martedì 24 giugno 2008


La conversione del contratto di lavoro a progetto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (App. Firenze, n. 173/2007)

M. Ferraro (Approfondimento 12/6/2008)

Corte d'Appello di Firenze, sez. lavoro, sentenza n. 173/2007

La Corte d'appello si occupa della seguente problematica: Il lavoratore che ottiene la trasformazione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto in rapporto di lavoro subordinato, ai sensi dell'art. 69 d.lgs. 276/2003, può chiedere la reintegra ex art. 18, L. 300/1970?
Il fatto
In data 10 dicembre 2003, la Società S.C. s.r.l. ed il sig. C.A. stipulavano un contratto di lavoro a progetto, ai sensi dell'art. 61 del d. lgs. n. 276/2003. Il rapporto di lavoro di fatto durava un anno ed il progetto lavorativo identificato nel contratto e di cui il sig. C. avrebbe dovuto occuparsi, consisteva nella "riorganizzazione e sviluppo del settore ortofrutticolo". Al termine del rapporto di lavoro, il sig. C. presentava ricorso al Giudice del lavoro di Arezzo e poiché le risultanze istruttorie, ed in particolare le prove testimoniali, indicavano che le mansioni effettivamente svolte dal C. all'interno del supermercato della società S. erano sostanzialmente quelle di un lavoratore dipendente (ad es. rifornire con merce gli scaffali, rispettare gli orari di lavoro, ricevere direttive, ecc.), il Tribunale di Arezzo, in data 14.03.2006 emetteva sentenza (n. 167/06) attraverso la quale accertava che il contratto stipulato tra la società S.C. S.r.l. ed il sig. C. A. doveva essere considerato sin dalla costituzione iniziale del rapporto, come un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in quanto non contenente l'idonea enunciazione di un progetto, programma o fase di lavoro, discostandosi dal modello richiesto dall'art. 61 del d.lgs. 276/03 ed inoltre che l'apposizione del termine finale era privo di effetto, quindi la società/datore di lavoro doveva ripristinare la sua esecuzione, risarcire il danno per il recesso, quantificato in via equitativa in Euro 10.000,00) oltre interessi legali e spese di lite.La società S.C. S.r.l. proponeva appello contro la suddetta sentenza ed il sig. C. presentava appello incidentale col quale chiedeva l'applicazione dell'art. 18 della L. 300/70, in virtù della conversione del contratto a progetto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con conseguente condanna per la S.C. s.r.l. a reintegrare il C. nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni in misura pari all'ammontare delle retribuzioni non percepite dalla data di risoluzione del rapporto fino alla effettiva reintegra.
La fattispecie e la normativa: quadro generale
Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (in breve, contratto di lavoro a progetto) è stato introdotto nel nostro ordinamento con il d.lgs. 276/2003 (la cd. riforma Biagi), il quale attraverso il titolo VII - "Tipologie contrattuali a progetto e occasionali"-, Capo I - "Lavoro a progetto e lavoro occasionale" -, ed in particolare gli artt. 61- 69 [1] ha delineato una nuova disciplina nell'ambito dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, previsti all'art. 409 c.p.c., i quali, a norma dell'art. 61 del citato d.lgs., attualmente devono essere dunque "riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività lavorativa." L'importanza del progetto e della sua indicazione espressa è sancita, rectius sanzionata, in maniera decisamente rigorosa dall'art. 69 del decreto, a norma del quale "i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell'articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto". Come vedremo in seguito, la giurisprudenza ammette che il committente possa fornire in giudizio la prova che il rapporto di lavoro è effettivamente autonomo, quindi in tal caso la conversone non potrà essere disposta, ma quando questa venga applicata il contratto a progetto si trasforma automaticamente ed ex tunc nel rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia contrattuale di fatto realizzatasi tra le parti.
Inquadramento della problematica: aspetto pratico
Come abbiamo visto, l'art. 69 del d.lgs. 276/03 prevede che tutti i contratti a progetto posti in essere "senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso", ai sensi dell'art. 61 comma 1, siano considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed ex tunc, ovvero dalla data di costituzione del rapporto. Sulla natura della disciplina dettata da tale norma si è ampiamente discusso sia in dottrina che in giurisprudenza, e la Cassazione non è ancora intervenuta sul punto: in ogni caso la prevalente giurisprudenza di merito la considera come una vera e propria sanzione posta a carico del datore di lavoro per non aver correttamente specificato il progetto ed in sostanza aver eluso le finalità della normativa sul contratto a progetto (probabilmente nel tentativo di evitare l'assunzione con contratto di lavoro subordinato) ed in particolare, sempre secondo questo orientamento giurisprudenziale, in questo caso vi sarebbe una presunzione relativa a carico del datore di lavoro, il quale può fornire la prova contraria atta a dimostrare che il rapporto è effettivamente non subordinato e che si tratta di un contratto a progetto vero e proprio. Tale interpretazione maggiormente "garantista", meno rigida, oltre ad essere sostenuta da molta parte della dottrina (fra gli altri G. Santoro Passarelli, Mazzotta) per evidenti dubbi di costituzionalità, è stata accolta dalla giurisprudenza di merito [2] anche sulla scorta di pronunce diametralmente opposte della Corte Costituzionale sulla qualifica di tale presunzione. Il sig. C., partendo da queste premesse e basandosi dunque sul fatto che il rapporto veniva qualificato come di lavoro subordinato ex tunc (cioè sin dall'inizio) a tempo indeterminato, ha ritenuto di poter invocare l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori [3], dato che la società S.C. S.r.l., controllata dalla K. S.p.a., ha più dei 15 dipendenti richiesti come parametro per poter applicare la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, ottenendo anche il relativo risarcimento corrispondente alle retribuzioni non percepite dalla data di risoluzione del rapporto fino al rapporto, fino al momento in cui non avvenga l'effettiva reintegrazione nel posto di lavoro.
La decisione della Corte d'Appello di Firenze (n. 173/2007)
La Corte d'Appello di Firenze ha pienamente confermato la sentenza di primo grado impugnata dalla S.C. S.r.l. ritenendo che il Tribunale di Arezzo avesse correttamente convertito il rapporto di collaborazione a termine tra la suddetta società ed il sig. C. in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in applicazione dell'art. 69, comma primo, del d.lgs. 276/03. Tale rapporto di lavoro, dunque, non si considerava interrotto con la comunicazione aziendale del 6.12.2004 di cessazione del rapporto (allegata agli atti d'appello), così come previsto nel contratto a progetto (12 mesi), proprio in ragione del fatto che quest'ultimo è stato dichiarato nullo. Nella sentenza in esame, si legge inoltre che il Tribunale di Arezzo ha affermato l'obbligo della S.C. s.r.l. di ripristinare il rapporto di lavoro con il sig. C., da intendersi perciò come rapporto di lavoro subordinato posto in essere fin dall'inizio (10.12.2003) ed altrettanto correttamente ha ritenuto non applicabile a questa fattispecie la norma di cui all'art. 18 della legge n. 300/70, bensì la disciplina di diritto comune. In base a quanto appena affermato, secondo la Corte d'Appello al sig. C. non spetta la retribuzione relativa ai periodi in cui non ha svolto la propria attività lavorativa, fino alla effettiva offerta delle proprie prestazioni, in analogia a quanto dettato in generale per il contratto a tempo determinato (e per la Corte "il contratto a progetto è, pur sempre, un contratto a termine"): in tal caso, infatti, non sono dovute le prestazioni relative al periodo intercorrente tra la cessazione del contratto a termine e la propria messa a disposizione da parte del lavoratore, secondo anche l'orientamento della Cassazione (Sezioni Unite sent. nn. 7471 e 2334 del 1991). Nella sentenza in commento, si legge inoltre che si verte in una fattispecie giuridica diversa da quella che emerge in seguito alla declaratoria di illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18 della Legge n. 300/1970. Il sig. C. dunque aveva invocato l'applicazione della tutela reale accordata dallo Statuto dei lavoratori con l'art. 18, in caso di aziende con più di 15 dipendenti (come in questo caso) ma la Corte d'Appello ha respinto tale richiesta in quanto "nella situazione dedotta, invece, caratterizzata dall'assenza di un atto di licenziamento" il rapporto è cessato per lo spirare del termine, ed anche se il rapporto si converte in rapporto a tempo indeterminato ex tunc, ai sensi dell'art. 69, primo comma, del d.lgs. 276/03, in quanto tale termine è illegittimamente apposto e dunque nullo, tuttavia "dall'accertata illegittimità dell'apposizione del termine e dalla conseguente conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato non consegue automaticamente il diritto del lavoratore alle retribuzioni relative al periodo successivo alla scadenza del termine: tale diritto, infatti, è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa". La Corte prosegue che qualora il lavoratore attui di fatto il termine nullo non avrà diritto alla retribuzione, finché non provveda ad offrire la propria prestazione, determinando una situazione di "mora accipiendi" del datore di lavoro: quest'ultima sarà l'unica condizione in cui si potrà derogare alla generale regola della effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro (oltre ovviamente ad espresse deroghe legali o contrattuali), in base alla quale la retribuzione spetta solo se la prestazione di lavoro viene eseguita [4].
Conclusioni e osservazioni
