venerdì 4 giugno 2010

Le nuove frontiere del Diritto. danno da tradimento

Violazione dell’obbligo di fedeltà e danno esistenziale

Tribunale Rovigo, sez. Adria, ordinanza 11.05.2010 (Manuela Rinaldi)

Risarcimento del danno esistenziale a causa del tradimento e sequestro conservativo ante causam... è possibile?

Sembra di no...

Così, a quanto pare, ha stabilito con l'ordinanza 11 maggio 2010 il giudice Martinelli del Tribunale di Rovigo decidendo in merito ad una richiesta di sequestro conservativo da parte dell’ex coniuge per un “danno esistenziale” derivante, appunto, da violazione dell’obbligo di fedeltà (già peraltro causa di addebito della separazione giudiziale) .

La vicenda era questa: l’ex coniuge aveva richiesto l’emissione di un sequestro conservativo ante causam nei confronti della moglie, in quanto asseriva di vantare un diritto di credito per: a) spese legali (in riferimento ad alcuni giudizi intercorsi tra le parti), b) danno patrimoniale (in quanto costretto a trovare in locazione altro alloggio a seguito dell’assegnazione della casa coniugale alla moglie) e c) danno esistenziale per violazione dell’obbligo di fedeltà.

Sempre più spesso nelle cause di separazione si discutono gli effetti del tradimento.

Il discorso del risarcimento danni è diverso; il risarcimento può essere riconosciuto se l’infedeltà ha causato una compromissione della salute psichica, ad esempio una grave depressione, al coniuge offeso.

In questo caso si parla di danno biologico; ma esiste ancora un’altra ipotesi, è quella del danno esistenziale che si concreta nella violazione del diritto che ognuno ha ad una vita serena.

Il tema del risarcimento del danno da illeciti compiuti tra le mura domestiche, infatti, anima da non molti anni sia dottrina che giurisprudenza: la Cassazione non molto tempo fa aprì la strada a tale tipo di contenzioso.

Nella sentenza 10 maggio 2005, n. 9801 la Suprema Corte mise un punto fermo sulla questione della cumulabilità dei rimedi di carattere familiare e dell’azione risarcitoria.

Nella decisione de qua venne riconosciuto un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale al coniuge (superando la teoria dell’autonomia e indipendenza delle regole giuridiche che governano la famiglia….così si legge nella sentenza in oggetto…) non associando alla violazione dei doveri familiari tout court il danno, ma riconoscendo che, qualora tale condotta vada a ledere diritti fondamentali della persona, deve essere assicurata la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria al fine di ottenere la stessa tutela che l’ordinamento riconosce fuori dall’ambito familiare.

Nella sentenza in commento si legge testualmente che “…………Questa autorità in altra sede ha altresì ritenuto che il monito della Corte (SU 2008) andasse recepito non solo nello sforzo interpretativo di non duplicare le voci di danno, ma anche nella reiezione di categorie di pregiudizio prive di precisi limiti contenutistici e vacui riferimenti normativi. Per tale motivo non si ritiene sufficiente invocare genericamente la precettività dell’art. 2 della Costituzione per consentire l’integrazione dell’art. 2059 c.c. e rispettare la scelta normativa – più volte giustificata dalla Corte Costituzionale – di mantenere in subiecta materia la riserva di legge.

L’art. 2 della Carta Costituzionale non tipizza i diritti inviolabili della persona, rimessi alla determinazione della coscienza sociale di cui la giurisprudenza sarebbe soggetto recipiente, né indica una soglia di lesione minima, la cui determinazione ancora una volta viene rimessa alla coscienza sociale, sicché la originaria costruzione dogmatica richiamata non può ritenersi rispettosa del principio di tipicità né tanto meno quello della riserva di legge, poiché la norma in bianco sarebbe, per così dire, riempita nel suo contenuto attraverso l’applicazione di un’altra disposizione che a sua volta si presenta come “norma in bianco”, destinata ad essere integrata dalla coscienza sociale”.


Precedenti giurisprudenziali

Tribunale di Monza 11 marzo 2009, n. 818

La pronuncia di addebito non consegue automaticamente alla sussistenza di una o anche più violazioni degli obblighi coniugali, ma richiede l’ulteriore accertamento dell’esclusivo rapporto causale tra tali violazioni e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza coniugale.

