lunedì 25 gennaio 2010

Danni cagionati da cani randagi: chi paga?????

Randagismo, Comune, responsabilità, sussistenza, precisazioni



Giudice di Pace Fasano, sentenza 07.01.2010 n° 2




Secondo quanto previsto dalla legge della Regione Puglia 3 aprile 1995, n. 12, in materia di prevenzione del randagismo, che ha attribuito all’Asl territorialmente competente ed ai suoi servizi veterinari la lotta al randagismo, deve ritenersi che obbligata a rispondere delle richieste di risarcimento dei danni alle persone che si assume aver subito da cani randagi, sia la sola stessa ASL,e non anche il comune nel cui territorio si è verificato l’evento dannoso. (1)





(1) Cfr., nello stesso senso, Cass. Civ., Sez. III, sentenza 7 dicembre 2005, n. 27001 e Cass. Civ., Sez. III, sentenza 3 aprile 2009, n. 8137.






(Fonte: Massimario.it - 3/2010. Si ringrazia Ottavio Carparelli)








Giudice di Pace di Fasano

Sentenza 7 gennaio 2010, n. 2

(G.P.: Dott. Avv. Giovanni Quaranta)



REPUBBLICA ITALIANA

In Nome del Popolo Italiano

Ufficio del Giudice di Pace di Fasano (BR)

*****

Il Giudice di Pace di Fasano, dott. Giovanni Quaranta,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa civile iscritta nel ruolo generale affari contenziosi sotto il numero d’ordine 1455 dell’anno 2007

TRA

- C. S., elettivamente domiciliata in Fasano alla via C. Alberto n. 6, c/o lo studio dell’avv. Oronzo DE LEONARDIS, che la rappresenta e difende;

PARTE ATTRICE

CONTRO

- A.S.L. BR – Azienda Sanitaria Locale di Brindisi, in persona del suo legale rappresentate p.t., elettivamente domiciliata in Bari alla via Piccinni n.33, c/o lo studio dell’avv. Luigi DI LEO, che la rappresenta e difende;

CONVENUTA

NONCHE’

- Comune di Fasano (Br), in persona del suo legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliato in Fasano, P.zza Ciaia, Palazzo Municipale; rappresentato e difeso dall’avv. Ottavio CARPARELLI, dirigente dell’Avvocatura Comunale;

TERZO CHIAMATO

OGGETTO: Risarcimento danni.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è fondata, e, pertanto, si deve accogliere.

Preliminarmente deve affermarsi la legittimazione passiva della convenuta: infatti, sebbene la fauna selvatica rientri nel patrimonio indisponibile dello Stato, la legge n. 157 del 1992 ha attribuito alle Regioni l’emanazione di norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica, obbligandole, quindi, ad adottare le misure idonee ad evitare che detta fauna arrechi danni a terzi, pena la responsabilità dell’ente regionale al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. (cfr. Cass. N. 8953/2008 e Cass. N. 8137/2009).

La Regione Puglia, in esecuzione di quanto previsto con la legge n. 281/1991 (“legge quadro in materia di animali da affezione e prevenzione del randagismo”), ha approvato la L.R. n. 12/1995 “Interventi per la tutela degli animali d’affezione e prevenzione del randagismo”, laddove con l’art. 6 si dispone che “Spetta ai Servizi veterinari delle USL il recupero dei cani randagi”, da ricoverarsi, una volta catturati, presso canili per i quali, l’art. 6 prevede che “I Comuni … provvedono al risanamento dei canili comunali esistenti e costruiscono rifugi per i cani …”.

Trattandosi, nella fattispecie, di lesioni provocate da un cane randagio, direttamente ricollegabili ad una condotta omissiva di chi era obbligato al recupero (cioè all’ASL succeduta alle USL ex d.lgs. n. 502/92) e dovendosi escludere, come si vedrà, una responsabilità del Comune, anche per omessa custodia di detto cane nell’esistente canile, ne consegue, come prima detto, la esclusiva legittimazione passiva della convenuta.

Quanto al merito:

Premesso che ex art. 2697 c.c. chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, e che ex art. 115 c.c. il giudice deve porre a fondamento della decisione la prove proposte dalle parti, parte attrice ha fornito valida prova sulla esclusiva responsabilità della convenuta.
E’ risultato certo che in data 25/06/2007 alle ore 15,00 circa l’attrice, mentre percorreva a bordo di un ciclomotore condotto da Sacco Lucio, la via Appia di Torre Canne, veniva morsa al piede sinistro da un cane randagio, che le provocava lesioni, per le quali ora chiede un risarcimento di € 1.018,00 oltre interessi e spese.

Tanto è risultato provato a mezzo del teste Sacco, il quale, ha confermato la dinamica del fatto, come dedotto in citazione, senza contraddizioni od incongruenze, in mancanza di prova contraria, aggiungendo di avere accompagnato l’attrice in Ospedale a mezzo di un veicolo di un suo conoscente.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta, il piede indicato come morso, nel Referto medico, è il sinistro e non il destro, per cui, alcuna contraddizione c’è con quanto riferito dall’attrice in sede di interrogatorio formale.

Inoltre, quest’ultima coerentemente afferma di aver visto il cane senza collare mentre transitava sul ciclomotore, prima di perdere i sensi, che detto cane rincorreva, essendo stata, quindi, in grado di scorgerlo chiaramente, come, del resto, risulta avere dichiarato il Sacco.