La lettura della sentenza in commento suscita non poche perplessità non solo per il risultato pratico a cui giunge, ma soprattutto per il percorso logico seguito che appare francamente discutibile, quantomeno nella parte che riguarda l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori al caso in questione.Nella sentenza, infatti, si legge che in virtù dell'accertata nullità del contratto di lavoro a progetto stipulato tra le parti vi è dunque "l'instaurazione tra le stesse di un rapporto di lavoro subordinato mai validamente interrotto dalla comunicazione aziendale del 6.12.2004 di cessazione del rapporto a seguito della scadenza del termine di dodici mesi prevista (doc. n. 2 di parte appellata)" e la Corte d'Appello prosegue confermando l'obbligo della S.C. s.r.l. di ripristinare il rapporto di lavoro, "da intendersi in essere fin dal 10 dicembre 2003" ovvero ex tunc.Inspiegabilmente, però, subito dopo la stessa Corte, così come i giudici di primo grado, afferma di non ritenere applicabile la tutela ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori, invocata dal sig. C., affermando che il caso in questione ricade nella disciplina di diritto comune (sic!).La Corte fa questo, nonostante l'espressa previsione legislativa dell'art. 69 del d.lgs. 276/03, il quale, almeno secondo il modesto parere di scrive, sembrerebbe lasciare poco spazio a libere interpretazioni: in base a questa norma, infatti, il contratto a progetto posto in essere senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso (ed è proprio il caso di cui parliamo), ai sensi dell'articolo 61, comma 1, è convertito in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione del rapporto. La Corte d'Appello, invece, affermando che "il contratto a progetto è, pur sempre, un contratto a termine" ha applicato la disciplina del contratto a termine, dimenticando completamente di aver appena confermato la conversione ex tunc del contratto a progetto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato!!
Ma non finisce qui, la Corte sostiene che nel caso in questione si verta in una situazione giuridica diversa dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18 della Legge n. 300/1970, il quale si applicherebbe quando venga accertata "l'illegittimità del recesso datoriale", mentre invece nel caso del sig. C. e della società S.C. s.r.l. vi sarebbe "l'assenza di un atto di licenziamento il rapporto è cessato per lo spirare del termine" ed inoltre che "l'accertata nullità del termine illegittimamente apposto fa sì che il rapporto si converta in rapporto a tempo indeterminato fin dall'inizio "ex art. 69, primo comma, del d.lgs 276/03"[5].In base a queste premesse, la stessa Corte conclude che una volta accertata l'illegittimità dell'apposizione del termine e dalla conseguente conversione del rapporto a termine in rapporto indeterminato, da ciò non consegue automaticamente il diritto del lavoratore alle retribuzioni relative al periodo successivo alla scadenza del termine, in quanto esso è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa e quindi il lavoratore deve offrire la propria prestazione di lavoro, mettendo il datore in situazione di "mora accipiendi" (cosa che tra l'altro il sig. C. ha fatto con lettera raccomandata del 17.12.2004).Ad avviso di chi scrive, la Corte d'Appello ha "mescolato" la disciplina del contratto a termine con quella del contratto subordinato "originato" dalla conversione operata ai sensi dell'art. 69 del d.lgs. 276/03, ma che al momento della decisione va regolamentato come se fosse un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (e non a progetto/termine!) nato come tale (data l'efficacia ex tunc), confondendo le due situazioni giuridiche e giungendo ad un risultato paradossale e contraddittorio.Se proprio si voleva "forzare" un dato, forse si poteva ravvisare nella comunicazione da parte della società S.C. S.r.l. del 6.12.2004 una sorta di licenziamento, se non altro perché tale comunicazione in effetti esprimeva la volontà di interrompere il rapporto di lavoro (anche se il motivo ivi dedotto era la scadenza del termine indicato nel contratto a progetto poi convertito).La Corte d'Appello di Firenze forse ha agito con l'intento di stemperare quella che può sembrare di primo acchito una disciplina troppo rigorosa nei confronti del datore di lavoro o forse per altri motivi che onestamente ci sfuggono: ciò che è certo è che all'atto pratico, un lavoratore è stato privato di uno strumento di tutela importantissimo, quale l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale prevede la reintegra nel posto di lavoro (cd. tutela reale), nonché il risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento attraverso un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione con il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione (minimo 5 mensilità). Al sig. C. sono stati liquidati danni per ? 10.000,00 in via equitativa dal primo giudice (erroneamente, secondo la Corte d'Appello), mentre in secondo grado gli sono state riconosciute le ulteriori retribuzioni maturate dopo la sentenza di primo grado (Euro 10.800,00) oltre valutazione monetaria ed interessi monetari.
Dott.ssa Michela Ferraro
[1] Art. 61. Definizione e campo di applicazione1. Ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività lavorativa.2. Dalla disposizione di cui al comma 1 sono escluse le prestazioni occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro, nel qual caso trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo.3. Sono escluse dal campo di applicazione del presente capo le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali e' necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, nonche' i rapporti e le attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal C.O.N.I., come individuate e disciplinate dall'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. Sono altresì esclusi dal campo di applicazione del presente capo i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e i partecipanti a collegi e commissioni, nonche' coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia.4. Le disposizioni contenute nel presente capo non pregiudicano l'applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli per il collaboratore a progetto.Art. 62. F o r m a1. Il contratto di lavoro a progetto e' stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova, i seguenti elementi:a) indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro;b) indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata nel suo contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto;c) il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione, nonche' i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese;d) le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicarne l'autonomia nella esecuzione dell'obbligazione lavorativa;e) le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto, fermo restando quanto disposto dall'articolo 66, comma 4.Art. 63. Corrispettivo1. Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto.Art. 64. Obbligo di riservatezza1. Salvo diverso accordo tra le parti il collaboratore a progetto può svolgere la sua attività a favore di più committenti.2. Il collaboratore a progetto non deve svolgere attività in concorrenza con i committenti ne', in ogni caso, diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai programmi e alla organizzazione di essi, ne' compiere, in qualsiasi modo, atti in pregiudizio della attività dei committenti medesimi.Art. 65. Invenzioni del collaboratore a progetto1. Il lavoratore a progetto ha diritto di essere riconosciuto autore della invenzione fatta nello svolgimento del rapporto.2. I diritti e gli obblighi delle parti sono regolati dalle leggi speciali, compreso quanto previsto dall'articolo 12-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni.Art. 66. Altri diritti del collaboratore a progetto1. La gravidanza, la malattia e l'infortunio del collaboratore a progetto non comportano l'estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso, senza erogazione del corrispettivo.2. Salva diversa previsione del contratto individuale, in caso di malattia e infortunio la sospensione del rapporto non comporta una proroga della durata del contratto, che si estingue alla scadenza. Il committente può comunque recedere dal contratto se la sospensione si protrae per un periodo superiore a un sesto della durata stabilita nel contratto, quando essa sia determinata, ovvero superiore a trenta giorni per i contratti di durata determinabile.3. In caso di gravidanza, la durata del rapporto e' prorogata per un periodo di centottanta giorni, salva più favorevole disposizione del contratto individuale.4. Oltre alle disposizioni di cui alla legge 11 agosto 1973, n. 533, e successive modificazioni e integrazioni, sul processo del lavoro e di cui all'articolo 64 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ai rapporti che rientrano nel campo di applicazione del presente capo si applicano le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche e integrazioni, quando la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente, nonche' le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, le norme di cui all'articolo 51, comma 1, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e del decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale in data 12 gennaio 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 71 del 26 marzo 2001.Art. 67. Estinzione del contratto e preavviso1. I contratti di lavoro di cui al presente capo si risolvono al momento della realizzazione del progetto o del programma o della fase di esso che ne costituisce l'oggetto.2. Le parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale.Art. 68. Rinunzie e transazioni1. I diritti derivanti dalle disposizioni contenute nel presente capo possono essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo V del presente decreto legislativo.Art. 69. Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione del contratto1. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell'articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.2. Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi dell'articolo 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti.3. Ai fini del giudizio di cui al comma 2, il controllo giudiziale e' limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento della esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente. [2] Cfr. Trib. Genova 5 maggio 2006, Trib. Ravenna 25 ottobre 2005, Trib. Torino 5 aprile 2005 (dati tratti da "Manuale breve di diritto del lavoro" di Antonio di Stasi - Giuffré, 2007) e Trib. Torino 23 marzo 2007.[3] Art. 18. - Reintegrazione nel posto di lavoro. (*) I primi 5 commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell'art.1 - Legge n. 108/1990Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.[4] Nel caso in esame, il sig. C. comunicò la propria disponibilità alla immediata ripresa del lavoro dietro chiamata della S.C. s.r.l. con lettera raccomandata del 17.12.2004, allegata agli atti;[5] Ci permettiamo però di ricordare che l'art. 69 non parla di termini in ambito di contratti di lavoro a tempo determinato, ma di "contratto a progetto posto in essere senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, ai sensi dell'articolo 61, comma 1", che è cosa un po' diversa, n.d.r.
Articolo tratto da:
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La conversione del contratto di lavoro a progetto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (App. Firenze, n. 173/2007)