La dichiarazione di addebito in capo a un coniuge non legittima di per sé alcuna forma risarcitoria nei confronti dell’altro, in quanto la domanda per il risarcimento di danni da violazione di obblighi coniugali trova fondamento nell’art. 2043 c.c. e non già nell’art. 151 c.c..

In ogni caso non qualsiasi violazione dei doveri familiari può giustificare il risarcimento del danno non patrimoniale, e perché tale danno sia risarcibile non è sufficiente che il fatto che lo ha cagionato sia ingiusto, ma è necessario che il fatto stesso incida su un interesse costituzionalmente protetto (Lex 24 & Repertorio 24, Conformi: Tribunale di Monza 1 dicembre 2008, n. 3270, 9 settembre 2008, n. 230).

In materia di separazione personale, la sola violazione dei doveri coniugali di cui all’art. 143 c.c. non è condizione sufficiente ai fini di una pronuncia di addebito, attesa la necessità di accertare in maniera rigorosa l’esistenza di una situazione di imputabilità a uno dei coniugi di comportamenti coscienti e volontari che rendano intollerabile la prosecuzione della convivenza coniugale, nonché il nesso di causalità tra detti comportamenti e l’insorgere della crisi coniugale (Cass. 28 maggio 2008, n. 14042, in Lex 24 & Repertorio 24).

Ai fini dell’addebitabilità della separazione, l’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, dal momento che solo tale comparazione permette di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano avuto, nelle loro reciproche interferenze, agli effetti della determinazione della crisi del matrimonio (Cass. 5 settembre 2008, n. 22545, in Lex 24 & Repertorio 24; Cass. 5 febbraio 2008, n. 2740, in Lex 24 & Repertorio 24).

Tribunale di Venezia (3 luglio 2006 in www.personaedanno.it): il marito era stato colto in flagranza di adulterio in auto e, uscito dalla vettura, aveva aggredito fisicamente la moglie con l’ausilio della amante, procurandole non solo lesioni (“eritema al collo con contusione cervicale e riferito dolore al cuoio capelluto da strappo”), ma anche un pregiudizio psicologico, che aveva richiesto l’intervento di un psicoterapeuta: la sentenza ha riconosciuto un complessivo danno patrimoniale e non patrimoniale di € 31.327,00.


Corte d’Appello di Brescia, 5 giugno 2007 in Giur. it, 2008, p. 899: ha riformato la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto alla moglie il danno non patrimoniale di € 40.000,00 perché il marito non solo aveva violato gli obblighi di fedeltà, ma aveva avuto una relazione omosessuale, parametrando la ingente somma - disconosciuta dal Giudice di seconde cure - sulla base della grave lesione della dignità e della personalità della moglie per aver consumato la relazione sessuale con un uomo.

Tribunale di Milano 4 giugno 2002

Pronunciata la separazione personale dei coniugi con addebito a uno di essi, è ipotizzabile a carico di quest’ultimo una responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c., in quanto inadempiente ai doveri coniugali, ove venga accertata sia l’obiettiva gravità della condotta assunta dall’agente in violazione di uno o più doveri nascenti dal matrimonio, sia la sussistenza di un danno oggettivo conseguente a carico dell’altro coniuge e la sua riconducibilità in sede eziologica non già alla crisi coniugale in quanto tale ma alla condotta trasgressiva, e perciò lesiva dell’agente, proprio in quanto posta in essere in aperta e grave violazione di uno o più dei doveri coniugali (Guida al Diritto, 2002, n. 24).

(Altalex, 28 maggio 2010. Nota di Manuela Rinaldi)


Tribunale di Rovigo

Sezione Adria

Ordinanza 11 maggio 2010

Il Giudice, sciogliendo la riserva assunta in data 4 maggio 2010, nella causa n. 110/2010 R.G.,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

K. ha chiesto l’emissione di un sequestro conservativo ante causam nei confronti dell’ex coniuge X., prospettando un diritto di credito di complessivi € 337.116,76, dei quali € 16.434,48 a titolo di credito per le spese legali liquidate in riferimento ai giudizi intercorsi tra le parti, € 120.682,28 a titolo di danno patrimoniale derivante dalla necessità di trovare un alloggio in locazione a causa dell’utilizzo esclusivo della resistente della casa in comproprietà e € 200.000,00 a titolo di “danno esistenziale” per violazione dell’obbligo di fedeltà, circostanza che aveva determinato la fine del rapporto amoroso e portato all’addebito della separazione giudiziale ad opera del Tribunale di Rovigo e della Corte di Appello di Venezia.

