mercoledì 21 gennaio 2015

I DIRITTI DELLA FAMIGLIA DI FATTO


Autore: Germano Palmieri in www.giuffrè.it






I diritti della famiglia di fatto





Il denaro e gli altri beni - Gli acquisti - Il lavoro e la casa – Gli alimenti e il mantenimento - Se muore un convivente -  La convivenza more uxorio del coniuge separato o divorziato – Il PACS e il patto di convivenza – Gli aspetti penali





Un fenomeno sociale in costante aumento, vuoi per scelta vuoi per ragioni economiche o d’altra natura,  è quello della convivenza senza matrimonio, ossia di persone che, pur senza essere sposate, o essendolo state in passato, vivono more uxorio (dal latino mos, che significa usanza, costume, e uxor, che significa moglie), ossia come se fossero marito e moglie. Questo tipo di unione, correntemente denominato famiglia di fatto e che secondo l’ISTAT interessava nel 2012 circa 972.000 famiglie, non è disciplinata dal diritto, anche se diverse amministrazioni locali,  e soprattutto la giurisprudenza, si sono da tempo mosse nella direzione di un sia pur limitato riconoscimento di questa diffusa realtà; da diverse parti sociali e politiche, infatti, si caldeggia l’introduzione di istituti giuridici che consentano di regolare la convivenza more uxorio, in molti casi costituita da persone dello stesso sesso; fra questi il PACS   (patto civile di solidarietà), una sorta di via di mezzo fra il matrimonio e la famiglia di fatto; si tratta infatti del legame giuridico che potrebbe unire i componenti di una coppia  di fatto, sia eterosessuale che omosessuale, qualora venisse legalmente riconosciuto.  Al vuoto legislativo può in parte sopperire il cosiddetto patto di convivenza, con gli interessati che, assistiti da  un notaio e assumendosene  il relativo costo, concordano le regole destinate a disciplinare alcuni aspetti della convivenza: per es. misura e modalità di partecipazione alle spese comuni, gestione della casa, attribuzione della proprietà dei beni acquistati durante la convivenza, effetti economici conseguenti all’eventuale cessazione della stessa, mantenimento in caso di bisogno, designazione reciproca alla funzione di amministratore di sostegno in caso d’infermità o di menomazione fisica o psichica (la nomina dev’essere però  formalizzata davanti al giudice tutelare). Si tratta comunque di accordi-tampone, in attesa che il  Legislatore si decida a recepire, come da tempo avvenuto in altri Paesi (primo fra questi la Svezia), una serie di raccomandazioni formulate dal Parlamento Europeo.


Nell’ambito  della rete  di protezione apprestata dai giudici alla famiglia di fatto è stato considerato valido ed efficace il contratto di costituzione di usufrutto d’immobile stipulato tra due conviventi more uxorio, senza corrispettivo alcuno, nel presupposto che esso trovava il suo fondamento nella convivenza stessa e nell’assetto che i conviventi intendevano dare ai loro rapporti (Trib. Savona 7/3/2001). In precedenza il Tribunale di Roma (sentenza del 10/10/1985) aveva però stabilito che la convivenza more uxorio si risolve in una situazione caratterizzata da un complesso di rapporti unificati, sotto il profilo personale, dall’affectio coniugalis, e sotto il profilo economico dall’animus donandi; di conseguenza questo tipo di convivenza non può essere fonte di obbligazioni, non potendo considerarsi né un contratto né un fatto illecito. S’inquadra in questa ottica la sentenza della Cassazione (n. 9786 del 14/6/2012), per la quale il convivente more uxorio con il proprietario dell’abitazione in cui risiede la famiglia di fatto non ha il compossesso dell’abitazione ma la semplice detenzione, per cui non può acquistarne la proprietà per usucapione.


Degna di nota è la pronuncia della Corte Costituzionale n. 203 del 26/6/1997, per la quale il genitore extracomunitario di un minore che risieda legalmente in Italia con l’altro genitore ha il diritto di ricongiungersi ad essi nel nostro Paese, anche se padre e madre non sono sposati, a condizione che possa godere di normali condizioni di vita. A proposito di figli, in presenza di un conflitto tra conviventi more uxorio, pregiudizievole per i figli minori, il Tribunale per i minorenni può disporre l’affidamento degli stessi alla madre, attribuendo a quest’ultima il godimento esclusivo dell’abitazione familiare di cui è coinquilina, con conseguente allontanamento dell’altro genitore, tenuto a provvedere al mantenimento dei figli e, per la metà, alle spese di locazione di detta abitazione (Trib. minorenni Bari 11/6/1982). Per il Tribunale di Genova (sentenza del 23/2/2004, n. 845), una volta cessata la convivenza more uxorio, il convivente proprietario esclusivo dell’immobile precedentemente destinato alla convivenza ha il diritto di ottenerne il rilascio da parte dell’altro convivente, il quale non ha alcun titolo per continuare a utilizzarlo. Da ultimo la Cassazione (sentenza n. 109 del 5/1/2006) ha equiparato la coppia di fatto alla coppia sposata in materia  di gratuito patrocinio, statuendo che, per essere ammessi a questo beneficio, si deve tenere conto della somma dei redditi facenti capo all’interessato e agli altri familiari conviventi, compreso il convivente more uxorio.


Il denaro e gli altri beni


I conviventi more uxorio, nella maggior parte dei casi, mettono in comune i rispettivi beni mobili, dando così luogo, relativamente ad essi, al rapporto giuridico tecnicamente indicato come comunione. Trattasi però di comunione diversa da quella che caratterizza i rapporti economici intercorrenti fra coniugi, per cui il regime della comunione legale tra coniugi (art. 177 e segg. c.c.) non è applicabile ai conviventi more uxorio. In particolare, i beni apportati dai conviventi more uxorio in vista del futuro matrimonio devono considerarsi conferiti a titolo  di comunione pro indiviso, per cui se cessa la convivenza viene meno anche la comunione e ciascuno dei “comunisti” (è questa la denominazione tecnica di chi sta in comunione insieme ad altri) ha diritto, ai sensi dell’art. 1111 c.c., alla quota in natura da lui conferita, stimata al valore esistente al momento della cessazione della convivenza  e quindi della comunione (Pret. Torino, 17/3/1988).





Se i conviventi intrattengano un rapporto di conto corrente cointestato, alla cessazione della convivenza le somme a credito nel conto devono considerarsi appartenenti in parti uguali a ciascuno dei conviventi: ciò anche nel caso in cui si dimostri che soltanto l’uomo aveva originariamente la proprietà delle somme via via depositate, mentre la donna, durante la convivenza, si era completamente dedicata alla famiglia di fatto, come casalinga, poiché le somme risparmiate e come sopra depositate  devono considerarsi destinate alle spese riguardanti la famiglia stessa, secondo gli usi (Trib. Bolzano, 20/1/2000).