M. Ferraro (Approfondimento 12/6/2008)

Corte d'Appello di Firenze, sez. lavoro, sentenza n. 173/2007

La Corte d'appello si occupa della seguente problematica: Il lavoratore che ottiene la trasformazione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto in rapporto di lavoro subordinato, ai sensi dell'art. 69 d.lgs. 276/2003, può chiedere la reintegra ex art. 18, L. 300/1970?
Il fatto
In data 10 dicembre 2003, la Società S.C. s.r.l. ed il sig. C.A. stipulavano un contratto di lavoro a progetto, ai sensi dell'art. 61 del d. lgs. n. 276/2003. Il rapporto di lavoro di fatto durava un anno ed il progetto lavorativo identificato nel contratto e di cui il sig. C. avrebbe dovuto occuparsi, consisteva nella "riorganizzazione e sviluppo del settore ortofrutticolo". Al termine del rapporto di lavoro, il sig. C. presentava ricorso al Giudice del lavoro di Arezzo e poiché le risultanze istruttorie, ed in particolare le prove testimoniali, indicavano che le mansioni effettivamente svolte dal C. all'interno del supermercato della società S. erano sostanzialmente quelle di un lavoratore dipendente (ad es. rifornire con merce gli scaffali, rispettare gli orari di lavoro, ricevere direttive, ecc.), il Tribunale di Arezzo, in data 14.03.2006 emetteva sentenza (n. 167/06) attraverso la quale accertava che il contratto stipulato tra la società S.C. S.r.l. ed il sig. C. A. doveva essere considerato sin dalla costituzione iniziale del rapporto, come un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in quanto non contenente l'idonea enunciazione di un progetto, programma o fase di lavoro, discostandosi dal modello richiesto dall'art. 61 del d.lgs. 276/03 ed inoltre che l'apposizione del termine finale era privo di effetto, quindi la società/datore di lavoro doveva ripristinare la sua esecuzione, risarcire il danno per il recesso, quantificato in via equitativa in Euro 10.000,00) oltre interessi legali e spese di lite.La società S.C. S.r.l. proponeva appello contro la suddetta sentenza ed il sig. C. presentava appello incidentale col quale chiedeva l'applicazione dell'art. 18 della L. 300/70, in virtù della conversione del contratto a progetto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con conseguente condanna per la S.C. s.r.l. a reintegrare il C. nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni in misura pari all'ammontare delle retribuzioni non percepite dalla data di risoluzione del rapporto fino alla effettiva reintegra.
La fattispecie e la normativa: quadro generale
Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (in breve, contratto di lavoro a progetto) è stato introdotto nel nostro ordinamento con il d.lgs. 276/2003 (la cd. riforma Biagi), il quale attraverso il titolo VII - "Tipologie contrattuali a progetto e occasionali"-, Capo I - "Lavoro a progetto e lavoro occasionale" -, ed in particolare gli artt. 61- 69 [1] ha delineato una nuova disciplina nell'ambito dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, previsti all'art. 409 c.p.c., i quali, a norma dell'art. 61 del citato d.lgs., attualmente devono essere dunque "riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività lavorativa." L'importanza del progetto e della sua indicazione espressa è sancita, rectius sanzionata, in maniera decisamente rigorosa dall'art. 69 del decreto, a norma del quale "i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell'articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto". Come vedremo in seguito, la giurisprudenza ammette che il committente possa fornire in giudizio la prova che il rapporto di lavoro è effettivamente autonomo, quindi in tal caso la conversone non potrà essere disposta, ma quando questa venga applicata il contratto a progetto si trasforma automaticamente ed ex tunc nel rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia contrattuale di fatto realizzatasi tra le parti.
Inquadramento della problematica: aspetto pratico
Come abbiamo visto, l'art. 69 del d.lgs. 276/03 prevede che tutti i contratti a progetto posti in essere "senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso", ai sensi dell'art. 61 comma 1, siano considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed ex tunc, ovvero dalla data di costituzione del rapporto. Sulla natura della disciplina dettata da tale norma si è ampiamente discusso sia in dottrina che in giurisprudenza, e la Cassazione non è ancora intervenuta sul punto: in ogni caso la prevalente giurisprudenza di merito la considera come una vera e propria sanzione posta a carico del datore di lavoro per non aver correttamente specificato il progetto ed in sostanza aver eluso le finalità della normativa sul contratto a progetto (probabilmente nel tentativo di evitare l'assunzione con contratto di lavoro subordinato) ed in particolare, sempre secondo questo orientamento giurisprudenziale, in questo caso vi sarebbe una presunzione relativa a carico del datore di lavoro, il quale può fornire la prova contraria atta a dimostrare che il rapporto è effettivamente non subordinato e che si tratta di un contratto a progetto vero e proprio. Tale interpretazione maggiormente "garantista", meno rigida, oltre ad essere sostenuta da molta parte della dottrina (fra gli altri G. Santoro Passarelli, Mazzotta) per evidenti dubbi di costituzionalità, è stata accolta dalla giurisprudenza di merito [2] anche sulla scorta di pronunce diametralmente opposte della Corte Costituzionale sulla qualifica di tale presunzione. Il sig. C., partendo da queste premesse e basandosi dunque sul fatto che il rapporto veniva qualificato come di lavoro subordinato ex tunc (cioè sin dall'inizio) a tempo indeterminato, ha ritenuto di poter invocare l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori [3], dato che la società S.C. S.r.l., controllata dalla K. S.p.a., ha più dei 15 dipendenti richiesti come parametro per poter applicare la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, ottenendo anche il relativo risarcimento corrispondente alle retribuzioni non percepite dalla data di risoluzione del rapporto fino al rapporto, fino al momento in cui non avvenga l'effettiva reintegrazione nel posto di lavoro.
La decisione della Corte d'Appello di Firenze (n. 173/2007)
La Corte d'Appello di Firenze ha pienamente confermato la sentenza di primo grado impugnata dalla S.C. S.r.l. ritenendo che il Tribunale di Arezzo avesse correttamente convertito il rapporto di collaborazione a termine tra la suddetta società ed il sig. C. in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in applicazione dell'art. 69, comma primo, del d.lgs. 276/03. Tale rapporto di lavoro, dunque, non si considerava interrotto con la comunicazione aziendale del 6.12.2004 di cessazione del rapporto (allegata agli atti d'appello), così come previsto nel contratto a progetto (12 mesi), proprio in ragione del fatto che quest'ultimo è stato dichiarato nullo. Nella sentenza in esame, si legge inoltre che il Tribunale di Arezzo ha affermato l'obbligo della S.C. s.r.l. di ripristinare il rapporto di lavoro con il sig. C., da intendersi perciò come rapporto di lavoro subordinato posto in essere fin dall'inizio (10.12.2003) ed altrettanto correttamente ha ritenuto non applicabile a questa fattispecie la norma di cui all'art. 18 della legge n. 300/70, bensì la disciplina di diritto comune. In base a quanto appena affermato, secondo la Corte d'Appello al sig. C. non spetta la retribuzione relativa ai periodi in cui non ha svolto la propria attività lavorativa, fino alla effettiva offerta delle proprie prestazioni, in analogia a quanto dettato in generale per il contratto a tempo determinato (e per la Corte "il contratto a progetto è, pur sempre, un contratto a termine"): in tal caso, infatti, non sono dovute le prestazioni relative al periodo intercorrente tra la cessazione del contratto a termine e la propria messa a disposizione da parte del lavoratore, secondo anche l'orientamento della Cassazione (Sezioni Unite sent. nn. 7471 e 2334 del 1991). Nella sentenza in commento, si legge inoltre che si verte in una fattispecie giuridica diversa da quella che emerge in seguito alla declaratoria di illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18 della Legge n. 300/1970. Il sig. C. dunque aveva invocato l'applicazione della tutela reale accordata dallo Statuto dei lavoratori con l'art. 18, in caso di aziende con più di 15 dipendenti (come in questo caso) ma la Corte d'Appello ha respinto tale richiesta in quanto "nella situazione dedotta, invece, caratterizzata dall'assenza di un atto di licenziamento" il rapporto è cessato per lo spirare del termine, ed anche se il rapporto si converte in rapporto a tempo indeterminato ex tunc, ai sensi dell'art. 69, primo comma, del d.lgs. 276/03, in quanto tale termine è illegittimamente apposto e dunque nullo, tuttavia "dall'accertata illegittimità dell'apposizione del termine e dalla conseguente conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato non consegue automaticamente il diritto del lavoratore alle retribuzioni relative al periodo successivo alla scadenza del termine: tale diritto, infatti, è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa". La Corte prosegue che qualora il lavoratore attui di fatto il termine nullo non avrà diritto alla retribuzione, finché non provveda ad offrire la propria prestazione, determinando una situazione di "mora accipiendi" del datore di lavoro: quest'ultima sarà l'unica condizione in cui si potrà derogare alla generale regola della effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro (oltre ovviamente ad espresse deroghe legali o contrattuali), in base alla quale la retribuzione spetta solo se la prestazione di lavoro viene eseguita [4].
Conclusioni e osservazioni
