venerdì 2 gennaio 2009

Corte Costituzionale
Sentenza 10.10.08, n.335
Corte Costituzionale: se non c'è depurazione non si può chiedere il canone per il servizio

Presidente Giovanni Maria FLICK
Redattore Franco GALLO
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), sia nel testo originario che in quello modificato dall’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in materia ambientale), promossi con ordinanze del 3 e 31 maggio e del 18 settembre 2007 dal Giudice di pace di Gragnano, rispettivamente iscritte al n. 830 del registro ordinanze 2007 e ai nn. 38 e 184 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 3, 10 e 26, prima serie speciale, dell’anno 2008.Visti gli atti di costituzione della s.p.a. G.O.R.I., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza pubblica del 23 settembre 2008 e nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;uditi gli avvocati Vincenzo Cocozza e Ferdinando Pinto per la s.p.a. G.O.R.I. e l’avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto1. – Nel corso di un giudizio civile, il Giudice di pace di Gragnano – con ordinanza del 3 maggio 2007 (r.o. n. 830 del 2007) – ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 32, 41 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), nel testo modificato dall’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in materia ambientale) [in vigore dal 28 agosto 2002 al 28 aprile 2006], nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi.
Il rimettente riferisce che: a) l’oggetto del giudizio principale è la domanda proposta da Savino Cesarano nei confronti della s.p.a. G.O.R.I., società di gestione del servizio idrico integrato nel Comune di Gragnano, affinché sia accertata e dichiarata non dovuta la quota di tariffa riferita alla depurazione di acque reflue da lui pagata per l’anno 2003, con conseguente restituzione della stessa; b) l’attore afferma che la società convenuta aveva richiesto il pagamento del canone di depurazione «pur non avendo effettuato né potendo effettuare il servizio di depurazione delle acque reflue, per essere notoriamente carente degli appositi impianti»; c) la convenuta chiede il rigetto della domanda, in quanto infondata, perché, in base all’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, pur essendosi verificata «la trasformazione della natura del canone di depurazione da tributaria in tariffaria», l’obbligazione di corrispondere il canone è comunque «inderogabile per espressa previsione di legge, e ciò indipendentemente dalla sussistenza o meno di un servizio corrispettivo».Il rimettente osserva che l’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994 – il quale prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione sia dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi e che «i relativi proventi, determinati ai sensi dell’articolo 3, commi da 42 a 47, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, aumentati della percentuale di cui al punto 2.3 della delibera CIPE 4 aprile 2001, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 165 del 18 luglio 2001, affluiscono a un fondo vincolato a disposizione dei soggetti gestori del Servizio idrico integrato la cui utilizzazione è vincolata alla attuazione del piano d’ambito» – víola: a) l’art. 2 della Costituzione, perché «importa l’aggressione del diritto inviolabile alla qualificazione dell’individuo come soggetto di diritto», per il quale è esclusa «ogni forma di potere arbitrario e persecutorio, compreso quello che impone una prestazione patrimoniale in assenza della relativa controprestazione», e perché, «non prevedendo […] un limite temporale oltre il quale non sia possibile procedere alla riscossione del canone di depurazione in assenza del servizio, rimette al mero arbitrio degli amministratori locali, deputati all’applicazione della norma, la cessazione del pagamento del canone in assenza del depuratore» e differisce, cosí, «sine die la realizzazione della qualità di soggetto di diritto»; b) l’art. 3 della Costituzione, perché, imponendo irragionevolmente agli utenti di versare la quota di tariffa del servizio di fognatura e depurazione anche in mancanza del servizio stesso, determina una discriminazione dei cittadini che versano la tariffa senza usufruire del servizio di depurazione, rispetto a coloro che versano la tariffa e si giovano, invece, del servizio; c) l’art. 32 Cost., perché incoraggia «il lassismo degli enti locali a spese della salute dei cittadini e delle future generazioni danneggiate dall’inquinamento che ne scaturisce»; d) l’art. 41 Cost., perché il privato cui è affidata la «gestione delle risorse idriche», «imponendo il pagamento di una tariffa pur in assenza del servizio di depurazione, espleta una attività economica in contrasto con la dignità umana e l’utilità sociale» e perché «i valori intangibili della dignità umana e dell’utilità sociale […] risultano ancor di piú compromessi dalla mancata previsione normativa di un limite temporale alla cessazione del pagamento della tariffa senza il corrispondente servizio, oltre che dalla rimessione del predetto limite temporale esclusivamente alla mera discrezionalità degli amministratori locali deputati all’applicazione della norma»; e) l’art. 97 Cost., perché consente alla pubblica amministrazione «d’imporre ai cittadini una sorta di “tassa sine titulo” la cui finalizzazione ad una futura esecuzione degli impianti appare generica ed astratta».In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo premette di essere giurisdizionalmente competente, rilevando che la causa di fronte a lui instaurata «ha ad oggetto la non debenza e la conseguente restituzione del canone di depurazione pagato per l’anno 2003» e che, «per giurisprudenza costante, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario e non piú quella delle commissioni tributarie […], ogni qualvolta la lite giudiziaria sia relativa alla non debenza o alla restituzione del canone di depurazione per un periodo successivo al 3 ottobre 2000».Osserva il rimettente che «la definizione del giudizio di costituzionalità dell’art. 14, legge n. 36/1994, come modificato dall’art. 28, [della legge] 31 luglio 2002, n. 179, è assolutamente rilevante per la risoluzione della controversia, in quanto la predetta norma rappresenta sia la disposizione che dovrà essere applicata in giudizio, sia il riferimento normativo indispensabile per il merito della controversia», perché «dal 28 agosto 2002 fino al 28 aprile 2006, il canone di depurazione è stato […] regolamentato dall’art. 14, comma 1, legge n. 36/1994, come modificato dall’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179».2. – Si è costituita la s.p.a. G.O.R.I., eccependo preliminarmente la manifesta inammissibilità delle proposte questioni, perché: a) «è assolutamente generica la valutazione effettuata dal Giudice sulla rilevanza della questione», in quanto egli «si limita […] all’affermazione, tautologica, secondo cui la norma oggetto di sindacato è quella che “dovrà essere applicata in giudizio”»; b) «l’ordinanza è […] contraddittoria e omissiva nella ricostruzione della fattispecie normativa, in riferimento alla situazione concreta», in quanto non tiene conto del fatto che, in caso di mancanza di impianti di depurazione, i canoni vengono utilizzati per l’attuazione del piano d’àmbito; c) è «contraddittoria l’impostazione adottata laddove, da una parte, il Giudice ricostruisce la tariffa in termini di corrispettivo di una prestazione e, dall’altra, ricostruisce i vizi in termini di illegittimo esercizio del potere autoritativo».Nel merito, la s.p.a. G.O.R.I. chiede che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.In riferimento all’evocato art. 2 Cost., rileva la genericità dei rilievi svolti dal rimettente e osserva che l’obbligo del pagamento del canone di depurazione delle acque reflue si inquadra tra i doveri del cittadino verso la comunità, fissati dallo stesso art. 2 Cost., senza che in contrario rilevi la circostanza che il Comune non abbia preventivamente fissato un termine per lo svolgimento dei lavori di realizzazione dell’impianto di depurazione. Infatti – sempre ad avviso della s.p.a. G.O.R.I. – tale ultima circostanza non attiene alla «legittimità di una previsione legislativa astratta e generale», ma alla «efficacia amministrativa di un ente locale cui, al piú, può contestarsi proprio la mancata attuazione del disposto legislativo». Il termine entro il quale «debbano essere utilizzate le somme accantonate non rileva ai fini della imposizione e della conseguente valutazione circa la sua legittimità», perché «non può […] che essere rimesso, in concreto, all’attività amministrativa in funzione del suo svolgersi, condizionato, come è, da elementi che, in quanto tali, non possono valutarsi in astratto e che si differenziano in relazione alle singole realtà fattuali, su cui finiscono per incidere». L’agire amministrativo – sostiene la s.p.a. G.O.R.I. – «non può essere condizionato da tempistiche aprioristicamente ed astrattamente definite», ferma restando, comunque, «la possibilità, per i cittadini anche attraverso le forme associative in cui spesso gli interessi diffusi si organizzano, di sollecitare gli interventi». Tale sollecitazione potrebbe «avvenire anche attraverso strumenti formali, con la fissazione di termini normativamente previsti, quali quelli contenuti nella legge n. 241/90 sull’agire amministrativo». In ogni caso, la controprestazione sarebbe legittimamente strutturata dal legislatore in maniera complessa quale attuazione del piano d’àmbito, «fase prodromica al completamento del servizio relativo al ciclo integrato delle acque».In riferimento all’evocato art. 3 Cost., la s.p.a. G.O.R.I. rileva preliminarmente la genericità della censura per la mancanza di un tertium comparationis e di una «adeguata descrizione della fattispecie concreta da cui emerga una ontologica differenza della ipotesi che giustifichi, ai fini del giudizio di “ragionevolezza”, una differente disciplina». Osserva, inoltre, che – contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente – la norma censurata, essendo diretta a rendere concreto, attraverso la raccolta dei fondi con vincolo di destinazione, il diritto dei cittadini a godere di un servizio di depurazione delle acque reflue, realizza effettive condizioni di parità ed uguaglianza dei cittadini, perché elimina la discriminazione che si verifica per la mancanza degli impianti in parte del territorio.In riferimento all’art. 32 Cost., la s.p.a. G.O.R.I. sostiene che la censura è generica, in quanto non è chiaro quale sia il collegamento tra l’affermazione del giudice a quo per cui la disposizione censurata «incoraggia il lassismo degli Enti Locali a spese della salute dei cittadini e delle future generazioni danneggiate dall’inquinamento che ne scaturisce» e il diritto alla salute. La disposizione in questione, anzi, «è diretta attuazione delle norme costituzionali, in quanto costituisce strumento giuridico necessario a realizzare una situazione ambientale piú idonea a garantire il diritto alla salute dei residenti di un determinato territorio».In riferimento all’art. 41 Cost., la s.p.a. G.O.R.I. richiama le considerazione già svolte in relazione agli altri parametri evocati, osservando che «il giudice a quo, lungi dal proporre ulteriori eccezioni di legittimità costituzionale, ripropone le medesime argomentazioni già affrontate in precedenza».In riferimento, infine, al parametro dell’art. 97 Cost., la medesima società per azioni rileva che esso attiene all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione e, pertanto, non ha alcun nesso con «la scelta legislativa di destinare fondi alla realizzazione del Piano d’Ambito, finanziando gli stessi con un parziale contributo dei cittadini». In ogni caso, «proprio lo strumento del vincolo posto ai proventi per la realizzazione dell’impianto, e, dunque, la illegittimità di ogni eventuale differente utilizzazione, dimostra la coerenza della previsione con i generali principi di buon andamento».3. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o comunque per l’infondatezza delle questioni.L’Avvocatura generale sostiene, in particolare che: a) «la carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale impedisce di comprendere quale sia l’inadempienza accertata ai danni della società GORI s.p.a. gestore del servizio idrico integrato per giustificare l’eventuale ripetizione delle somme corrisposte a titolo di canone di depurazione»; b) il canone di depurazione delle acque reflue ha natura di prestazione patrimoniale imposta; c) non sussiste la violazione dell’art. 2 Cost. lamentata dal rimettente, in quanto «la norma in questione lungi dal mortificare la persona umana come soggetto di diritti, viceversa ne esalta la soggettività giuridica favorendo la prestazione di un servizio pubblico irrinunciabile, quale è la depurazione delle acque reflue»; d) «l’eventuale inerzia nella realizzazione dell’impianto di depurazione da parte degli enti pubblici competenti costituisce una circostanza di mero fatto che non può determinare l’incostituzionalità della norma, ma può eventualmente rilevare nel senso dell’attribuzione della relativa responsabilità agli enti medesimi con le normali conseguenze di legge»; e) «il tributo di cui si controverte presenta […] elementi di forte analogia con la tassa per lo smaltimento dei rifiuti, il cui versamento è dovuto anche laddove l’impianto di smaltimento non sia stato ancora realizzato ed i rifiuti vengano in ipotesi trasportati in impianti situati fuori regione; f) non sussiste la violazione dell’art. 3 Cost., perché l’eventuale disparità di trattamento fra chi usufruisce e chi non usufruisce del servizio di depurazione non discende dalla norma, ma, al piú, dalle modalità della sua applicazione; g) non sussiste la violazione dell’art. 32 Cost., in quanto il prelievo censurato è destinato a finanziare opere ed impianti di depurazione e ha la funzione di supplire ad eventuali carenze di fondi dei Comuni; h) non sussiste la violazione dell’art. 41 Cost., con riferimento all’asserita violazione della dignità umana, perché «la norma è preordinata proprio a garantire la copertura finanziaria per lo svolgimento di un’attività di utilità sociale quale la depurazione delle acque reflue»; i) non sussiste la violazione dell’art. 97 Cost., in quanto la norma realizza l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, «mediante la predisposizione di una copertura finanziaria per l’erogazione di un servizio pubblico irrinunciabile».4. – Con successiva memoria depositata in prossimità dell’udienza, la s.p.a. G.O.R.I. ha sostanzialmente ribadito, nel merito, quanto già sostenuto nell’atto di costituzione, eccependo la manifesta inammissibilità delle sollevate questioni, sui rilievi che: a) le questioni sono premature, essendo la loro rilevanza «solo futura ed ipotetica ed anzi neanche prevista, giacché […] il giudice rimettente non era ancora nelle condizioni di prospettare alcun esito del giudizio, essendo assenti valutazioni essenziali ai fini della controversia come introdotta dal ricorrente»; b) «assolutamente vago è il riferimento a formule stereotipate per sostenere la violazione dell’art. 2 della Costituzione e della “dignità di soggetto di diritto”»; c) è incoerente la scelta di denunciare, in riferimento al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., una norma che, attraverso il vincolo di destinazione delle somme derivanti dalla riscossione della quota di tariffa riferita alla depurazione all’attuazione del piano d’àmbito, è diretta ad eliminare la disuguaglianza fra chi beneficia della depurazione e chi no; d) è incoerente la censura relativa alla violazione dell’art. 32 Cost., perché basata sulla considerazione non giuridica che la formulazione della norma impugnata «incoraggia il lassismo degli Enti locali a spese della salute dei cittadini e delle future generazioni danneggiate dall’inquinamento che ne scaturisce»; e) i riferimenti del rimettente ai parametri degli artt. 41 e 97 Cost. sono indeterminati e contraddittori.La s.p.a. G.O.R.I. afferma, inoltre, che le sollevate questioni non sono fondate e sostiene, in particolare, in relazione all’evocato art. 2 Cost., che: a) «la circostanza che una delle prestazioni sia differita nel tempo, in considerazione della complessità dell’intervento non solo tecnico, ma anche organizzativo e gestionale, non ne muta la natura corrispettiva, che è garantita dalla circostanza che tutte le somme sino ad ora riscosse sono e saranno vincolate alla specifica finalità individuata dalla legge»; b) la norma censurata risponde a finalità solidaristiche, prevedendo, nell’interesse