Le ferite al piede dell’attrice, rilevate al Pronto Soccorso, come da referto in atti, sono state rilevate, sia pure come esiti cicatriziali, dal C.T.U. dott. Giuseppe Maggi, il quale, le ha ritenute compatibili con l’evento traumatico da morso di cane.

Il cane risulta descritto dal teste come “di media altezza, pelo di media lunghezza, di colore bianco con macchie marroncine ed era privo di collare. Ricordo di non avere mai visto nessuno dar da mangiare al suddetto cane. Ricordo di avere visto detto cane sempre solo …”, e ciò in chiara corrispondenza con quanto dichiarato dall’attrice “Non sono in grado di dire di chi fosse il cane, ma ricordo di averli visto altre volte, … sempre solo e senza collare, non ho mai visto nessuno che gli desse da mangiare”.

Pertanto, mentre parte attrice, in ottemperanza al 1° comma dell’art. 2697 cod. civ., ha fornito la prova dei fatti costitutivi del proprio assunto, e cioè che il cane appariva randagio, senza collare e senza padrone, la convenuta, ai sensi del 2° comma, non ha provato la esistenza di fatti impeditivi, modificativi o estintivi che assume, e cioè, ad es. che detto cane un padrone lo avesse, o lo avesse avuto (in tali casi dovendone rispondere quest’ultimo ex art. 2052 cod. civ.), al contrario, è emersa la condotta omissiva dell’ASL, eziologicamente collegata all’evento dannoso de qua, consistente nel non aver provveduto autonomamente, come possibile nell’anno 2006 (cfr. deposizione Pinto), ad azioni concretamente finalizzate alla prevenzione del randagismo, e , quindi, alla cattura di quel cane, che pure da diversi giorni risultava aggirarsi nella zona di via Appia a Torre Canne.

Alla stregua di tali emergenze deve, quindi, affermarsi la responsabilità della convenuta ASL, dovendosi escludere la responsabilità della regione, stante l’emanazione della cit. L.R. n. 12/95.

Deve, tuttavia, dichiararsi la infondatezza della chiamata in causa, da parte della convenuta, del Comune di Fasano: infatti, in presenza della legge regionale anzidetta con la quale è stata affidata all’ASL territorialmente competente, in particolare ai suoi servizi veterinari, la lotta al randagismo, sarà la sola ASL stessa a dover rispondere delle richieste dei danni alle persone che si assume aver subito da cani randagi (cfr. in tal senso Cass. n. 27001/2005 e Cass. n. 8137/2009).

A maggior ragione, in considerazione del fatto che il Comune di Fasano ha predisposto e mantenuto funzionale il canile fin dal marzo 2001, come riferito dai testi Carrieri e Virgilio, così come previsto dal cit. art. 6 della legge regionale n. 12/95, adempiendo, in tal maniera, all’obbligo impostogli in materia, ed escludendo, così, una responsabilità solidale con l’ASL (cfr. Cass. n. 10638/2002).

Gli Ermellini hanno infatti disposto con la predetta sent. n. 8137/2009 in un caso analogo, che “la legittimazione passiva spetta alla locale azienda sanitaria, succeduta alla USL, e non al Comune, sul quale, perciò, non può ritenersi ricadente il giudizio di imputazione dei danni dipendenti dal suddetto evento”.

Non rileva a giustificare una responsabilità del Comune il richiamo all’art. 2 della L.R. n. 26/2006, in base al quale “Il Comune provvede a effettuare una polizza per eventuali danni”, stante l’evidente incongruenza e apoditticità della norma, in cui il riferimento agli eventuali danni non risulta provenire da una univoca fonte legislativa di responsabilità dei Comuni, in materia.

Ed inoltre, anche perché il periodo che contiene detto art. 2 fa riferimento soltanto ad attività demandate alle ASL, e poiché queste ultime risultano avere una configurazione giuridica autonoma, non essendo considerate più strutture operative dei Comuni, ma aziende dipendenti dalla regione, strumentali per la erogazione dei servizi sanitari di competenza regionale, risulta reciso il cordone ombelicale fra Comuni ed USL prima esistente, con la conseguente ultroneità dell’inciso normativo ora detto.

Quanto ai danni fisici, la consulenza tecnica d’ufficio richiesta al dr. Maggi ha chiarito a questo giudice l’esatta entità delle lesioni subite dalla ricorrente: l’Ausiliare, infatti, ritenendo compatibile con l’occorso sinistro la “FLC piede sinistro da morso di cane”, ha valutato il protrarsi della conseguente malattia per gg. 8 di invalidità totale, di gg. 24 di invalidità parziale al 50%.

Non essendoci motivi per disattendere tali conclusioni, il giudicante le fa proprie, così determinando il relativo danno risarcibile, comprensivo dell’aumento del 30% della invalidità temporanea, per danno morale, come più avanti si dirà:



- I.T.T. di gg. 8 x € 42,48 + 30% = € 442,00


- I.T.P. 50% di gg. 24 x € 21,24 + 30% = € 663,00


per un totale, quindi, di € 1.105,00 da contenersi entro il limite della domanda, pari ad € 1.018,00.



