venerdì 23 luglio 2010

RIORDINO PROCESSO AMMINISTRATIVO
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 156 del 7.7.2010 –supplemento ordinario n. 148- il Decreto Legislativo 2 luglio 2010 n. 104 avente ad oggetto il riordino delle norme sul processo amministrativo. Il testo ufficiale e completo è qui disponibile:
RIORDINO PROCESSO AMMINISTRATIVO
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 156 del 7.7.2010 –supplemento ordinario n. 148- il Decreto Legislativo 2 luglio 2010 n. 104 avente ad oggetto il riordino delle norme sul processo amministrativo. Il testo ufficiale e completo è qui disponibile:

mercoledì 21 luglio 2010

La mediazione familiare alla luce del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28


Articolo di Rossana Novati
di Rossana Novati


Questo contributo costituisce un tentativo di verificare se e in quale misura la mediazione di cui al Decreto Legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, possa trovare applicazione in tema di diritto di famiglia, e con quali conseguenze.




Sommario: 1. La cornice normativa - 2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio - 3. Conseguenze - 4. L’obbligo di informativa di cui all’art. 4 comma 3 del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.


1. La cornice normativa


1.1. Il libro verde europeo della mediazione
Nel 2002 la Commissione Europea pubblicava il “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale”.
Con il “Libro verde” la Commissione si prefiggeva lo scopo di rispondere al mandato politico del Consiglio di: “fare il punto della situazione esistente e per lanciare un'ampia consultazione ai fini della preparazione delle misure concrete“.[1]
Alla nota 4 del paragrafo 1.1 del Libro verde, si legge:
[4] Sono escluse dall'ambito di applicazione del presente Libro verde le questioni relative ai diritti indisponibili e che interessano l'ordine pubblico, quali un certo numero di disposizioni del diritto delle persone e di famiglia, del diritto della concorrenza, del diritto del consumo, che in effetti non possono costituire oggetto di ADR.
Tale previsione sottolinea da subito come l’ADR in tema di diritto di famiglia debba necessariamente limitarsi a quelle questioni che rientrino nella libera disponibilità delle parti. Ma la previsione indica anche che il legislatore non ritiene affatto inapplicabile l’ADR ai conflitti familiari, ne circoscrive solamente l’operatività.
A conferma di tale osservazione il “Libro verde” contiene il paragrafo 2.2.2 , intitolato “Sfruttare le iniziative prese nel campo del diritto di famiglia” ove a più riprese si insiste sulla promozione dell’ADR in materia familiare. Possiamo concludere affermando che il Libro Verde consideri la mediazione familiare come una species del genus mediazione, comunque ricompresa nella “categoria” delle ADR.
1.2. Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale
Raccolte ed esaminate le osservazioni degli Stati membri il Parlamento europeo e il Consiglio emanavano la Direttiva 2008/52/CE.
Al punto 10 delle premesse della direttiva in esame si legge:
“La presente direttiva dovrebbe applicarsi (omissis) in materia civile e commerciale, ma non ai diritti e agli obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile. Tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia e del lavoro.”
Di nuovo la norma lascia uno spazio di ambiguità e cautela ove, da un lato riconosce che siano frequenti nel diritto di famiglia diritti e obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole, dall’altro lato non si spinge a raccomandare che la direttiva non venga applicata alla materia del diritto di famiglia.
1.3. Art. 60, Legge 18 giugno 2009, n. 69 - Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile.
L’Italia recepiva la direttiva europea con l’emanazione dell’art .60 della Legge 18.6.2009, n. 69, con il quale conferiva al Governo la Delega in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali. In detto articolo nessun riferimento veniva fatto alla mediazione nel diritto di famiglia, né nel senso dell’esclusione di esso dalla disciplina, né nel senso di un’eventuale inclusione per gli aspetti relativi ai diritti disponibili. La norma si limitava a disporre che nell’esercizio della delega il Governo si attenesse al seguente principio:
“che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;”
1.4. Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28. Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Come ultimo atto normativo in data 4 marzo 2010 viene pubblicata la legge che istituisce la mediazione per le controversie civili e commerciali.
Innanzitutto la legge, all’art.1, fornisce la definizione della mediazione come segue:
“mediazione: l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa;”
Non è questa la sede ove soffermarsi criticamente sull’enfasi data dalla definizione alla “formulazione di una proposta”, che, a detta di tutti gli operatori di diritto e ancor più degli operatori della mediazione, costituisce il punto dolente dell’intera normativa, e rischia di snaturare l’istituto.
Va solo notato, ai fini di questa breve analisi, che la scelta operata dal legislatore per la definizione della mediazione non appare in alcun modo essere incompatibile con la mediazione familiare.
La portata generale della definizione viene consolidata dall’art. 2 della Legge stessa, che, nel definire le controversie oggetto di mediazione, recita:
“Chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, secondo le disposizioni del presente decreto”.
Ed ecco che il solo limite posto dal legislatore alle materie che possono essere oggetto di mediazione é quello dei diritti indisponibili. Peraltro diversamente non avrebbe potuto essere, e non solo in tema di diritto di famiglia
Ma il legislatore Italiano si é spinto ben oltre, identificando una sere di materie per le quali entrerà in vigore (con decorrenza dal marzo 2011) l’obbligo di esperire il procedimento di mediazione, quale condizione di procedibilità della relativa domanda giudiziale.
Tra le materie oggetto dell’obbligo troviamo le successioni ereditarie e i patti di famiglia. Si ritiene di sottolineare queste due specifiche materie, poiché esse sono sempre e necessariamente in correlazione diremmo ontologica con le relazioni familiari.
Ma ancor più attenta riflessione merita il fatto che il legislatore abbia incluso, nelle materie per le quali l’esperimento del procedimento di mediazione sarà obbligatorio, la divisione.
Nel corso del procedimento di separazione e divorzio raramente l’avvocato o il mediatore familiare non si trovano ad affrontare il tema della divisione dei beni, coincidendo la separazione con lo scioglimento della comunione legale, o comunque coincidendo con essa l’opportunità o la volontà dei coniugi di sciogliere la comunione ordinaria. Si pensi al caso frequentissimo ove i coniugi abbiano acquistato insieme la casa coniugale in comunione ordinaria, o che l’acquisto sia caduto ex lege in comunione legale.
Dobbiamo concludere, sic stantibus rebus, che accanto a una separazione o divorzio giudiziali (frequentemente non preceduti da esperimento di mediazione familiare) quei coniugi, che, da soli o con l’assistenza dei legali, non saranno riusciti a trovare accordi per la separazione o il divorzio consensuali, dovranno da un lato sottoporre al Giudice ogni decisione relativa all’affidamento, collocamento e mantenimento della prole, al mantenimento del coniuge e all’assegnazione della casa coniugale, ma dovranno poi necessariamente incontrarsi nella stanza della mediazione, per procedere alla sola divisione dei beni comuni, con tutto il carico simbolico che detti beni portano con sé.
Le implicazioni teoriche e pratiche della suddetta constatazione sono molte e complesse, e non vi è in questo breve intervento lo spazio per approfondirle.
2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio
Dalle considerazioni di cui sopra dobbiamo necessariamente concludere che ai sensi del D.Lgs. n. 28 oggetto di possibile mediazione civile nell’ambito del diritto di famiglia possano essere tutti i diritti disponibili connessi al procedimento di separazione e di divorzio. Se proviamo a enucleare quali siano i diritti disponibili in gioco non possiamo non prendere nota del fatto che la giurisprudenza, con orientamento ormai consolidato, riconosca una negoziabilità molto estesa alle vicende familiari e di conseguenza a quelle separative o divorziali.
Citiamo in proposito alcuni passi della Sentenza 5.11.99 della Corte di Appello di Bari (pres. Dini Ciacci, cons. est. Carone, cons. Santoro)[2], al cui testo integrale si rinvia, che ha il pregio di aver ricostruito con accuratezza l’iter giurisprudenziale della Suprema Corte sul punto dell’autonomia negoziale dei coniugi in materia di separazione e divorzio:
“Negoziabilità che si esprime anche nella separazione consensuale, sicché l’apice del procedimento va collocato nell'accordo dei coniugi, mentre l'omologazione è semplicemente uno strumento di controllo di tipo garantistico, diretto, da un lato, a salvaguardare gli interessi non disponibili delle parti, dall'altro, a tutelare gli interessi dei figli minori.”
Del resto anche le altre modifiche inerenti il regime della separazione dimostrano come il mutato clima sociale avesse indotto il legislatore ad esaltare la volontà dei coniugi, prima subordinata al concetto di superiore interesse della famiglia e della società.
Queste modifiche, nel loro complesso, evidenziano il maggior riconoscimento e l'accresciuta valorizzazione dell’autonomia negoziale dei coniugi in tema di separazione, derivanti dall'introduzione di un nuovo modello di famiglia costituito da una comunità di eguali. Ne consegue il potenziamento dell'accordo dei coniugi, nel segno della privatizzazione del diritto di famiglia e del superamento delle precedenti concezioni pubblicistiche e autoritarie, nelle quali veniva sacrificato il momento consensuale a vantaggio di valori super-indíviduali o di interessi superiori.”
Da quanto sopra consegue che, alla luce della vigente normativa, i coniugi in occasione della separazione possono esperire la mediazione, secondo la disciplina della nuova normativa, in temi quali l’assegnazione della casa coniugale, l’ammontare dei contributi al mantenimento, la collocazione dei figli, il tempo che i figli trascorreranno con i genitori, e in generale tutte quelle vicende che vedono normalmente impegnato il mediatore familiare e l’avvocato.
Certo l’accordo frutto della mediazione dovrà poi essere sottoposto al vaglio dell’Omologazione da parte del Tribunale, né più né meno di come accade oggi, quando l’accordo trovato dai coniugi viene formalizzato in un ricorso per la separazione consensuale.


