sue motivazioni, per offrire da un lato la legittima trasparenza richiesta dalla controparte e dall’altro non dover essere costretti a fornire elementi di ‘oggettività’ a valutazioni che dovrebbero, e potrebbero, non superare tale vaglio.


Antonio M. Polito
avvocato del Lavoro

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Tra Oriente e Occidente
L’economia e il diritto nel raffronto tra due culture
di
Sergio Sabetta

La crescita economica nell’Est asiatico che ha coinvolto prepotentemente il continente Cina, pone il problema del confronto/raffronto fra due culture, due sistemi di pensiero maturati nei millenni i quali coinvolgono la visione che l’uomo ha di se stesso anche nel processo economico e quindi giuridico.
La prima e fondamentale questione è come si pone l’individuo nei confronti della collettività e la struttura gerarchica che ne deriva.
Vi sono due tipologie di poteri il “potere di fare” e il “potere di decidere”, il primo consiste nella suddivisione di procedure precise e rigide senza possibilità di variabili negli input – output, con attività standardizzate ripetitive efficaci nella produzione seriale di beni fisici, in cui il singolo ha una propria autonomia limitata e ben definita dalla sezione di procedura a lui assegnata, il secondo è sostanzialmente un potere di controllo costituito da una delega adeguata a gestire la variabilità nel settore assegnato e dal controllo sui subordinati addetti alle procedure a loro affidate.
Questa distinzione così rigida che presuppone una stretta gerarchia è di massima efficacia nella produzione di beni materiali, mentre viene a perdere efficacia nella produzione di servizi in cui si accresce la necessità dell’adattabilità decisionale del singolo alle variabili ambientali (Croci).
La gerarchia nel codificare la distribuzione del potere all’interno della comunità ne tutela al contempo la sopravvivenza nell’insieme a scapito dell’individualità, gli sforzi vengono coordinati e concentrati sia nella produzione che nella lotta agli elementi e alle altre comunità umane.
La gerarchia sostenibile presuppone un rispetto per il riconoscimento del ruolo e quindi la necessità per i vertici di restituire la delega di potere in termini di cura dei bisogni della base, interviene il principio di inclusione/esclusione nella comunità come premio/punizione al fine di motivare gli individui, i quali collaborano per il solo fatto di restare inclusi nella comunità il premio infatti è l’inclusione nella comunità stessa. La comunità come collettività è quindi posta al centro del tessuto sociale e non semplicemente una comunità composta da singoli individui.
Se l’esecuzione passiva delle procedure è alla base del sistema gerarchico cinese, l’individuo deve comunque essere convinto del suo agire pertanto la punizione in caso di violazione degli obblighi deve possedere una valenza rieducativa.
Nel suo agire quotidiano il singolo accumula un “patrimonio di rispettabilità” quale prodotto dei risultati ottenuti e dei suoi rapporti sociali, la rispettabilità è intesa quale combinazione di prestigio sociale e dignità personale, si crea quindi l’armonia sociale confuciana tramite il rispetto del potere gerarchico questo tuttavia non comporta una cieca obbedienza essendo la verità pragmaticamente adattabile alle situazioni quotidiane.
L’aggressività umana è controllata dalla gerarchia di rango che poggia sul riconoscimento dei meriti, questo tuttavia compromette in parte l’iniziativa del singolo il quale è naturalmente portato a scaricare la responsabilità lungo la scala gerarchica fino al giusto livello.
Ma qualsiasi sistema ha bisogno di un correttivo che nella cultura cinese è la rete di relazioni utili o guanxi, la quale consiste nell’obbligo di reciprocità senza limiti di spazio e di tempo fondata sul concetto di utilità e non necessariamente di amicizia. Questa permette di superare le eventuali disfunzioni che il sistema gerarchico presenti, ma perché funzioni l’obbligo di reciprocità deve essere certo ,pena l’esclusione dalla rete, i due sistemi non sono in contraddizione ma vengono ad integrarsi (Croci).