La lettura della sentenza in commento suscita non poche perplessità non solo per il risultato pratico a cui giunge, ma soprattutto per il percorso logico seguito che appare francamente discutibile, quantomeno nella parte che riguarda l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori al caso in questione.Nella sentenza, infatti, si legge che in virtù dell'accertata nullità del contratto di lavoro a progetto stipulato tra le parti vi è dunque "l'instaurazione tra le stesse di un rapporto di lavoro subordinato mai validamente interrotto dalla comunicazione aziendale del 6.12.2004 di cessazione del rapporto a seguito della scadenza del termine di dodici mesi prevista (doc. n. 2 di parte appellata)" e la Corte d'Appello prosegue confermando l'obbligo della S.C. s.r.l. di ripristinare il rapporto di lavoro, "da intendersi in essere fin dal 10 dicembre 2003" ovvero ex tunc.Inspiegabilmente, però, subito dopo la stessa Corte, così come i giudici di primo grado, afferma di non ritenere applicabile la tutela ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori, invocata dal sig. C., affermando che il caso in questione ricade nella disciplina di diritto comune (sic!).La Corte fa questo, nonostante l'espressa previsione legislativa dell'art. 69 del d.lgs. 276/03, il quale, almeno secondo il modesto parere di scrive, sembrerebbe lasciare poco spazio a libere interpretazioni: in base a questa norma, infatti, il contratto a progetto posto in essere senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso (ed è proprio il caso di cui parliamo), ai sensi dell'articolo 61, comma 1, è convertito in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione del rapporto. La Corte d'Appello, invece, affermando che "il contratto a progetto è, pur sempre, un contratto a termine" ha applicato la disciplina del contratto a termine, dimenticando completamente di aver appena confermato la conversione ex tunc del contratto a progetto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato!!
Ma non finisce qui, la Corte sostiene che nel caso in questione si verta in una situazione giuridica diversa dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18 della Legge n. 300/1970, il quale si applicherebbe quando venga accertata "l'illegittimità del recesso datoriale", mentre invece nel caso del sig. C. e della società S.C. s.r.l. vi sarebbe "l'assenza di un atto di licenziamento il rapporto è cessato per lo spirare del termine" ed inoltre che "l'accertata nullità del termine illegittimamente apposto fa sì che il rapporto si converta in rapporto a tempo indeterminato fin dall'inizio "ex art. 69, primo comma, del d.lgs 276/03"[5].In base a queste premesse, la stessa Corte conclude che una volta accertata l'illegittimità dell'apposizione del termine e dalla conseguente conversione del rapporto a termine in rapporto indeterminato, da ciò non consegue automaticamente il diritto del lavoratore alle retribuzioni relative al periodo successivo alla scadenza del termine, in quanto esso è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa e quindi il lavoratore deve offrire la propria prestazione di lavoro, mettendo il datore in situazione di "mora accipiendi" (cosa che tra l'altro il sig. C. ha fatto con lettera raccomandata del 17.12.2004).Ad avviso di chi scrive, la Corte d'Appello ha "mescolato" la disciplina del contratto a termine con quella del contratto subordinato "originato" dalla conversione operata ai sensi dell'art. 69 del d.lgs. 276/03, ma che al momento della decisione va regolamentato come se fosse un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (e non a progetto/termine!) nato come tale (data l'efficacia ex tunc), confondendo le due situazioni giuridiche e giungendo ad un risultato paradossale e contraddittorio.Se proprio si voleva "forzare" un dato, forse si poteva ravvisare nella comunicazione da parte della società S.C. S.r.l. del 6.12.2004 una sorta di licenziamento, se non altro perché tale comunicazione in effetti esprimeva la volontà di interrompere il rapporto di lavoro (anche se il motivo ivi dedotto era la scadenza del termine indicato nel contratto a progetto poi convertito).La Corte d'Appello di Firenze forse ha agito con l'intento di stemperare quella che può sembrare di primo acchito una disciplina troppo rigorosa nei confronti del datore di lavoro o forse per altri motivi che onestamente ci sfuggono: ciò che è certo è che all'atto pratico, un lavoratore è stato privato di uno strumento di tutela importantissimo, quale l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale prevede la reintegra nel posto di lavoro (cd. tutela reale), nonché il risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento attraverso un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione con il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione (minimo 5 mensilità). Al sig. C. sono stati liquidati danni per ? 10.000,00 in via equitativa dal primo giudice (erroneamente, secondo la Corte d'Appello), mentre in secondo grado gli sono state riconosciute le ulteriori retribuzioni maturate dopo la sentenza di primo grado (Euro 10.800,00) oltre valutazione monetaria ed interessi monetari.
Dott.ssa Michela Ferraro
[1] Art. 61. Definizione e campo di applicazione1. Ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività lavorativa.2. Dalla disposizione di cui al comma 1 sono escluse le prestazioni occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro, nel qual caso trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo.3. Sono escluse dal campo di applicazione del presente capo le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali e' necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, nonche' i rapporti e le attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal C.O.N.I., come individuate e disciplinate dall'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. Sono altresì esclusi dal campo di applicazione del presente capo i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e i partecipanti a collegi e commissioni, nonche' coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia.4. Le disposizioni contenute nel presente capo non pregiudicano l'applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli per il collaboratore a progetto.Art. 62. F o r m a1. Il contratto di lavoro a progetto e' stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova, i seguenti elementi:a) indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro;b) indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata nel suo contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto;c) il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione, nonche' i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese;d) le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicarne l'autonomia nella esecuzione dell'obbligazione lavorativa;e) le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto, fermo restando quanto disposto dall'articolo 66, comma 4.Art. 63. Corrispettivo1. Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto.Art. 64. Obbligo di riservatezza1. Salvo diverso accordo tra le parti il collaboratore a progetto può svolgere la sua attività a favore di più committenti.2. Il collaboratore a progetto non deve svolgere attività in concorrenza con i committenti ne', in ogni caso, diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai programmi e alla organizzazione di essi, ne' compiere, in qualsiasi modo, atti in pregiudizio della attività dei committenti medesimi.Art. 65. Invenzioni del collaboratore a progetto1. Il lavoratore a progetto ha diritto di essere riconosciuto autore della invenzione fatta nello svolgimento del rapporto.2. I diritti e gli obblighi delle parti sono regolati dalle leggi speciali, compreso quanto previsto dall'articolo 12-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni.Art. 66. Altri diritti del collaboratore a progetto1. La gravidanza, la malattia e l'infortunio del collaboratore a progetto non comportano l'estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso, senza erogazione del corrispettivo.2. Salva diversa previsione del contratto individuale, in caso di malattia e infortunio la sospensione del rapporto non comporta una proroga della durata del contratto, che si estingue alla scadenza. Il committente può comunque recedere dal contratto se la sospensione si protrae per un periodo superiore a un sesto della durata stabilita nel contratto, quando essa sia determinata, ovvero superiore a trenta giorni per i contratti di durata determinabile.3. In caso di gravidanza, la durata del rapporto e' prorogata per un periodo di centottanta giorni, salva più favorevole disposizione del contratto individuale.4. Oltre alle disposizioni di cui alla legge 11 agosto 1973, n. 533, e successive modificazioni e integrazioni, sul processo del lavoro e di cui all'articolo 64 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ai rapporti che rientrano nel campo di applicazione del presente capo si applicano le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche e integrazioni, quando la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente, nonche' le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, le norme di cui all'articolo 51, comma 1, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e del decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale in data 12 gennaio 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 71 del 26 marzo 2001.Art. 67. Estinzione del contratto e preavviso1. I contratti di lavoro di cui al presente capo si risolvono al momento della realizzazione del progetto o del programma o della fase di esso che ne costituisce l'oggetto.2. Le parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale.Art. 68. Rinunzie e transazioni1. I diritti derivanti dalle disposizioni contenute nel presente capo possono essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo V del presente decreto legislativo.Art. 69. Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione del contratto1. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell'articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.2. Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi dell'articolo 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti.3. Ai fini del giudizio di cui al comma 2, il controllo giudiziale e' limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento della esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente. [2] Cfr. Trib. Genova 5 maggio 2006, Trib. Ravenna 25 ottobre 2005, Trib. Torino 5 aprile 2005 (dati tratti da "Manuale breve di diritto del lavoro" di Antonio di Stasi - Giuffré, 2007) e Trib. Torino 23 marzo 2007.[3] Art. 18. - Reintegrazione nel posto di lavoro. (*) I primi 5 commi hanno così sostituito i commi primo e secondo per effetto dell'art.1 - Legge n. 108/1990Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.[4] Nel caso in esame, il sig. C. comunicò la propria disponibilità alla immediata ripresa del lavoro dietro chiamata della S.C. s.r.l. con lettera raccomandata del 17.12.2004, allegata agli atti;[5] Ci permettiamo però di ricordare che l'art. 69 non parla di termini in ambito di contratti di lavoro a tempo determinato, ma di "contratto a progetto posto in essere senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, ai sensi dell'articolo 61, comma 1", che è cosa un po' diversa, n.d.r.
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martedì 17 giugno 2008