della collettività degli utenti, il pagamento della quota di tariffa anche da parte di chi non usufruisca del servizio di depurazione.5. – Nel corso di un diverso giudizio civile, il Giudice di pace di Gragnano – con ordinanza del 31 maggio 2007 (r.o. n. 38 del 2008) – ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 97 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, nel testo originario [in vigore dal 3 ottobre 2000 al 27 agosto 2002], nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione sia dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi.Il rimettente riferisce che: a) l’oggetto del giudizio principale è la domanda proposta da Vincenzo Sabbatino nei confronti del Comune di Gragnano, affinché sia accertata e dichiarata non dovuta la quota di tariffa riferita alla depurazione di acque reflue da lui pagata per l’anno 2001, con conseguente restituzione della stessa; b) secondo l’attore, il Comune convenuto gli aveva richiesto il pagamento del canone di depurazione pur non avendo assicurato agli utenti la fruizione del servizio di depurazione delle acque reflue, per mancanza degli appositi impianti; c) sempre secondo l’attore, «in assenza di tale fruizione, nella chiara configurazione sia di un inadempimento contrattuale che dei presupposti per la risoluzione per inadempimento limitatamente a singole coppie di prestazioni, il somministrato aveva diritto alla restituzione della somma pagata al convenuto per il servizio di depurazione»; d) il convenuto solleva, in via preliminare, eccezione di difetto di legittimazione passiva, asserendo che «i suoi compiti erano limitati solo alla riscossione del canone in questione per conto della Regione Campania, alla quale venivano versati i corrispettivi incassati» e, nel merito, chiede il rigetto della domanda attorea, in quanto infondata, perché, in base all’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, il canone di depurazione è, comunque, dovuto anche in mancanza dei relativi impianti.Il rimettente osserva che l’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, prevedendo che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione sia dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi e che «i relativi proventi affluiscono in un fondo vincolato e sono destinati esclusivamente alla realizzazione e alla gestione delle opere e degli impianti centralizzati di depurazione», víola: a) l’art. 2 Cost., perché «importa l’aggressione del diritto inviolabile alla qualificazione dell’individuo come soggetto di diritto», per il quale è esclusa «ogni forma di potere arbitrario e persecutorio, compreso quello che impone una prestazione patrimoniale in assenza della relativa controprestazione», e perché, «non prevedendo […] un limite temporale oltre il quale non sia possibile procedere alla riscossione del canone di depurazione in assenza del servizio, rimette al mero arbitrio degli amministratori locali, deputati all’applicazione della norma, la cessazione del pagamento del canone in assenza del depuratore» e differisce, cosí, «sine die la realizzazione della qualità di soggetto di diritto»; b) l’art. 3 Cost., perché determina una discriminazione dei cittadini che versano il tributo senza usufruire del servizio di depurazione, rispetto a coloro che versano la tariffa e si giovano invece del servizio; c) l’art. 32 Cost., perché incoraggia «il lassismo degli enti locali a spese della salute dei cittadini e delle future generazioni danneggiate dall’inquinamento che ne scaturisce»; d) l’art. 97 Cost., perché consente alla pubblica amministrazione «d’imporre ai cittadini una sorta di “tassa sine titulo” la cui finalizzazione ad una futura esecuzione degli impianti appare generica ed astratta».In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo premette di essere giurisdizionalmente competente, rilevando che la causa di fronte a lui proposta ha ad oggetto la non debenza e la conseguente restituzione del canone di depurazione pagato per l’anno 2001, periodo in relazione al quale la Corte di cassazione ha affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario e non piú quella delle commissioni tributarie. Premette, altresí, che sussiste la legittimazione passiva del Comune convenuto, «visto che esso all’epoca dei fatti di causa (anno 2001) era il diretto gestore del servizio idrico integrato» ed «ha proceduto alla riscossione del canone di depurazione dall’attore mediante emissione della fattura di pagamento, proprio in qualità di titolare della pretesa creditoria».Osserva il rimettente che «la definizione del giudizio di costituzionalità dell’art. 14, legge n. 36/1994, come modificato dall’art. 28, [della legge] 31 luglio 2002, n. 179, è assolutamente rilevante per la risoluzione della controversia, in quanto la predetta norma rappresenta sia la disposizione che dovrà essere applicata in giudizio, sia il riferimento normativo indispensabile per il merito della controversia», perché dal «3 ottobre del 2000 sino al 27 agosto del 2002, la disciplina del canone di depurazione è stata regolamentata dall’art. 14, comma 1, legge n. 36/1994, nella sua formulazione originaria ».6. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte nel giudizio r.o. n. 830 del 2007 e concludendo per l’inammissibilità o comunque per l’infondatezza delle questioni.7. – I giudizi, la cui trattazione era inizialmente fissata per l’udienza del 6 maggio e la camera di consiglio del 7 maggio 2008, sono stati trattati all’udienza del 23 settembre e alla camera di consiglio del 24 settembre 2008.8. – Nel corso di un altro giudizio civile, il Giudice di pace di Gragnano – con ordinanza del 18 settembre 2007 (r.o. n. 184 del 2008) – ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 32, 41 e 97 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, nel testo modificato dall’art. 28 della legge n. 179 del 2002 [in vigore dal 28 agosto 2002 al 28 aprile 2006], nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi.Il rimettente riferisce che: a) l’oggetto del giudizio principale è la domanda proposta da Carmela Alfano nei confronti della s.p.a. G.O.R.I., società di gestione del servizio idrico integrato nel Comune di Gragnano, affinché sia accertata e dichiarata non dovuta la quota di tariffa riferita alla depurazione di acque reflue da lei pagata per l’anno 2003, con conseguente restituzione della stessa; b) l’attrice afferma che la società convenuta le aveva richiesto il pagamento del canone di depurazione «pur non avendo effettuato né potendo effettuare il servizio di depurazione delle acque reflue, per essere notoriamente carente degli appositi impianti»; c) la convenuta chiede il rigetto della domanda attorea, in quanto infondata, perché, in base all’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, pur essendosi verificata «la trasformazione della natura del canone di depurazione da tributaria in tariffaria», l’obbligazione di corrispondere il canone è comunque «inderogabile per espressa previsione di legge, e ciò indipendentemente dalla sussistenza o meno di un servizio corrispettivo».Quanto alle questioni di legittimità costituzionale prospettate e alla motivazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza delle stesse, il giudice a quo svolge considerazioni identiche a quelle esposte nell’ordinanza r.o. n. 830 del 2007, sopra riportate.9. – Si è costituita la s.p.a. G.O.R.I., concludendo per la manifesta inammissibilità o, in subordine, per la manifesta infondatezza delle proposte questioni e svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte nella memoria di costituzione nel giudizio r.o. n. 830 del 2007.10. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o comunque per l’infondatezza delle questioni e svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte nel giudizio r.o. n. 830 del 2007.11. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la s.p.a. G.O.R.I. ha ribadito quanto già sostenuto nell’atto di costituzione, svolgendo considerazioni analoghe a quelle esposte nella memoria depositata in prossimità dell’udienza nel giudizio r.o. n. 830 del 2007.Considerato in diritto1. – Con le ordinanze r.o. n. 830 del 2007 e n. 184 del 2008, di contenuto sostanzialmente identico, il Giudice di pace di Gragnano dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 41 e 97 della Costituzione, della legittimità dell’art. 14, comma 1, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), nel testo modificato dall’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in materia ambientale) [in vigore dal 28 agosto 2002 al 28 aprile 2006], nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione – quota che affluisce «a un fondo vincolato a disposizione dei soggetti gestori del Servizio idrico integrato la cui utilizzazione è vincolata alla attuazione del piano d’ambito» – è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi.In particolare, per il rimettente, la norma censurata víola: a) l’art. 2 Cost., perché incide sul «diritto inviolabile alla qualificazione dell’individuo come soggetto di diritto»; b) l’art. 3 Cost., perché irragionevolmente impone agli utenti di versare la quota di tariffa del servizio di fognatura e depurazione anche in mancanza del servizio di depurazione; c) l’art. 32 Cost., perché consente che la salute dei cittadini e delle future generazioni sia danneggiata dall’inquinamento che deriva dal «lassismo degli enti locali»; d) l’art. 41 Cost., perché il gestore delle risorse idriche, imponendo senza limiti temporali il pagamento di una tariffa pur in assenza del servizio di depurazione, «espleta una attività economica in contrasto con la dignità umana e l’utilità sociale»; e) l’art. 97 Cost., perché consente alla pubblica amministrazione «d’imporre ai cittadini una sorta di “tassa sine titulo” la cui finalizzazione ad una futura esecuzione degli impianti appare generica ed astratta».2. – Con l’ordinanza r.o. n. 38 del 2008, lo stesso giudice rimettente dubita – sollevando in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 97 Cost. questioni analoghe a quelle sollevate con le ordinanze r.o. n. 830 del 2007 e n. 184 del 2008 – della legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, nel testo originario [in vigore dal 3 ottobre 2000 al 27 agosto 2002], nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione – quota che affluisce a un fondo vincolato ed è destinata «esclusivamente alla realizzazione e alla gestione delle opere e degli impianti centralizzati di depurazione» – è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi.3 – I tre giudizi sopra menzionati vanno riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi, in considerazione dell’evidente analogia delle questioni prospettate.4 – Come appena ricordato, nei giudizi r.o. n. 830 del 2007 e n. 184 del 2008, il rimettente denuncia, in riferimento all’art. 3 Cost., l’irragionevolezza della norma censurata, perché essa ingiustificatamente impone agli utenti di versare la quota di tariffa del servizio di fognatura e depurazione anche nel caso in cui gli impianti centralizzati di depurazione manchino o siano temporaneamente inattivi, cosí discriminando tali utenti rispetto a quelli che versano la tariffa e si giovano, invece, della controprestazione costituita dal servizio.4.1. – In detti due giudizi, la costituita s.p.a. G.O.R.I., cioè la società di gestione del servizio idrico integrato nel Comune di Gragnano, eccepisce l’inammissibilità della suddetta questione, per difetto di rilevanza o di motivazione sulla rilevanza, e comunque per la mancata prospettazione di un tertium comparationis. La difesa erariale, a sua volta, eccepisce l’inammissibilità della medesima questione, affermando che «la carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale impedisce di comprendere quale sia l’inadempienza accertata ai danni della società GORI s.p.a. gestore del servizio idrico integrato per giustificare l’eventuale ripetizione delle somme corrisposte a titolo di canone di depurazione».Le eccezioni non sono fondate.Entrambe le ordinanze di rimessione, infatti: a) descrivono sufficientemente le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus, specificando che esse riguardano richieste di rimborso della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione per l’anno 2003; b) muovono dal presupposto che gli utenti hanno pagato la suddetta quota in mancanza del servizio di depurazione delle acque reflue (come del resto riconosciuto dalla stessa s.p.a. G.O.R.I.); c) chiariscono che la norma applicabile ratione temporis alla fattispecie è la norma denunciata; d) denunciano la violazione dell’art. 3 Cost. sia per l’irragionevolezza intrinseca della norma sia per la disparità di trattamento che questa crea, nell’àmbito di coloro che sono tenuti al pagamento della tariffa del servizio idrico integrato, tra chi fruisce e chi non può fruire del servizio di depurazione delle acque.4.2. – La s.p.a. G.O.R.I. eccepisce, altresí, l’inammissibilità della medesima questione, affermandone l’incoerenza, perché essa ha ad oggetto una norma che, attraverso il vincolo di destinazione all’attuazione del piano d’àmbito delle somme derivanti dalla riscossione della quota di tariffa riferita alla depurazione, è diretta proprio ad eliminare la disuguaglianza fra chi beneficia della depurazione e chi no. Tuttavia tale eccezione, allegando la ragionevolezza della norma, si risolve in un rilievo sull’infondatezza della questione e, pertanto, non può essere esaminata in via preliminare, separatamente dal merito della questione medesima.5. – Passando all’esame del merito della dedotta violazione dell’art. 3 Cost., deve innanzi tutto rilevarsi che le censure proposte riguardano solo la quota dell’unitaria tariffa del servizio idrico integrato riferita al servizio di depurazione, quota costituente oggetto esclusivo delle richieste di rimborso degli utenti nei giudizi principali.Ancorché la norma denunciata non distingua espressamente tale quota da quella riferita al servizio di pubblica fognatura, tuttavia l’autonoma rilevanza di essa si desume dall’espresso riferimento che l’art. 3, comma 42, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), fa alla quota medesima, determinandone in modo distinto la misura da applicarsi transitoriamente fino alla «entrata in vigore della tariffa del servizio idrico integrato, prevista dall’articolo 13 della legge 5 gennaio 1994, n. 36». Tale distinzione è presente anche nella normativa di attuazione della legge n. 36 del 1994, costituita: a) dal d.m. 1° agosto 1996 (Metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato); b) dalla delibera CIPE 19 dicembre 2002, n. 131/02 (Direttive per la determinazione, in via transitoria, delle tariffe dei servizi acquedottistici, di fognatura e di depurazione per l’anno 2002). In particolare, ai fini della determinazione, con il metodo normalizzato, della «componente modellata dei costi operativi» della tariffa di riferimento, il primo dei due suddetti provvedimenti individua, al punto 3.1, «formule di costo» diverse per i tre distinti elementi nei quali si articola il servizio idrico integrato, e cioè il «servizio acque potabili», «il servizio fognature» e il «servizio trattamento reflui» (attinente, appunto, alla depurazione). Il secondo provvedimento, ai fini della determinazione degli investimenti specifici per i singoli servizi, individua interventi distinti per il servizio di fognatura e per quello di depurazione (allegato 1, punti 2.2 e 2.3) e disciplina, all’allegato 2 – significativamente intitolato «Adeguamento parametri per la tariffa di depurazione 2002» – la sola quota di tariffa riferita al servizio di depurazione.Sulla base di tale ricostruzione del quadro normativo, lo scrutinio di questa Corte va, pertanto, circoscritto alla quota dell’unitaria tariffa del servizio idrico integrato riferita al servizio di depurazione.6. – Il giudice a quo denuncia l’irragionevolezza della disposizione censurata, nella parte in cui essa prevede che la suddetta quota di tariffa, pur avendo natura di corrispettivo, sia dovuta dagli utenti anche quando manchi la controprestazione cui essa è collegata, e cioè «anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».La censura è fondata.6.1. – Il rimettente muove dal presupposto interpretativo che nel sistema delineato dalla legge n. 36 del 1994 la tariffa del servizio idrico integrato, articolato in tutte le sue componenti – e, quindi, anche quella relativa al servizio di depurazione – ha natura di corrispettivo di prestazioni contrattuali e non di tributo.Questa Corte ritiene che tale presupposto sia corretto e trovi fondamento nelle seguenti considerazioni.Innanzi