- Quanto al dedotto danno morale:



le Sezioni Unite della S.C. hanno ritenuto che nella ipotesi in cui il fatto illecito si configura anche solo astrattamente come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa, nella sua ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Quindi, superata la tradizionale figura del c.d. danno morale soggettivo come sofferenza meramente transitoria, deve farsi riferimento all’idea di un danno non patrimoniale onnicomprensivo, come affermato da ben 4 pronunce gemelle delle SS.UU. (26972–26973–26974-26975 dell’11/11/08 le quali si riportano espressamente alle precedenti n. 8827/2003– 8828/2003), che può essere riconosciuto dal Giudice soltanto sulla base di violazione dei diritti costituzionalmente qualificati.

In tale concetto di danno non patrimoniale vanno, quindi, ricompresi sia il danno biologico accertabile nella sua componente fisica che nella sua componente psichica, in quanto “Ove siano state dedotte siffatte conseguenze si rientra nel danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente” (26972/08)

Poiché la lesione è in re ipsa , ne discende che incombe al danneggiato, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di allegare circostanze concrete che ne consentano la prova, anche presuntiva, della sua esistenza.

In particolare le sentenze gemelle, pur avendo ritenuto che la categoria del danno morale non esiste più, tranne nel caso di reato e danno morale terminale, hanno rafforzato ed esteso la sua portata oltre che nel caso si configuri anche astrattamente un reato, anche in occasione di altri casi previsti, ovvero in caso di puro sentire il danno, così da garantire sempre e comunque l’integrale risarcimento del danno in ogni sua espressione, oggettiva e soggettiva.
D’altronde nel senso della reviviscenza della categoria del danno morale, sia pure nella sua anzidetta accezione, depone la sentenza successiva della S.C. n. 29191 del 12/12/2008, secondo cui: “nella valutazione del danno morale contestuale alla lesione del diritto alla salute, la valutazione di tale voce, …deve tener conto delle condizioni soggettive della persona umana e della gravità del fatto, senza che possa considerarsi il valore della integrità morale una quota minore del danno alla salute”.

La recente sentenza n. 479 del 13/01/2009 ha ribadito sostanzialmente tale assunto, affermando che il danno morale deve essere risarcito come danno non patrimoniale, secondo equità circostanziata in relazione alla gravità del danno cagionato.

Valorizzando, pertanto, anche la componente di sofferenza del pregiudizio biologico, è d’uopo maggiorare del 30% gli importi relativi a quest’ultimo danno temporaneo.

Inoltre, “Poiché il risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale costituisce un tipico debito di valore…sono dovuti interessi e rivalutazione…” (Cass. 5234/2006).

Le spese del giudizio seguono la soccombenza, come da dispositivo

P.Q.M.
Il Giudice di pace di Fasano, in persona del dr. Giovanni Quaranta, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da C. S. nei confronti della ASL BR Azienda Sanitaria Locale di Brindisi, così provvede:



DICHIARA il sinistro per cui è causa verificato per responsabilità e colpa ascrivibili esclusivamente alla ASL BR Azienda Sanitaria Locale di Brindisi, nel contempo dichiarando il difetto di legittimazione passiva del chiamato Comune di Fasano;


CONDANNA per l’effetto, l’ ASL BR Azienda Sanitaria Locale di Brindisi al pagamento in favore di C. S. della somma di €. 1.018,00, oltre interessi legali dalla domanda fino al soddisfo e rivalutazione monetaria;


CONDANNA, inoltre, l’ASL BR Azienda Sanitaria Locale di Brindisi, al rimborso delle spese di giudizio in favore di C. S., liquidate nella complessiva somma di €. 1.590,00 di cui €.600,00 per onorari, di €. 700,00 per diritti ed €. 290,00 per borsuali e c.t.u., oltre Iva, CAP e 12,50% L.P., come per legge.


CONDANNA, inoltre, ASL BR Azienda Sanitaria Locale di Brindisi, al rimborso delle spese di giudizio in favore del Comune di Fasano, liquidate nella complessiva somma di €. 1300,00 di cui €. 600,00 per onorari, di €. 700,00 per diritti, oltre Iva, CAP e 12,50% L.P., come per legge.


Così deciso in Fasano addì 31/12/2009



Il Giudice di Pace



(dr. Giovanni Quaranta)



Depositata in Cancelleria il 7 gennaio 2010.



Il Cancelliere B3



(Agnese D’Arienzo)

Risarcimento danno da illegittimo diniego di autotutela: nell'ambito tributario

21.01.10 - Cassazione Civile: risarcimento del danno patito per mancata autotutela della PA























Importante pronuncia della Cassazione su un caso di illegittima pretesa tributaria. In particolare, alla domanda "se, in linea di principio la PA possa essere tenuta responsabile ai sensi dell'articolo 2043 Codice Civile per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell'esercizio del potere di autotutela, ove tale comportamento abbia arrecato danno al privato, o se ciò costituisca violazione di principi fondamentali dell'ordinamento" la Cassazione ha risposto positivamente.













La Cassazione ha ricordato di avere in passato, in un caso analogo, "affermato che può essere riconosciuto il risarcimento del danno sopportato da un soggetto per ottenere l'annullamento di un provvedimento amministrativo in sede di autotutela (danno consistente nelle spese legali sostenute per proporre ricorso contro l'atto illegittimo), non essendo esclusa la qualificazione di tali spese come danno risarcibile, per il solo fatto che esse si riferiscono ad un procedimento amministrativo (Cass. civ. Sez. I, 23 luglio 2004 n. 13801)".