3. Conseguenze
3.1. La mediazione familiare negli istituendi organismi di mediazione?
La proposta interpretazione della norma, sulla quale un dibattito pare urgente e auspicabile, reca con sé conseguenze pratiche e giuridiche di portata considerevole, alle quali qui ci si limita ad accennare.
La mancanza di una legislazione che definisca in Italia la figura del mediatore familiare, e che gli riservi la trattazione della delicata materia, implica oggi, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 28/10, un potenziale giuridico di notevole pericolosità.
La collocazione della mediazione familiare nel più vasto ambito della mediazione civile porta con sé come conseguenza minima e positiva quella di estendere ai coniugi i benefici fiscali di cui all’art. 20 del D.Lgs. 28/10, benefici ai quali i coniugi, altrimenti, non potrebbero accedere.
In coerenza con la lettura offerta delle norme, non ci si dovrà quindi stupire se negli istituendi Organismi di mediazione di cui all’art. 16 del D.Lgs. 28/10 si assisterà alla creazione e alla promozione di sezioni specializzate in mediazione familiare, o se, ancora, si creeranno Organismi specializzati nella mediazione familiare.
Tuttavia in tal modo, ove non intervengano opportuni correttivi da parte del legislatore, la mediazione familiare correrà anche il rischio di essere trattata da mediatori privi della necessaria formazione, visto che la formazione del mediatore civile e commerciale non avrà affatto i requisiti minimi di cui agli standard europei[3] per la formazione del mediatore familiare, ai quali si conformano i più seri corsi di formazione disponibili oggi in Italia.
Sul punto il Ministero della Giustizia dovrà pronunciarsi a mezzo degli emanandi decreti di cui all’art.16 del D.Lgs. 28/10.
4. L’obbligo di informativa di cui all’art.4 comma 3 del D. L.vo 4 marzo 2010, n. 28
L’art.4 del D.Lgs. n. 28/10 recita:
3. All'atto del conferimento dell'incarico, l'avvocato e' tenuto a informare l'assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L'avvocato informa altresì l'assistito dei casi in cui l'esperimento del procedimento di mediazione e' condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l'avvocato e l'assistito e' annullabile. Il documento che contiene l'informazione e' sottoscritto dall'assistito e deve essere allegato all'atto introduttivo dell'eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell'articolo 5, comma 1, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Date le articolate premesse non pare a chi scrive che possa escludersi che l’obbligo di informativa, già in vigore da marzo 2010, riguardi anche i procedimenti di separazione e divorzio giudiziali. Di conseguenza, laddove a tale obbligo l’avvocato non abbia adempiuto, non pare possa conseguentemente escludersi che il Giudice sia tenuto a informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Sul punto, e in senso contrario, si segnala l’Ordinanza del Tribunale di Varese 3/6 aprile 2010 (Pres. Paganini - Rel. Buffone)[4].
Si riporta un passo della citata Ordinanza, con la quale si esclude la necessità dell’informativa:
“Un’ulteriore conferma dell’esclusione qui sostenuta è esplicita nella direttiva europea già citata (n. 52 del 21 maggio 2008), relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale (che attrae le controversie transfrontaliere): il decimo considerando della suddetta direttiva, espressamente prevede che essa non trovi applicazione riguardo “ai diritti ed agli obblighi su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile; tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia”.
Detta interpretazione, a parere di chi scrive, opera una forzatura interpretativa, poiché se é vero che la Direttiva esaminata sottolinea il fatto che nella materia disciplinata dal diritto di famiglia siano frequenti i diritti e gli obblighi “su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole”, (i c.d. diritti indisponibili), non dice affatto che in tali materie la mediazione non possa trovare applicazione. Per ulteriori argomentazioni si rivedano i paragrafi 1 e 2 del presente contributo.
________________
[1] tratto da: “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile commerciale” (www.eur-lex.europa.eu).
[3] Standard del European Forum Training and Research in Family Mediation.
[4] cfr. Mediazione civile: no all'obbligo di informativa in materia di persone e famiglia di Adriana Capozzoli.