tutto, dall’analisi dei lavori preparatori relativi alla norma censurata si desume che il legislatore ha inteso costruire la tariffa in modo tale da coprire i costi del servizio idrico integrato. In tali lavori si afferma che «l’utilità particolare che ogni utente […] ottiene dal servizio dovrà essere pagata per il suo valore economico» e che «la tariffa deve […] essere espressiva del costo industriale del servizio idrico rappresentato […] dall’integrazione dei servizi di captazione, adduzione, distribuzione, collettamento e depurazione» (atti Camera dei deputati, XI legislatura, 6 ottobre 1993, pagina 18599; nello stesso senso, anche atti Camera dei deputati, XI legislatura, VIII Commissione permanente, 15 giugno 1993, pagine 57-58). In coerenza con tale impostazione, l’art. 13, comma 1, della citata legge n. 36 del 1994 stabilisce espressamente che tutte le componenti della tariffa rappresentano «il corrispettivo del servizio idrico integrato», costituito, in base a quanto previsto dall’art. 4, comma 1, lettera f), della stessa legge, «dall’insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue».La natura di corrispettivo della tariffa è, poi, confermata dal successivo comma 2 dell’art. 13, il quale stabilisce che essa deve assicurare «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio». In particolare, essa deve essere determinata in base a criteri sostanzialmente analoghi a quelli stabiliti in via generale per la determinazione delle tariffe dei servizi pubblici locali dall’art. 117 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), e cioè «tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia». Tale impostazione legislativa è analoga a quella adottata dal legislatore in altri settori concernenti la determinazione della remunerazione di prestazioni di pubblici servizi e, in particolare, a quella di cui agli artt. 11-nonies e seguenti del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, per la determinazione dei diritti aeroportuali mediante il metodo del cosiddetto price cap. Tali diritti sono stati qualificati come non tributari, con norma di carattere interpretativo, dall’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, aggiunto dalla legge di conversione 29 novembre, n. 222, e la loro natura di «corrispettivi dovuti in base a contratti» è stata affermata da questa da questa Corte con la sentenza n. 51 del 2008.La natura non tributaria della quota di tariffa disciplinata dalla norma censurata è stata, inoltre, costantemente riconosciuta dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, che, con riguardo proprio alle controversie relative alla quota riferita al servizio di depurazione, hanno ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, sul presupposto che, con il passaggio dalla disciplina previgente a quella della legge n. 36 del 1994, i “canoni” di depurazione delle acque reflue si sono trasformati da tributo a «corrispettivo di diritto privato» (ex plurimis, Cassazione, sezioni unite civili, sentenze n. 6418 del 2005, n. 16426 e n. 10960 del 2004; tutte precedenti all’entrata in vigore dell’art. 3-bis, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248, il quale ha espressamente attribuito alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del «canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue», indipendentemente dalla loro qualificazione come tributo o corrispettivo).L’uso legislativo del termine «corrispettivo» e la rilevata struttura sinallagmatica del rapporto con l’utente si armonizzano, altresì, con il disposto dell’alinea e della lettera b) del quinto comma dell’art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), come modificato dall’art. 31, comma 30, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), i quali considerano le quote di tariffa riferite ai servizi di fognatura e depurazione come veri e propri corrispettivi dovuti per lo svolgimento di attività commerciali, «ancorché esercitate da enti pubblici», come tali assoggettate a IVA. Infatti, la qualificazione, anche ai fini di quest’ultima imposta, di dette quote di tariffa come corrispettivi evidenzia ulteriormente la scelta del legislatore di non ricondurre le quote stesse al novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006) esclude in linea generale dall’assoggettamento a IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità».Sempre in questa prospettiva va, infine, interpretata l’inapplicabilità alla tariffa del servizio idrico integrato – disposta dalla stessa legge n. 36 del 1994 contenente la disposizione censurata (in combinato disposto con l’art. 17, ottavo comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319, recante «Norme per la tutela delle acque dall’inquinamento») – di quelle modalità di riscossione mediante ruolo, che sono tipiche (anche se non esclusive) dei prelievi tributari. L’art. 15 della citata legge n. 36 del 1994 si limita, infatti, a disporre che «la tariffa è riscossa dal soggetto che gestisce il servizio idrico integrato», eliminando ogni riferimento a quei meccanismi coattivi di riscossione dei tributi che erano, invece, espressamente richiamati dal previgente art. 17, ottavo comma, primo periodo, della legge n. 319 del 1976 – il quale ne prevedeva l’applicabilità solo «fino all’entrata in vigore della tariffa fissata dagli articoli 13, 14, 15 della legge 5 gennaio 1994, n. 36» – e disciplinati dagli artt. 273 e seguenti del regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175 e dagli artt. 68 e 69 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43.L’interpretazione della legge n. 36 del 1994, condotta alla stregua dei comuni criteri ermeneutici, porta dunque a ritenere che la tariffa del servizio idrico integrato si configura, in tutte le sue componenti, come corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, il quale, ancorché determinato nel suo ammontare in base alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell’utente, bensì nel contratto di utenza. L’inestricabile connessione delle suddette componenti è evidenziata, in particolare, dal fatto sopra rilevato che, a fronte del pagamento della tariffa, l’utente riceve un complesso di prestazioni, consistenti sia nella somministrazione della risorsa idrica, sia nella fornitura dei servizi di fognatura e depurazione. Ne consegue che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo contrattuale, il cui ammontare è inserito automaticamente nel contratto (art. 13 della legge n. 36 del 1994). 6.2. – Dall’accertata volontà del legislatore di costruire la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione come corrispettivo deriva la fondatezza della censura di irragionevolezza della disposizione denunciata, nella parte in cui prevede che la suddetta quota di tariffa è dovuta dagli utenti anche quando manchi il servizio di depurazione.La norma censurata, imponendo l’obbligo di pagamento in mancanza della controprestazione, prescinde dalla natura di corrispettivo contrattuale della quota e, pertanto, si pone ingiustificatamente in contrasto con la sopra delineata ratio del sistema della legge n. 36 del 1994, che, come si è visto, è invece fondata sull’esistenza di un sinallagma che correla il pagamento della tariffa stessa alla fruizione del servizio per tutte le quote componenti la tariffa del servizio idrico integrato, ivi compresa la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione.Ad evidenziare il rilevato contrasto vale anche la considerazione che la disciplina della quota di tariffa in questione, da un lato, qualifica detta quota come corrispettivo di una prestazione commerciale, come tale assoggettato ad IVA, e, dall’altro, contraddittoriamente, non consente la tutela civilistica dell’utente. Infatti, mentre l’alinea e la lettera b) del quinto comma dell’art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 sottopongono ad IVA – come sopra ricordato – la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione, perché considerano detta quota in ogni caso come corrispettivo, invece, la disposizione censurata, prescindendo dal sinallagma genetico e funzionale fra la prestazione di pagamento e la controprestazione del servizio, impedisce irragionevolmente all’utente di tutelarsi da eventuali inadempimenti della controparte mediante gli ordinari strumenti civilistici previsti per i contratti a prestazioni corrispettive (quali, ad esempio, l’azione di adempimento, l’exceptio inadimpleti contractus, l’azione di risoluzione per inadempimento).6.2.1. – A tale conclusione non può obiettarsi – come fa la difesa della s.p.a. G.O.R.I. – che la corrispettività fra la suddetta quota e il servizio di depurazione sussisterebbe comunque, perché le somme pagate dagli utenti in mancanza del servizio sarebbero destinate, attraverso un apposito fondo vincolato, all’attuazione del piano d’àmbito, comprendente anche la realizzazione dei depuratori. Va osservato, in contrario, che: a) l’ammontare della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è determinato indipendentemente dal fatto se il depuratore esista o no, essendo esso in ogni caso commisurato al costo del servizio di depurazione, in applicazione del cosiddetto «metodo normalizzato», e non al costo di realizzazione del depuratore (come risulta dall’allegato del citato d.m. 1° agosto 1996, punto 3.1, lettera c, e dall’allegato 1, punto 2.3, della citata delibera CIPE 19 dicembre 2002, n. 131/02); b) il provento costituito dalla quota confluente nel fondo vincolato può essere destinato alla realizzazione di depuratori non utilizzabili dal singolo utente obbligato al pagamento, come nel caso in cui i depuratori siano realizzati in Comuni diversi da quello in cui si trova l’utente, oppure nel caso in cui l’utente, dopo il pagamento della tariffa, si sia trasferito in altro Comune; c) nel caso in cui il Comune non gestisca direttamente il servizio idrico, la scelta del tempo e del luogo di realizzazione dei depuratori è affidata, dall’art. 11, comma 3, della legge n. 36 del 1994, a soggetti terzi rispetto al contratto di utenza, e cioè ai Comuni e alle Province, nell’esercizio della loro competenza a predisporre il piano d’àmbito; d) l’attuazione di tale piano si inserisce nel rapporto fra gestore e autorità d’àmbito e non in quello fra esso e l’utente, perché produce un’utilità riferita all’àmbito territoriale ottimale nel suo complesso e non anche quella «utilità particolare che ogni utente […] ottiene dal servizio», la quale sola – come chiarito dai lavori preparatori richiamati al punto 6.1. – consente di qualificare come corrispettivo la tariffa del servizio idrico integrato; e) il contratto di utenza e il pagamento della quota tariffaria non costituiscono presupposto necessario per l’attuazione dello stesso piano, essendo quest’ultima prevista e disciplinata, anche nei tempi e nelle modalità, non già dal contratto di utenza, ma da moduli procedimentali di diritto amministrativo.Dall’impossibilità di qualificare l’attuazione del piano d’àmbito come controprestazione contrattuale del pagamento della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione discende la già evidenziata conseguenza che l’utente può agire contro l’inerzia dell’amministrazione nella realizzazione dei depuratori, non già in forza del rapporto contrattuale di utenza utilizzando gli ordinari strumenti civilistici di tutela, ma solo esercitando il generale potere di denuncia attribuitogli dall’ordinamento uti civis.6.2.2. – Neppure potrebbe opporsi che la denunciata irragionevolezza non sussiste in considerazione di un’adombrata natura di prelievo tributario della quota tariffaria riferita al servizio di depurazione. L’unitarietà della tariffa impedisce, infatti, di ritenere che le sue singole componenti abbiano natura non omogenea, e, conseguentemente, che anche solo una di esse, a differenza delle altre, non abbia natura di corrispettivo contrattuale. E ciò perché il legislatore, per la remunerazione delle varie componenti del servizio idrico integrato, non ha istituito tariffe distinte, ma ha concepito la tariffa di detto servizio come un tutto unico, nell’àmbito del quale la suddivisione in quote risponde solo all’esigenza di una più precisa quantificazione della tariffa stessa, che tenga conto di tutte le prestazioni che il gestore deve erogare.L’armonia di un sistema di finanziamento del servizio idrico integrato, costruito unitariamente dal legislatore sull’esistenza di un nesso sinallagmatico, sulla sufficienza di un contratto di utenza ai fini della nascita dell’obbligo di pagamento e, perciò, su una tariffa unica, sarebbe, in conclusione, lesa dalla previsione, quale mezzo di finanziamento, di un prelievo coattivo, la cui ratio confliggerebbe ingiustificatamente con la logica unitaria sopra detta, in quanto introduce un obbligo di pagamento non correlato alla controprestazione. Solo un autonomo prelievo tributario avulso dalla tariffa e, perciò, del tutto sganciato dal sistema del servizio idrico integrato potrebbe giustificare una tassazione per fini ambientali diretta a far contribuire anche colui che non utilizza il servizio alla spesa pubblica per la depurazione.7. – Nel giudizio r.o. n. 38 del 2008, il rimettente – formulando la stessa censura di cui alle ordinanze r.o. n. 830 del 2007 e n. 184 del 2008 – denuncia l’intrinseca irragionevolezza dell’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, nel testo originario, il quale prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione – quota i cui «proventi affluiscono in un fondo vincolato e sono destinati esclusivamente alla realizzazione e alla gestione delle opere e degli impianti centralizzati di depurazione» – è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi. La disposizione denunciata è uguale a quella risultante dalla modifica introdotta dall’art. 28 della legge n. 179 del 2002 ed oggetto delle ordinanze di rimessione sopra esaminate, con la sola differenza che la prima prevede che i proventi della quota di tariffa riferita al servizio di depurazione sono destinati esclusivamente alla realizzazione e alla gestione delle opere e degli impianti centralizzati di depurazione, la seconda – come visto – ne prevede la destinazione a un fondo vincolato per l’attuazione del piano d’àmbito.La censura è fondata, per le stesse ragioni esposte al precedente punto 6, perché la norma denunciata, eliminando ogni diretta relazione tra il pagamento di tale quota e l’effettivo svolgimento del servizio che tale pagamento dovrebbe retribuire, ha irragionevolmente disciplinato il pagamento della quota in modo non coerente con la sua natura di corrispettivo contrattuale.8. – L’accoglimento delle esaminate questioni comporta la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994, sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 28 della legge n. 179 del 2002, nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».9. – La riconosciuta fondatezza delle suddette questioni riferite alla violazione dell’art. 3 Cost. comporta l’assorbimento delle altre questioni sollevate dal rimettente.10. – Il censurato art. 14, comma 1, della legge n. 36 del 1994 è stato, con decorrenza dal 29 aprile 2006, abrogato dall’art. 175, comma 1, lettera u), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), e sostituito dall’art. 155, comma 1, primo periodo, dello stesso decreto legislativo, il quale prevede che «Le quote di tariffa riferite ai servizi di pubblica fognatura e di depurazione sono dovute dagli utenti anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi. Il gestore è tenuto a versare i relativi proventi, risultanti dalla formulazione tariffaria definita ai sensi dell’articolo 154, a un fondo vincolato intestato all’Autorità d’ambito, che lo mette a disposizione del gestore per l’attuazione degli interventi relativi alle reti di fognatura ed agli impianti di depurazione previsti dal piano d’ambito».L’analogia tra quest’ultima disposizione e quelle sopra dichiarate incostituzionali rende evidente che le considerazioni dianzi svolte, in ordine alla irragionevolezza di queste ultime, valgono anche per la prima.In conclusione, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 155, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo n. 152 del 2006, nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».per questi motivi la Corte Costituzionaleriuniti i giudizi,1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi»;2) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 155, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti «anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2008.
F.to:Giovanni Maria FLICK, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 ottobre 2008.