"Nel caso in esame l'ingiustizia del danno è messa in questione sotto un diverso profilo, cioè nel senso che si dovrebbe ritenere sottratto al giudice ordinario il potere di valutare tempi e modalità di esercizio del potere di autotutela. La soluzione, tuttavia, non può essere diversa, in quanto il danno di cui si chiede il risarcimento in realtà deriva dal compimento dell'atto illegittimo, essendo l'intervento in autotutela solo il mezzo che avrebbe potuto eliminarne tempestivamente gli effetti.













Ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d'altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile.













Non si tratta, quindi, dell'indebita interferenza della giurisdizione sulle modalità di esercizio del potere amministrativo, ma dell'accertamento che il danno conseguente all'atto illegittimo ha esplicato tutti i suoi effetti, per non essere la PA tempestivamente intervenuta ad evitarli, con i mezzi che la legge le attribuisce".













(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 19 gennaio 2010, n.2010: Risarcimento del danno - Omesso esercizio dell'autotutela da parte della PA - Ammissibilità).

Risarcimento danno da illegittimo diniego di autotutela: nell'ambito tributario

21.01.10 - Cassazione Civile: risarcimento del danno patito per mancata autotutela della PA











Importante pronuncia della Cassazione su un caso di illegittima pretesa tributaria. In particolare, alla domanda "se, in linea di principio la PA possa essere tenuta responsabile ai sensi dell'articolo 2043 Codice Civile per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell'esercizio del potere di autotutela, ove tale comportamento abbia arrecato danno al privato, o se ciò costituisca violazione di principi fondamentali dell'ordinamento" la Cassazione ha risposto positivamente.






La Cassazione ha ricordato di avere in passato, in un caso analogo, "affermato che può essere riconosciuto il risarcimento del danno sopportato da un soggetto per ottenere l'annullamento di un provvedimento amministrativo in sede di autotutela (danno consistente nelle spese legali sostenute per proporre ricorso contro l'atto illegittimo), non essendo esclusa la qualificazione di tali spese come danno risarcibile, per il solo fatto che esse si riferiscono ad un procedimento amministrativo (Cass. civ. Sez. I, 23 luglio 2004 n. 13801)".






"Nel caso in esame l'ingiustizia del danno è messa in questione sotto un diverso profilo, cioè nel senso che si dovrebbe ritenere sottratto al giudice ordinario il potere di valutare tempi e modalità di esercizio del potere di autotutela. La soluzione, tuttavia, non può essere diversa, in quanto il danno di cui si chiede il risarcimento in realtà deriva dal compimento dell'atto illegittimo, essendo l'intervento in autotutela solo il mezzo che avrebbe potuto eliminarne tempestivamente gli effetti.






Ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d'altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile.






Non si tratta, quindi, dell'indebita interferenza della giurisdizione sulle modalità di esercizio del potere amministrativo, ma dell'accertamento che il danno conseguente all'atto illegittimo ha esplicato tutti i suoi effetti, per non essere la PA tempestivamente intervenuta ad evitarli, con i mezzi che la legge le attribuisce".






(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 19 gennaio 2010, n.2010: Risarcimento del danno - Omesso esercizio dell'autotutela da parte della PA - Ammissibilità).

Il nuovo rito sommario 702 bis c.p.c.: le prime pronunce

Nuovo processo civile: sulla conversione dal rito sommario al rito ordinario



Tribunale Sant’Angelo dei Lombardi, ordinanza 02.11.2009 (Giuseppe Buffone)











Mentre alcuni Tribunali confezionano i primi provvedimenti interlocutori e decisivi, in punto di rito sommario di cognizione, alcuni giudici mettono mano alle prime pronunce di conversione, oggetto non bene identificato nella riforma del 18 giugno 2009 (legge n. 69): per tale motivo, l’ordinanza 2 novembre 2009 del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi è di particolare interesse per gli interpreti.

Come noto, l’art. 702-ter, comma III, c.p.c. prevede che: «se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria, il giudice, con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’articolo 183. In tal caso si applicano le disposizioni del libro II».



Nel caso oggetto dell’ordinanza in commento, il giudice conclude proprio per una diagnosi di istruzione “non sommaria” , alla luce delle difese svolte dalle parti, anche al verbale dell’udienza di prima comparizione.

Secondo il giudice “la pluralità e varietà dei mezzi istruttori richiesti (prove orali, consulenza tecnica, perizia fonica, acquisizione di documentazione bancaria e di scritture private), imponendo necessariamente il dipanarsi dell’istruzione per numerose udienze, rende in concreto non praticabile l’istruzione sommaria della causa, anche alla luce del disposto del quinto comma dell’art. 702-ter c.p.c., il quale correla la detta facoltà alla ragionevole previsione di un’istruttoria deformalizzata (che in questa sede non può formularsi, prefigurandosi invece un’istruttoria incompatibile con le esigenze di speditezza del rito sommario)”.