Gli acquisti


L’inapplicabilità, ai conviventi more uxorio,  del regime di comunione legale fra coniugi, è stata ribadita dal Tribunale di Pisa (sentenza del 20/1/1988), sul presupposto che la famiglia fondata sul matrimonio gode di netta  supremazia, anche costituzionale, rispetto alla  famiglia di fatto, e che non è di conseguenza sostenibile un’equiparazione tra le due forme di convivenza; alla luce di ciò i giudici pisani hanno stabilito che,  qualora uno dei conviventi more uxorio abbia acquistato un immobile solo a proprio nome, il partner non può, allo scioglimento del rapporto, considerarsi contitolare pro indiviso del bene, salvo il caso in cui venga data esauriente e rituale prova della sussistenza di una donazione indiretta, o di un’interposizione reale di persona, o dell’adempimento spontaneo e consapevole di un’obbligazione naturale. Né assume rilievo, ai fini della possibilità di divenire comproprietario del bene, che il convivente abbia falsamente dichiarato nel rogito di essere coniugato con l’acquirente (App. Firenze, 12/2/1991). Questa stessa sentenza ha escluso che, in ordine agli incrementi patrimoniali  verificatisi durante la convivenza more uxorio in capo a un convivente, il partner abbandonato possa vantare un diritto (di credito) per conguagli o rimborsi; trattasi però, come si comprende, di situazioni che vanno esaminate caso per caso.





Il lavoro


Al fine di stabilire se le prestazioni lavorative svolte nell’ambito di una convivenza more uxorio diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato o non siano piuttosto riconducibili allo schema della comunione tacita familiare di cui all’art. 230-bis c.c., è possibile escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi, che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto (Cass. 13/12/1986, n. 7486, e 19/12/1994, n. 10927); altrimenti, infatti, è da ritenere che ci si trovi in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto della convivente (è la donna, di regola, a trovarsi in questa condizione) ad esigere il relativo trattamento economico e previdenziale.


Il Tribunale di Milano  (sentenza del 5/10/1988) ha precisato che la convivenza more uxorio costituisce titolo idoneo a fondare una presunzione di gratuità delle prestazioni di lavoro rese dalla convivente solo quando la convivenza preveda un’equa ed effettiva partecipazione agli incrementi patrimoniali della famiglia di fatto; fuori di tale ipotesi la prestazione di lavoro, se non retribuita, è astrattamente idonea a configurare un depauperamento del prestatore e un arricchimento senza causa del convivente, con conseguente diritto a promuovere le opportune iniziative giudiziarie volte al recupero del dovuto.





La casa


Un aspetto molto sentito è quella della successione del convivente nel contratto di locazione stipulato dall’altro ed avente per oggetto la casa familiare. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 404 del 7/4/1988, ha sancito l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 6 della L. 27/7/1978, n. 392 (cosiddetta legge dell’equo canone), nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione in caso di morte del conduttore, in aggiunta al coniuge, agli eredi, e ai parenti ed affini con lui abitualmente conviventi,  il convivente more uxorio (il diritto di subentrare spetta al convivente indipendentemente dal fatto che manchino eredi legittimi del conduttore, Cass. 8/6/1994, n. 5544). La Suprema Corte (sentenza n. 3548 del 12/12/2012) ha ammesso il subentro nel contratto di locazione anche del convivente di una persona, poi deceduta, che era subentrata nel contratto all’originario conduttore.


L’abituale convivenza con il conduttore defunto va accertata alla data del decesso di questi, a nulla rilevando che gli aventi diritto alla successione nel contratto siano o meno rimasti nell’alloggio locato dopo la morte del dante causa, poiché la successione mortis causa nel contratto di locazione è fatto giuridico istantaneo che si realizza (o non si realizza) all’atto stesso della morte del conduttore, restando insensibile agli accadimenti successivi (Cass. 1/8/2000, n. 10034). Non è quindi necessario che la convivenza preesistesse al contratto, né che il locatore fosse a conoscenza della convivenza stessa (Cass, 10/10/1997, n. 9868); quest’ultima sentenza ha riconosciuto al convivente il diritto di subentrare nel contratto di locazione al convivente-conduttore anche nel caso di allontanamento di questi dall’immobile locato. A proposito di allontanamento, in presenza di una relazione di fatto non transitoria e tale da realizzare una stabile convivenza, il convivente more uxorio è legittimato ad agire in reintegrazione contro l’altro convivente che lo abbia estromesso dall’abitazione comune (Trib. Perugia  22/9/1997). Il diritto di subentrare nel contratto di locazione spetta al convivente anche nel caso in cui il defunto fosse contitolare del rapporto insieme ad altri (Cass. 17/6/1995, n. 6910).


Per quanto riguarda il pagamento del canone di locazione, il Tribunale di Firenze (sentenza del 4/12/1992) ha stabilito che  non sussiste una responsabilità solidale, o sussidiaria, in capo all’originario conduttore (e quindi in capo ai suoi eredi), in relazione all’inadempimento dell’obbligo contrattuale di pagare il corrispettivo della locazione gravante sul convivente more uxorio succeduto nel contratto di locazione ex art. 6 L. n. 392/1978: del pagamento, quindi, risponde soltanto  quest’ultimo dal momento in cui subentra nel contratto.


Qualora la casa sia stata assegnata ai conviventi in comodato da un terzo, questi, in presenza di figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, in caso di rottura della convivenza non può esigere l’immediata restituzione del bene ai sensi del secondo comma dell’art. 1809 c.c.; con la fine della convivenza, infatti, al pari di quanto previsto per il caso di crisi matrimoniale, il contratto dev’essere considerato tacitamente assoggettato a termine, per il periodo normalmente necessario affinché il comodatario si serva della cosa secondo l’uso pattuito, ai sensi della seconda parte del primo comma del citato articolo (Trib. Roma 6/11/2009, n. 21565). Può accadere che un convivente abbia provveduto a pagare gli importi dovuti alla cooperativa edilizia di cui era socio l’altro per la prenotazione di un appartamento; verificandosi un’evenienza del genere egli può chiedere all’altro la restituzione delle somme pagate nel suo interesse (Trib. Genova, 27/3/1998), provando che non si tratta di obbligazione naturale (non essendo state le erogazioni destinate ai bisogni della vita della famiglia di fatto), di liberalità d’uso (ossia che non sussiste una sostanziale equivalenza economica tra le dazioni del convivente e i servizi allo stesso resi dalla beneficiaria nel corso della coabitazione) o di altro tipo di liberalità (dimostrando che manca la prova dell’animus donandi, non potendo questa presumersi per il mero fatto della convivenza).


Se la casa familiare appartiene ad entrambi i conviventi, e vi sono figli minori, in caso di cessazione della convivenza, in applicazione analogica dell’art. 155, quarto comma, c.c., essa può essere assegnata a quello che sia affidatario dei figli minori (Trib. Palermo 20/7/1993). Sempre nell’interesse preminente della prole, il Tribunale di Firenze (sentenza del 28/6/1998) ha stabilito che il genitore affidatario del figlio minore, o maggiorenne non economicamente autosufficiente, nato durante la convivenza more uxorio e riconosciuto da entrambi i genitori, ha diritto all’assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva dell’altro genitore, affinché  il figlio possa usufruire dell’ambiente domestico in cui è vissuto e possa limitare il disagio e le difficoltà conseguenti alla cessazione della convivenza fra i genitori.