L’etica si risolve in una semplificazione organizzativa per una prevedibilità comportamentale, lo sviluppo economico è quindi slegato da una premessa democratica anche se si risolverà nel tempo in una democratizzazione più consona alla necessità di movimenti di merci e capitali con i minori controlli possibili ( Gavazzi, Tabelloni).
Toulmin sostiene che la funzione dell’etica è quella di armonizzare gli interessi dell’insieme, ossia le azioni della gente, si che il concetto di dovere è ineliminabile dalla meccanica sociale infatti attraverso il riconoscimento dei doveri comuni si ha la formazione di un’unica comunità, questo tuttavia non esclude l’evoluzione del codice morale in sintonia con i mutamenti della società in modo che le stesse regole possano apparire o eccessivamente rigide o pericolosamente molli.
Sebbene i giudizi etici acquistano per tale via una certa flessibilità di loro permane tuttavia il carattere imperativo (Hare), il quale peraltro può assumere un aspetto individuale ossia soggettivo, affrancandosi dalla preminenza della collettività.
Spinoza su tale via afferma con decisione il diritto del singolo di perseguire la sua “utilitas”, di piegare le leggi naturali ai suoi scopi senza andare contro di essa ma utilizzandole.
Riconoscendo nell’uomo una anima desiderante (cupiditas) si pone l’individuo al centro della ricerca non come immagine divina, ma come essere posto nella natura e manipolatore di essa. Vi è quindi uno sviluppo del “libero arbitrio” di San Tommaso in cui l’uomo determina se stesso ad agire in cui tuttavia la prima causa resta Dio, anche se questo toglie nulla alla auto-causalità dell’uomo stesso.
Tipica dell’uomo è la mobilità con un passaggio da uno stato all’altro dei desideri e delle conoscenze, sia verso l’alto che verso il basso, con una sua necessaria auto-espansione comunque consapevole delle condizioni esistenti anche di tipo politico.
Se vi è la necessità di cambiare le proprie condizioni per rendere la vita più sicura, tuttavia l’intervento sul mondo dipende dalla capacità di utilizzare le situazioni per creare lo spazio di movimento necessario alle modifiche, è pertanto l’organizzazione che viene ad influire sull’etica secondo un concetto di etica organizzativa in cui l’interpretazione del mondo non è in contrasto con il cambiamento del mondo, da qui tuttavia nasce anche l’esigenza di modificare il mondo per modificare le coscienze (Marx).
Spinoza si avvicina all’etica cinese della persuasione quando, negando la riduzione della politica al solo timore per costringere all’obbedienza delle leggi (Hobbes), recupera la collettività e la necessità di una convinzione all’azione collettiva al fine di una possibile crescita reciproca.
Vi è quindi una impossibilità da giustificare in assoluto i giudizi etici (Ross) se non sulla base di principi sui quali ci sia accordo (Scarpelli).
Questo porta nell’occidente ad affermare che l’uomo non è niente all’inizio, ma sarà solo in seguito per quello che si sarà fatto, quindi è il singolo che si fa che si definisce nel mondo (esistenzialismo). Su ogni uomo ricade la responsabilità totale della sua esistenza non in termini puramente individuali, ma anche verso gli altri individui, il nostro punto di partenza è la soggettività dell’individuo, ma è solo tramite l’altro che si definisce, si scopre così l’intersoggettività ossia l’universalità umana di “condizione”, ossia i limiti a priori che definiscono la situazione dell’individuo nell’universo questa tuttavia non è data ma è in un perpetuo costituirsi (Sartre).
La libertà diventa per Sartre il fondamento di ogni altro valore, ma questa nostra libertà è il frutto di un interscambio di libertà. La libertà è stata anche vista come una “possibilità” (Abbagnano) o libertà condizionata pertanto relativa (Gurvitch).
Comunque mentre in un caso la libertà risiede nella sicurezza dell’inclusione nella comunità, nel secondo la libertà è l’interscambio della ricerca individuale di cui si discute esclusivamente dell’ampiezza.