Quanto alla valutazione in ordine alla decidibilità nelle forme del sommario, la giurisprudenza aderisce[1], per la maggiore, all’orientamento prevalente in Dottrina secondo il quale il tribunale dovrebbe valutare:



a. l’oggetto “originario” del processo ed i fatti costitutivi della domanda (anche in relazione al valore della causa);









b. le eventuali domande riconvenzionali e quelle nei confronti di terzi e le difese svolte in sede di costituzione dal convenuto e dai terzi;









c. l’impostazione complessiva del sistema difensivo del convenuto (e dei terzi), da cui desumere le questioni, di fatto e di diritto, controverse tra le parti, tenendo anche conto di singole eccezioni di rito e di merito, nonché delle richieste istruttorie già formulate o comunque prospettate quale thema probandum.









Il parametro valutativo da assumere quale primario riferimento per il giudizio di “decidibilità” nelle forme del sommario è, dunque, l”oggetto” della causa ed il complesso articolato di difese ed eccezioni introitate nel giudizio, passando, anche, per le richieste istruttorie articolate dalle parti[2] e le eventuali istanze per la estensione del contraddittorio ad altri soggetti. Non è un caso che l’art. 702-ter, comma III, c.p.c. richiami espressamente “le difese svolte dalle parti”, ai fini della eventuale conversione[3].









All’esito delle valutazioni che precedono, il giudice, tenuto conto della complessità oggettiva e soggettiva della causa, deve prefigurarsi il percorso che, a suo giudizio, si prospetta per la decisione e, dunque, verificarne la sua compatibilità con le forme semplificate. La compatibilità va esclusa ove venga meno uno degli assi portanti del giudizio sommario e, cioè: I) celerità dei tempi e II) snellezza delle forme.





 












Il Rito Sommario[4]: prima Udienza e possibili sbocchi



 
Se il giudice reputa non decidibile la causa con il rito sommario, deve disporre la conversione del rito fissando l’udienza ex art. 183 c.p.c. In molti hanno ritenuto che, in tale ipotesi, dovrebbe essere garantito uno spazio temporale pari a quello che impone l’art. 163-bis c.p.c. A tale indicazione non sembra aderire il tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi che, infatti, dalla data del provvedimento (20.11.2009) alla prima comparizione (10.02.2010), lascia intercorrere un lasso temporale inferiore a novanta giorni.

Ed, invero, la norma ex art. 702-ter c.p.c. è silente sul punto ma, come noto, vi è un acceso dibattito al riguardo. L’ordine di servizio del Tribunale di Genova, ad esempio, del 30 settembre 2009, suggerisce, quale “interpretazione costituzionalmente orientata”, che nel disporsi “il passaggio dalla causa al rito ordinario sia rispettato l’art. 163-bis c.p.c. e l’art. 166 c.p.c.” con concessione al convenuto, quindi, della facoltà di presentare una nuova comparsa di costituzione e risposta.



Sulla stessa linea l’ordine di servizio del Tribunale di Bologna del 9 novembre 2009.



Non va sottaciuto come alcuni commentatori abbiano ritenuto tale situazione un po’ “meccanicistica e rigida”[5] ritenendo che sia preferibile distinguere “caso per caso”.



Ad ogni modo, l’ordinanza di conversione non è impugnabile.























(Altalex, 18 gennaio 2010. Nota di Giuseppe Buffone)





______________





[1] V. sul punto, Trib. Mondovì, or. 10.11.2009 in Guida al diritto, 2009, 50 e in http://www.ilcaso.it/.





[2] Elemento preso in considerazione dal giudice Levita nell’ordinanza in commento.





[3] Trib. Varese, ord. 18.11.2009 in Guida al diritto, 2009, 50 e in www.dirittoegiustizia.it.





[4] Tratto da: Buffone, La riforma del processo civile, Buffetti ed., 2009.





[5] Caponi, Consentito al giudice un solo tipo di passaggio dalla trattazione semplificata a quella ordinaria in Guida al diritto, 2009, 50, 52 e ss..



 






Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi





Ordinanza 2 novembre 2009





(giudice Levita)



 




Il giudice dott. Luigi Levita

letti gli atti e sciogliendo la riserva di cui al verbale che precede



OSSERVA



A seguito dell’introduzione nell’ordito processuale civile del rito sommario (ex l. n. 69/2009), questo giudice è chiamato ad effettuare una valutazione complessiva e di sintesi del materiale di causa, prefigurando il percorso che si rende necessario per la decisione e la sua compatibilità con le forme semplificate.



Orbene, nel caso in esame è agevole evidenziare che le difese delle parti, per come svolte nel corpo del verbale d’udienza, richiedano un’istruzione “non sommaria” ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c.



Ed infatti, la pluralità e varietà dei mezzi istruttori richiesti (prove orali, consulenza tecnica, perizia fonica, acquisizione di documentazione bancaria e di scritture private), imponendo necessariamente il dipanarsi dell’istruzione per numerose udienze, rende in concreto non praticabile l’istruzione sommaria della causa, anche alla luce del disposto del quinto comma dell’art. 702­-ter c.p.c., il quale correla la detta facoltà alla ragionevole previsione di un’istruttoria deformalizzata (che in questa sede non può formularsi, prefigurandosi invece un’istruttoria incompatibile con le esigenze di speditezza del rito sommario).



Pertanto, letto l’art. 702-ter comma 3 c.p.c., fissa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. per il 10 febbraio 2010.