La mediazione familiare alla luce del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28

Articolo di Rossana Novati
di Rossana Novati

Questo contributo costituisce un tentativo di verificare se e in quale misura la mediazione di cui al Decreto Legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, possa trovare applicazione in tema di diritto di famiglia, e con quali conseguenze.


Sommario: 1. La cornice normativa - 2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio - 3. Conseguenze - 4. L’obbligo di informativa di cui all’art. 4 comma 3 del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

1. La cornice normativa

1.1. Il libro verde europeo della mediazione
Nel 2002 la Commissione Europea pubblicava il “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale”.
Con il “Libro verde” la Commissione si prefiggeva lo scopo di rispondere al mandato politico del Consiglio di: “fare il punto della situazione esistente e per lanciare un'ampia consultazione ai fini della preparazione delle misure concrete“.[1]
Alla nota 4 del paragrafo 1.1 del Libro verde, si legge:
[4] Sono escluse dall'ambito di applicazione del presente Libro verde le questioni relative ai diritti indisponibili e che interessano l'ordine pubblico, quali un certo numero di disposizioni del diritto delle persone e di famiglia, del diritto della concorrenza, del diritto del consumo, che in effetti non possono costituire oggetto di ADR.
Tale previsione sottolinea da subito come l’ADR in tema di diritto di famiglia debba necessariamente limitarsi a quelle questioni che rientrino nella libera disponibilità delle parti. Ma la previsione indica anche che il legislatore non ritiene affatto inapplicabile l’ADR ai conflitti familiari, ne circoscrive solamente l’operatività.
A conferma di tale osservazione il “Libro verde” contiene il paragrafo 2.2.2 , intitolato “Sfruttare le iniziative prese nel campo del diritto di famiglia” ove a più riprese si insiste sulla promozione dell’ADR in materia familiare. Possiamo concludere affermando che il Libro Verde consideri la mediazione familiare come una species del genus mediazione, comunque ricompresa nella “categoria” delle ADR.
1.2. Direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale
Raccolte ed esaminate le osservazioni degli Stati membri il Parlamento europeo e il Consiglio emanavano la Direttiva 2008/52/CE.
Al punto 10 delle premesse della direttiva in esame si legge:
“La presente direttiva dovrebbe applicarsi (omissis) in materia civile e commerciale, ma non ai diritti e agli obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile. Tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia e del lavoro.”
Di nuovo la norma lascia uno spazio di ambiguità e cautela ove, da un lato riconosce che siano frequenti nel diritto di famiglia diritti e obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole, dall’altro lato non si spinge a raccomandare che la direttiva non venga applicata alla materia del diritto di famiglia.
1.3. Art. 60, Legge 18 giugno 2009, n. 69 - Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile.
L’Italia recepiva la direttiva europea con l’emanazione dell’art .60 della Legge 18.6.2009, n. 69, con il quale conferiva al Governo la Delega in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali. In detto articolo nessun riferimento veniva fatto alla mediazione nel diritto di famiglia, né nel senso dell’esclusione di esso dalla disciplina, né nel senso di un’eventuale inclusione per gli aspetti relativi ai diritti disponibili. La norma si limitava a disporre che nell’esercizio della delega il Governo si attenesse al seguente principio:
“che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;”
1.4. Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28. Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Come ultimo atto normativo in data 4 marzo 2010 viene pubblicata la legge che istituisce la mediazione per le controversie civili e commerciali.
Innanzitutto la legge, all’art.1, fornisce la definizione della mediazione come segue:
“mediazione: l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa;”
Non è questa la sede ove soffermarsi criticamente sull’enfasi data dalla definizione alla “formulazione di una proposta”, che, a detta di tutti gli operatori di diritto e ancor più degli operatori della mediazione, costituisce il punto dolente dell’intera normativa, e rischia di snaturare l’istituto.
Va solo notato, ai fini di questa breve analisi, che la scelta operata dal legislatore per la definizione della mediazione non appare in alcun modo essere incompatibile con la mediazione familiare.
La portata generale della definizione viene consolidata dall’art. 2 della Legge stessa, che, nel definire le controversie oggetto di mediazione, recita:
“Chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, secondo le disposizioni del presente decreto”.
Ed ecco che il solo limite posto dal legislatore alle materie che possono essere oggetto di mediazione é quello dei diritti indisponibili. Peraltro diversamente non avrebbe potuto essere, e non solo in tema di diritto di famiglia