Il Phishing


Phishing, l'illecito sguazza nella Rete. Natura penale e civile della truffa.
dr.ssa Simona Carmenati

Oggi il subdolo Lupo Cattivo non si traveste più da nonnina bisognosa, ma da ben noto istituto di credito, assumendone logo, sito web e ogni altro segno distintivo che induca l’ingenua e servizievole Cappucetto Rosso che naviga in Internet a fornire fiduciosa al malintenzionato i propri dati riservati per l’home banking (PIN, password, numero di carte di credito, informazioni su account personali).

Il Lupo Cattivo della Rete è il cosiddetto “phisher”, che con il semplice invio di un’e-mail del tutto credibile, per grafica e per il rimando a una url ingannevole che richiama quello della propria banca (un po’ meno credibile sarebbe invece questa stessa e-mail dal punto di vista di grammatica e sintassi italiana…) carpisce informazioni utili ad attingere ai conti correnti altrui.
Il fenomeno è sostanzioso: da marzo a settembre 2005 sono circolate ogni mese nuove e-mail truffaldine a nome di almeno 6 note realtà finanziare italiane. E sono già una quindicina, in questi primi giorni di settembre, i casi registrati a livello internazionale.
L’Avv. Luca Bovino ci guida in un percorso “anti-phishing” approfondendo il tema delle connotazioni e implicazioni legali del reato informatico.
Il “phishing” è espressamente definito e prescrivibile nell’ordinamento giuridico italiano?Non esiste una definizione del fenomeno “phishing” nel nostro ordinamento, ma non esiste neanche una definizione della parola “phishing” in alcun dizionario della lingua inglese, trattandosi di una storpiatura del verbo “to fish”, pescare. Una pesca alla quale abboccano, purtroppo, gli utenti più sprovveduti.
Ma il fatto che non vi sia una norma giuridica espressamente dedicata al phishing non significa che questa pratica sia lecita, tutt’altro.
A cosa attiene l’illiceità di questa pratica?
Per rispondere a questa domanda è opportuno ricordare che la finalità del phisher è quella di sottrarre agli utenti dati personali (come codici d’accesso, pin, password, userID, etc.) per poi sottrarre loro danaro depositato in conti correnti accessibili on-line.
Pertanto vi sono due momenti fondamentali da tener presente nel valutare l’illiceità del phisher: uno attiene ai raggiri informatici necessari per carpire i dati personali degli utenti; l’altro attiene alle manovre finanziarie e bancarie che il phisher deve porre in essere per trasferire il denaro sottratto agli utenti all’interno di posti sicuri.
Questa seconda fase è forse ancora più delicata della prima, perché una volta acquisita la disponibilità di un conto corrente on-line, il phisher dovrebbe cercare in ogni modo di nascondere le tracce, spesso in maniera illecita, delle movimentazioni che ha effettuato con il denaro altrui.
Possiamo correttamente parlare di truffa ai danni dell’utente, e di implicazioni di natura penale?
Credo proprio di sì. L’art. 640 c.p., al primo comma recita infatti «chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinquantuno euro a milletrentadue euro». Credo che gli elementi descritti dalla norma incriminatrice siano tutti ampiamente ravvisabili nella condotta del phisher. Partendo dalle e-mail maliziose contenenti un collegamento ipertestuale ingannatorio (gli artifizi ed i raggiri) che conduce verso un sito in tutto e per tutto identico a quello del proprio istituto di credito (l’induzione in errore), fino ad arrivare alla sottrazione dei codici d’accesso ai propri conti on-line e quindi la materiale sottrazione del denaro ivi custodito (ingiusto profitto ed altrui danno). Credo proprio che gli estremi dell’art. 640 c.p., comma 1, vi siano tutti. Non solo. Spesso gli attacchi di phishing integrano anche l’ipotesi di truffa aggravata prevista al n. 2) del comma 2 dell’art. 640 c.p., ipotesi che si verifica allorquando il fatto sia stato commesso «ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario». Il più delle volte capita, infatti, che il phisher nel proprio messaggio inviato al suo destinatario, lo inviti a recarsi repentinamente presso il sito della propria banca, paventando proprio rischi di truffe o altri accessi non consentiti ai propri dati.
Tuttavia, oltre alla truffa, credo che possano essere ravvisabili gli estremi di altri reati informatici e contro la privacy come ad esempio la frode informatica (art. 640 ter c.p.), l’accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615 ter c.p.) o l’illecito trattamento di dati personali (art. 167 D.Lgs. n. 196/2003).
Anche l’Istituto di credito può essere considerato parte offesa?
Anche in questo caso risponderei affermativamente. La persona offesa è il soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale che viene leso dall’azione del reo. In questo caso il bene della vita tutelato dalla norma incriminatrice, (prendiamo ad esempio sempre l’art. 640 c.p., tralasciando le altre ipotesi) è l’integrità del patrimonio durante le relazioni negoziali. Pertanto, per ritenere la banca una potenziale persona offesa, è opportuno verificare se tale truffa perpetrata dal phisher sia o meno suscettibile di arrecare un danno di natura patrimoniale anche alla banca. E la risposta non può che essere positiva. L’istituto di credito, infatti, nella maggior parte dei casi, non appena viene a conoscenza del fatto che alcuni suoi correntisti sono stati vittime di phishing è costretto ad adottare delle procedure straordinarie per informare la propria clientela e per invitarla a non divulgare i propri codici riservati. Tale tipo di informativa viene generalmente rilasciata in via riservata e non tramite pubblici annunci (per ovvi motivi legati alla pubblicità negativa che subirebbe la banca) con l’inevitabile aggravio di spesa che la comunicazione riservata comporta. Molte banche hanno attivato, inoltre, degli appositi call-center ove i clienti possano rivolgersi in caso ricevano e-mail di dubbia provenienza. Difficile non vedere come tutte queste attività comportino un costo in termini di tempo e danaro per la banca e che costituiscano un indubbio danno che essa subisce a causa dell’azione del phisher, e che pertanto la legittimerebbe alla proposizione della querela. Ma non sarebbe del tutto sbagliato nemmeno ipotizzare un illecito civile…
L’intera attività del phisher si configura come un illecito trattamento di dati personali dei soggetti colpiti. I dati vengono carpiti, infatti, senza che vi sia un effettivo consenso informato dell’interessato, anzi quest’ultimo non può sapere che in realtà le informazioni che riceve dal phisher per convincerlo a recarsi presso il proprio account sono assolutamente false. In base al disposto dell’art. 15 del codice privacy, «chiunque cagioni un danno per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile».Tuttavia non sarebbe da escludere la possibilità di leggere il phishing come un’attività lesiva lesivo del principio del neminem laedere, criterio posto alla base della responsabilità extracontrattuale descritta dall’art. 2043 c.c. Il condizionale è d’obbligo data la novità della materia e data la ritrosia di molti operatori giuridici a considerare i bit come dei dati personali.Per quanto riguarda l’utente raggirato mi viene da pensare “oltre al danno, la beffa” di essere stata parte attiva, nel fornire ingenuamente di propria mano i dati che verranno usati contro di sé. Per l’Istituto di credito, custode delle informazioni sensibili, si può riscontrare una sorta di responsabilità in questa “falla”?Certamente, nell’articolo che abbiamo pubblicato sul sito ho sostenuto proprio questa eventualità che, per quanto apparentemente paradossale, non credo sia da sottovalutare.Le norme di riferimento per comprendere meglio questa tesi sono gli artt. 15 e 31 del codice privacy, D.Lgs. n. 196/2003, e l’art. 2050 del codice civile.Alla luce di a tale combinato disposto emerge la seguente disciplina: chiunque tratti dati personali altrui, e non adoperi tutti gli accorgimenti previsti dal progresso tecnico per evitare i rischi che incombono sui dati medesimi, risponderà nelle forme previste dall’art. 2050 c.c. (quindi subendo l’inversione dell’onere della prova in giudizio) nel caso si verifichino dei danni ai soggetti a cui facciano riferimento tali dati. Il danno deve in sostanza essersi verificato, per l’appunto, per effetto del mancato ottemperamento del titolare a tali obblighi di custodia e controllo.Non è superfluo ricordare che, a mente dell’art. 31 del codice privacy, ogni titolare di un trattamento di dati personali (qual è per l’appunto l’istituto di credito riguardo i dati dei propri clienti) deve custodire e controllare i dati personali trattati in modo da ridurre al minimo il rischio di accessi non autorizzati agli stessi.In particolare, prescrive il codice privacy, tale custodia e tale controllo devono essere commisurati alla conoscenze acquisite in base all’evoluzione del progresso tecnico, oltre che del tipo di trattamento effettuato. Ergo, la gestione di conti correnti on-line, piuttosto che off-line, prevede per il titolare l’obbligo di predisporre misure ulteriori ed “evolute” per cautelarsi dal rischio di accessi non consentiti o non autorizzati. Ciò con particolare riguardo ad un rischio “nuovo” per l’istituto di credito, legato all’evoluzione del progresso tecnico in materia di software per la realizzazione di pagine web, ovvero quello di subire il pharming (ovvero una illecita “clonazione”) del sito da cui vengono gestiti gli account dei propri clienti. Il sito a cui ti riferisci è il portale www.anti-phishing.it, presso il quale sei editorialista e che rappresenta il punto di riferimento on line contro le tecniche e i comportamenti fraudolenti a cui la Rete è soggetta, per esempio il citato pharming.
Quali altre tecniche fraudolente hai approfondito, dal punto di vista legale, sul sito?
Nel sito, per il momento, vi sono due approfondimenti di natura legale: uno dedicato, per l’appunto, al phishing, un altro invece relativo allo spamming.Come avrai potuto vedere nel sito c’è un’apposita sezione dedicata agli approfondimenti, di carattere però prevalentemente divulgativo, che comprende circa 7-8 minacce telematiche come i dialers, il keylogging, il pharming, gli spyware, il cybersquatting etc..Ecco l’obiettivo, forse un po’ ambizioso, è quello di approfondire anche da un punto di vista giuridico questi fenomeni con appositi contributi da aggiungere nel sito almeno quindicinalmente. Eppoi magari ampliare la lista delle insidie da approfondire sempre seguendo questo doppio binario:divulgativo-legale. Naturalmente non pretendo di fare tutto da solo, non ne sarei assolutamente in grado, e approfitto di questa intervista per invitare a chiunque fosse interessato a farsi avanti per collaborare con noi in questo percorso di studi e di ricerca. Ma la comunità dei cyber-giuristi è molto attiva, abbiamo già ricevuto alcune proposte di collaborazione, e sono convinto che molte ancora ne arriveranno.Il prossimo argomento che affronteremo nel sito sarà, con tutta probabilità, legato a un’altra perniciosa insidia che da diversi anni si fa viva: i dialers illegali.Tornando al phishing in particolare, stiamo parlando di qualcosa che tocca molto concretamente il nostro conto corrente, ma che viaggia “nell’etere” ed è reso strutturalmente possibile solo dalla realtà di Internet. Siamo nelle mani dei colossi informatici… Ti risultano contenziosi, in materia di phishing, che coinvolgano Microsoft, per esempio?Con riferimento a Microsoft vi sono oltre 400 casi di phishing nei confronti dei suoi servizi o prodotti segnalati da istituti di ricerca americani come il Froud Watch International o Anti-phishing.org. Anzi proprio nei confronti dell’azienda di Seattle è stata riscontrata una nuova forma di phishing che prescinde dall’invio di e-mail: la truffa consisterebbe nel realizzare dei siti apparentemente della Microsoft che invitano l’utente ad effettuare dei check sui propri sistemi operativi e sui propri software per evitare il rischio di eventuali vulnerabilità.A quel punto vengono riscontrate falsi malfunzionamenti e vengono paventati rischi di vulnerabilità altissimi, suggerendo l’installazione di potenti software anti intrusione proponendoli a prezzi irrisori. Una volta che l’utente paga tali software tramite carta prepagata, carpiscono i suoi codici.Reputi che si possano riscontrare altri illeciti di natura penale a carico del phisher?Come detto in precedenza, il phishing descrive una condotta idonea ad integrare gli estremi di ulteriori reati oltre alla truffa.Ad esempio il reato di frode informatica (art. 640 ter c.p.) che, come ha ricordato più volte la giurisprudenza della Cassazione (v., in particolare Cass. sez. IV, 4 ottobre 1999, n. 3056), ha la medesima struttura, e quindi i medesimi elementi costitutivi, della truffa, dalla quale si distingue solamente perché l'attività fraudolenta dell'agente investe non la persona, bensì il sistema informatico. Inoltre nel reato di frode informatica non rileva l’eventuale “induzione in errore” che, invece, è un elemento costitutivo dell’ipotesi prevista dall’art. 640 c.p. Di talché il phishing da un lato, induce in errore la persona che fornisce inconsapevolmente i propri dati al phisher, dall’altro lato la sua azione investe il sistema informatico dell’istituto creditizio poiché interviene sine titulo all’interno dello stesso.Il comportamento del phisher è idoneo, astrattamente, ad integrare gli elementi di un ulteriore reato: l’accesso abusivo ad un sistema informatico, previsto dall’art. 615 ter c.p. ed anch’esso introdotto, come il reato di frode informatica, dalla legge n. 547/93. L’art. 615 ter c.p. punisce chiunque «abusivamente si introduce all’interno di un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo». ,Inoltre vi sarebbe, astrattamente, la possibilità di configurare il reato previsto dalla legge privacy ma l’”illecito trattamento di dati personali”, questa la rubrica dell’art. 167 del D.Lgs. 196/2003, si configura soltanto ove il fatto commesso non sia idoneo a configurare reati più gravi (quali sono appunto la truffa, la frode informatica e l’accesso abusivo.Preferirei descrivere l’intera gamma degli illeciti compiuti dal phisher nell’ambito del reato continuato, poiché il phisher commette una molteplicità di reati collegati fra loro (truffa, illecito trattamento dei dati personali, accesso abusivo, frode informatica ed eventualmente ulteriori reati fiscali) nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso, qual è appunto, quello di raggirare il malcapitato utente di servizi di home banking.Cosa ti ha spinto a sviluppare competenze mirate alla trattazione delle frodi on line? E quali, secondo la tua esperienza, le più complesse come comportamenti antigiuridici di natura penale?L’interesse verso il phishing è scaturito in parte da una mia personale passione per l’informatica e la telematica che mi ha portato ad approfondire molti argomenti in Master e corsi post universitari, apprendendo utilissime informazioni funzionali alla mia professione.Ma credo sia stato soprattutto un senso di spirito civico ad avermi spinto a collaborare alla realizzazione di Anti-Phishing Italia. Lo stesso spirito che anima tutti coloro che si battono contro le frodi on-line, le quali, spesse volte, sarebbero facilmente evitabili se vi fosse maggiore informazione intorno a questi argomenti. Per quanto riguarda le frodi più complesse… bè sicuramente quelle legate ai dialers. Lì è oggettivamente molto difficile non vedere una compartecipazione causale della persona offesa alla realizzazione del reato, la quale molto spesso porta a far sì che la condotta del reo possa vedersi scriminata dal consenso dell’avente diritto. Nel caso dei dialers, peraltro, a differenza del phishing, molto spesso non c’è nessun intento immediatamente ingannatorio o fraudolento. Si tratta di software utilizzati per navigare all’interno di siti che offrono determinati servizi a pagamento. L’illiceità attiene generalmente, (per non dire esclusivamente) alla poca trasparenza dei messaggi inseriti dai webmaster e dall’ambiguo atteggiamento degli operatori telefonici. Ma questo forse è un discorso che ci porterebbe troppo lontano…