Si comunichi.





 






Sant’Angelo dei Lombardi, 20 novembre 2009

Il giudice









dott. Luigi Levita.













Il nuovo rito sommario 702 bis c.p.c.: le prime pronunce

Nuovo processo civile: sulla conversione dal rito sommario al rito ordinario

Tribunale Sant’Angelo dei Lombardi, ordinanza 02.11.2009 (Giuseppe Buffone)





Mentre alcuni Tribunali confezionano i primi provvedimenti interlocutori e decisivi, in punto di rito sommario di cognizione, alcuni giudici mettono mano alle prime pronunce di conversione, oggetto non bene identificato nella riforma del 18 giugno 2009 (legge n. 69): per tale motivo, l’ordinanza 2 novembre 2009 del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi è di particolare interesse per gli interpreti.
Come noto, l’art. 702-ter, comma III, c.p.c. prevede che: «se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria, il giudice, con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’articolo 183. In tal caso si applicano le disposizioni del libro II».

Nel caso oggetto dell’ordinanza in commento, il giudice conclude proprio per una diagnosi di istruzione “non sommaria” , alla luce delle difese svolte dalle parti, anche al verbale dell’udienza di prima comparizione.
Secondo il giudice “la pluralità e varietà dei mezzi istruttori richiesti (prove orali, consulenza tecnica, perizia fonica, acquisizione di documentazione bancaria e di scritture private), imponendo necessariamente il dipanarsi dell’istruzione per numerose udienze, rende in concreto non praticabile l’istruzione sommaria della causa, anche alla luce del disposto del quinto comma dell’art. 702-ter c.p.c., il quale correla la detta facoltà alla ragionevole previsione di un’istruttoria deformalizzata (che in questa sede non può formularsi, prefigurandosi invece un’istruttoria incompatibile con le esigenze di speditezza del rito sommario)”.

Quanto alla valutazione in ordine alla decidibilità nelle forme del sommario, la giurisprudenza aderisce[1], per la maggiore, all’orientamento prevalente in Dottrina secondo il quale il tribunale dovrebbe valutare:

a. l’oggetto “originario” del processo ed i fatti costitutivi della domanda (anche in relazione al valore della causa);




b. le eventuali domande riconvenzionali e quelle nei confronti di terzi e le difese svolte in sede di costituzione dal convenuto e dai terzi;




c. l’impostazione complessiva del sistema difensivo del convenuto (e dei terzi), da cui desumere le questioni, di fatto e di diritto, controverse tra le parti, tenendo anche conto di singole eccezioni di rito e di merito, nonché delle richieste istruttorie già formulate o comunque prospettate quale thema probandum.




Il parametro valutativo da assumere quale primario riferimento per il giudizio di “decidibilità” nelle forme del sommario è, dunque, l”oggetto” della causa ed il complesso articolato di difese ed eccezioni introitate nel giudizio, passando, anche, per le richieste istruttorie articolate dalle parti[2] e le eventuali istanze per la estensione del contraddittorio ad altri soggetti. Non è un caso che l’art. 702-ter, comma III, c.p.c. richiami espressamente “le difese svolte dalle parti”, ai fini della eventuale conversione[3].




All’esito delle valutazioni che precedono, il giudice, tenuto conto della complessità oggettiva e soggettiva della causa, deve prefigurarsi il percorso che, a suo giudizio, si prospetta per la decisione e, dunque, verificarne la sua compatibilità con le forme semplificate. La compatibilità va esclusa ove venga meno uno degli assi portanti del giudizio sommario e, cioè: I) celerità dei tempi e II) snellezza delle forme.


 






Il Rito Sommario[4]: prima Udienza e possibili sbocchi

 
Se il giudice reputa non decidibile la causa con il rito sommario, deve disporre la conversione del rito fissando l’udienza ex art. 183 c.p.c. In molti hanno ritenuto che, in tale ipotesi, dovrebbe essere garantito uno spazio temporale pari a quello che impone l’art. 163-bis c.p.c. A tale indicazione non sembra aderire il tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi che, infatti, dalla data del provvedimento (20.11.2009) alla prima comparizione (10.02.2010), lascia intercorrere un lasso temporale inferiore a novanta giorni.
Ed, invero, la norma ex art. 702-ter c.p.c. è silente sul punto ma, come noto, vi è un acceso dibattito al riguardo. L’ordine di servizio del Tribunale di Genova, ad esempio, del 30 settembre 2009, suggerisce, quale “interpretazione costituzionalmente orientata”, che nel disporsi “il passaggio dalla causa al rito ordinario sia rispettato l’art. 163-bis c.p.c. e l’art. 166 c.p.c.” con concessione al convenuto, quindi, della facoltà di presentare una nuova comparsa di costituzione e risposta.

Sulla stessa linea l’ordine di servizio del Tribunale di Bologna del 9 novembre 2009.

Non va sottaciuto come alcuni commentatori abbiano ritenuto tale situazione un po’ “meccanicistica e rigida”[5] ritenendo che sia preferibile distinguere “caso per caso”.

Ad ogni modo, l’ordinanza di conversione non è impugnabile.











(Altalex, 18 gennaio 2010. Nota di Giuseppe Buffone)


______________


[1] V. sul punto, Trib. Mondovì, or. 10.11.2009 in Guida al diritto, 2009, 50 e in http://www.ilcaso.it/.