Vi è un ben definito diritto naturale del singolo alla libera ricerca della propria “utilitas” nel rapporto con la comunità a cui non devono essere trasferiti in modo assoluto e inappellabile i propri diritti, attraverso un confronto / raffronto il bilanciamento degli interessi e delle volontà singole si forgeranno nello stato democratico. Le conseguenze di questo porsi dell’individuo nei confronti della collettività che affonda le sue radici già nel mondo antico in particolare con gli stoici, viene ripreso dal giusnaturalismo di Grozio e Rousseau che sebbene criticato nella sua distinzione tra diritto giusto e diritto ingiusto, fino a parlare della giustizia solo come di un “valore interno” al diritto e pertanto frutto di una scelta arbitraria (Kelsen, Ross), non può negare lo spirito individuale della ricerca e la libertà che ne consegue di cui circolarmente ne è anche fondamento.
Le conseguenze politiche ed economiche sono quindi profondamente differenti dal modello di comunità confuciano proprio della Cina, basti pensare allo sviluppo del pensiero sociale di Comte e Marx da cui nacquero nel XIX secolo i sindacati e nel XX secolo il welfare, in economia al liberismo e al keynesismo fino all’attuale sviluppo nell’ambito del management delle teorie relative alle risorse umane, come il knolewdge management. Questo sebbene vi siano stati nell’età moderna il fordismo e la produzione tayloristica, gli assolutismi ideologici e le dittature quali estremismi di un irrigidimento produttivo e sociale della Grande Guerra frutto avvelenato di un tecnicismo non elaborato pragmaticamente, bensì idealizzato o demonizzato.
______________
Bibliografia
A. Merli, Quei leader senza democrazia, Il Sole 24 Ore, 28/5/08 (Festival dell’Economia);
M. Croci, L’importanza della gerarchia in Cina, “E. & M.” S.D.A. Bocconi, 43-52, 4/08;
R. Bodei, La filosofia di Spinoza: l’importanza delle passioni, Emsf.rai.it/interviste;
G. Carcatezza, Principi di giustizia e fondamento del diritto A. A. 2004/2005, I-LEX.it/quaderni/4, 4/2/2006;
A. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET, 1974;
F. Guoato – L. Riveda, Una visione strategica del knowledge management, in Harvard Business Review, 56-65, 7- 8/2008.

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Tra Oriente e Occidente
L’economia e il diritto nel raffronto tra due culture
di
Sergio Sabetta

La crescita economica nell’Est asiatico che ha coinvolto prepotentemente il continente Cina, pone il problema del confronto/raffronto fra due culture, due sistemi di pensiero maturati nei millenni i quali coinvolgono la visione che l’uomo ha di se stesso anche nel processo economico e quindi giuridico.
La prima e fondamentale questione è come si pone l’individuo nei confronti della collettività e la struttura gerarchica che ne deriva.
Vi sono due tipologie di poteri il “potere di fare” e il “potere di decidere”, il primo consiste nella suddivisione di procedure precise e rigide senza possibilità di variabili negli input – output, con attività standardizzate ripetitive efficaci nella produzione seriale di beni fisici, in cui il singolo ha una propria autonomia limitata e ben definita dalla sezione di procedura a lui assegnata, il secondo è sostanzialmente un potere di controllo costituito da una delega adeguata a gestire la variabilità nel settore assegnato e dal controllo sui subordinati addetti alle procedure a loro affidate.
Questa distinzione così rigida che presuppone una stretta gerarchia è di massima efficacia nella produzione di beni materiali, mentre viene a perdere efficacia nella produzione di servizi in cui si accresce la necessità dell’adattabilità decisionale del singolo alle variabili ambientali (Croci).
La gerarchia nel codificare la distribuzione del potere all’interno della comunità ne tutela al contempo la sopravvivenza nell’insieme a scapito dell’individualità, gli sforzi vengono coordinati e concentrati sia nella produzione che nella lotta agli elementi e alle altre comunità umane.