Non è raro che un convivente  esegua dei lavori di ristrutturazione e/o ampliamento nella casa di proprietà dell’altro; in tal caso egli, in quanto assimilabile a un ospite (Trib. Larino 21/10/1994), non ha diritto al pagamento di una somma corrispondente all’incremento di valore fatto registrare dal fabbricato di proprietà dell’altro, a meno che non provi che le sue dazioni eccedono l’assolvimento dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c. Sulla stessa linea interpretativa il Tribunale di Roma, che con sentenza del 30/10/1991 ha stabilito che le somme spese da un convivente more uxorio attraverso l’impresa edile di cui era titolare, per ristrutturare la casa di proprietà esclusiva del partner, nella quale la coppia aveva abitato, non sono ripetibili, considerata la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra partner conviventi, presunzione che può essere vinta solo dalla rigorosa prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso, tra le parti, o dall’accordo per una ripetizione delle somme impiegate per i lavori effettuati. Una  successiva decisione della Cassazione (n. 3713 del 13/3/2003) ha infine stabilito che la presunzione di gratuità delle prestazioni rese da una parte nei confronti dell’altra viene meno allorquando risulti che la prestazione stessa esula dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e alle condizioni sociali delle parti, ma si configuri come mera operazione economica che abbia determinato un inspiegabile e illogico arricchimento del convivente con proprio ingiusto danno (nel caso di specie il convivente aveva acquistato i materiali e lavorato nel tempo libero per costruire due edifici sul terreno di proprietà della donna, con conseguente, ingiusto arricchimento a beneficio di questa).


Se la convivenza  cessa con l’allontanamento di uno dei conviventi dalla casa, di proprietà comune, dove entrambi vivevano con la prole, rimasta nell’alloggio con l’altro genitore, viene meno la situazione di compossesso che caratterizzava la precedente situazione di fatto; essendo pertanto  il possesso esclusivo dell’abitazione  rimasto ad uno solo dei conviventi, questi può cambiare la serratura (e relative chiavi) della porta d’ingresso della casa ed esperire l’azione di reintegrazione nei confronti dell’ex partner che, con uno stratagemma violento e clandestino, si sia impossessato delle nuove chiavi al fine di potere rientrare nell’abitazione a suo piacimento (Pret. Torino 11/11/1991). Non commette invece spoglio il convivente  che, dopo la morte del partner, impedisca all’erede l’accesso nell’immobile già abitazione della coppia (Pret. Venezia-Mestre 16/4/1996). Cass. n. 10102  del 26/5/2004 ha esteso all’ipotesi della convivenza more uxorio il diritto di continuare ad abitare la casa familiare in favore del genitore non proprietario di essa, cui siano stati affidati i figli minorenni, o che conviva con figli maggiorenni non ancora autosufficienti per motivi indipendenti dalla loro volontà.


Infine, qualora, per effetto della tensione venutasi a determinare tra i conviventi, la prosecuzione della convivenza divenga fonte di pericolo, il convivente che ha in proprietà o in locazione la casa familiare può ottenere dal giudice un provvedimento d’urgenza che ordini all’altro di abbandonarla, essendo da escludere la sussistenza di un rapporto di sublocazione (Pret. Milano 31/3/1990); sublocazione esclusa, con riferimento alla convivenza more uxorio, anche dal Tribunale di Roma (sentenza del 20/11/1982), per cui il locatore non è legittimato a chiedere la risoluzione del contratto deducendo che il conduttore ha sublocato l’immobile al convivente. Se invece il rapporto affettivo si esaurisce senza traumi particolari, il proprietario della casa non può estromettere il convivente su due piedi ma deve dargli il tempo di trovare un’altra sistemazione  (Cass. 21/3/2013, n. 7214).





Gli alimenti e il mantenimento


Gli alimenti (art. 433 c.c.) si fondano sul vincolo di solidarietà che lega, o almeno dovrebbe legare, le persone fra le quali corre taluno dei rapporti indicati dalla legge: per es. coniugio, parentela e affinità entro certi gradi. Qualora si verifichi lo stato di bisogno dell’avente diritto (si deve trattare di persona compresa fra quelle indicate dalla legge e comunque non in grado di provvedere a se stessa), l’obbligato  -o, se vi sono più obbligati, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze- può scegliere fra il corrispondere all’alimentando un assegno a questo titolo, oppure accoglierlo e mantenerlo nella propria casa. L’obbligo di somministrare gli alimenti viene meno, fra l’altro, se muore l’obbligato o se cessa lo stato di bisogno dell’avente diritto. Il diritto agli alimenti ha natura patrimoniale (ossia ha un contenuto economicamente valutabile), ma a differenza degli altri diritti patrimoniali non è cedibile, essendo intimamente connesso, come già detto, allo stato di bisogno del titolare. Concetto più ampio di alimenti è quello di mantenimento, consistente non nel somministrare all’avente diritto di che vivere, ma nell’assicurargli un tenore di vita proporzionato alla propria condizione economica; rientrano così nel concetto, per esempio, l’abbigliamento, l’istruzione, i mezzi di trasporto e di comunicazione (Cass. 11/12/2008, n. n. 45809).


Il convivente more uxorio non ha diritto agli alimenti, e tantomeno al mantenimento, poiché la convivenza concretizza una situazione di fatto, caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale, cui non si ricollegano diritti e doveri se non di carattere morale (Trib. Napoli 8/7/1999); è invece legittimato a chiedere un contributo per il mantenimento di eventuali figli avuti dal convivente, trattandosi di richiesta fondata sull’obbligo dei genitori di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati.





Se muore un convivente


Particolarmente pesanti possono essere le conseguenze economiche (a parte ovviamente quelle affettive) in caso di morte di un convivente. Se l’evento è stato provocato da terzi,  si pone il problema  se il convivente della vittima possa agire nei confronti del responsabile per il risarcimento del danno. La Cassazione (sentenza n. 23725 del 16/9/2008, n. 23725) ha stabilito che il  diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto -sia con riguardo al danno morale che a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato- anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. Il Tribunale di Milano (sentenza n. 9965 del 12/9/2011) ha esteso il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito al convivente more uxorio dello stesso sesso, mentre il Tribunale di Verona (sentenza del 26/9/2013) ha sancito il  risarcimento del danno non patrimoniale in capo al convivente anche nel caso in cui l’altro abbia riportato una lesione all’apparato sessuale per negligenza o imperizia medica.  Per  il Tribunale di Roma (sentenza del 9/7/1991)  il diritto al risarcimento del danno patrimoniale ed extrapatrimoniale compete sia a causa del trauma psichico subìto, sia per la privazione di sostegno morale, sia, infine, per la perdita di un’entrata che si sarebbe ragionevolmente presunta come duraturo contributo economico proveniente dall’attività lavorativa del defunto, a nulla rilevando il fatto della convivenza con quest’ultimo o la qualità di erede di colui cui spetta tale risarcimento; alla luce di questo criterio i giudici romani hanno pertanto stabilito che, qualora il defunto, sposato con figli legittimi, abbia convissuto more uxorio con un’altra donna, il suddetto diritto compete sia ai componenti  della famiglia legittima che a quelli della famiglia di fatto; fermo restando che, mentre il diritto al risarcimento del danno morale dev’essere riconosciuto a tutti costoro, il ristoro del danno patrimoniale dev’essere  negato ai componenti della famiglia legittima qualora una serie di circostanze (quali il difetto di prova in ordine alla sistematica corresponsione di assegni da parte del defunto, la mancanza della convivenza, il carico della famiglia di fatto e le condizioni finanziarie del defunto)  non consentano ragionevoli presunzioni di perdite economiche. In tema di risarcimento del danno occorso a un convivente da un sinistro stradale, se questo è stato  provocato dall’altro, egli, per il Tribunale di Piacenza (sentenza del 20/7/1985), è assimilabile al coniuge ai fini dell’esclusione dal novero dei terzi che usufruiscono dei benefici derivanti dal contratto di assicurazione; la ratio dell’esclusione di alcune categorie, come stabilite dall’art. 4 della L. n. 990/1969, dai suddetti benefici, va infatti ricercata sia nell’unicità della sfera patrimoniale tra danneggiato e danneggiante, che potrebbe comportare, qualora fosse riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, un indebito arricchimento dell’assicurato in danno dell’assicuratore, sia nella possibilità di facili collusioni tra soggetti legati da stretti vincoli di parentela o da vincoli di convivenza o di dipendenza economica.