Ma il legislatore Italiano si é spinto ben oltre, identificando una sere di materie per le quali entrerà in vigore (con decorrenza dal marzo 2011) l’obbligo di esperire il procedimento di mediazione, quale condizione di procedibilità della relativa domanda giudiziale.
Tra le materie oggetto dell’obbligo troviamo le successioni ereditarie e i patti di famiglia. Si ritiene di sottolineare queste due specifiche materie, poiché esse sono sempre e necessariamente in correlazione diremmo ontologica con le relazioni familiari.
Ma ancor più attenta riflessione merita il fatto che il legislatore abbia incluso, nelle materie per le quali l’esperimento del procedimento di mediazione sarà obbligatorio, la divisione.
Nel corso del procedimento di separazione e divorzio raramente l’avvocato o il mediatore familiare non si trovano ad affrontare il tema della divisione dei beni, coincidendo la separazione con lo scioglimento della comunione legale, o comunque coincidendo con essa l’opportunità o la volontà dei coniugi di sciogliere la comunione ordinaria. Si pensi al caso frequentissimo ove i coniugi abbiano acquistato insieme la casa coniugale in comunione ordinaria, o che l’acquisto sia caduto ex lege in comunione legale.
Dobbiamo concludere, sic stantibus rebus, che accanto a una separazione o divorzio giudiziali (frequentemente non preceduti da esperimento di mediazione familiare) quei coniugi, che, da soli o con l’assistenza dei legali, non saranno riusciti a trovare accordi per la separazione o il divorzio consensuali, dovranno da un lato sottoporre al Giudice ogni decisione relativa all’affidamento, collocamento e mantenimento della prole, al mantenimento del coniuge e all’assegnazione della casa coniugale, ma dovranno poi necessariamente incontrarsi nella stanza della mediazione, per procedere alla sola divisione dei beni comuni, con tutto il carico simbolico che detti beni portano con sé.
Le implicazioni teoriche e pratiche della suddetta constatazione sono molte e complesse, e non vi è in questo breve intervento lo spazio per approfondirle.
2. I diritti disponibili in materia di separazione e divorzio
Dalle considerazioni di cui sopra dobbiamo necessariamente concludere che ai sensi del D.Lgs. n. 28 oggetto di possibile mediazione civile nell’ambito del diritto di famiglia possano essere tutti i diritti disponibili connessi al procedimento di separazione e di divorzio. Se proviamo a enucleare quali siano i diritti disponibili in gioco non possiamo non prendere nota del fatto che la giurisprudenza, con orientamento ormai consolidato, riconosca una negoziabilità molto estesa alle vicende familiari e di conseguenza a quelle separative o divorziali.
Citiamo in proposito alcuni passi della Sentenza 5.11.99 della Corte di Appello di Bari (pres. Dini Ciacci, cons. est. Carone, cons. Santoro)[2], al cui testo integrale si rinvia, che ha il pregio di aver ricostruito con accuratezza l’iter giurisprudenziale della Suprema Corte sul punto dell’autonomia negoziale dei coniugi in materia di separazione e divorzio:
“Negoziabilità che si esprime anche nella separazione consensuale, sicché l’apice del procedimento va collocato nell'accordo dei coniugi, mentre l'omologazione è semplicemente uno strumento di controllo di tipo garantistico, diretto, da un lato, a salvaguardare gli interessi non disponibili delle parti, dall'altro, a tutelare gli interessi dei figli minori.”
Del resto anche le altre modifiche inerenti il regime della separazione dimostrano come il mutato clima sociale avesse indotto il legislatore ad esaltare la volontà dei coniugi, prima subordinata al concetto di superiore interesse della famiglia e della società.
Queste modifiche, nel loro complesso, evidenziano il maggior riconoscimento e l'accresciuta valorizzazione dell’autonomia negoziale dei coniugi in tema di separazione, derivanti dall'introduzione di un nuovo modello di famiglia costituito da una comunità di eguali. Ne consegue il potenziamento dell'accordo dei coniugi, nel segno della privatizzazione del diritto di famiglia e del superamento delle precedenti concezioni pubblicistiche e autoritarie, nelle quali veniva sacrificato il momento consensuale a vantaggio di valori super-indíviduali o di interessi superiori.”
Da quanto sopra consegue che, alla luce della vigente normativa, i coniugi in occasione della separazione possono esperire la mediazione, secondo la disciplina della nuova normativa, in temi quali l’assegnazione della casa coniugale, l’ammontare dei contributi al mantenimento, la collocazione dei figli, il tempo che i figli trascorreranno con i genitori, e in generale tutte quelle vicende che vedono normalmente impegnato il mediatore familiare e l’avvocato.
Certo l’accordo frutto della mediazione dovrà poi essere sottoposto al vaglio dell’Omologazione da parte del Tribunale, né più né meno di come accade oggi, quando l’accordo trovato dai coniugi viene formalizzato in un ricorso per la separazione consensuale.