  • Silenzio sulla richiesta di permesso di costruire: sostanza e rimedi

  • TAR Lazio-Roma, sez. II bis, sentenza 03.01.2008 n° 14
  • (Alessandro Del Dotto)

    Per giurisprudenza consolidata, il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale.
    Il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
    Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis della L. 1034/71 caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
    Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto e che, come tale, può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
    La normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
    Questi i passaggi fondamentali della decisione del T.A.R. Lazio all’interno di un ricorso promosso per sentir dichiarare l’illegittimità del silenzio serbato dalla p.a. in ordine ad una istanza di rilascio di titolo edificatorio.
    La precisazione operata in massima, in particolare, si è posta quale necessaria premessa onde motivare il non accoglimento della questione di inammissibilità proposta dalla amministrazione resistente, la quale – come implicitamente si evince dalla lettura della motivazione della sentenza in “diritto” – aveva eccepito la pregiudiziale in rito proprio sull’argomento della sostanziale configurazione del silenzio serbato sull’istanza.
    In tal senso, se è vero – com’è vero: cfr. ricostruzione normativa in materia di permessi di costruire – che in tali fattispecie si versa in ipotesi di silenzio-rifiuto (o “inadempimento) e non di silenzio-rigetto, alla medesima fattispecie si possono applicarei rimedi ordinariamente previsti per la tutela contro i silenzi inerti della p.a. (“posti in essere” in violazione manifesta dell’articolo 2 della
    l. n. 241/1990).
    Tuttavia, un ulteriore appunto non può, di certo, essere omesso, nell’occasione che si coglie sul punto dei silenzi-rifiuto della p.a.
    Non si può, infatti, mancare di osservare (accodandosi, peraltro, alle posizioni espresse da numerosi giuristi) come la
    l. n. 241/1990 stabilisca l’obbligo del provvedimento espresso della p.a., e cioé l’obbligo della p.a. di concludere un procedimento amministrativo con una decisione (motivata: art. 3); una formulazione chiara e molto poco equivoca circa l’obbligo per la p.a. italiana di provvedere.
    Ebbene, l’assurdo del sistema di tutela di fronte ai silenzi-inadempimento sta, appunto, nella circostanza che il ricorrente propone domanda al giudice perché, accertata la sussistenza del silenzio inadempimento, condanni l’amministrazione a provvedere, quando il contenuto di tale condanna è già chiaramente e sufficientemente disposto dalla norma di legge che obbliga la p.a. a provvedere sempre ed espressamente.
    Al cittadino, in due parole, tale sistema di tutela processuale non pare offrire alcuna utilità rispetto a quanto stabilito in sede sostanziale.
    Tale notazione – si è ben cosciente – offre il fianco ad appunti, specie in ordine ai poteri che allora, bisognerebbe riconoscere al G.a., dal momento che a quest’ultimo – per esser coerenti e logici, rispetto ai rilievi anzidetti – dovrebbe attribuirsi non solo il potere di sentenziare accertando l’obbligo (invece, inesitato) di provvedere e conseguente condanna, ma anche quello – ben più efficace – di entrare nel merito e delibare la fondatezza dell’istanza nonché giudicare del merito della stessa (pu se, si è ben coscienti, simile soluzione rischia di confondere i ruoli di amministrazione e Giudice).
    E questo non solo per gli atti vincolati – come già esiste e di cui, in generale, i Giudici amministrativi paiono molto dubitare – ma per tutti gli atti che la p.a. deve emanare e non emana a fronte delle legittime istanze del cittadino.
    E’ in ogni caso una scelta di valori: la preservazione dell’ordinamento giurisdizionale o l’efficacia della tutela da accordare al cittadino?


(Altalex, 13 giugno 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)


T.A.R.


Lazio - Roma


Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Massima e Testo Integrale

MASSIMA


Permesso di costruire – domanda – risposta della P.A. – silenzio – illegittimità


Di fronte ad una domanda di permesso di costruire, la P.A. non può limitarsi a negare il permesso con il silenzio, ma vi deve essere un provvedimento espresso.


(Fonte: Altalex Massimario 14/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto)

T.A.R.