Se uno o entrambi i conviventi hanno alle spalle un matrimonio per il quale non sia ancora intervenuto divorzio, e non si vuole, in caso di morte improvvisa, favorire il coniuge separato, può essere  prudente fare testamento in favore del convivente, avendo però cura di non ledere la quota che la legge riserva allo stesso coniuge separato, ai figli e, ricorrendone i presupposti, agli ascendenti legittimi.





La convivenza more uxorio del coniuge separato o divorziato


Accade di frequente che un coniuge separato o  divorziato vada a convivere more uxorio con un’altra persona. In tal caso la convivenza, se acquista carattere di stabilità e affidabilità, e incide positivamente sulla situazione economica del coniuge separato o divorziato, annullandone o riducendone lo stato di bisogno, e risolvendosi quindi in una fonte effettiva e costante di reddito, anche se non comporta per i conviventi alcun diritto al mantenimento reciproco, può incidere sull’ammontare dell’assegno di mantenimento fissato in sede di separazione o di divorzio, legittimando la parte obbligata a  corrisponderlo a chiederne, a seconda delle circostanze, la riduzione (Cass. 22/4/1993, n. 4761) o la sospensione (Trib. Genova 2/6/1990, Cass. 4/4/1998, n. 3503). Per il Tribunale di Lamezia Terme (decreto dell’1/12/2011) la convivenza di fatto dell’ex moglie e la nascita di un figlio dal nuovo partner fanno venir meno il diritto  all’assegno di mantenimento.


La prova della convivenza e, soprattutto, del miglioramento delle condizioni economiche del coniuge separato o divorziato, è ovviamente a carico del coniuge tenuto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento e dev’essere inequivocabile: i giudici, per esempio (Cass. 2/9/2004, n. 17684), hanno stabilito che la targhetta sull'ingresso di casa, con i nomi dell’ex moglie e del nuovo compagno, le foto attestanti il parcheggio dell'auto della stessa presso l'abitazione del compagno  e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la collaborazione lavorativa con il convivente, non costituiscono circostanze tali da poter essere  considerate, da sole, prova sufficiente a dimostrare la stabile convivenza more uxorio dell’ex moglie e il connesso miglioramento delle condizioni economiche della stessa, con conseguente giustificazione della richiesta di riduzione dell’assegno di mantenimento in capo all’ex marito; la convivenza more uxorio, infatti, ha natura intrinsecamente precaria, non determina obblighi di mantenimento e non ha quella stabilità giuridica, propria del matrimonio, presupposta dalla definitiva cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile (Cass. 26/1/2006, n. 1546). Questa stessa sentenza ha però escluso che l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile possa risorgere in caso di cessazione della convivenza, poiché è prevista la cessazione e non la mera sospensione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile. Con sentenza n. 17195 dell’11/8/2011 la Suprema Corte ha mutato orientamento, avendo stabilito che, in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuato da uno degli ex coniugi, rescinde  sia ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale, sia il diritto, in capo al destinatario, di ricevere l’assegno divorzile, assegno che entra però in uno stato di quiescenza, salvo rivivere in caso di cessazione della convivenza.





Gli aspetti penali


Alla famiglia di fatto riserva sempre più frequente attenzione il giudice penale. La Cassazione, per esempio (sentenza n. 32190 del 21/5/2009),  ha considerato non punibile il furto commesso in danno del convivente more uxorio, assimilandolo cosi al coniuge non separato ex art. 649 c.p.: questa norma, infatti, sancisce la non punibilità di alcuni reati (tra questi l’appropriazione indebita, la truffa e, appunto, il furto) se commessi in danno di taluna delle persone in esso indicate, tra cui il coniuge non legalmente separato  (la differenza tra furto e appropriazione indebita risiede nel fatto che, mentre nel furto l’oggetto del reato si trova nella sfera d’azione del derubato, nell’appropriazione indebita si trova nella sfera d’azione di chi commette il reato). La Suprema Corte ha invece considerato punibile, ma soltanto a querela dell’offeso, il furto commesso in danno dell’ex convivente more uxorio, privilegiando così, in entrambi i casi, l’intento di favorire la riconciliazione rispetto alla punizione del responsabile.  Sotto il profilo civilistico, il convivente more uxorio che sia stato spogliato del bene ad opera del partner è legittimato ad esercitare l’azione di reintegrazione in quanto - sia pure con altra persona - possiede un interesse proprio  non paragonabile a quello dell’ospite o della persona di servizio (Pret. Perugia, 29/9/1994). In  precedenza la Corte Costituzionale (sentenza n. 352 del 25/07/2000)  aveva stabilito che la  non punibilità dei reati contro il patrimonio commessi in danno del coniuge non legalmente separato non si estende al convivente more uxorio, poiché questo tipo di convivenza, “mancando dei caratteri di stabilità e certezza”, non è assimilabile al vincolo coniugale al fine di desumerne un’esigenza costituzionale di parificazione del trattamento;  ciò anche se  “stabilità e certezza” di molte coppie di fatto superano di gran lunga quella di altrettante coppie unite in matrimonio.


Il Pretore di Savona (sentenza del 27/11/1992) ha stabilito che chi s’introduce nell’abitazione dalla quale l’ex convivente more uxorio lo ha allontanato  rimuovendone  tutti gli effetti personali, convinto  di rientrare a “casa sua”, non pone in essere il reato di violazione di domicilio ex art. 614 c.p., ma quello meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ai sensi dell’art. 392 c.p. Al convivente more uxorio che abbia commesso il reato di favoreggiamento personale in favore dell’altro, invece, la Suprema Corte  (sentenza n. 2082 del 17/2/2009) non ha ritenuto applicabile la causa di non punibilità di cui al primo comma dell’art. 384 c.p., operante per il coniuge, né, con riferimento alla ricettazione,  la causa  di esclusione della punibilità prevista per il coniuge dal citato art. 649 c.p. (sentenza n. 44047 del 13/10/2009).


Altre fattispecie portate all’attenzione del giudice penale. E’ stato ritenuto responsabile del reato di sfruttamento della prostituzione il convivente more uxorio a conoscenza del fatto che i proventi che la donna gli erogava per il sostentamento derivavano dall’esercizio della prostituzione (Cass. 17/7/1987). La Corte d’Assise di Milano (sentenza del 9/7/2009)  ha statuito che il reato di cui all’art. 591 c.p. (abbandono di persone minori o incapaci) è configurabile anche a carico di chi abbandoni il convivente more uxorio in stato d’incapacità di provvedere a se stesso, mentre la Cassazione (sentenza n. 40727 del 2/10/2009) ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona convivente more uxorio, quando vi sia un rapporto tendenzialmente stabile.  La stessa  Suprema Corte, infine (sentenza n. 109 del 5/1/2006), ha equiparato la coppia di fatto alla coppia sposata in materia  di gratuito patrocinio.