3. Conseguenze
3.1. La mediazione familiare negli istituendi organismi di mediazione?
La proposta interpretazione della norma, sulla quale un dibattito pare urgente e auspicabile, reca con sé conseguenze pratiche e giuridiche di portata considerevole, alle quali qui ci si limita ad accennare.
La mancanza di una legislazione che definisca in Italia la figura del mediatore familiare, e che gli riservi la trattazione della delicata materia, implica oggi, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 28/10, un potenziale giuridico di notevole pericolosità.
La collocazione della mediazione familiare nel più vasto ambito della mediazione civile porta con sé come conseguenza minima e positiva quella di estendere ai coniugi i benefici fiscali di cui all’art. 20 del D.Lgs. 28/10, benefici ai quali i coniugi, altrimenti, non potrebbero accedere.
In coerenza con la lettura offerta delle norme, non ci si dovrà quindi stupire se negli istituendi Organismi di mediazione di cui all’art. 16 del D.Lgs. 28/10 si assisterà alla creazione e alla promozione di sezioni specializzate in mediazione familiare, o se, ancora, si creeranno Organismi specializzati nella mediazione familiare.
Tuttavia in tal modo, ove non intervengano opportuni correttivi da parte del legislatore, la mediazione familiare correrà anche il rischio di essere trattata da mediatori privi della necessaria formazione, visto che la formazione del mediatore civile e commerciale non avrà affatto i requisiti minimi di cui agli standard europei[3] per la formazione del mediatore familiare, ai quali si conformano i più seri corsi di formazione disponibili oggi in Italia.
Sul punto il Ministero della Giustizia dovrà pronunciarsi a mezzo degli emanandi decreti di cui all’art.16 del D.Lgs. 28/10.
4. L’obbligo di informativa di cui all’art.4 comma 3 del D. L.vo 4 marzo 2010, n. 28
L’art.4 del D.Lgs. n. 28/10 recita:
3. All'atto del conferimento dell'incarico, l'avvocato e' tenuto a informare l'assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L'avvocato informa altresì l'assistito dei casi in cui l'esperimento del procedimento di mediazione e' condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l'avvocato e l'assistito e' annullabile. Il documento che contiene l'informazione e' sottoscritto dall'assistito e deve essere allegato all'atto introduttivo dell'eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell'articolo 5, comma 1, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Date le articolate premesse non pare a chi scrive che possa escludersi che l’obbligo di informativa, già in vigore da marzo 2010, riguardi anche i procedimenti di separazione e divorzio giudiziali. Di conseguenza, laddove a tale obbligo l’avvocato non abbia adempiuto, non pare possa conseguentemente escludersi che il Giudice sia tenuto a informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione.
Sul punto, e in senso contrario, si segnala l’Ordinanza del Tribunale di Varese 3/6 aprile 2010 (Pres. Paganini - Rel. Buffone)[4].
Si riporta un passo della citata Ordinanza, con la quale si esclude la necessità dell’informativa:
“Un’ulteriore conferma dell’esclusione qui sostenuta è esplicita nella direttiva europea già citata (n. 52 del 21 maggio 2008), relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale (che attrae le controversie transfrontaliere): il decimo considerando della suddetta direttiva, espressamente prevede che essa non trovi applicazione riguardo “ai diritti ed agli obblighi su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile; tali diritti e obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritto di famiglia”.
Detta interpretazione, a parere di chi scrive, opera una forzatura interpretativa, poiché se é vero che la Direttiva esaminata sottolinea il fatto che nella materia disciplinata dal diritto di famiglia siano frequenti i diritti e gli obblighi “su cui le parti non hanno facoltà di decidere da sole”, (i c.d. diritti indisponibili), non dice affatto che in tali materie la mediazione non possa trovare applicazione. Per ulteriori argomentazioni si rivedano i paragrafi 1 e 2 del presente contributo.
________________
[1] tratto da: “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile commerciale” (www.eur-lex.europa.eu).
[3] Standard del European Forum Training and Research in Family Mediation.
[4] cfr. Mediazione civile: no all'obbligo di informativa in materia di persone e famiglia di Adriana Capozzoli.