La gerarchia sostenibile presuppone un rispetto per il riconoscimento del ruolo e quindi la necessità per i vertici di restituire la delega di potere in termini di cura dei bisogni della base, interviene il principio di inclusione/esclusione nella comunità come premio/punizione al fine di motivare gli individui, i quali collaborano per il solo fatto di restare inclusi nella comunità il premio infatti è l’inclusione nella comunità stessa. La comunità come collettività è quindi posta al centro del tessuto sociale e non semplicemente una comunità composta da singoli individui.
Se l’esecuzione passiva delle procedure è alla base del sistema gerarchico cinese, l’individuo deve comunque essere convinto del suo agire pertanto la punizione in caso di violazione degli obblighi deve possedere una valenza rieducativa.
Nel suo agire quotidiano il singolo accumula un “patrimonio di rispettabilità” quale prodotto dei risultati ottenuti e dei suoi rapporti sociali, la rispettabilità è intesa quale combinazione di prestigio sociale e dignità personale, si crea quindi l’armonia sociale confuciana tramite il rispetto del potere gerarchico questo tuttavia non comporta una cieca obbedienza essendo la verità pragmaticamente adattabile alle situazioni quotidiane.
L’aggressività umana è controllata dalla gerarchia di rango che poggia sul riconoscimento dei meriti, questo tuttavia compromette in parte l’iniziativa del singolo il quale è naturalmente portato a scaricare la responsabilità lungo la scala gerarchica fino al giusto livello.
Ma qualsiasi sistema ha bisogno di un correttivo che nella cultura cinese è la rete di relazioni utili o guanxi, la quale consiste nell’obbligo di reciprocità senza limiti di spazio e di tempo fondata sul concetto di utilità e non necessariamente di amicizia. Questa permette di superare le eventuali disfunzioni che il sistema gerarchico presenti, ma perché funzioni l’obbligo di reciprocità deve essere certo ,pena l’esclusione dalla rete, i due sistemi non sono in contraddizione ma vengono ad integrarsi (Croci).
L’etica si risolve in una semplificazione organizzativa per una prevedibilità comportamentale, lo sviluppo economico è quindi slegato da una premessa democratica anche se si risolverà nel tempo in una democratizzazione più consona alla necessità di movimenti di merci e capitali con i minori controlli possibili ( Gavazzi, Tabelloni).
Toulmin sostiene che la funzione dell’etica è quella di armonizzare gli interessi dell’insieme, ossia le azioni della gente, si che il concetto di dovere è ineliminabile dalla meccanica sociale infatti attraverso il riconoscimento dei doveri comuni si ha la formazione di un’unica comunità, questo tuttavia non esclude l’evoluzione del codice morale in sintonia con i mutamenti della società in modo che le stesse regole possano apparire o eccessivamente rigide o pericolosamente molli.
Sebbene i giudizi etici acquistano per tale via una certa flessibilità di loro permane tuttavia il carattere imperativo (Hare), il quale peraltro può assumere un aspetto individuale ossia soggettivo, affrancandosi dalla preminenza della collettività.
Spinoza su tale via afferma con decisione il diritto del singolo di perseguire la sua “utilitas”, di piegare le leggi naturali ai suoi scopi senza andare contro di essa ma utilizzandole.
Riconoscendo nell’uomo una anima desiderante (cupiditas) si pone l’individuo al centro della ricerca non come immagine divina, ma come essere posto nella natura e manipolatore di essa. Vi è quindi uno sviluppo del “libero arbitrio” di San Tommaso in cui l’uomo determina se stesso ad agire in cui tuttavia la prima causa resta Dio, anche se questo toglie nulla alla auto-causalità dell’uomo stesso.
Tipica dell’uomo è la mobilità con un passaggio da uno stato all’altro dei desideri e delle conoscenze, sia verso l’alto che verso il basso, con una sua necessaria auto-espansione comunque consapevole delle condizioni esistenti anche di tipo politico.
Se vi è la necessità di cambiare le proprie condizioni per rendere la vita più sicura, tuttavia l’intervento sul mondo dipende dalla capacità di utilizzare le situazioni per creare lo spazio di movimento necessario alle modifiche, è pertanto l’organizzazione che viene ad influire sull’etica secondo un concetto di etica organizzativa in cui l’interpretazione del mondo non è in contrasto con il cambiamento del mondo, da qui tuttavia nasce anche l’esigenza di modificare il mondo per modificare le coscienze (Marx).