I DIRITTI DELLA FAMIGLIA DI FATTO

Autore: Germano Palmieri in www.giuffrè.it
I diritti della famiglia di fatto

Il denaro e gli altri beni - Gli acquisti - Il lavoro e la casa – Gli alimenti e il mantenimento - Se muore un convivente -  La convivenza more uxorio del coniuge separato o divorziato – Il PACS e il patto di convivenza – Gli aspetti penali

Un fenomeno sociale in costante aumento, vuoi per scelta vuoi per ragioni economiche o d’altra natura,  è quello della convivenza senza matrimonio, ossia di persone che, pur senza essere sposate, o essendolo state in passato, vivono more uxorio (dal latino mos, che significa usanza, costume, e uxor, che significa moglie), ossia come se fossero marito e moglie. Questo tipo di unione, correntemente denominato famiglia di fatto e che secondo l’ISTAT interessava nel 2012 circa 972.000 famiglie, non è disciplinata dal diritto, anche se diverse amministrazioni locali,  e soprattutto la giurisprudenza, si sono da tempo mosse nella direzione di un sia pur limitato riconoscimento di questa diffusa realtà; da diverse parti sociali e politiche, infatti, si caldeggia l’introduzione di istituti giuridici che consentano di regolare la convivenza more uxorio, in molti casi costituita da persone dello stesso sesso; fra questi il PACS   (patto civile di solidarietà), una sorta di via di mezzo fra il matrimonio e la famiglia di fatto; si tratta infatti del legame giuridico che potrebbe unire i componenti di una coppia  di fatto, sia eterosessuale che omosessuale, qualora venisse legalmente riconosciuto.  Al vuoto legislativo può in parte sopperire il cosiddetto patto di convivenza, con gli interessati che, assistiti da  un notaio e assumendosene  il relativo costo, concordano le regole destinate a disciplinare alcuni aspetti della convivenza: per es. misura e modalità di partecipazione alle spese comuni, gestione della casa, attribuzione della proprietà dei beni acquistati durante la convivenza, effetti economici conseguenti all’eventuale cessazione della stessa, mantenimento in caso di bisogno, designazione reciproca alla funzione di amministratore di sostegno in caso d’infermità o di menomazione fisica o psichica (la nomina dev’essere però  formalizzata davanti al giudice tutelare). Si tratta comunque di accordi-tampone, in attesa che il  Legislatore si decida a recepire, come da tempo avvenuto in altri Paesi (primo fra questi la Svezia), una serie di raccomandazioni formulate dal Parlamento Europeo.
Nell’ambito  della rete  di protezione apprestata dai giudici alla famiglia di fatto è stato considerato valido ed efficace il contratto di costituzione di usufrutto d’immobile stipulato tra due conviventi more uxorio, senza corrispettivo alcuno, nel presupposto che esso trovava il suo fondamento nella convivenza stessa e nell’assetto che i conviventi intendevano dare ai loro rapporti (Trib. Savona 7/3/2001). In precedenza il Tribunale di Roma (sentenza del 10/10/1985) aveva però stabilito che la convivenza more uxorio si risolve in una situazione caratterizzata da un complesso di rapporti unificati, sotto il profilo personale, dall’affectio coniugalis, e sotto il profilo economico dall’animus donandi; di conseguenza questo tipo di convivenza non può essere fonte di obbligazioni, non potendo considerarsi né un contratto né un fatto illecito. S’inquadra in questa ottica la sentenza della Cassazione (n. 9786 del 14/6/2012), per la quale il convivente more uxorio con il proprietario dell’abitazione in cui risiede la famiglia di fatto non ha il compossesso dell’abitazione ma la semplice detenzione, per cui non può acquistarne la proprietà per usucapione.
Degna di nota è la pronuncia della Corte Costituzionale n. 203 del 26/6/1997, per la quale il genitore extracomunitario di un minore che risieda legalmente in Italia con l’altro genitore ha il diritto di ricongiungersi ad essi nel nostro Paese, anche se padre e madre non sono sposati, a condizione che possa godere di normali condizioni di vita. A proposito di figli, in presenza di un conflitto tra conviventi more uxorio, pregiudizievole per i figli minori, il Tribunale per i minorenni può disporre l’affidamento degli stessi alla madre, attribuendo a quest’ultima il godimento esclusivo dell’abitazione familiare di cui è coinquilina, con conseguente allontanamento dell’altro genitore, tenuto a provvedere al mantenimento dei figli e, per la metà, alle spese di locazione di detta abitazione (Trib. minorenni Bari 11/6/1982). Per il Tribunale di Genova (sentenza del 23/2/2004, n. 845), una volta cessata la convivenza more uxorio, il convivente proprietario esclusivo dell’immobile precedentemente destinato alla convivenza ha il diritto di ottenerne il rilascio da parte dell’altro convivente, il quale non ha alcun titolo per continuare a utilizzarlo. Da ultimo la Cassazione (sentenza n. 109 del 5/1/2006) ha equiparato la coppia di fatto alla coppia sposata in materia  di gratuito patrocinio, statuendo che, per essere ammessi a questo beneficio, si deve tenere conto della somma dei redditi facenti capo all’interessato e agli altri familiari conviventi, compreso il convivente more uxorio.
Il denaro e gli altri beni
I conviventi more uxorio, nella maggior parte dei casi, mettono in comune i rispettivi beni mobili, dando così luogo, relativamente ad essi, al rapporto giuridico tecnicamente indicato come comunione. Trattasi però di comunione diversa da quella che caratterizza i rapporti economici intercorrenti fra coniugi, per cui il regime della comunione legale tra coniugi (art. 177 e segg. c.c.) non è applicabile ai conviventi more uxorio. In particolare, i beni apportati dai conviventi more uxorio in vista del futuro matrimonio devono considerarsi conferiti a titolo  di comunione pro indiviso, per cui se cessa la convivenza viene meno anche la comunione e ciascuno dei “comunisti” (è questa la denominazione tecnica di chi sta in comunione insieme ad altri) ha diritto, ai sensi dell’art. 1111 c.c., alla quota in natura da lui conferita, stimata al valore esistente al momento della cessazione della convivenza  e quindi della comunione (Pret. Torino, 17/3/1988).

Se i conviventi intrattengano un rapporto di conto corrente cointestato, alla cessazione della convivenza le somme a credito nel conto devono considerarsi appartenenti in parti uguali a ciascuno dei conviventi: ciò anche nel caso in cui si dimostri che soltanto l’uomo aveva originariamente la proprietà delle somme via via depositate, mentre la donna, durante la convivenza, si era completamente dedicata alla famiglia di fatto, come casalinga, poiché le somme risparmiate e come sopra depositate  devono considerarsi destinate alle spese riguardanti la famiglia stessa, secondo gli usi (Trib. Bolzano, 20/1/2000).