Lazio - Roma

Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

- Sezione Seconda Bis -

composto dai signori magistrati:
Dott. Francesco Corsaro Presidente
Dott. Francesco Riccio Consigliere
Dott. Stefania Santoleri Consigliere, relatore
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 8111/07, proposto da X., rappresentato e difeso dall’Avv. Luisa Totino ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Roma, Via G. Ferrari n. 11.
contro
il COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Rizzo ed elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’Avvocatura Comunale siti in Roma, Via del Tempio di Giove n. 21
il COMUNE DI ROMA – Dipartimento IX – in persona del legale rappresentante p.t.
per l'annullamento
del silenzio rifiuto formatosi sulla domanda di rilascio del permesso di costruire in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270, avente ad oggetto l’ampliamento di un fabbricato residenziale, nonché di ogni atto presupposto, connesso, consequenziale a quello impugnato.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione resistente;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Udita alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 la relazione della Dott.ssa Stefania Santoleri, e uditi, altresì, per le parti gli avvocati come da verbale di udienza allegato agli atti del giudizio.
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO
Il ricorrente è proprietario di un terreno con sovrastante fabbricato destinato ad abitazione propria e del nucleo familiare, sito in Roma, Via Tenuta S. Agata n. 20, distinto in catasto al foglio 193, part. 31 e 32.
Con domanda prot. n. QI/2007/24270 del 12/4/07, il ricorrente ha chiesto il rilascio del permesso di costruire per realizzare l’ampliamento del proprio fabbricato.
Il Comune è rimasto inerte.
Essendo trascorso il termine di cui all’art. 20 del D.P.R. 380/01[1], il ricorrente ha impugnato il silenzio rifiuto deducendo i seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del D.P.R. 380/01 e succ. mod. ed integr. Eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione.
L’art. 20 del D.P.R. 380/01 assegna all’Amministrazione il termine tassativo entro il quale adottare il provvedimento.
Ai sensi dell’art. 20 comma 9 del D.P.R. 380/01, decorso il termine previsto dalla legge il permesso si intende rifiutato.
Nella fattispecie il Comune non avrebbe adottato alcun provvedimento nei termini previsti dalla legge e quindi si sarebbe formato il silenzio rifiuto impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
2) Violazione degli artt. 2 comma 2 e 3 comma 1 della L. 241/90 e succ. mod. ed integr. Difetto di motivazione.
Il silenzio prestato dall’Amministrazione sarebbe illegittimo dovendo la P.A. concludere il procedimento con un provvedimento espresso e motivato.
Insiste quindi il ricorrente per l’accoglimento del ricorso.
Il Comune di Roma si è costituito in giudizio ed ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza.
Alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO
Preliminarmente ritiene il Collegio di dover respingere l’eccezione di inammissibilità sollevata da parte resistente atteso che – per giurisprudenza consolidata – il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale (cfr. T.A.R. Basilicata n. 145/07; TAR Lazio, Latina, 14 marzo 2001, n.295).
Con riferimento a quanto precisato, ritiene dunque il Collegio che il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis dellaL. 1034/71 [2] caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto (T.A.R. Marche n. 413/06) e che come tale può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
Ne consegue l’infondatezza della proposta eccezione.
Nel merito il ricorso è fondato.
L’art. 20 (Procedimento di rilascio del permesso di costruire) del D.P.R. n. 380/2001 fissa termini ben definiti per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, stabilendo in particolare che: a) entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, acquisiti i prescritti pareri e valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell’intervento richiesto (terzo comma); b) il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può nel predetto termine di sessanta giorni, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta del responsabile del procedimento sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di sessanta giorni (quarto comma); c) il termine di sessanta giorni può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa (quinto comma); d) nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5 comma 3 (aziende sanitarie e vigili del fuoco), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi (sesto comma); e) il provvedimento finale è adottato dal dirigente entro quindici giorni dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento ovvero dall’esito della conferenza di servizio (settimo comma); f) i termini di cui ai commi 3 e 5 sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi, secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento (ottavo comma); g) decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto (nono comma).
A sua volta il successivo art. 21 (Intervento sostitutivo regionale) del citato D.P.R. n. 380/2001 oltre ad aver previsto la facoltà per l’interessato di richiedere l’intervento sostitutivo regionale, stabilisce all’ultimo periodo del primo comma che "Resta comunque ferma la facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi sulla domanda di permesso di costruire".
La riportata normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
Nella fattispecie alla domanda di rilascio del permesso di costruire del 12 aprile 2007 non ha fatto seguito alcun atto – neppure istruttorio – da parte del Comune di Roma fino al momento della proposizione del ricorso (e cioè fino al 21 settembre 2007, data di notifica dell’impugnazione).
Sicchè essendo trascorsi i termini previsti dall’art. 20 del D.P.R. 380/91 si è formato il silenzio impugnabile in sede giurisdizionale, ed avendo la P.A. l’obbligo di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso, che consenta all’interessato di comprendere le ragioni della scelta operata dall’Amministrazione e che quindi gli garantisca idonea tutela giurisdizionale, il silenzio serbato dal Comune di Roma deve ritenersi illegittimo.
Non può infatti assumere rilievo la richiesta di integrazione documentale avanzata dal Comune di Roma in data 2 ottobre 2007, in quanto successiva allo spirare del termine per la conclusione del procedimento e all’instaurazione del giudizio, alla quale, peraltro, non ha fatto seguito l’adozione di alcun provvedimento decisorio, unico elemento in grado di comportare la declaratoria di improcedibilità dell’impugnazione.
Il ricorso va quindi accolto, ai limitati fini di ordinare al Comune di Roma di provvedere all’adozione del provvedimento conclusivo entro il termine di 60 (sessanta) giorni decorrenti dalla comunicazione o dalla notifica, se anteriore, della presente sentenza.
Il Tribunale nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.


Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione Seconda Bis -
accoglie
- il ricorso in epigrafe indicato e per l’effetto annulla il silenzio rifiuto e dichiara l’obbligo per l’Amministrazione di provvedere sull’istanza di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270;
- nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato;
- condanna il Comune di Roma al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente in € 500 oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.


Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 dicembre 2007.


Francesco Corsaro PRESIDENTE


Stefania Santoleri ESTENSORE


Depositata in Segreteria il 3 gennaio 2008.

  • Silenzio sulla richiesta di permesso di costruire: sostanza e rimedi

  • TAR Lazio-Roma, sez. II bis, sentenza 03.01.2008 n° 14
  • (Alessandro Del Dotto)

    Per giurisprudenza consolidata, il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale.
    Il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
    Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis della L. 1034/71 caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
    Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto e che, come tale, può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
    La normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
    Questi i passaggi fondamentali della decisione del T.A.R. Lazio all’interno di un ricorso promosso per sentir dichiarare l’illegittimità del silenzio serbato dalla p.a. in ordine ad una istanza di rilascio di titolo edificatorio.
    La precisazione operata in massima, in particolare, si è posta quale necessaria premessa onde motivare il non accoglimento della questione di inammissibilità proposta dalla amministrazione resistente, la quale – come implicitamente si evince dalla lettura della motivazione della sentenza in “diritto” – aveva eccepito la pregiudiziale in rito proprio sull’argomento della sostanziale configurazione del silenzio serbato sull’istanza.
    In tal senso, se è vero – com’è vero: cfr. ricostruzione normativa in materia di permessi di costruire – che in tali fattispecie si versa in ipotesi di silenzio-rifiuto (o “inadempimento) e non di silenzio-rigetto, alla medesima fattispecie si possono applicarei rimedi ordinariamente previsti per la tutela contro i silenzi inerti della p.a. (“posti in essere” in violazione manifesta dell’articolo 2 della
    l. n. 241/1990).
    Tuttavia, un ulteriore appunto non può, di certo, essere omesso, nell’occasione che si coglie sul punto dei silenzi-rifiuto della p.a.
    Non si può, infatti, mancare di osservare (accodandosi, peraltro, alle posizioni espresse da numerosi giuristi) come la
    l. n. 241/1990 stabilisca l’obbligo del provvedimento espresso della p.a., e cioé l’obbligo della p.a. di concludere un procedimento amministrativo con una decisione (motivata: art. 3); una formulazione chiara e molto poco equivoca circa l’obbligo per la p.a. italiana di provvedere.
    Ebbene, l’assurdo del sistema di tutela di fronte ai silenzi-inadempimento sta, appunto, nella circostanza che il ricorrente propone domanda al giudice perché, accertata la sussistenza del silenzio inadempimento, condanni l’amministrazione a provvedere, quando il contenuto di tale condanna è già chiaramente e sufficientemente disposto dalla norma di legge che obbliga la p.a. a provvedere sempre ed espressamente.
    Al cittadino, in due parole, tale sistema di tutela processuale non pare offrire alcuna utilità rispetto a quanto stabilito in sede sostanziale.
    Tale notazione – si è ben cosciente – offre il fianco ad appunti, specie in ordine ai poteri che allora, bisognerebbe riconoscere al G.a., dal momento che a quest’ultimo – per esser coerenti e logici, rispetto ai rilievi anzidetti – dovrebbe attribuirsi non solo il potere di sentenziare accertando l’obbligo (invece, inesitato) di provvedere e conseguente condanna, ma anche quello – ben più efficace – di entrare nel merito e delibare la fondatezza dell’istanza nonché giudicare del merito della stessa (pu se, si è ben coscienti, simile soluzione rischia di confondere i ruoli di amministrazione e Giudice).
    E questo non solo per gli atti vincolati – come già esiste e di cui, in generale, i Giudici amministrativi paiono molto dubitare – ma per tutti gli atti che la p.a. deve emanare e non emana a fronte delle legittime istanze del cittadino.
    E’ in ogni caso una scelta di valori: la preservazione dell’ordinamento giurisdizionale o l’efficacia della tutela da accordare al cittadino?


(Altalex, 13 giugno 2008. Nota di Alessandro Del Dotto)


T.A.R.