Spinoza si avvicina all’etica cinese della persuasione quando, negando la riduzione della politica al solo timore per costringere all’obbedienza delle leggi (Hobbes), recupera la collettività e la necessità di una convinzione all’azione collettiva al fine di una possibile crescita reciproca.
Vi è quindi una impossibilità da giustificare in assoluto i giudizi etici (Ross) se non sulla base di principi sui quali ci sia accordo (Scarpelli).
Questo porta nell’occidente ad affermare che l’uomo non è niente all’inizio, ma sarà solo in seguito per quello che si sarà fatto, quindi è il singolo che si fa che si definisce nel mondo (esistenzialismo). Su ogni uomo ricade la responsabilità totale della sua esistenza non in termini puramente individuali, ma anche verso gli altri individui, il nostro punto di partenza è la soggettività dell’individuo, ma è solo tramite l’altro che si definisce, si scopre così l’intersoggettività ossia l’universalità umana di “condizione”, ossia i limiti a priori che definiscono la situazione dell’individuo nell’universo questa tuttavia non è data ma è in un perpetuo costituirsi (Sartre).
La libertà diventa per Sartre il fondamento di ogni altro valore, ma questa nostra libertà è il frutto di un interscambio di libertà. La libertà è stata anche vista come una “possibilità” (Abbagnano) o libertà condizionata pertanto relativa (Gurvitch).
Comunque mentre in un caso la libertà risiede nella sicurezza dell’inclusione nella comunità, nel secondo la libertà è l’interscambio della ricerca individuale di cui si discute esclusivamente dell’ampiezza.
Vi è un ben definito diritto naturale del singolo alla libera ricerca della propria “utilitas” nel rapporto con la comunità a cui non devono essere trasferiti in modo assoluto e inappellabile i propri diritti, attraverso un confronto / raffronto il bilanciamento degli interessi e delle volontà singole si forgeranno nello stato democratico. Le conseguenze di questo porsi dell’individuo nei confronti della collettività che affonda le sue radici già nel mondo antico in particolare con gli stoici, viene ripreso dal giusnaturalismo di Grozio e Rousseau che sebbene criticato nella sua distinzione tra diritto giusto e diritto ingiusto, fino a parlare della giustizia solo come di un “valore interno” al diritto e pertanto frutto di una scelta arbitraria (Kelsen, Ross), non può negare lo spirito individuale della ricerca e la libertà che ne consegue di cui circolarmente ne è anche fondamento.
Le conseguenze politiche ed economiche sono quindi profondamente differenti dal modello di comunità confuciano proprio della Cina, basti pensare allo sviluppo del pensiero sociale di Comte e Marx da cui nacquero nel XIX secolo i sindacati e nel XX secolo il welfare, in economia al liberismo e al keynesismo fino all’attuale sviluppo nell’ambito del management delle teorie relative alle risorse umane, come il knolewdge management. Questo sebbene vi siano stati nell’età moderna il fordismo e la produzione tayloristica, gli assolutismi ideologici e le dittature quali estremismi di un irrigidimento produttivo e sociale della Grande Guerra frutto avvelenato di un tecnicismo non elaborato pragmaticamente, bensì idealizzato o demonizzato.
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Bibliografia
A. Merli, Quei leader senza democrazia, Il Sole 24 Ore, 28/5/08 (Festival dell’Economia);
M. Croci, L’importanza della gerarchia in Cina, “E. & M.” S.D.A. Bocconi, 43-52, 4/08;
R. Bodei, La filosofia di Spinoza: l’importanza delle passioni, Emsf.rai.it/interviste;
G. Carcatezza, Principi di giustizia e fondamento del diritto A. A. 2004/2005, I-LEX.it/quaderni/4, 4/2/2006;
A. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET, 1974;
F. Guoato – L. Riveda, Una visione strategica del knowledge management, in Harvard Business Review, 56-65, 7- 8/2008.

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