Gli acquisti
L’inapplicabilità, ai conviventi more uxorio,  del regime di comunione legale fra coniugi, è stata ribadita dal Tribunale di Pisa (sentenza del 20/1/1988), sul presupposto che la famiglia fondata sul matrimonio gode di netta  supremazia, anche costituzionale, rispetto alla  famiglia di fatto, e che non è di conseguenza sostenibile un’equiparazione tra le due forme di convivenza; alla luce di ciò i giudici pisani hanno stabilito che,  qualora uno dei conviventi more uxorio abbia acquistato un immobile solo a proprio nome, il partner non può, allo scioglimento del rapporto, considerarsi contitolare pro indiviso del bene, salvo il caso in cui venga data esauriente e rituale prova della sussistenza di una donazione indiretta, o di un’interposizione reale di persona, o dell’adempimento spontaneo e consapevole di un’obbligazione naturale. Né assume rilievo, ai fini della possibilità di divenire comproprietario del bene, che il convivente abbia falsamente dichiarato nel rogito di essere coniugato con l’acquirente (App. Firenze, 12/2/1991). Questa stessa sentenza ha escluso che, in ordine agli incrementi patrimoniali  verificatisi durante la convivenza more uxorio in capo a un convivente, il partner abbandonato possa vantare un diritto (di credito) per conguagli o rimborsi; trattasi però, come si comprende, di situazioni che vanno esaminate caso per caso.

Il lavoro
Al fine di stabilire se le prestazioni lavorative svolte nell’ambito di una convivenza more uxorio diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato o non siano piuttosto riconducibili allo schema della comunione tacita familiare di cui all’art. 230-bis c.c., è possibile escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi, che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto (Cass. 13/12/1986, n. 7486, e 19/12/1994, n. 10927); altrimenti, infatti, è da ritenere che ci si trovi in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto della convivente (è la donna, di regola, a trovarsi in questa condizione) ad esigere il relativo trattamento economico e previdenziale.
Il Tribunale di Milano  (sentenza del 5/10/1988) ha precisato che la convivenza more uxorio costituisce titolo idoneo a fondare una presunzione di gratuità delle prestazioni di lavoro rese dalla convivente solo quando la convivenza preveda un’equa ed effettiva partecipazione agli incrementi patrimoniali della famiglia di fatto; fuori di tale ipotesi la prestazione di lavoro, se non retribuita, è astrattamente idonea a configurare un depauperamento del prestatore e un arricchimento senza causa del convivente, con conseguente diritto a promuovere le opportune iniziative giudiziarie volte al recupero del dovuto.

La casa
Un aspetto molto sentito è quella della successione del convivente nel contratto di locazione stipulato dall’altro ed avente per oggetto la casa familiare. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 404 del 7/4/1988, ha sancito l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 6 della L. 27/7/1978, n. 392 (cosiddetta legge dell’equo canone), nella parte in cui non prevede, tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione in caso di morte del conduttore, in aggiunta al coniuge, agli eredi, e ai parenti ed affini con lui abitualmente conviventi,  il convivente more uxorio (il diritto di subentrare spetta al convivente indipendentemente dal fatto che manchino eredi legittimi del conduttore, Cass. 8/6/1994, n. 5544). La Suprema Corte (sentenza n. 3548 del 12/12/2012) ha ammesso il subentro nel contratto di locazione anche del convivente di una persona, poi deceduta, che era subentrata nel contratto all’originario conduttore.
L’abituale convivenza con il conduttore defunto va accertata alla data del decesso di questi, a nulla rilevando che gli aventi diritto alla successione nel contratto siano o meno rimasti nell’alloggio locato dopo la morte del dante causa, poiché la successione mortis causa nel contratto di locazione è fatto giuridico istantaneo che si realizza (o non si realizza) all’atto stesso della morte del conduttore, restando insensibile agli accadimenti successivi (Cass. 1/8/2000, n. 10034). Non è quindi necessario che la convivenza preesistesse al contratto, né che il locatore fosse a conoscenza della convivenza stessa (Cass, 10/10/1997, n. 9868); quest’ultima sentenza ha riconosciuto al convivente il diritto di subentrare nel contratto di locazione al convivente-conduttore anche nel caso di allontanamento di questi dall’immobile locato. A proposito di allontanamento, in presenza di una relazione di fatto non transitoria e tale da realizzare una stabile convivenza, il convivente more uxorio è legittimato ad agire in reintegrazione contro l’altro convivente che lo abbia estromesso dall’abitazione comune (Trib. Perugia  22/9/1997). Il diritto di subentrare nel contratto di locazione spetta al convivente anche nel caso in cui il defunto fosse contitolare del rapporto insieme ad altri (Cass. 17/6/1995, n. 6910).
Per quanto riguarda il pagamento del canone di locazione, il Tribunale di Firenze (sentenza del 4/12/1992) ha stabilito che  non sussiste una responsabilità solidale, o sussidiaria, in capo all’originario conduttore (e quindi in capo ai suoi eredi), in relazione all’inadempimento dell’obbligo contrattuale di pagare il corrispettivo della locazione gravante sul convivente more uxorio succeduto nel contratto di locazione ex art. 6 L. n. 392/1978: del pagamento, quindi, risponde soltanto  quest’ultimo dal momento in cui subentra nel contratto.
Qualora la casa sia stata assegnata ai conviventi in comodato da un terzo, questi, in presenza di figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, in caso di rottura della convivenza non può esigere l’immediata restituzione del bene ai sensi del secondo comma dell’art. 1809 c.c.; con la fine della convivenza, infatti, al pari di quanto previsto per il caso di crisi matrimoniale, il contratto dev’essere considerato tacitamente assoggettato a termine, per il periodo normalmente necessario affinché il comodatario si serva della cosa secondo l’uso pattuito, ai sensi della seconda parte del primo comma del citato articolo (Trib. Roma 6/11/2009, n. 21565). Può accadere che un convivente abbia provveduto a pagare gli importi dovuti alla cooperativa edilizia di cui era socio l’altro per la prenotazione di un appartamento; verificandosi un’evenienza del genere egli può chiedere all’altro la restituzione delle somme pagate nel suo interesse (Trib. Genova, 27/3/1998), provando che non si tratta di obbligazione naturale (non essendo state le erogazioni destinate ai bisogni della vita della famiglia di fatto), di liberalità d’uso (ossia che non sussiste una sostanziale equivalenza economica tra le dazioni del convivente e i servizi allo stesso resi dalla beneficiaria nel corso della coabitazione) o di altro tipo di liberalità (dimostrando che manca la prova dell’animus donandi, non potendo questa presumersi per il mero fatto della convivenza).
Se la casa familiare appartiene ad entrambi i conviventi, e vi sono figli minori, in caso di cessazione della convivenza, in applicazione analogica dell’art. 155, quarto comma, c.c., essa può essere assegnata a quello che sia affidatario dei figli minori (Trib. Palermo 20/7/1993). Sempre nell’interesse preminente della prole, il Tribunale di Firenze (sentenza del 28/6/1998) ha stabilito che il genitore affidatario del figlio minore, o maggiorenne non economicamente autosufficiente, nato durante la convivenza more uxorio e riconosciuto da entrambi i genitori, ha diritto all’assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva dell’altro genitore, affinché  il figlio possa usufruire dell’ambiente domestico in cui è vissuto e possa limitare il disagio e le difficoltà conseguenti alla cessazione della convivenza fra i genitori.
Non è raro che un convivente  esegua dei lavori di ristrutturazione e/o ampliamento nella casa di proprietà dell’altro; in tal caso egli, in quanto assimilabile a un ospite (Trib. Larino 21/10/1994), non ha diritto al pagamento di una somma corrispondente all’incremento di valore fatto registrare dal fabbricato di proprietà dell’altro, a meno che non provi che le sue dazioni eccedono l’assolvimento dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c. Sulla stessa linea interpretativa il Tribunale di Roma, che con sentenza del 30/10/1991 ha stabilito che le somme spese da un convivente more uxorio attraverso l’impresa edile di cui era titolare, per ristrutturare la casa di proprietà esclusiva del partner, nella quale la coppia aveva abitato, non sono ripetibili, considerata la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra partner conviventi, presunzione che può essere vinta solo dalla rigorosa prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso, tra le parti, o dall’accordo per una ripetizione delle somme impiegate per i lavori effettuati. Una  successiva decisione della Cassazione (n. 3713 del 13/3/2003) ha infine stabilito che la presunzione di gratuità delle prestazioni rese da una parte nei confronti dell’altra viene meno allorquando risulti che la prestazione stessa esula dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e alle condizioni sociali delle parti, ma si configuri come mera operazione economica che abbia determinato un inspiegabile e illogico arricchimento del convivente con proprio ingiusto danno (nel caso di specie il convivente aveva acquistato i materiali e lavorato nel tempo libero per costruire due edifici sul terreno di proprietà della donna, con conseguente, ingiusto arricchimento a beneficio di questa).
Se la convivenza  cessa con l’allontanamento di uno dei conviventi dalla casa, di proprietà comune, dove entrambi vivevano con la prole, rimasta nell’alloggio con l’altro genitore, viene meno la situazione di compossesso che caratterizzava la precedente situazione di fatto; essendo pertanto  il possesso esclusivo dell’abitazione  rimasto ad uno solo dei conviventi, questi può cambiare la serratura (e relative chiavi) della porta d’ingresso della casa ed esperire l’azione di reintegrazione nei confronti dell’ex partner che, con uno stratagemma violento e clandestino, si sia impossessato delle nuove chiavi al fine di potere rientrare nell’abitazione a suo piacimento (Pret. Torino 11/11/1991). Non commette invece spoglio il convivente  che, dopo la morte del partner, impedisca all’erede l’accesso nell’immobile già abitazione della coppia (Pret. Venezia-Mestre 16/4/1996). Cass. n. 10102  del 26/5/2004 ha esteso all’ipotesi della convivenza more uxorio il diritto di continuare ad abitare la casa familiare in favore del genitore non proprietario di essa, cui siano stati affidati i figli minorenni, o che conviva con figli maggiorenni non ancora autosufficienti per motivi indipendenti dalla loro volontà.
Infine, qualora, per effetto della tensione venutasi a determinare tra i conviventi, la prosecuzione della convivenza divenga fonte di pericolo, il convivente che ha in proprietà o in locazione la casa familiare può ottenere dal giudice un provvedimento d’urgenza che ordini all’altro di abbandonarla, essendo da escludere la sussistenza di un rapporto di sublocazione (Pret. Milano 31/3/1990); sublocazione esclusa, con riferimento alla convivenza more uxorio, anche dal Tribunale di Roma (sentenza del 20/11/1982), per cui il locatore non è legittimato a chiedere la risoluzione del contratto deducendo che il conduttore ha sublocato l’immobile al convivente. Se invece il rapporto affettivo si esaurisce senza traumi particolari, il proprietario della casa non può estromettere il convivente su due piedi ma deve dargli il tempo di trovare un’altra sistemazione  (Cass. 21/3/2013, n. 7214).