Il Phishing


Phishing, l'illecito sguazza nella Rete. Natura penale e civile della truffa.
dr.ssa Simona Carmenati

Oggi il subdolo Lupo Cattivo non si traveste più da nonnina bisognosa, ma da ben noto istituto di credito, assumendone logo, sito web e ogni altro segno distintivo che induca l’ingenua e servizievole Cappucetto Rosso che naviga in Internet a fornire fiduciosa al malintenzionato i propri dati riservati per l’home banking (PIN, password, numero di carte di credito, informazioni su account personali).

Il Lupo Cattivo della Rete è il cosiddetto “phisher”, che con il semplice invio di un’e-mail del tutto credibile, per grafica e per il rimando a una url ingannevole che richiama quello della propria banca (un po’ meno credibile sarebbe invece questa stessa e-mail dal punto di vista di grammatica e sintassi italiana…) carpisce informazioni utili ad attingere ai conti correnti altrui.
Il fenomeno è sostanzioso: da marzo a settembre 2005 sono circolate ogni mese nuove e-mail truffaldine a nome di almeno 6 note realtà finanziare italiane. E sono già una quindicina, in questi primi giorni di settembre, i casi registrati a livello internazionale.
L’Avv. Luca Bovino ci guida in un percorso “anti-phishing” approfondendo il tema delle connotazioni e implicazioni legali del reato informatico.
Il “phishing” è espressamente definito e prescrivibile nell’ordinamento giuridico italiano?Non esiste una definizione del fenomeno “phishing” nel nostro ordinamento, ma non esiste neanche una definizione della parola “phishing” in alcun dizionario della lingua inglese, trattandosi di una storpiatura del verbo “to fish”, pescare. Una pesca alla quale abboccano, purtroppo, gli utenti più sprovveduti.
Ma il fatto che non vi sia una norma giuridica espressamente dedicata al phishing non significa che questa pratica sia lecita, tutt’altro.
A cosa attiene l’illiceità di questa pratica?
Per rispondere a questa domanda è opportuno ricordare che la finalità del phisher è quella di sottrarre agli utenti dati personali (come codici d’accesso, pin, password, userID, etc.) per poi sottrarre loro danaro depositato in conti correnti accessibili on-line.
Pertanto vi sono due momenti fondamentali da tener presente nel valutare l’illiceità del phisher: uno attiene ai raggiri informatici necessari per carpire i dati personali degli utenti; l’altro attiene alle manovre finanziarie e bancarie che il phisher deve porre in essere per trasferire il denaro sottratto agli utenti all’interno di posti sicuri.
Questa seconda fase è forse ancora più delicata della prima, perché una volta acquisita la disponibilità di un conto corrente on-line, il phisher dovrebbe cercare in ogni modo di nascondere le tracce, spesso in maniera illecita, delle movimentazioni che ha effettuato con il denaro altrui.
Possiamo correttamente parlare di truffa ai danni dell’utente, e di implicazioni di natura penale?
Credo proprio di sì. L’art. 640 c.p., al primo comma recita infatti «chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinquantuno euro a milletrentadue euro». Credo che gli elementi descritti dalla norma incriminatrice siano tutti ampiamente ravvisabili nella condotta del phisher. Partendo dalle e-mail maliziose contenenti un collegamento ipertestuale ingannatorio (gli artifizi ed i raggiri) che conduce verso un sito in tutto e per tutto identico a quello del proprio istituto di credito (l’induzione in errore), fino ad arrivare alla sottrazione dei codici d’accesso ai propri conti on-line e quindi la materiale sottrazione del denaro ivi custodito (ingiusto profitto ed altrui danno). Credo proprio che gli estremi dell’art. 640 c.p., comma 1, vi siano tutti. Non solo. Spesso gli attacchi di phishing integrano anche l’ipotesi di truffa aggravata prevista al n. 2) del comma 2 dell’art. 640 c.p., ipotesi che si verifica allorquando il fatto sia stato commesso «ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario». Il più delle volte capita, infatti, che il phisher nel proprio messaggio inviato al suo destinatario, lo inviti a recarsi repentinamente presso il sito della propria banca, paventando proprio rischi di truffe o altri accessi non consentiti ai propri dati.
Tuttavia, oltre alla truffa, credo che possano essere ravvisabili gli estremi di altri reati informatici e contro la privacy come ad esempio la frode informatica (art. 640 ter c.p.), l’accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615 ter c.p.) o l’illecito trattamento di dati personali (art. 167 D.Lgs. n. 196/2003).
Anche l’Istituto di credito può essere considerato parte offesa?
Anche in questo caso risponderei affermativamente. La persona offesa è il soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale che viene leso dall’azione del reo. In questo caso il bene della vita tutelato dalla norma incriminatrice, (prendiamo ad esempio sempre l’art. 640 c.p., tralasciando le altre ipotesi) è l’integrità del patrimonio durante le relazioni negoziali. Pertanto, per ritenere la banca una potenziale persona offesa, è opportuno verificare se tale truffa perpetrata dal phisher sia o meno suscettibile di arrecare un danno di natura patrimoniale anche alla banca. E la risposta non può che essere positiva. L’istituto di credito, infatti, nella maggior parte dei casi, non appena viene a conoscenza del fatto che alcuni suoi correntisti sono stati vittime di phishing è costretto ad adottare delle procedure straordinarie per informare la propria clientela e per invitarla a non divulgare i propri codici riservati. Tale tipo di informativa viene generalmente rilasciata in via riservata e non tramite pubblici annunci (per ovvi motivi legati alla pubblicità negativa che subirebbe la banca) con l’inevitabile aggravio di spesa che la comunicazione riservata comporta. Molte banche hanno attivato, inoltre, degli appositi call-center ove i clienti possano rivolgersi in caso ricevano e-mail di dubbia provenienza. Difficile non vedere come tutte queste attività comportino un costo in termini di tempo e danaro per la banca e che costituiscano un indubbio danno che essa subisce a causa dell’azione del phisher, e che pertanto la legittimerebbe alla proposizione della querela. Ma non sarebbe del tutto sbagliato nemmeno ipotizzare un illecito civile…
L’intera attività del phisher si configura come un illecito trattamento di dati personali dei soggetti colpiti. I dati vengono carpiti, infatti, senza che vi sia un effettivo consenso informato dell’interessato, anzi quest’ultimo non può sapere che in realtà le informazioni che riceve dal phisher per convincerlo a recarsi presso il proprio account sono assolutamente false. In base al disposto dell’art. 15 del codice privacy, «chiunque cagioni un danno per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile».Tuttavia non sarebbe da escludere la possibilità di leggere il phishing come un’attività lesiva lesivo del principio del neminem laedere, criterio posto alla base della responsabilità extracontrattuale descritta dall’art. 2043 c.c. Il condizionale è d’obbligo data la novità della materia e data la ritrosia di molti operatori giuridici a considerare i bit come dei dati personali.Per quanto riguarda l’utente raggirato mi viene da pensare “oltre al danno, la beffa” di essere stata parte attiva, nel fornire ingenuamente di propria mano i dati che verranno usati contro di sé. Per l’Istituto di credito, custode delle informazioni sensibili, si può riscontrare una sorta di responsabilità in questa “falla”?Certamente, nell’articolo che abbiamo pubblicato sul sito ho sostenuto proprio questa eventualità che, per quanto apparentemente paradossale, non credo sia da sottovalutare.Le norme di riferimento per comprendere meglio questa tesi sono gli artt. 15 e 31 del codice privacy, D.Lgs. n. 196/2003, e l’art. 2050 del codice civile.Alla luce di a tale combinato disposto emerge la seguente disciplina: chiunque tratti dati personali altrui, e non adoperi tutti gli accorgimenti previsti dal progresso tecnico per evitare i rischi che incombono sui dati medesimi, risponderà nelle forme previste dall’art. 2050 c.c. (quindi subendo l’inversione dell’onere della prova in giudizio) nel caso si verifichino dei danni ai soggetti a cui facciano riferimento tali dati. Il danno deve in sostanza essersi verificato, per l’appunto, per effetto del mancato ottemperamento del titolare a tali obblighi di custodia e controllo.Non è superfluo ricordare che, a mente dell’art. 31 del codice privacy, ogni titolare di un trattamento di dati personali (qual è per l’appunto l’istituto di credito riguardo i dati dei propri clienti) deve custodire e controllare i dati personali trattati in modo da ridurre al minimo il rischio di accessi non autorizzati agli stessi.In particolare, prescrive il codice privacy, tale custodia e tale controllo devono essere commisurati alla conoscenze acquisite in base all’evoluzione del progresso tecnico, oltre che del tipo di trattamento effettuato. Ergo, la gestione di conti correnti on-line, piuttosto che off-line, prevede per il titolare l’obbligo di predisporre misure ulteriori ed “evolute” per cautelarsi dal rischio di accessi non consentiti o non autorizzati. Ciò con particolare riguardo ad un rischio “nuovo” per l’istituto di credito, legato all’evoluzione del progresso tecnico in materia di software per la realizzazione di pagine web, ovvero quello di subire il pharming (ovvero una illecita “clonazione”) del sito da cui vengono gestiti gli account dei propri clienti. Il sito a cui ti riferisci è il portale www.anti-phishing.it, presso il quale sei editorialista e che rappresenta il punto di riferimento on line contro le tecniche e i comportamenti fraudolenti a cui la Rete è soggetta, per esempio il citato pharming.
Quali altre tecniche fraudolente hai approfondito, dal punto di vista legale, sul sito?