Lette le difese di parte resistente si ritiene non fondato il ricorso.

Occorre premettere che la tematica predominante il ricorso e in questa sede sommariamente affrontata è oggetto di continui mutamenti di indirizzo giurisprudenziale, di decisioni, per così dire, ondivaghe.

Rimanendo nei confini che il giudizio cautelare a cognizione sommaria impone, si può, infatti, evidenziare come i provvedimenti di merito citati dalle parti (in particolare Tribunale Milano, 4 giugno 2002, Tribunale di Venezia, 3 luglio 2006) si siano fondati su un assunto giuridico rigettato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite con le note sentenze dell’11 novembre 2008 (n. 26972 e ss.): il riconoscimento della autonoma valenza ed autonomia concettuale del “danno esistenziale”, qualificato quale peggioramento della qualità della vita della persona che ha subito un evento lesivo, giuridicamente fondato sull’integrazione della generale disposizione del neminem ledere (art. 2043 c.c.) da parte dell’art. 2 della Carta Costituzionale.

Orbene, la Suprema Corte ha, in un pregevole intento di reconductio ad unitatem, affermato la bipolarità del sistema risarcitorio, fondato sul binomio danno patrimoniale-danno non patrimoniale, riportando nell’alveo dell’art. 2059 c.c. tutte le possibili ipotesi di pregiudizio privo di immediata valenza patrimoniale. Nel far ciò, ribadendo la tradizionale qualifica di norma chiusa dell’art. 2059 c.c. – contrariamente a quanto riconosciuto all’art. 2043 c.c., definita quale norma in bianco il cui precetto è integrabile dalle disposizioni normative “panordinamentali” – la Corte di Cassazione ha ricordato come le disposizioni legislative che riconoscono il risarcimento del danno non patrimoniale siano l’art. 185 c.p., le norme di rango costituzionale e le altre ipotesi di rango ordinario ove tale riconoscimento sia espressamente contenuto (l’art. 2 della l. n. 117 del 13 aprile 1988, in materia di illegittima detenzione, l’art. 2 della l. n. 89 del 24 marzo 2001, in materia di eccessiva durata dei processi giudiziari, l’art. 29 della l. n. 675 del 31 dicembre 1996, in materia di illegittima acquisizione e disposizione dei dati personali e l’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 in materia di atti discriminatori per ragioni razziali, religiose o etniche).

Da ciò deriva che deve essere assolutamente smentita l’affermazione di parte ricorrente secondo la quale la violazione delle obbligazioni derivanti dagli artt. 143 e ss. c.c. possa integrare in sé un’ipotesi di risarcibilità del prospettato “danno esistenziale”.

Questa autorità in altra sede ha altresì ritenuto che il monito della Corte andasse recepito non solo nello sforzo interpretativo di non duplicare le voci di danno, ma anche nella reiezione di categorie di pregiudizio prive di precisi limiti contenutistici e vacui riferimenti normativi. Per tale motivo non si ritiene sufficiente invocare genericamente la precettività dell’art. 2 della Costituzione per consentire l’integrazione dell’art. 2059 c.c. e rispettare la scelta normativa – più volte giustificata dalla Corte Costituzionale – di mantenere in subiecta materia la riserva di legge.

L’art. 2 della Carta Costituzionale non tipizza i diritti inviolabili della persona, rimessi alla determinazione della coscienza sociale di cui la giurisprudenza sarebbe soggetto recipiente, né indica una soglia di lesione minima, la cui determinazione ancora una volta viene rimessa alla coscienza sociale, sicché la originaria costruzione dogmatica richiamata non può ritenersi rispettosa del principio di tipicità né tanto meno quello della riserva di legge, poiché la norma in bianco sarebbe, per così dire, riempita nel suo contenuto attraverso l’applicazione di un’altra disposizione che a sua volta si presenta come “norma in bianco”, destinata ad essere integrata dalla coscienza sociale.
 