Gli alimenti e il mantenimento
Gli alimenti (art. 433 c.c.) si fondano sul vincolo di solidarietà che lega, o almeno dovrebbe legare, le persone fra le quali corre taluno dei rapporti indicati dalla legge: per es. coniugio, parentela e affinità entro certi gradi. Qualora si verifichi lo stato di bisogno dell’avente diritto (si deve trattare di persona compresa fra quelle indicate dalla legge e comunque non in grado di provvedere a se stessa), l’obbligato  -o, se vi sono più obbligati, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze- può scegliere fra il corrispondere all’alimentando un assegno a questo titolo, oppure accoglierlo e mantenerlo nella propria casa. L’obbligo di somministrare gli alimenti viene meno, fra l’altro, se muore l’obbligato o se cessa lo stato di bisogno dell’avente diritto. Il diritto agli alimenti ha natura patrimoniale (ossia ha un contenuto economicamente valutabile), ma a differenza degli altri diritti patrimoniali non è cedibile, essendo intimamente connesso, come già detto, allo stato di bisogno del titolare. Concetto più ampio di alimenti è quello di mantenimento, consistente non nel somministrare all’avente diritto di che vivere, ma nell’assicurargli un tenore di vita proporzionato alla propria condizione economica; rientrano così nel concetto, per esempio, l’abbigliamento, l’istruzione, i mezzi di trasporto e di comunicazione (Cass. 11/12/2008, n. n. 45809).
Il convivente more uxorio non ha diritto agli alimenti, e tantomeno al mantenimento, poiché la convivenza concretizza una situazione di fatto, caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale, cui non si ricollegano diritti e doveri se non di carattere morale (Trib. Napoli 8/7/1999); è invece legittimato a chiedere un contributo per il mantenimento di eventuali figli avuti dal convivente, trattandosi di richiesta fondata sull’obbligo dei genitori di mantenere i figli per il solo fatto di averli generati.

Se muore un convivente
Particolarmente pesanti possono essere le conseguenze economiche (a parte ovviamente quelle affettive) in caso di morte di un convivente. Se l’evento è stato provocato da terzi,  si pone il problema  se il convivente della vittima possa agire nei confronti del responsabile per il risarcimento del danno. La Cassazione (sentenza n. 23725 del 16/9/2008, n. 23725) ha stabilito che il  diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto -sia con riguardo al danno morale che a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato- anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. Il Tribunale di Milano (sentenza n. 9965 del 12/9/2011) ha esteso il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito al convivente more uxorio dello stesso sesso, mentre il Tribunale di Verona (sentenza del 26/9/2013) ha sancito il  risarcimento del danno non patrimoniale in capo al convivente anche nel caso in cui l’altro abbia riportato una lesione all’apparato sessuale per negligenza o imperizia medica.  Per  il Tribunale di Roma (sentenza del 9/7/1991)  il diritto al risarcimento del danno patrimoniale ed extrapatrimoniale compete sia a causa del trauma psichico subìto, sia per la privazione di sostegno morale, sia, infine, per la perdita di un’entrata che si sarebbe ragionevolmente presunta come duraturo contributo economico proveniente dall’attività lavorativa del defunto, a nulla rilevando il fatto della convivenza con quest’ultimo o la qualità di erede di colui cui spetta tale risarcimento; alla luce di questo criterio i giudici romani hanno pertanto stabilito che, qualora il defunto, sposato con figli legittimi, abbia convissuto more uxorio con un’altra donna, il suddetto diritto compete sia ai componenti  della famiglia legittima che a quelli della famiglia di fatto; fermo restando che, mentre il diritto al risarcimento del danno morale dev’essere riconosciuto a tutti costoro, il ristoro del danno patrimoniale dev’essere  negato ai componenti della famiglia legittima qualora una serie di circostanze (quali il difetto di prova in ordine alla sistematica corresponsione di assegni da parte del defunto, la mancanza della convivenza, il carico della famiglia di fatto e le condizioni finanziarie del defunto)  non consentano ragionevoli presunzioni di perdite economiche. In tema di risarcimento del danno occorso a un convivente da un sinistro stradale, se questo è stato  provocato dall’altro, egli, per il Tribunale di Piacenza (sentenza del 20/7/1985), è assimilabile al coniuge ai fini dell’esclusione dal novero dei terzi che usufruiscono dei benefici derivanti dal contratto di assicurazione; la ratio dell’esclusione di alcune categorie, come stabilite dall’art. 4 della L. n. 990/1969, dai suddetti benefici, va infatti ricercata sia nell’unicità della sfera patrimoniale tra danneggiato e danneggiante, che potrebbe comportare, qualora fosse riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, un indebito arricchimento dell’assicurato in danno dell’assicuratore, sia nella possibilità di facili collusioni tra soggetti legati da stretti vincoli di parentela o da vincoli di convivenza o di dipendenza economica.
Se uno o entrambi i conviventi hanno alle spalle un matrimonio per il quale non sia ancora intervenuto divorzio, e non si vuole, in caso di morte improvvisa, favorire il coniuge separato, può essere  prudente fare testamento in favore del convivente, avendo però cura di non ledere la quota che la legge riserva allo stesso coniuge separato, ai figli e, ricorrendone i presupposti, agli ascendenti legittimi.