[2] Elemento preso in considerazione dal giudice Levita nell’ordinanza in commento.


[3] Trib. Varese, ord. 18.11.2009 in Guida al diritto, 2009, 50 e in www.dirittoegiustizia.it.


[4] Tratto da: Buffone, La riforma del processo civile, Buffetti ed., 2009.


[5] Caponi, Consentito al giudice un solo tipo di passaggio dalla trattazione semplificata a quella ordinaria in Guida al diritto, 2009, 50, 52 e ss..

 



Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi


Ordinanza 2 novembre 2009


(giudice Levita)

 


Il giudice dott. Luigi Levita
letti gli atti e sciogliendo la riserva di cui al verbale che precede

OSSERVA

A seguito dell’introduzione nell’ordito processuale civile del rito sommario (ex l. n. 69/2009), questo giudice è chiamato ad effettuare una valutazione complessiva e di sintesi del materiale di causa, prefigurando il percorso che si rende necessario per la decisione e la sua compatibilità con le forme semplificate.

Orbene, nel caso in esame è agevole evidenziare che le difese delle parti, per come svolte nel corpo del verbale d’udienza, richiedano un’istruzione “non sommaria” ai sensi dell’art. 702-ter c.p.c.

Ed infatti, la pluralità e varietà dei mezzi istruttori richiesti (prove orali, consulenza tecnica, perizia fonica, acquisizione di documentazione bancaria e di scritture private), imponendo necessariamente il dipanarsi dell’istruzione per numerose udienze, rende in concreto non praticabile l’istruzione sommaria della causa, anche alla luce del disposto del quinto comma dell’art. 702­-ter c.p.c., il quale correla la detta facoltà alla ragionevole previsione di un’istruttoria deformalizzata (che in questa sede non può formularsi, prefigurandosi invece un’istruttoria incompatibile con le esigenze di speditezza del rito sommario).

Pertanto, letto l’art. 702-ter comma 3 c.p.c., fissa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. per il 10 febbraio 2010.

Si comunichi.


 



Sant’Angelo dei Lombardi, 20 novembre 2009
Il giudice




dott. Luigi Levita.






Somministrazione di cibi e bevande

Somministrazione di cibi e bevande: il TAR Torino impone la liberalizzazione







TAR Piemonte-Torino, sez. II, ordinanza 05.09.2009 n° 696 (Paolo Fortina)









Il c.d. decreto Bersani (D.L. 4 luglio 2006, n. 223 convertito con modifiche dalla legge 4 agosto 2006, n. 248) è un provvedimento che ha stabilito un semplice e chiaro principio di derivazione comunitaria e di ispirazione liberista: i Comuni non possono più contingentare le licenze inerenti le attività economiche di distribuzione commerciale, ivi comprese la somministrazione di cibi e bevande.













Ispirazione di tale normativa è, da un lato, la stessa Costituzione Italiana (in particolare gli articoli 41 e 117) e dall’altra il Trattato istitutivo della Comunità europea (in particolare gli articoli 43, 49, 81, 82 e 86). Ed in effetti destava non poco stupore il fatto che un Comune potesse decidere che in una determinata zona potessero esistere solamente, per esempio, due ristoranti e un bar: da un lato, infatti, non si capisce quale potrebbe essere la capacità di analisi economica di una pubblica amministrazione in merito ai cangianti fabbisogni (anche frivoli) della popolazione, ma dall’altro è indubbio che l’esistenza di un numero limitato di licenze per un dato territorio non ha fatto che rinsaldare rendite di posizione godute da chi le licenze già le possedeva, affatto preoccupato di offrire il miglior servizio possibile a fronte della certezza di poter godere dello sbarramento all’ingresso di potenziali concorrenti.













Con il decreto Bersani, dunque, lo sbarramento viene spazzato via. La norma è chiarissima (art. 3, commi 3 e 4, D.L. 223/2006): “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari statali di disciplina del settore della distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni di cui al comma 1.













Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al comma 1 entro il 1° gennaio 2007.”













La chiarezza delle norma farebbe pensare ad una sua semplice ed immediata applicazione.













Così non è stato. Evidentemente la lobby dei commercianti ha avuto il suo peso nel permettere, nella sostanza, una chiara disapplicazione della normativa.













L’escamotage architettato è stato relativamente semplice quanto efficace: poiché la Bersani stabilisce che comunque la normativa regionale (e a cascata, dunque, quella provinciale e comunale) si dovevano adeguare… l’idea è stata quella di rimandare sine die detto l’adeguamento, continuando, nel frattempo, ad applicare il contingentamento: senza un nuovo regolamento, veniva risposto al cittadino che voleva aprire un’attività in una zona (ancora) contingentata, non è possibile rilasciare alcuna nuova autorizzazione.













E l’escamotage ha funzionato, per tutto il Piemonte, per almeno due anni.













Fino a quando un cittadino di Borgo San Dalmazzo in provincia di Cuneo, esasperato dall’ennesimo diniego del suo Comune a concedergli l’autorizzazione ad aprire un ristorante, ha voluto fare un passo in più, incaricando il proprio legale del compito di rappresentare al Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte l’anomalia della liberalizzazione… ingessata.