Nel sito, per il momento, vi sono due approfondimenti di natura legale: uno dedicato, per l’appunto, al phishing, un altro invece relativo allo spamming.Come avrai potuto vedere nel sito c’è un’apposita sezione dedicata agli approfondimenti, di carattere però prevalentemente divulgativo, che comprende circa 7-8 minacce telematiche come i dialers, il keylogging, il pharming, gli spyware, il cybersquatting etc..Ecco l’obiettivo, forse un po’ ambizioso, è quello di approfondire anche da un punto di vista giuridico questi fenomeni con appositi contributi da aggiungere nel sito almeno quindicinalmente. Eppoi magari ampliare la lista delle insidie da approfondire sempre seguendo questo doppio binario:divulgativo-legale. Naturalmente non pretendo di fare tutto da solo, non ne sarei assolutamente in grado, e approfitto di questa intervista per invitare a chiunque fosse interessato a farsi avanti per collaborare con noi in questo percorso di studi e di ricerca. Ma la comunità dei cyber-giuristi è molto attiva, abbiamo già ricevuto alcune proposte di collaborazione, e sono convinto che molte ancora ne arriveranno.Il prossimo argomento che affronteremo nel sito sarà, con tutta probabilità, legato a un’altra perniciosa insidia che da diversi anni si fa viva: i dialers illegali.Tornando al phishing in particolare, stiamo parlando di qualcosa che tocca molto concretamente il nostro conto corrente, ma che viaggia “nell’etere” ed è reso strutturalmente possibile solo dalla realtà di Internet. Siamo nelle mani dei colossi informatici… Ti risultano contenziosi, in materia di phishing, che coinvolgano Microsoft, per esempio?Con riferimento a Microsoft vi sono oltre 400 casi di phishing nei confronti dei suoi servizi o prodotti segnalati da istituti di ricerca americani come il Froud Watch International o Anti-phishing.org. Anzi proprio nei confronti dell’azienda di Seattle è stata riscontrata una nuova forma di phishing che prescinde dall’invio di e-mail: la truffa consisterebbe nel realizzare dei siti apparentemente della Microsoft che invitano l’utente ad effettuare dei check sui propri sistemi operativi e sui propri software per evitare il rischio di eventuali vulnerabilità.A quel punto vengono riscontrate falsi malfunzionamenti e vengono paventati rischi di vulnerabilità altissimi, suggerendo l’installazione di potenti software anti intrusione proponendoli a prezzi irrisori. Una volta che l’utente paga tali software tramite carta prepagata, carpiscono i suoi codici.Reputi che si possano riscontrare altri illeciti di natura penale a carico del phisher?Come detto in precedenza, il phishing descrive una condotta idonea ad integrare gli estremi di ulteriori reati oltre alla truffa.Ad esempio il reato di frode informatica (art. 640 ter c.p.) che, come ha ricordato più volte la giurisprudenza della Cassazione (v., in particolare Cass. sez. IV, 4 ottobre 1999, n. 3056), ha la medesima struttura, e quindi i medesimi elementi costitutivi, della truffa, dalla quale si distingue solamente perché l'attività fraudolenta dell'agente investe non la persona, bensì il sistema informatico. Inoltre nel reato di frode informatica non rileva l’eventuale “induzione in errore” che, invece, è un elemento costitutivo dell’ipotesi prevista dall’art. 640 c.p. Di talché il phishing da un lato, induce in errore la persona che fornisce inconsapevolmente i propri dati al phisher, dall’altro lato la sua azione investe il sistema informatico dell’istituto creditizio poiché interviene sine titulo all’interno dello stesso.Il comportamento del phisher è idoneo, astrattamente, ad integrare gli elementi di un ulteriore reato: l’accesso abusivo ad un sistema informatico, previsto dall’art. 615 ter c.p. ed anch’esso introdotto, come il reato di frode informatica, dalla legge n. 547/93. L’art. 615 ter c.p. punisce chiunque «abusivamente si introduce all’interno di un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo». ,Inoltre vi sarebbe, astrattamente, la possibilità di configurare il reato previsto dalla legge privacy ma l’”illecito trattamento di dati personali”, questa la rubrica dell’art. 167 del D.Lgs. 196/2003, si configura soltanto ove il fatto commesso non sia idoneo a configurare reati più gravi (quali sono appunto la truffa, la frode informatica e l’accesso abusivo.Preferirei descrivere l’intera gamma degli illeciti compiuti dal phisher nell’ambito del reato continuato, poiché il phisher commette una molteplicità di reati collegati fra loro (truffa, illecito trattamento dei dati personali, accesso abusivo, frode informatica ed eventualmente ulteriori reati fiscali) nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso, qual è appunto, quello di raggirare il malcapitato utente di servizi di home banking.Cosa ti ha spinto a sviluppare competenze mirate alla trattazione delle frodi on line? E quali, secondo la tua esperienza, le più complesse come comportamenti antigiuridici di natura penale?L’interesse verso il phishing è scaturito in parte da una mia personale passione per l’informatica e la telematica che mi ha portato ad approfondire molti argomenti in Master e corsi post universitari, apprendendo utilissime informazioni funzionali alla mia professione.Ma credo sia stato soprattutto un senso di spirito civico ad avermi spinto a collaborare alla realizzazione di Anti-Phishing Italia. Lo stesso spirito che anima tutti coloro che si battono contro le frodi on-line, le quali, spesse volte, sarebbero facilmente evitabili se vi fosse maggiore informazione intorno a questi argomenti. Per quanto riguarda le frodi più complesse… bè sicuramente quelle legate ai dialers. Lì è oggettivamente molto difficile non vedere una compartecipazione causale della persona offesa alla realizzazione del reato, la quale molto spesso porta a far sì che la condotta del reo possa vedersi scriminata dal consenso dell’avente diritto. Nel caso dei dialers, peraltro, a differenza del phishing, molto spesso non c’è nessun intento immediatamente ingannatorio o fraudolento. Si tratta di software utilizzati per navigare all’interno di siti che offrono determinati servizi a pagamento. L’illiceità attiene generalmente, (per non dire esclusivamente) alla poca trasparenza dei messaggi inseriti dai webmaster e dall’ambiguo atteggiamento degli operatori telefonici. Ma questo forse è un discorso che ci porterebbe troppo lontano…

martedì 30 dicembre 2008

Interventi interpretativi con riguardo al patto di prova nel settore del lavoro privato

29/12/2008
Polito Antonio M.
(in Diritto & Diritti)
Il patto di prova nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione: un’analisi tematica

Una recente serie di pronunce della Corte di Cassazione si è occupata della disciplina del c.d. ‘patto di prova’ nel settore del lavoro privato. Di per sé, tali interventi interpretativi non hanno apportato letture propriamente ‘inedite’ di tale istituto, né significativi stravolgimenti nella valutazione di ciascuno dei singoli elementi tipici di tale disciplina (forma, funzione economica, onere della prova, ecc.). Tuttavia, tale rinnovato interessamento della Corte e la persistenza, nella relativa giurisprudenza, di elementi di obiettiva scivolosità e precaria determinatezza, suggeriscono la necessità di una pur agile puntualizzazione di alcuni di tali elementi, e ciò a partire proprio da quanto ribadito più recentemente.
In via preliminare, tuttavia, è opportuno riepilogare le fonti normative inerenti il ‘patto di prova’, atteso che, come si vedrà, non tutta la disciplina dell’istituto vi viene rappresentata.
Il riferimento più antico al ‘periodo di prova’, dunque, lo ritroviamo nel R.D.L. n. 1825 del 13 novembre 1924, all’art. 4, che determina non solo il vincolo di forma scritta (che si definirebbe ‘ad substantiam’) di tale patto (comma 1 e 3), ma anche il limite temporale di 3 o di 6 mesi (comma 4), a seconda di determinate categorie lavorative, oltre che l’assenza di obblighi di preavviso o indennità in caso di “risoluzione” del contratto (comma 5) controbilanciato dal riconoscimento dell’anzianità di servizio unicamente per il “periodo di prova seguito da conferma” (comma 6).
In realtà, almeno parte di tale norma è stata sostituita (pur non con espressa disposizione: cfr. art. 98 Disp. Att. Cod. Civ.) dall’articolo 2096 del Codice civile, che mantiene il vincolo di forma scritta (comma 1), l’assenza di obblighi di preavviso o di indennità in caso di “recesso” dal contratto (comma 3) ed il riconoscimento dell’anzianità di servizio solo una volta “compiuto il periodo di prova” (comma 4). Tale ultimo comma, giova dirlo per completezza, è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 189 del 22 dicembre 1980 “nella parte in cui non riconosce il diritto alla indennità di anzianità […] nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo”.
La disciplina legislativa generale del ‘patto di prova’ termina qui, atteso che solo per il contratto di apprendistato sono previste specificazioni limitatamente alla durata di tale periodo (2 mesi: cfr. L. 25/1955), escludendo la recentissima disciplina prevista dal D.L. 112/2008, convertito con L. 133/08, di cui non interessa occuparsi in questa sede.
A fronte di tale esigua regolamentazione legislativa, dunque, il ‘patto di prova ha trovato nell’interpretazione giurisprudenziale il momento più analitico della sua elaborazione, ma ciò, come subito si vedrà, non sempre senza incertezze o contraddizioni, presenti anche nelle recenti letture della Suprema Corte.

1) La durata.
Un primo elemento affrontato dalla Corte nella sentenza n.24282 del 29 settembre 2008, è quello dei limiti di durata del periodo di prova. Sul punto, la decisione, intendendo “dare continuità [a] decisioni risalenti nel tempo ma non smentite”, ha “fissato il principio per cui l’art. 2096 cod. civ., nel disciplinare l’assunzione in prova del lavoratore, non ha esaurito l’intera regolamentazione di questo speciale fenomeno nell’ambito del rapporto di lavoro, ma ha semplicemente dettato una disciplina di carattere generale che, anziché escludere, implica l’integrazione ad opera di altre norme, riguardanti elementi e modalità particolari”.
Da tale assunto, quindi, la Corte deduce la piena operatività del R.D.L. 13 novembre 1924, n.1825, che non si può ritenere abrogato dalla successiva emanazione del Codice civile vigente e nello specifico non può ritenersi abrogato l’art.4 di detto R.D.L., “che fissa la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti” per i quali invece, in virtù del medesimo articolo e del medesimo ragionamento, il periodo massimo di prova deve considerarsi di sei mesi.
Il termine di sei mesi, peraltro, viene preso anche in considerazione dall’art. 10 della L. 604/1966, il quale precisa che tale legge si applica anche ai lavoratori assunti in prova, dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, dal momento in cui sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. La Corte ha quindi anche precisato che la L. 604/1966 “non ha inteso dettare una nuova disciplina del contratto di assunzione in prova e fissare un nuovo termine alla sua durata, tale da rendere inoperante la disciplina precedente” che anzi, sul punto, non si ritiene possa porre alcun problema di compatibilità.