Lazio - Roma


Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Massima e Testo Integrale

MASSIMA


Permesso di costruire – domanda – risposta della P.A. – silenzio – illegittimità


Di fronte ad una domanda di permesso di costruire, la P.A. non può limitarsi a negare il permesso con il silenzio, ma vi deve essere un provvedimento espresso.


(Fonte: Altalex Massimario 14/2008. Cfr. nota di Alessandro Del Dotto)

T.A.R.

Lazio - Roma

Sezione II bis

Sentenza 3 gennaio 2008, n. 14

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

- Sezione Seconda Bis -

composto dai signori magistrati:
Dott. Francesco Corsaro Presidente
Dott. Francesco Riccio Consigliere
Dott. Stefania Santoleri Consigliere, relatore
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 8111/07, proposto da X., rappresentato e difeso dall’Avv. Luisa Totino ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Roma, Via G. Ferrari n. 11.
contro
il COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Rizzo ed elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’Avvocatura Comunale siti in Roma, Via del Tempio di Giove n. 21
il COMUNE DI ROMA – Dipartimento IX – in persona del legale rappresentante p.t.
per l'annullamento
del silenzio rifiuto formatosi sulla domanda di rilascio del permesso di costruire in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270, avente ad oggetto l’ampliamento di un fabbricato residenziale, nonché di ogni atto presupposto, connesso, consequenziale a quello impugnato.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione resistente;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Udita alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 la relazione della Dott.ssa Stefania Santoleri, e uditi, altresì, per le parti gli avvocati come da verbale di udienza allegato agli atti del giudizio.
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO
Il ricorrente è proprietario di un terreno con sovrastante fabbricato destinato ad abitazione propria e del nucleo familiare, sito in Roma, Via Tenuta S. Agata n. 20, distinto in catasto al foglio 193, part. 31 e 32.
Con domanda prot. n. QI/2007/24270 del 12/4/07, il ricorrente ha chiesto il rilascio del permesso di costruire per realizzare l’ampliamento del proprio fabbricato.
Il Comune è rimasto inerte.
Essendo trascorso il termine di cui all’art. 20 del D.P.R. 380/01[1], il ricorrente ha impugnato il silenzio rifiuto deducendo i seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del D.P.R. 380/01 e succ. mod. ed integr. Eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione.
L’art. 20 del D.P.R. 380/01 assegna all’Amministrazione il termine tassativo entro il quale adottare il provvedimento.
Ai sensi dell’art. 20 comma 9 del D.P.R. 380/01, decorso il termine previsto dalla legge il permesso si intende rifiutato.
Nella fattispecie il Comune non avrebbe adottato alcun provvedimento nei termini previsti dalla legge e quindi si sarebbe formato il silenzio rifiuto impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
2) Violazione degli artt. 2 comma 2 e 3 comma 1 della L. 241/90 e succ. mod. ed integr. Difetto di motivazione.
Il silenzio prestato dall’Amministrazione sarebbe illegittimo dovendo la P.A. concludere il procedimento con un provvedimento espresso e motivato.
Insiste quindi il ricorrente per l’accoglimento del ricorso.
Il Comune di Roma si è costituito in giudizio ed ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza.
Alla Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO
Preliminarmente ritiene il Collegio di dover respingere l’eccezione di inammissibilità sollevata da parte resistente atteso che – per giurisprudenza consolidata – il silenzio serbato integra la violazione di un preciso dovere giuridico sanzionabile in sede giurisdizionale con l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di esitare con provvedimento esplicito la richiesta del privato, atteso che il rifiuto di provvedere, senza alcuna giustificazione, si risolve in una grave limitazione delle facoltà del cittadino di esercitare il diritto di edificare, espressione tipica del diritto dominicale (cfr. T.A.R. Basilicata n. 145/07; TAR Lazio, Latina, 14 marzo 2001, n.295).
Con riferimento a quanto precisato, ritiene dunque il Collegio che il rifiuto implicito sia per propria natura sempre illegittimo, specie se connesso a situazioni di diritto degradate, come si verifica nel caso di richiesta di concessione edilizia, rispetto alla quale il proprietario del bene fa valere un diritto soggettivo condizionato in attesa di espansione, dal momento che tale comportamento omissivo e di inerzia, oltre a rivelarsi elusivo di un preciso dovere provvedimentale imposto dalla legge, risulta anche carente della dovuta motivazione, precludendo in tal modo anche il diritto di difesa del cittadino che ne viene a subire gli effetti negativi.
Di qui l’utilizzabilità del procedimento delineato dall’art. 21 bis dellaL. 1034/71 [2] caratterizzato dalla snellezza e dalla velocità che culmina – nel caso di accoglimento del ricorso – con la declaratoria dell’obbligo di provvedere imponendo pertanto all’Amministrazione inadempiente il rispetto dei principi sul giusto procedimento.
Del resto la stessa giurisprudenza ha chiarito che – per espressa definizione normativa – il silenzio sull’istanza di rilascio del permesso di costruire si qualifica come silenzio rifiuto e non come silenzio rigetto (T.A.R. Marche n. 413/06) e che come tale può essere oggetto di impugnazione con il procedimento ex art. 21 bis della L. 1034/71.
Ne consegue l’infondatezza della proposta eccezione.
Nel merito il ricorso è fondato.
L’art. 20 (Procedimento di rilascio del permesso di costruire) del D.P.R. n. 380/2001 fissa termini ben definiti per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, stabilendo in particolare che: a) entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, acquisiti i prescritti pareri e valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell’intervento richiesto (terzo comma); b) il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può nel predetto termine di sessanta giorni, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta del responsabile del procedimento sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di sessanta giorni (quarto comma); c) il termine di sessanta giorni può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa (quinto comma); d) nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5 comma 3 (aziende sanitarie e vigili del fuoco), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi (sesto comma); e) il provvedimento finale è adottato dal dirigente entro quindici giorni dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento ovvero dall’esito della conferenza di servizio (settimo comma); f) i termini di cui ai commi 3 e 5 sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi, secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento (ottavo comma); g) decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto (nono comma).
A sua volta il successivo art. 21 (Intervento sostitutivo regionale) del citato D.P.R. n. 380/2001 oltre ad aver previsto la facoltà per l’interessato di richiedere l’intervento sostitutivo regionale, stabilisce all’ultimo periodo del primo comma che "Resta comunque ferma la facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi sulla domanda di permesso di costruire".
La riportata normativa di riferimento non dà adito ad apprezzabili dubbi interpretativi: decorsi i termini di legge per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, si forma il silenzio-rifiuto (art. 20, nono comma), immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale (art. 21, primo comma, ultimo periodo).
Nella fattispecie alla domanda di rilascio del permesso di costruire del 12 aprile 2007 non ha fatto seguito alcun atto – neppure istruttorio – da parte del Comune di Roma fino al momento della proposizione del ricorso (e cioè fino al 21 settembre 2007, data di notifica dell’impugnazione).
Sicchè essendo trascorsi i termini previsti dall’art. 20 del D.P.R. 380/91 si è formato il silenzio impugnabile in sede giurisdizionale, ed avendo la P.A. l’obbligo di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso, che consenta all’interessato di comprendere le ragioni della scelta operata dall’Amministrazione e che quindi gli garantisca idonea tutela giurisdizionale, il silenzio serbato dal Comune di Roma deve ritenersi illegittimo.
Non può infatti assumere rilievo la richiesta di integrazione documentale avanzata dal Comune di Roma in data 2 ottobre 2007, in quanto successiva allo spirare del termine per la conclusione del procedimento e all’instaurazione del giudizio, alla quale, peraltro, non ha fatto seguito l’adozione di alcun provvedimento decisorio, unico elemento in grado di comportare la declaratoria di improcedibilità dell’impugnazione.
Il ricorso va quindi accolto, ai limitati fini di ordinare al Comune di Roma di provvedere all’adozione del provvedimento conclusivo entro il termine di 60 (sessanta) giorni decorrenti dalla comunicazione o dalla notifica, se anteriore, della presente sentenza.
Il Tribunale nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.


Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione Seconda Bis -
accoglie
- il ricorso in epigrafe indicato e per l’effetto annulla il silenzio rifiuto e dichiara l’obbligo per l’Amministrazione di provvedere sull’istanza di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente in data 12/4/07 prot. n. QI/2007/24270;
- nomina sin d’ora come Commissario ad acta, il Responsabile dei servizi urbanistici della Regione Lazio, o un funzionario dal medesimo direttamente designato, con l’incarico di provvedere in via sostitutiva nei successivi sessanta giorni, qualora il Comune non provveda nel termine al medesimo assegnato;
- condanna il Comune di Roma al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente in € 500 oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.


Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 dicembre 2007.


Francesco Corsaro PRESIDENTE


Stefania Santoleri ESTENSORE


Depositata in Segreteria il 3 gennaio 2008.

venerdì 13 giugno 2008

D.M, 37/08: istallazione e sicurezza degli impianti all'interno degli edifici


Articolo 04/06/2008
Disciplina dell'attività di installazione e di sicurezza degli impianti all'interno di edifici L'introduzione del D.M. 37/2008 e i suoi risvolti applicativi
Il Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 è stato emanato al fine di riordinare tutte le disposizioni in tema di attività di installazione e di sicurezza degli impianti all’interno di edifici di diversa tipologia. Il riordino delle disposizioni vigenti in materia ha comportato l’abrogazione delle norme contenute:- nella Legge n. 46 del 5 marzo 1990 “Norme sulla sicurezza degli impianti” (ad eccezione degli articoli 8, 14, 16 sulle sanzioni applicabili);- nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 6 dicembre 1991 “Regolamento di attuazione della legge 46/1990 in materia di sicurezza degli impianti”;- nel Capo V parte II artt. dal 107 al 121 “Norme per la sicurezza degli impianti” del Testo Unico in materia edilizia di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001.Pertanto, a partire dal 27 marzo 2008 (data di entrata in vigore del Decreto Ministeriale n. 37/2008), tutta la materia dell’installazione e della sicurezza degli impianti è disciplinata dal citato decreto 37/2008, dagli articoli 8, 14 e 16 della legge n. 46/1990 e dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 392 del 18 aprile 1994 “Regolamento per la disciplina del procedimento di riconoscimento delle imprese ai fini dell’installazione, ampliamento e trasformazione degli impianti nel rispetto delle norme di sicurezza”. Per la manutenzione degli impianti di ascensori e montacarichi in servizio privato continuano, invece, ad applicarsi le disposizioni del Decreto del Presidente della Repubblica n. 162 del 30 aprile 1999 e le altre disposizioni specifiche in materia.L’innovazione introdotta dal Decreto Ministeriale 37/2008 consiste nella regolamentazione della garanzia del venditore in ordine alla conformità degli impianti alla vigente normativa in materia di sicurezza, ossia nell’obbligo di indicare negli atti di trasferimento di immobili se il venditore garantisce o meno la conformità degli impianti e se produce le relative dichiarazioni di conformità o di rispondenza (dichiarazione sostitutiva di quella di conformità che può essere rilasciata da un’impresa che verifichi le caratteristiche di conformità degli impianti). A riguardo, va precisato che un impianto si qualifica come non conforme, se per la sua installazione e funzionamento non sono osservate le vigenti norme in materia di installazione e sicurezza, a prescindere dalla loro funzionalità ed efficienza.Detto ciò, la garanzia di cui sopra può essere espressa sia in termini positivi che in termini negativi. Se gli impianti sono conformi, il venditore dichiarerà espressamente che garantisce la conformità degli stessi, mentre in caso contrario, il venditore non garantirà la conformità di alcunché, ma alienerà ugualmente l’immobile sempreché l’acquirente abbia accettato di acquistare il medesimo nell’effettivo stato in cui si trova. L’inserimento di una clausola espressa dal contenuto suddescritto comporta una chiara assunzione di responsabilità a carico del venditore o l’esclusione di tale responsabilità, spostando sull’acquirente l’onere di adeguamento degli impianti. Pertanto, l’alienazione di beni immobili dotati di impianti con caratteristiche difformi rispetto a quelle prescritte dalle norme vigenti o privi delle dichiarazioni di conformità è sempre possibile e la mancata previsione della garanzia non costituisce causa di nullità degli atti.Nel sistema previgente non si specificava nulla in merito allo status degli impianti; nel caso in cui il venditore di un alloggio con impianti idraulici, elettrici, ecc… con caratteristiche difformi da quelle prescritte dalle norme, occultava in mala fede o più semplicemente ometteva di comunicare tale difformità all’acquirente, trovavano applicazione gli artt. 1490 e 1497 Codice Civile, relativi alla garanzia per i vizi della cosa venduta e alle azioni esercitabili nei confronti del venditore che ha ceduto una cosa priva della dovuta qualità o inidonea all’uso previsto. È dunque, palese che, la garanzia del venditore operava senza che fosse esplicitato alcunchè all’interno di contratti preliminari di vendita e/o di atti di compravendita immobiliari.L’obbligo di riportare negli atti di trasferimento la garanzia del venditore in ordine alla conformità degli impianti alla vigente normativa in materia di sicurezza di cui all’articolo 13 del Decreto Ministeriale n. 37/2008, anticipa il momento in cui domandarsi se gli impianti sono conformi o meno e fa sì che il tema divenga oggetto di trattativa tra le parti.Un impianto non conforme costituisce un vizio rilevante per l’immobile compravenduto e merita la giusta attenzione. Così colui che desidera alienare un edificio o una porzione di esso con impianti non conformi dovrà informare l’acquirente, il quale sarà in condizione di decidere se optare ugualmente per l’acquisto o rinunciarvi; l’acquirente intenzionato ad acquistare l’immobile, potrà pretendere la messa a norma degli impianti a cura e spese del venditore, che nel contratto traslativo presterà la relativa garanzia di conformità, oppure potrà procedere all’acquisto trattando nuovamente il prezzo di vendita (la riduzione è giustificata dall’assunzione a proprio carico dell’onere dell’adeguamento) ed escludendo la garanzia del venditore. La cognizione dell’effettivo stato degli impianti permette alle parti di prevedere apposita clausola che confermi o escluda la garanzia del venditore. Se l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata contenente il trasferimento di immobile tace sulla questione troveranno comunque applicazione le regole generali dettate dal Codice Civile. L’alienante potrebbe, però non conoscere lo stato degli impianti, in tal caso l’acquirente ha diritto di chiederne la verifica; una volta accertatane la conformità, quest’ultimo può richiedere la dichiarazione di rispondenza e pretenderne l’allegazione all’atto di trasferimento dell’immobile, se ne viene accertata la difformità, l’acquirente addotta uno dei comportamenti già spiegati. Nell’ipotesi positiva va ulteriormente detto che le parti potrebbero convenire, a fronte della garanzia di conformità rilasciata dal venditore, di non allegare all’atto alcuna certificazione di conformità o rispondenza, bensì di prevedere semplicemente la consegna della documentazione al nuovo proprietario. Potrebbe ancora accadere che il venditore sia in possesso delle dichiarazioni di conformità e che rilasci l’apposita garanzia permettendo anche l’allegazione al contratto traslativo di tutta la documentazione consegnatagli dall’impresa che ha installato gli impianti.L’intento della normativa è lodevole, vuole evitare che le parti stipulino un atto di trasferimento di beni immobili avendo completamente trascurato la problematica della conformità o difformità degli impianti; le parti adeguatamente informate possono adottare le conseguenti decisioni in modo consapevole e responsabile, accordandosi in senso positivo o negativo sulla garanzia di conformità. Si sarebbe potuto fare di più, infatti trovare un accordo in merito pochi giorni prima della stipula dell’atto definitivo di trasferimento dell’immobile può creare tensioni tra le parti; la normativa avrebbe dovuto obbligare le parti alla previsione di un’apposita clausola già alla stipula del contratto preliminare, dato che è proprio questo il momento in cui si incontrano le volontà del venditore e dell’acquirente circa il prezzo e le altre condizioni contrattuali, condizioni che predeterminano il contenuto del futuro contratto di compravendita.Il Decreto Ministeriale n. 37/2008 vuole, inoltre, evitare l’instaurazione di lunghe e dispendiose controversie giudiziarie, con le quali il nuovo proprietario della cosa agisca nei confronti del venditore per vizi occulti o per mancanza di qualità essenziali del bene ceduto (articoli 1490-1497 Codice Civile). Si tratta di una forma di tutela preventiva utile a cautelare entrambe le parte contraenti: il venditore che non assume su di sé la responsabilità della conformità degli impianti non può essere citato in giudizio per la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, mentre l’acquirente informato dello status degli impianti è in grado di valutare più attentamente la convenienza dell’acquisto.In conclusione sono chiamati all’applicazione della normativa tutti gli operatori del settore immobiliare, con l’augurio che più nessuno voglia tacere sulla “questione impianti” e voglia garantire la pacifica e preventiva risoluzione di ogni condizione contrattuale.

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