L’art. 151 disp. att. c.p.c. e la riunibilità delle “cause seriali”


Articolo di Cataldo Bevacqua 19.01.2010 
Cataldo Bevacqua
L’art. 151 disp. att. c.p.c. e la riunibilità delle "cause seriali"
di Cataldo Bevacqua
In base all’art. 151 disp. att. c.p.c., per come novellato dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, “la riunione, ai sensi dell'articolo 274 del codice, dei procedimenti relativi a controversie in materia di lavoro e di previdenza e di assistenza e a controversie dinanzi al giudice di pace, connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione, deve essere sempre disposta dal giudice, tranne nelle ipotesi che essa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo. In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e motivate ragioni, è, comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello. Le competenze e gli onorari saranno ridotti in considerazione dell'unitaria trattazione delle controversie riunite”.
La Relazione allo schema del Decreto Legislativo su citato, il quale ha modificato il primo comma dell’articolo in esame, ci offre un interessante indirizzo interpretativo della novellata disposizione codicistica.
“E’ prevista”, afferma la Relazione,” la modifica dell'art. 151, modifica finalizzata ad estendere alle controversie davanti al giudice di pace la previsione che impone oggi al giudice, nelle controversie in materia di lavoro, di previdenza e di assistenza, la riunione dei procedimenti aventi carattere seriale o comunque connessi anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende la decisione”.
”Anche questa innovazione”, continua la Relazione “ha dunque come obiettivo quello di preservare la funzione nomofilattica, nel senso di contenere quantitativamente l'accesso alla Corte. Detta soluzione, sperimentata efficacemente nel processo del lavoro, oltre ad evitare, anche per le cause promosse davanti al giudice di pace, la spesso fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti, consentirà infatti la proposizione di un più ridotto numero di ricorsi per cassazione”.
”L'intervento sull'art. 151 disp. att. c.p.c.”, conclude la Relazione, “è poi completato con altre due nuove previsioni: l'una rende più cogente l'obbligo di riunione, prevedendo che la facoltà del giudice di non disporre la riunione quando essa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo, non possa essere esercitata, salve gravi e motivate ragioni, quando le controversie da riunire si trovino nella medesima fase processuale; l'altra, che estende l'obbligo di riunione al giudizio d'appello”.
La finalità sottesa all’intervento legislativo è, quindi, duplice: contenere “la fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti”, “anche per le cause promosse davanti al giudice di pace”; preservare la funzione nomofilattica della Suprema Corte, limitando numericamente le possibilità di ricorrere in Cassazione.
Al fine di rendere particolarmente penetrante l’obbligo di riunire i procedimenti connessi, il legislatore, inoltre, prevede innovativamente che il giudice di pace (come anche il giudice del lavoro) possa denegare la riunione dei procedimenti seriali che si trovino nella stessa fase processuale solo ove sussistano “gravi e motivate ragioni”, a differenza di quanto avveniva durante la previgente normativa, allorquando (e soltanto per i procedimenti instaurati dinanzi al Tribunale del lavoro) al giudice era offerta la possibilità di non disporre la riunione in tutti quei casi la stessa rendesse troppo gravoso o comunque ritardasse eccessivamente il processo.
Non solo. In base alla novella l’obbligo di riunione è esteso anche al giudizio di appello, di talchè il giudice del gravame, ove si presentino al suo cospetto più cause connesse anche soltanto per identità delle questioni da risolvere preventivamente, è tenuto a disporne la riunione, secondo le condizioni e i limiti, già esaminati, imposti ai giudici di pace ed ai tribunali del lavoro.
Un particolare profilo di interesse per le parti è rappresentato dall’altro precetto contenuto nel citato art. 151 disp. att. c.p.c. (oggi, a seguito della novella, applicabile anche ai giudizi seriali incardinati dinanzi al giudice di pace) secondo il quale, in caso di riunione, le competenze e gli onorari sono ridotti in considerazione dell’unitaria trattazione delle cause. Quindi, mentre - ove i diversi procedimenti restino separati - la parte soccombente va condannata al rimborso delle spese processuali calcolate per intero per ciascuna causa, a seguito della riunione la stessa parte è condannata al pagamento di spese processuali per un ammontare ridotto rispetto a quella che sarebbe la somma delle singole liquidazioni per ogni singola controversia, con un evidente risparmio dei costi.