2) La causa del patto e l’interesse delle parti.
Contrariamente all’aspetto precedente, frutto di dubbi più per motivi di ordine formale che sostanziale, uno degli aspetti più spigolosi della disciplina del patto di prova risiede proprio nella valutazione dell’interesse che le parti possono avere al suo inserimento, dalla cui fumosità derivano, come vedremo, incertezze interpretative inerenti altri aspetti dell’istituto.
Da ultima, infatti, la sentenza n. 27314 del 17 novembre 2008 specifica come “la causa del patto di prova va[da] individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
Ma è bene ricordare, invece, che la meno recente sentenza n. 22637 del 02 dicembre 2004, più analiticamente, specifica che “per la complessità degli obblighi e dei diritti rispettivi, derivanti dal contratto di lavoro, la verifica della convenienza reciproca delle parti all’instaurazione del rapporto, implica valutazioni più complesse che non quella della sola idoneità del dipendente alle mansioni che è destinato ad espletare, essendo rilevante altresì valutare complessivamente la di lui personalità, in relazione all’interesse dell’impresa, con riferimento anche agli obblighi di diligenza, disciplina e fedeltà (art. 2104 e 2105 C.c.)”.
Come è già facile intuire, pertanto, la questione appare più complicata del previsto, avendo la giurisprudenza della Corte elaborato ben più di un elemento sulla base del quale valutare la ‘reciproca convenienza del contratto’, ed in forme che, a volte in maniera poco organica ed in apparente contrasto con la sua funzione ‘nomofilattica’, hanno tuttavia l’innegabile pregio di ancorare sempre il dato interpretativo alla concreta fattispecie oggetto di causa.
Ma le difficoltà non sono finite, in quanto ancora nella sentenza n. 27314/2008 si fa riferimento, nei possibili elementi di valutazione, “non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”, aspetti la cui esatta valutazione, francamente, sfugge, lambendo sin troppo da vicino, se non debitamente limitati, dati c.d. ‘sensibili’ della persona del lavoratore, la cui valutazione appare di legalità quantomeno sospetta… Si specifica, per esattezza, che la fattispecie concreta ha per oggetto una sequenza di rapporti di lavoro e pertanto tale valutazione prende in considerazione le ‘variazioni’ di tali aspetti, ma a nostro avviso le perplessità espresse rimangono invariate.
Così come, sempre Cass. 22637/2004, fa emergere un ulteriore possibile elemento di valutazione della ‘convenienza’ al contratto da parte dell’azienda, che esula del tutto dalla persona del lavoratore, ovvero l’inserimento della “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale”. Anche qui, come in Cass. 27314/2008, il riferimento non è diretto bensì finalizzato a dar prova di un precedente rapporto di lavoro (la cui disciplina si affronterà nel prosieguo), ma l’argomentazione della Corte appare pertinente anche in fattispecie, diciamo così, più statiche: il mancato interesse dell’azienda per le prestazioni di un lavoratore potrebbe in astratto prescindere dalle qualità di questi ma dipendere dall’oggettiva, e comprovata, mancanza di inserimento organizzativo. A questo punto, però, i dubbi che potrebbero emergere atterrebbero una eventuale incapacità e responsabilità organizzativa (preliminare al rapporto lavorativo) da parte dell’azienda; un’incapacità che, come tale, sarebbe del tutto indipendente dallo svolgimento delle prestazioni da parte del lavoratore e pertanto ingiusto farla ricadere su quest’ultimo.
Ma un ulteriore aspetto che, nonostante la sua importanza, poche volte ha suscitato l’interesse della giurisprudenza della Corte, è quello dell’interesse del lavoratore alla stipula del patto. Nonostante infatti tutte le interpretazioni diano per scontata la necessità, ai fini della legittimità della apposizione, della presenza dell’interesse anche di quest’ultimo, e che lo stesso art. 2096 C.c. faccia esplicito riferimento al fatto che “il prestatore di lavoro [sia] tenut[o] a fare l’esperimento che forma oggetto di prova”, ben raramente la Corte si è interessata all’argomento, ed uno di tali rari casi è quello della recentissima sentenza n.27805 del 21 novembre 2008. Nel caso in esame, infatti, tra le doglianze promosse dalla lavoratrice ricorrente, troviamo proprio quella che, atteso il suo stato di necessità e di disoccupazione, ed atteso che la stessa ricorrente avesse già svolto le medesime mansioni per il medesimo appaltante, “nella specie il patto di prova si risolveva nella attribuzione al datore di lavoro di una prerogativa senza alcun corrispondente vantaggio per il lavoratore” e che questi “non aveva altra alternativa al suo stato di disoccupazione”. Conseguentemente, il patto di prova sarebbe dovuto essere dichiarato “nullo sia per difetto di causa sia perché la volontà del lavoratore di sottoscriverlo era del tutto mancante dovendo ritenersi coartata”.
Prescindendo in questa sede da elementi di natura probatoria, la lettura che la Corte ha dato sino ad oggi alla questione, sopra ricordata, sarebbe del tutto conforme a quanto prospettato dalla ricorrente, e con rigore giuridico bisognerebbe comparare la nullità del patto per inesistenza della ‘prova’ (in quanto per esempio già fornita in precedenza), alla nullità per inesistenza dell’interesse del prestatore di lavoro alla valutazione dell’“entità della prestazione” e delle “condizioni di svolgimento del rapporto” (Cass. 27314/2008), anche in questo caso, ad esempio, in quanto già perfettamente conosciute. Una interpretazione fedele agli stessi principi dettati dalla Corte, dunque, dovrebbe portare a tale tipo di conclusione. Al contrario, la sentenza del 21 novembre scorso non porta a compimento tali presupposti interpretativi, concludendo invece come “la mancanza da parte della lavoratrice di un interesse ad avvalersi in concreto del patto, per la sua contingente condizione di disoccupata, costituisce un motivo personale che non esclude la causa oggettiva della pattuizione” e che “va osservato che la scelta della contraente è dovuta ad una spontanea ed autonoma valutazione di convenienza che nulla ha a che vedere con la minaccia di un male ingiusto e notevole proveniente dall’altro contraente o da terzi”…
Mentre dunque la Corte di Cassazione ha, ad oggi, più volte sanzionato la nullità del patto di prova per assenza dell’interesse del datore di lavoro, non risultano precedenti, nello stesso senso, per assenza di interesse da parte del prestatore di lavoro. Tale vera e propria ‘lacuna’ giuridica, pur di origine giurisprudenziale e non normativa, suggerirebbe un attento approfondimento di tale tematica ed una particolare cautela nel suo uso in giudizio.

3) Le mansioni: a) loro determinatezza.
Argomento centrale e vero e proprio perno del patto di prova, sono però le mansioni a cui il lavoratore viene adibito. Fortunatamente, questa volta la giurisprudenza anche recente della Corte di Cassazione è stata particolarmente analitica ed attenta, dedicandovi pagine analitiche e coerenti.
Il primo aspetto oggetto di attenzione da parte della Corte, è quello relativo al loro livello di determinatezza. Ancora la sentenza n. 24282 del 29 settembre 2008 afferma che il patto di prova deve “contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletare, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate”. A nostro avviso, l’importanza di tale specificazione risiede nella individuazione del vero motivo alla base della indicazione delle mansioni, che è quello della univoca ed ‘insindacabile’ valutazione dell’esito della prova, attività giuridicamente incompatibile con una indicazione generica dell’oggetto della stessa: in altre parole, in assenza di sufficiente determinatezza nelle mansioni, mancherebbe qualsiasi elemento oggettivo per la correttezza di tale valutazione.
A tal fine, è stata valutata la possibilità, oltre che ad una puntuale elencazione delle mansioni, di inserire un più generico ed indiretto riferimento al sistema classificatorio contenuto nella contrattazione collettiva di categoria. Tale sistema di riferimento è stato dichiarato del tutto legittimo e rispettoso delle condizioni di determinatezza e specificità delle mansioni oggetto di prova, a patto che “rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata” (sempre Cass. 24282/2008).
Si ricorda infine per completezza, che la sentenza n. 17045 del 19 agosto 2005 (richiamata dalla precedente) afferma che “tale requisito implicito della specificità delle mansioni è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, tanto che sul punto può parlarsi ormai di diritto vivente”.

4) Le mansioni: b) patto di prova e variazione ex art. 2103 C.c.
Quasi un corollario al tema precedente, ma non privo di autonome problematiche, è quello della possibilità di un eventuale ‘ius variandi’ delle mansioni oggetto di ‘prova’.
Sul punto, Cass. 17045/2005, in continuità con il discorso precedente, puntualizza che, in ordine alla necessaria specificità delle mansioni, questa non possa “spingersi fino a richiedere l’indicazione delle ‘prime’ mansioni assegnate in concreto al lavoratore in prova, perché, se solo queste fossero oggetto della prova, non sarebbero modificabili con deroga allo ‘ius variandi’”. Tuttavia, continua il ragionamento della Corte, “dall’art. 2096 C.c., pur letto alla luce di C. Cost. n.189 del 1980, non è possibile ricavare anche una tale rigidità, ossia un divieto di modificare, nel corso del periodo di prova, le mansioni del lavoratore nel rispetto dell’art. 2103 C.c.”.
Ad una generale compatibilità del periodo di prova e della dettagliata indicazione delle mansioni oggetto dello stesso, con la facoltà datoriale di cui all’art.2103 C.c., quindi, la Corte specifica come “rientr[i] semmai nell’autonomia delle parti eventualmente vincolare la prova alle sole mansioni di prima assegnazione con la conseguenza che solo dopo l’espletamento (e quindi il superamento) della prova il datore di lavoro [possa] esercitare lo ‘ius variandi’”. Eventualità che, se nella pratica è estremamente rara da rinvenire, da un punto di vista tecnico-giuridico può indubbiamente ampliare la duttilità e la completezza della fattispecie.

5) Le mansioni: c) vizi e nullità del patto.
Per ragioni sistematiche, converrà inserire sotto la tematica delle ‘mansioni’ anche la problematica inerente la loro mancata valutazione da parte datoriale, che toglie al patto di prova il suo motivo d’essere (causa), sanzionandolo con la nullità.
Al di là degli elementi collegati al recesso, che verranno trattati nel punto precedente, interessa qui occuparsi invece dei casi in cui in realtà la ‘prova’ delle abilità e/o della personalità del lavoratore non potrebbe riscontrarsi, attesa la già piena conoscenza di tale elemento, da parte datoriale, derivante da un pregresso rapporto lavorativo.
Anche questo aspetto è stato affrontato dalle recenti pronunce della Corte, che nella sentenza n. 27330 del 17 novembre 2008, dopo aver ricordato che la causa tipica del patto “mira a tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto”, sottolinea che “deve ritenersi illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni”. Nella fattispecie sottoposta all’attenzione del giudicante, la lavoratrice aveva lavorato durante il rapporto subordinato ‘in prova’ con le stesse mansioni che aveva già svolto in precedenza in virtù di un patto di Inserimento Professionale stipulato con il medesimo studio professionale.
Al contrario, tuttavia, Cass. 27314/2008 specifica che “è ben ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati dalle stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”; aspetto che in parte abbiamo già trattato negli elementi tipici del patto di prova e che qui si ripropone per sottolineare come una certa distanza temporale tra due rapporti di lavoro, tra medesimi soggetti e per la medesima tipologia di mansioni, possa anche, lì dove dimostrato, comportare la necessità di una nuova verifica delle qualità del prestatore di lavoro (nella fattispecie sottoposta alla valutazione del giudicante, l’intervallo temporale era stato di circa quattro anni).
Ma la recente analisi della Corte si è spinta anche oltre, considerando anche la possibilità di una variazione soggettiva del rapporto contrattuale.
La già citata sentenza n. 27805/2008, infatti, considera il caso in cui una lavoratrice socialmente utile ha lavorato prima per una ASL, poi per una sua ditta appaltatrice, con le medesime mansioni e per la medesima tipologia di lavoro. Ebbene, anche prescindendo da una evidenziata carenza probatoria in ordine all’“avere la [lavoratrice] già acquisito nel precedente rapporto di lavoro con la ASL le competenze necessarie allo svolgimento delle mansioni assegnate”, la Corte ritiene legittima l’apposizione, nel secondo rapporto, di un patto di prova (seguito da recesso della società appaltatrice), ritenendo “di tutta evidenza che l’avere la nuova assunta in precedenza svolto mansioni di archivio non esclude l’interesse del nuovo datore di lavoro di verificare il grado di preparazione e le attitudini allo svolgimento delle mansioni di cui la stessa sia in possesso”.
Al contrario, la poco più antica Cass. 22637/2004 insiste su un altro aspetto, che potremmo dire speculare al precedente: in questo caso, infatti, la lavoratrice presta la propria attività con le stesse mansioni e sempre all’interno della medesima struttura, ma prima in qualità di socia lavoratrice di una ditta appaltatrice, poi come diretta dipendente della struttura stessa. In questo caso, il patto di prova viene ritenuto “non funzionale alla sperimentazione della reciproca convenienza al contratto”, per “essere questa già avvenuta con esito positivo”.
Ulteriore elemento di estremo interesse, per l’oggetto della nostra analisi, è poi che la Corte ritiene dimostrabile tale circostanza anche “per presunzioni, essendo desumibile dalla sussistenza di un precedente rapporto di lavoro tra le parti o, come nella specie in esame, dall’avere in precedenza il lavoratore prestato per un congruo lasso di tempo la propria opera per il datore di lavoro”. Nel caso di specie, allora, risulta rilevante ed assorbente la circostanza per cui la “materiale prestazione di attività di lavoro all’interno dell’organizzazione imprenditoriale che ne ha tratto di fatto beneficio (e che ha poi proceduto all’assunzione del lavoratore), indipendentemente dalla circostanza, in concreto irrilevante, che il lavoratore fosse obbligato alla prestazione per l’attuazione di un diverso rapporto (nel caso ora in esame di società in una cooperativa di lavoro) e il destinatario effettivo della prestazione avesse diritto a pretenderla nei confronti di altro soggetto (la cooperativa)”.
L’interpretazione della Corte di Cassazione, dunque, appare anche qui coerente: ad essere considerato ai fini della valutazione della legittima e corretta ‘sperimentazione della convenienza’, non può essere il mero aspetto formale (tipologia del rapporto giuridico), bensì quello sostanziale (concreta possibilità di fare, o aver già fatto, tale valutazione).