La convivenza more uxorio del coniuge separato o divorziato
Accade di frequente che un coniuge separato o  divorziato vada a convivere more uxorio con un’altra persona. In tal caso la convivenza, se acquista carattere di stabilità e affidabilità, e incide positivamente sulla situazione economica del coniuge separato o divorziato, annullandone o riducendone lo stato di bisogno, e risolvendosi quindi in una fonte effettiva e costante di reddito, anche se non comporta per i conviventi alcun diritto al mantenimento reciproco, può incidere sull’ammontare dell’assegno di mantenimento fissato in sede di separazione o di divorzio, legittimando la parte obbligata a  corrisponderlo a chiederne, a seconda delle circostanze, la riduzione (Cass. 22/4/1993, n. 4761) o la sospensione (Trib. Genova 2/6/1990, Cass. 4/4/1998, n. 3503). Per il Tribunale di Lamezia Terme (decreto dell’1/12/2011) la convivenza di fatto dell’ex moglie e la nascita di un figlio dal nuovo partner fanno venir meno il diritto  all’assegno di mantenimento.
La prova della convivenza e, soprattutto, del miglioramento delle condizioni economiche del coniuge separato o divorziato, è ovviamente a carico del coniuge tenuto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento e dev’essere inequivocabile: i giudici, per esempio (Cass. 2/9/2004, n. 17684), hanno stabilito che la targhetta sull'ingresso di casa, con i nomi dell’ex moglie e del nuovo compagno, le foto attestanti il parcheggio dell'auto della stessa presso l'abitazione del compagno  e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la collaborazione lavorativa con il convivente, non costituiscono circostanze tali da poter essere  considerate, da sole, prova sufficiente a dimostrare la stabile convivenza more uxorio dell’ex moglie e il connesso miglioramento delle condizioni economiche della stessa, con conseguente giustificazione della richiesta di riduzione dell’assegno di mantenimento in capo all’ex marito; la convivenza more uxorio, infatti, ha natura intrinsecamente precaria, non determina obblighi di mantenimento e non ha quella stabilità giuridica, propria del matrimonio, presupposta dalla definitiva cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile (Cass. 26/1/2006, n. 1546). Questa stessa sentenza ha però escluso che l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile possa risorgere in caso di cessazione della convivenza, poiché è prevista la cessazione e non la mera sospensione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile. Con sentenza n. 17195 dell’11/8/2011 la Suprema Corte ha mutato orientamento, avendo stabilito che, in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuato da uno degli ex coniugi, rescinde  sia ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale, sia il diritto, in capo al destinatario, di ricevere l’assegno divorzile, assegno che entra però in uno stato di quiescenza, salvo rivivere in caso di cessazione della convivenza.

Gli aspetti penali
Alla famiglia di fatto riserva sempre più frequente attenzione il giudice penale. La Cassazione, per esempio (sentenza n. 32190 del 21/5/2009),  ha considerato non punibile il furto commesso in danno del convivente more uxorio, assimilandolo cosi al coniuge non separato ex art. 649 c.p.: questa norma, infatti, sancisce la non punibilità di alcuni reati (tra questi l’appropriazione indebita, la truffa e, appunto, il furto) se commessi in danno di taluna delle persone in esso indicate, tra cui il coniuge non legalmente separato  (la differenza tra furto e appropriazione indebita risiede nel fatto che, mentre nel furto l’oggetto del reato si trova nella sfera d’azione del derubato, nell’appropriazione indebita si trova nella sfera d’azione di chi commette il reato). La Suprema Corte ha invece considerato punibile, ma soltanto a querela dell’offeso, il furto commesso in danno dell’ex convivente more uxorio, privilegiando così, in entrambi i casi, l’intento di favorire la riconciliazione rispetto alla punizione del responsabile.  Sotto il profilo civilistico, il convivente more uxorio che sia stato spogliato del bene ad opera del partner è legittimato ad esercitare l’azione di reintegrazione in quanto - sia pure con altra persona - possiede un interesse proprio  non paragonabile a quello dell’ospite o della persona di servizio (Pret. Perugia, 29/9/1994). In  precedenza la Corte Costituzionale (sentenza n. 352 del 25/07/2000)  aveva stabilito che la  non punibilità dei reati contro il patrimonio commessi in danno del coniuge non legalmente separato non si estende al convivente more uxorio, poiché questo tipo di convivenza, “mancando dei caratteri di stabilità e certezza”, non è assimilabile al vincolo coniugale al fine di desumerne un’esigenza costituzionale di parificazione del trattamento;  ciò anche se  “stabilità e certezza” di molte coppie di fatto superano di gran lunga quella di altrettante coppie unite in matrimonio.
Il Pretore di Savona (sentenza del 27/11/1992) ha stabilito che chi s’introduce nell’abitazione dalla quale l’ex convivente more uxorio lo ha allontanato  rimuovendone  tutti gli effetti personali, convinto  di rientrare a “casa sua”, non pone in essere il reato di violazione di domicilio ex art. 614 c.p., ma quello meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ai sensi dell’art. 392 c.p. Al convivente more uxorio che abbia commesso il reato di favoreggiamento personale in favore dell’altro, invece, la Suprema Corte  (sentenza n. 2082 del 17/2/2009) non ha ritenuto applicabile la causa di non punibilità di cui al primo comma dell’art. 384 c.p., operante per il coniuge, né, con riferimento alla ricettazione,  la causa  di esclusione della punibilità prevista per il coniuge dal citato art. 649 c.p. (sentenza n. 44047 del 13/10/2009).
Altre fattispecie portate all’attenzione del giudice penale. E’ stato ritenuto responsabile del reato di sfruttamento della prostituzione il convivente more uxorio a conoscenza del fatto che i proventi che la donna gli erogava per il sostentamento derivavano dall’esercizio della prostituzione (Cass. 17/7/1987). La Corte d’Assise di Milano (sentenza del 9/7/2009)  ha statuito che il reato di cui all’art. 591 c.p. (abbandono di persone minori o incapaci) è configurabile anche a carico di chi abbandoni il convivente more uxorio in stato d’incapacità di provvedere a se stesso, mentre la Cassazione (sentenza n. 40727 del 2/10/2009) ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona convivente more uxorio, quando vi sia un rapporto tendenzialmente stabile.  La stessa  Suprema Corte, infine (sentenza n. 109 del 5/1/2006), ha equiparato la coppia di fatto alla coppia sposata in materia  di gratuito patrocinio.

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