Sarà, dunque, riservata alla sede di merito la verifica se la condotta ascritta alla resistente possa dirsi violatrice di altre disposizioni di rango costituzionale, rilevando come la parte ricorrente abbia fatto solo un generico riferimento all’art. 29, disposizione che sembra, tuttavia, riferirsi ad una tutela del nucleo familiare rispetto a condotte di “terzi”.

Né allo stato si è prospettata una lesione della dignità o di altro diritto della personalità determinato e riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale.

La Corte di Cassazione, nella sentenza 10 maggio 2005, n. 9801, ha – in linea con quanto testé esplicitato - riconosciuto un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale al coniuge (superando la c.d. teoria dell’autonomia e indipendenza delle regole giuridiche che governano la famiglia) non associando alla violazione dei doveri familiari tout court il danno, bensì riconoscendo che, qualora tale condotta leda diritti fondamentali della persona, deve essere assicurata la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere la stessa tutela che l’ordinamento riconosce fuori dall’ambito familiare (“Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all'interno di un contesto familiare; e dovendo dall'altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio - se ed in quanto posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona - riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (quali la separazione e il divorzio, l'addebito della separazione, la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare), dovendosi invece predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia (e sempre che ricorrano le sopra dette caratteristiche di gravità) quale fatto generatore di responsabilità aquiliana.”).

Quanto premesso consente di evidenziare profili di perplessità in ordine al fumus del riconoscimento del danno non patrimoniale come invocato.

In ogni caso, nell’ipotesi in cui il danno de quo fosse provato, riconosciuto e liquidato, non può il Giudice esimersi anche da una valutazione del prevedibile quantum posto che il periculum in mora del sequestro conservativo coincide con la prevedibile infruttuosità del riconoscimento del diritto di credito alla conclusione del giudizio di merito e, dunque, deve operarsi un giudizio di valore e bilanciamento tra il riconoscibile danno e le capacità patrimoniali dell’ipotetico debitore.



Senza alcuna intenzione di indicare in questa sede una somma di denaro, si evidenzia come il precedente citato da entrambe le parti (Tribunale di Milano del 4 giugno 2002) si qualifichi per una condotta ascritta all’autore dell’illecito assai grave, consistita non solo e non tanto nella violazione dei doveri di fedeltà, quanto in “un comportamento non certo episodico ed occasionale, ma protrattosi per mesi ed accompagnato da esplicite affermazioni dell’agente di aperto disinteresse per le sorti ed i bisogni della moglie e del figlio nascituro […] in concomitanza con i suoi frequentissimi allontanamenti da casa […] condotte apertamente e finanche platealmente abbandoniche nei riguardi del coniuge in condizione di particolare fragilità e bisognoso di assistenza e sostegno morale ed affettivo per via del suo stato di gravidanza” e tuttavia sia stata riconosciuta la somma di £ 10.000.000.

In altro precedente del Tribunale di Venezia (3 luglio 2006 in www.personaedanno.it) il marito era stato colto in flagranza di adulterio in auto e, uscito dalla vettura, aveva aggredito fisicamente la moglie con l’ausilio della amante, procurandole non solo lesioni (“eritema al collo con contusione cervicale e riferito dolore al cuoio capelluto da strappo”), ma anche un pregiudizio psicologico, che aveva richiesto l’intervento di un psicoterapeuta: la sentenza ha riconosciuto un complessivo danno patrimoniale e non patrimoniale di € 31.327,00.
Altro precedente (Corte d’Appello di Brescia, 5 giugno 2007 in giur. it, 2008, p. 899) ha riformato la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto alla moglie il danno non patrimoniale di € 40.000,00 perché il marito non solo aveva violato gli obblighi di fedeltà, ma aveva avuto una relazione omosessuale, parametrando la ingente somma – disconosciuta dal Giudice di seconde cure – sulla base della grave lesione della dignità e della personalità della moglie per aver consumato la relazione sessuale con un uomo.

Infine, nell’ambito di una valutazione totalmente equitativa non potrà non richiamarsi l’indicazione orientativa delle c.d. tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale. Nel caso di perdita di un figlio, massima espressione dello stravolgimento della vita di una persona e di sofferenza, le tabelle in uso presso questa autorità indicano un compasso da € 100.000,00 a € 300.000,00.