6) Il recesso: a) motivazione.
Ma l’argomento sul quale la giurisprudenza, anche recente, della Corte trova le maggiori difficoltà nell’offrire un quadro giuridicamente coerente alla disciplina del patto di prova, è quello del recesso da parte del datore di lavoro e delle sue (eventuali) motivazioni. Sino ad oggi, infatti, le sentenze emanate dal Giudice delle Leggi continuano ad oscillare (a volte anche nell’ambito della stessa pronuncia) tra una tipologia di recesso ‘ad nutum’, come tale non motivato ed insindacabile da parte del prestatore di lavoro, ed una ipotetica ‘impugnabilità’ del licenziamento per insussistenza, o insufficienza, dei motivi.
Ricordiamo per un momento quanto sottolineato in precedenza: la univoca e dettagliata determinazione delle mansioni oggetto della ‘prova’ ha esattamente la funzione di rendere determinabile l’attività di valutazione stessa, che altrimenti, priva di riferimenti obiettivi, sarebbe contraria alla ratio del patto di poter sperimentare il comportamento professionale del lavoratore. Da cui, in logica conseguenza, l’eventuale nullità dello stesso in caso le motivazioni del recesso (esplicite o meno) possano prescindere da tale elemento di riferimento.
Ma tale linearità espositiva rimane in molti casi meramente teorica, come si anticipava.
La questione circa un’eventuale obbligatorietà delle motivazioni del recesso trova un (insuperabile?) ostacolo non solo nella giurisprudenza di Legittimità, bensì in quella della stessa Corte Costituzionale, che con la sentenza n.189 del 16 dicembre 1980 ha specificato come, dato che “nel sistema del codice civile (libro V, titolo II, sez. III) non è previsto l’obbligo dell’imprenditore di motivare il recesso dal contratto a tempo indeterminato e che tale obbligo è stato introdotto con l’art. 2 della legge n. 604 del 1966” e che “l’art. 2096, terzo comma, c.c., al di fuori dell’ambito di operatività della legge n. 604 del 1966, non sembra confliggere con gli invocati parametri costituzionali”, “ne deriva che la disposizione del c.c. (art. 2118) sul recesso dal contratto a tempo indeterminato [che obbliga solo nel dare il preavviso, ma non a fornire motivazione, n.d.r.] ha tuttora un suo campo di applicazione”. Ricordiamo infatti che l’art. 10 della L. 604/1966 esclude espressamente l’applicabilità di tale legge (che limita le possibilità di licenziamento in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai casi di giusta causa (art.1) o giustificato motivo (art.3), debitamente motivati) ai lavoratori “assunti in prova”, se non dal momento in cui “l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”.
La Corte Costituzionale sul punto è perentoria: non c’è previsione normativa che stabilisca l’obbligo di motivazione del recesso durante il patto di prova, così come né l’art. 35 né l’art. 4 della Carta garantiscono “il diritto alla conservazione del posto di lavoro”, né tantomeno una “applicazione indiscriminata del principio della giusta causa e del giustificato motivo nei licenziamenti, ma ‘lascia’ al legislatore ampia discrezionalità in materia” (da sent. Corte Cost. n. 129 del 1976).
Sin qui il ragionamento diretto alle fonti normative riferite, condivisibile o meno, appare logicamente consequenziale e giuridicamente esente da vizi. Ma è nel prosieguo che emergono le difficoltà.
A fronte di una, a nostro avviso condivisibile, ordinanza di rimessione del Giudice del Merito che lamentava la possibilità, in caso di recesso non doverosamente motivato, di una “assoluta discrezionalità garantita al datore di lavoro” e la possibilità di conseguenti comportamenti “vessatori e lesivi della dignità del lavoratore”, la Corte risponde che, attesa la presenza del precetto normativo del secondo comma dell’art. 2096 C.c. obbligante le parti “a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, “ne discende un primo limite alla discrezionalità dell’imprenditore”. Pertanto, il licenziamento intimato durante il periodo di prova “può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita […] quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato”.
Il Giudice delle Leggi, dunque, anche dalla lettura del dato normativo, sottolinea come il recesso non possa essere ‘assolutamente discrezionale’, ovvero tecnicamente ‘ad nutum’, ammettendo che “il lavoratore il quale ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale”. Il ragionamento della Suprema Corte, dunque, termina con la rassicurante conclusione che non riscontra “nelle disposizioni di legge censurate alcun attentato alla libertà ed alla dignità del lavoratore, soprattutto quando si riconosca la sindacabilità nei limiti anzidetti […] e l’annullabilità dell’atto nel quale si esprime, tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”.
A ben vedere, però, qui il ragionamento invece che chiarirsi, si fa inaspettatamente più confuso.
Ricapitoliamo: la Corte Costituzionale asserisce tanto la mancata presenza, nel nostro ordinamento, di un ‘principio generale di giustificazione del licenziamento’, individuabile esclusivamente nell’ambito applicativo della L. 604/1966, che l’inesistenza del dovere di motivare un atto giuridico di recesso che debba, però, tener conto dell’effettivo ‘esperimento’ delle proprie qualità, tecniche ma anche ‘personali’. Per far ciò, la Corte perviene così ad un concetto che lambisce da vicino un ossimoro logico e giuridico: quello di una discrezionalità ‘limitata’, ovvero di una “discrezionalità che si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore” ed in quanto tale suscettibile, coerentemente, di ‘prova contraria’ da parte del lavoratore.

Da qui i seguenti dubbi:
a) se la asserita ‘discrezionalità’ del datore è ‘limitata’, fino a che punto rimane ‘discrezionalità’, e fino a che punto non lo è più? Qual è il limite tra aspetti di natura soggettiva e quelli di natura oggettiva, in tale valutazione? Infatti
b) se addirittura può esser fornita ‘prova contraria’ da parte del lavoratore sulle sue competenze (e ciò la Corte lo ha chiaramente esplicitato), in cosa rimane ‘discrezionale’ la valutazione del datore di lavoro? E soprattutto
c) come può tutto questo essere compatibile con la resistente affermazione per la quale il provvedimento di recesso non avrebbe obbligo di motivazione? Al contrario non sarebbe, proprio sulla base di tale ragionamento, il ‘motivo’ posto alla base del recesso, l’unico fattore che potrebbe offrire una qualificazione ed un ambito dialettico sia alla ‘discrezionalità’ datoriale (che così si espliciterebbe) che alle eventuali contestazioni del lavoratore? Non sarebbe così, l’apposizione del motivo, l’unica garanzia in grado di rispecchiare e tutelare l’interesse di entrambe le parti?
d) Infine, non sembrerebbe la stessa Corte Costituzionale ‘suggerire’ la necessità di una motivazione quando ammette la “annullabilità dell’atto nel quale si esprime [il recesso del datore], tutte le volte che il lavoratore (in assenza di una motivazione o anche in presenza di una diversa motivazione apparente) lo provi illecitamente motivato”? Non si intravede quindi, anche nel parere della Corte Costituzionale, la consapevolezza che solo un recesso esplicitamente motivato potrebbe dar contezza tanto di una discrezionalità datoriale (vincolata però ad aspetti oggettivi e pertinenti) che di un legittimo (ma limitato) controllo del lavoratore?
Purtroppo, tale lontano ma autorevole precedente giurisprudenziale, con le contraddizioni che si sono illustrate, ha improntato delle sue incertezze argomentative tutta la giurisprudenza successiva del Giudice di Legittimità, che di volta in volta ha oscillato tra gli opposti di un recesso ‘ad nutum’ (la decisa maggioranza, anche recente) e quelli a favore di un maggior controllo sulla discrezionalità datoriale, molto spesso conviventi nella stessa decisione(cfr. ancora Cass. 17045/2005), ma in ciò facendo sottraendosi alla funzione c.d. ‘nomofilattica’ che ci si attende da tale giurisprudenza per ricevere un chiaro quadro di orientamento giuridico, sociale ed economico.

7) Il recesso: b) la prova.
Da quanto sin ora illustrato, ben si comprende come l’argomento dell’onere della prova, delle sue modalità e delle sue conseguenze, sia intimamente collegato all’interpretazione del patto stesso.
A seconda infatti che il dovere di motivazione, da parte del recedente, sia più o meno qualificato, deriva un più o meno ampio ‘dovere di prova’, a fronte di uno speculare ‘diritto di prova contraria’. Da questo punto di vista, quanto più ci avviciniamo ad una interpretazione ‘ad nutum’ del patto, tanto più escludiamo la possibilità stessa che ci possa essere sia ‘prova’ dei motivi del recesso, che conseguentemente ‘prova contraria’ da parte del soggetto che il recesso subisce.
Seguendo tale premessa, ad una interpretazione pienamente ‘ad nutum’, e quindi senza alcun obbligo di motivazione, corrisponderebbe una assoluta impossibilità di fornire prova contraria. Quanto più si allarga invece la possibilità di valutare i ‘motivi’ del recesso, tanto più si allargano le maglie entro le quali può inserirsi la possibilità di offrire prova contraria avverso comportamenti rescindenti ingiusti.
Và da sé, dunque, che i forti dubbi che si sono sollevati sulla opportunità e legittimità di una interpretazione del patto di prova come un’incondizionata ‘facoltà di recesso ad nutum’, pur limitata temporalmente, attengono principalmente alla possibilità, da parte di chi è destinatario di tale recesso, di poter avere strumenti di verifica e, nel caso, di difesa avverso azioni non giustificabili.
Oltre infatti a motivazioni di ordine generale, che dovrebbero suggerire un’estrema attenzione nell’individuazione di tali forme ‘ad nutum’, luogo principe di condotte ricattatorie e strumentali soprattutto nel settore del diritto del lavoro, i dubbi che si pongono in ordine ad una interpretazione di tal specie deriva, ancora una volta, dalle stesse letture che ne ha dato la Corte.
Pur con le incongruenze già sopra sottolineate, è ancora la sentenza n. 17045/2005 che, sul punto, specifica, nelle sue motivazioni, un passaggio estremamente importante. Dopo infatti aver affermato che, nel caso di specie, il riferimento alle mansioni contenute in un CCNL richiamato “si appalesava privo del necessario requisito di specificità”, la Corte sottolinea che “da ciò consegue che il recesso intimato dalla banca datrice di lavoro non si iscrive nell’eccezionale fattispecie di recesso ad nutum di cui all’art. 2096 C.c., esentato dall’applicabilità dell’ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento (art. 10 legge n. 604 del 1966), ma consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o giustificato motivo”. Ecco dunque che, in base a tale mutazione del titolo giuridico posto alla base dell’atto del datore di lavoro, “l’allegato mancato superamento della prova per inidoneità del [lavoratore] alle mansioni in concreto svolte ridonda in allegazione di un giustificato motivo di licenziamento rispetto al quale il controllo del giudice è pieno e non già limitato, come nel caso dell’art.2096 c.c., al riscontro dell’effettività dell’esperimento fatto e della mancanza di motivi discriminatori”.
In altre parole la Corte, ribadita la ‘eccezionalità’ della previsione di cui all’art. 2096 c.c. e confermata la facoltà di recesso ‘ad nutum’, pur compatibilmente con l’obbligo dell’effettività dell’esperimento della prova ed in assenza di motivi discriminatori, sancisce la mutazione del titolo di recesso in quello di licenziamento per giustificato motivo (oggettivo e soggettivo?), in ordine al quale il Giudice torna ad avere il pieno ‘controllo’ della motivazione.
L’importanza di tale ragionamento interpretativo, dunque, la si rinviene nel rendere particolarmente evidente il rapporto tra determinatezza (‘specificità’) dell’oggetto della prova, caratteristiche ‘eccezionali’ delle facoltà (‘ad nutum’) del datore di lavoro e limitato ‘controllo’ del Giudicante, ovvero della controparte, la cui ‘eccezionale’ disciplina, venuto meno uno degli elementi necessari, riporta (o “ridonda”) il recesso in una forma di licenziamento per giustificato motivo, restituendo così piena ‘cognitio’ alla fattispecie.
Tale ragionamento, conseguentemente, trova pieno riflesso nel regime delle prove, che godono in versione specularmente invertita, come abbiamo già sottolineato in apertura di paragrafo, dei medesimi limiti e dei medesimi ambiti di libertà.
Ancora una volta, dunque, l’argomento della ‘motivazione’ diventa, pur in presenza delle ambiguità già illustrate, il campo obiettivo rispetto al quale si confrontano le facoltà di agire delle parti, unitamente alle loro potenzialità probatorie ed allo stesso potere di ‘controllo’ dell’organo giudicante.
Se la (pur non obbligatoria) motivazione del recesso rappresenta ancora una volta, dunque, la forma più trasparente e difficilmente sindacabile di tale potere, l’esercizio di tale facoltà nelle forme più libere (‘ad nutum’), oltre a creare indubbie incertezze e difficoltà interpretative, sottopone a pericolose incertezze le parti coinvolte, soprattutto in relazione ad un soggetto terzo (giudice) il cui potere di sindacabilità e ‘controllo’, lì dove ritornato ‘pieno’, difficilmente potrebbe sostituirsi a valutazioni produttive che dovrebbero, in tali limiti, rimanere scelte soggettive del singolo imprenditore.
Anche per evitare il rischio di valutazioni terze che possano “ritenere illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già intervenuta con esito positivo” (sent. Cass. n. 27330/2008) , ovvero agire per pericolose “presunzioni” (sent. Cass. n. 22637/2004), risulta dunque quanto mai opportuno esplicitare, nell’atto di recesso, le sue motivazioni, per offrire da un lato la legittima trasparenza richiesta dalla controparte e dall’altro non dover essere costretti a fornire elementi di ‘oggettività’ a valutazioni che dovrebbero, e potrebbero, non superare tale vaglio.


Antonio M. Polito
avvocato del Lavoro

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