Presentato il ricorso, narrati i fatti, il TAR si è pronunciato in modo lapidario: «l’impugnato diniego di autorizzazione si fonda sulle disposizioni del regolamento comunale la cui efficacia, almeno per quanto concerne le limitazioni numeriche all’insediamento di nuove attività, è venuta meno alla data di entrata in vigore del d.l. n. 223/2006». Dunque il provvedimento di diniego alla somministrazione di cibi e bevande opposto dal Comune di Borgo San Dalmazzo è illegittimo e va annullato.













Infatti, prosegue la Corte, «l’esigenza di approntare nuovi criteri per l’insediamento delle attività, derivante dalle previsioni della l.r. Piemonte n. 38/2006, parimenti richiamata dal provvedimento impugnato, non può frapporsi sine die alla realizzazione delle finalità di liberalizzazione della concorrenza nel settore che, in coerenza con i principi dell’ordinamento comunitario, sono state espressamente sancite dal menzionato d.l. 223».













La pronuncia è innovativa per il Piemonte (si consideri che ogni Regione ha la sua disciplina peculiare in materia) ma non è la prima in tal senso sul panorama nazionale.













Ad esempio si contano sentenze analoghe in Lombardia (Ordinanza TAR Lombardia, Sez. IV, 12 novembre 2007, n. 6259 e Ordinanza TAR Lombardia, Sez. VI, del 26 marzo 2008, n. 475) di cui quest'ultima già confermata dal Consiglio di Stato, con la nota sentenza del 10 febbraio 2009, n. 2808.













(Altalex, 19 gennaio 2010. Nota di Paolo Fortina)

































somministrazione

cibi

bevande

liberalizzazione

Paolo Fortina

























T.A.R.













Piemonte - Torino













Sezione II













Ordinanza 5 settembre 2009, n. 696













REPUBBLICA ITALIANA





















Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte





















(Sezione Seconda)













ha pronunciato la presente





















ORDINANZA













Sul ricorso numero di registro generale 885 del 2009, proposto da:













P. C., rappresentato e difeso dall' avv. P. Fortina;













contro













Comune di Borgo San Dalmazzo;













Regione Piemonte;













per l'annullamento,













previa sospensione dell'efficacia,













- della nota prot. n. 07276 dell'8 maggio 2009, consegnata a mani del signor C. in data 11 maggio 2009, con la quale il Responsabile dell'ufficio commercio del Comune di Borgo San Dalmazzo, con riferimento alla domanda di autorizzazione per somministrazione di alimenti e bevande, presentata in data 9 aprile 2009 ha comunicato che: "la stessa non può essere accolta in quanto ai sensi dell'art. 5 del regolamento comunale, l'apertura di nuovi esercizi è ammessa soltanto se nella zona interessata esiste una disponibilità numerica utile per attivare l'iniziativa. [...] fino all'adozione degli atti normativi di cui al citato articolo 8, rimangono in vigore le disposizioni dell'art. 2 Legge 25/96 relative alla fissazione da parte dei comuni del parametro numerico .....";













- del regolamento del Comune di Borgo San Dalmazzo rubricato "disciplina in materia di autorizzazioni alla somministrazione al pubblico di alimenti e bevande" approvato il 30 settembre 2004, con il verbale di delibera del Consiglio comunale n. 52/2004;













- delle norme di cui alla legge regionale n. 38 del 29 dicembre 2006 rubricata "Disciplina dell'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande" con particolare riferimento all'art. 27 comma 6 della medesima legge;













- nonchè di ogni altro atto presupposto, consequenziale e comunque connesso ai provvedimenti suddetti, e per il risarcimento del danno ingiusto.













Visto il ricorso con i relativi allegati;













Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;













Visti gli atti tutti della causa;













Visti gli artt. 19 e 21, u.c., della legge 6 dicembre 1971, n. 1034;













Relatore nella camera di consiglio del giorno 04/09/2009 il dott. Richard Goso e udito il difensore del ricorrente, come specificato nel verbale;













Considerato che il ricorso, ad un primo esame, appare assistito da apprezzabili elementi di fumus in quanto:













- l’impugnato diniego di autorizzazione si fonda sulle disposizioni del regolamento comunale la cui efficacia, almeno per quanto concerne le limitazioni numeriche all’insediamento di nuove attività, è venuta meno alla data di entrata in vigore del d.l. n. 223/2006;













- l’esigenza di approntare nuovi criteri per l’insediamento delle attività, derivante dalle previsioni della l.r. Piemonte n. 38/2006, parimenti richiamata dal provvedimento impugnato, non può frapporsi sine die alla realizzazione delle finalità di liberalizzazione della concorrenza nel settore che, in coerenza con i principi dell’ordinamento comunitario, sono state espressamente sancite dal menzionato d.l. 223.













Ritenuto che l’esecuzione del provvedimento impugnato, mediante il quale viene precluso l’esercizio dell’attività imprenditoriale del ricorrente, cagioni allo stesso pregiudizi gravi e irreparabili.













P.Q.M.













Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, sez. II, accoglie l’istanza cautelare in epigrafe e, per l’effetto, sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato in principalità.













La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.













Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 04/09/2009 con l'intervento dei magistrati:













Franco Bianchi, Presidente Richard Goso, Primo Referendario, Estensore Ofelia Fratamico, Referendario













DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 05/09/2009.







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