Evidenziati questi profili, deve ulteriormente osservarsi come la voce di danno indicata a p. 9 del ricorso (titoli in comunione) non sia stata riportata nella ricostruzione della richiesta risarcitoria di cui a p. 11, sicché non deve essere presa in considerazione. Incidentalmente si osserva come non vi sia prova dell’eventuale credito del ricorrente, il quale allo stato è meramente affermato.

Non sussiste neppure un fumus di fondatezza della domanda di riconoscimento del danno patrimoniale pari ad € 120.682,28, derivante dalla necessità di locare un appartamento a causa dell’utilizzo da parte della moglie della casa coniugale. Non solo, infatti, manca qualsivoglia prova del fatto che K. abbia effettivamente sostenuto tale costo, ovvero di un danno, ma la condotta neppure può esser sussunta nella fattispecie illecita, poiché l’utilizzo della casa coniugale è legalmente giustificata da provvedimenti giudiziali susseguitisi dopo la cessazione della convivenza (ordinanza presidenziale del 2002, doc. 4 del fascicolo di parte resistente; sentenza di separazione, doc. 1 del fascicolo di parte resistente;)

Resta, dunque, un credito derivante dalle spese liquidate in sede giudiziaria pari ad € 16.434,48.

Rapportato al credito indicato e al presumibile ed eventuale danno non patrimoniale, deve essere negato qualsivoglia profilo di periculum in mora.

In primo luogo è documentalmente provato un credito di X. per l’importo € 2.246,62, per spese di consulenza tecnica d’ufficio anticipate durante il giudizio di primo grado di separazione (doc. 6 del fascicolo di parte resistente), secondo quanto previsto dalla sentenza della Corte di Appello di Venezia (doc. 3 del fascicolo di parte ricorrente) e, a livello di cognizione sommaria, un ulteriore credito di € 4.301,66 per importi di spese sanitarie non coperte dal servizio sanitario (come previsto al p. 4 del dispositivo della sentenza di separazione), per le quali non si legge nella sentenza fosse necessario il preventivo assenso dell’altro coniuge (sulla necessità, straordinarietà dei lavori eseguiti dalla resistente sull’immobile in comproprietà non si ritiene di poter prendere posizione, difettando allo stato la prova del diritto di credito, del reale importo e della causale).

In secondo luogo vi è un’iscrizione ipotecaria a favore del ricorrente per l’importo vantato a titolo di spese legali (doc. 7 del fascicolo di parte ricorrente) che garantisce il diritto di credito.

In terzo luogo vi è una comprovata e non contestata capienza patrimoniale della resistente evincibile dalla dichiarazione dei redditi della resistente ove dal quadro RB (cfr. doc. 9 del fascicolo di parte resistente) si evince la titolarità (rectius contitolarità) di un immobile adibito ad abitazione, di uno studio, di altri quattro immobili e di un garage; a ciò aggiungasi la documentata capacità reddituale (pari ad una media di € 105.000,00 annui negli ultimi tre) e la con titolarità di ulteriori quattro beni immobili acquisita recentemente per successione della madre (doc. 10 del fascicolo di parte resistente).

Infine, deve evidenziarsi come non vi sia alcun elemento istruttorio dal quale evincere una volontà della resistente di sottrarsi al pagamento dei propri debiti: non è stato alienato alcun bene, né compiuto un atto prodromico o di altra natura idoneo a diminuire la garanzia patrimoniale (cfr. Cass., 13 febbraio 2002, n. 2081: “la motivazione del provvedimento di convalida del sequestro conservativo può far riferimento a precisi, concreti fattori tanto oggettivi che soggettivi, poiché il requisito del "periculum in mora" può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente presumere che, al fine di sottrarsi all'adempimento, ponga in essere atti dispositivi, idonei a provocare l'eventuale depauperamento del suo patrimonio”).
In conclusione il ricorso cautelare deve essere rigettato con condanna al pagamento delle spese processuali parametrate al valore della domanda.

P.Q.M.

A) RESPINGE il ricorso per sequestro ante causam;

B) CONDANNA K. alla rifusione delle spese processuali sostenute da X., quantificate in € 1.570,00 per diritti, € 3.250,00 per onorari, oltre spese generali al 12,5%, IVA e CPA come per legge.
Si comunichi alle parti.

Adria, 11 maggio 2010

IL GIUDICE

Dott. Mauro Martinelli



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