L’art. 151 disp. att. c.p.c. va necessariamente coordinato con l’art. 274 c.p.c., al quale rimanda.
In base alla generale regola dettata dall’art. 274 c.p.c., se più procedimenti connessi pendono dinanzi allo stesso giudice questi, anche d’ufficio, può disporne la riunione; nel caso in cui, poi, cause connesse pendano davanti a giudici diversi appartenenti allo stesso ufficio giudiziario, il dirigente dell’ufficio - debitamente notiziato -, sentite le parti, può ordinare con decreto che le cause siano chiamate davanti allo stesso giudice per i provvedimenti opportuni (che oggi, quanto meno per i giudizi cd. seriali incardinati dinanzi al giudice di pace ed al giudice del lavoro, non possono che essere rappresentati obbligatoriamente da ordinanze riunitive, tranne che, nell’ipotesi in cui i diversi procedimenti non si situino nella stessa fase processuale, la riunione renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo, oppure ancora, nel caso in cui i procedimenti si trovino nella medesima fase processuale, vi siano gravi e motivate ragioni che ostino all’emanazione di un provvedimento teso a disporne la riunione).
Appare interessante, in subiecta materia, leggere quanto è scritto nella relazione “Le verifiche e i controlli preliminari della fase introduttiva”, a firma Mauro Criscuolo, presentata in occasione dell’incontro di studi “ Il punto sul rito civile” , organizzato dal C.S.M., Nona Commissione - Tirocinio e Formazione Professionale: “Occorre oggi fare i conti con il novellato art. 151 disp. att. c.p.c., così come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006… E’ evidente che la norma impone la riunione anche in appello degli appelli avverso le sentenze del giudice di pace aventi ad oggetto questioni seriali (si pensi ad esempio al contenzioso in tema di diritto al compenso in favore dei messi comunali per la consegna dei certificati elettorali, ovvero al rimborso dei premi assicurativi, o ancora alla determinazione dell’aliquota IVA per il consumo di gas destinato ad uso promiscuo). Occorre chiedersi se, soprattutto nel caso di contenzioso che veda introdotte cause in numero rilevante, per la riunione occorra avere riguardo alle cause pendenti innanzi ad un singolo giudice ovvero all’ufficio giudiziario nel suo complesso, in quanto sebbene la norma sembri deporre in quest’ultimo senso, ciò potrebbe determinare dei seri problemi circa l’effettiva gestione di una sorta di maxi-processo”.
Un serio ostacolo ad una efficace applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo art. 151 disp. att. c.p.c., è costituito dal fatto che la normativa non prevede (analogamente a quanto succedeva sotto la vigenza del previgente art. 151 disp. att.) sanzioni di nullità processuale degli atti successivi in caso di mancata riunione.
Sul punto, bisogna rifarsi alla costante giurisprudenza in subiecta materia, vigente la vecchia formulazione dell’art. 151 disp. att. c.p.c..
Cassazione civile, sez. lav., sentenza 21 dicembre 2001, n. 16152 così sentenzia: “La mancata riunione di cause in materia di lavoro o previdenza o assistenza obbligatorie connesse anche soltanto per identità delle questioni, a norma dell'art. 151 disp. att. c.p.c., non e' deducibile di per sé in cassazione sia perché la mancata osservanza della disposizione non è prevista dalla legge come causa di nullità processuale estesa agli atti successivi, sia perché la decisione relativa alla riunione implica valutazioni discrezionali relativamente alla prevista esclusione dell'obbligo di riunione nell'ipotesi in cui questa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo (che, come tale, non richiede espressa e specifica motivazione). D'altra parte va considerato che le finalità cui e' diretta la citata norma - di economia processuale e di uniformità delle decisioni relative a casi identici - possono utilmente essere perseguite anche attraverso la trattazione di più cause riunibili nella medesima udienza e davanti allo stesso giudice, verificandosi in tale evenienza una situazione sostanzialmente assimilabile a quella del simultaneus processus in senso tecnico”.
Vi è, però, che oggi, grazie alla novella legislativa, è radicalmente cambiata la ratio legis sottesa alla disciplina in materia di riunione di procedimenti connessi.
Uno degli obiettivi prioritari cui è indirizzata la normativa ex art. 151 disp. att. c.p.c., appare essere ictu oculi il contenimento del ricorso alle cause seriali, obiettivo che il legislatore vuole pre-posto anche alle esigenze di celerità e di economia processuale.
Suffragano tale interpretazione il riferimento, contenuto nella citata Relazione illustrativa, alla “fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti”, chiaramente evocativo del fenomeno delle cause seriali, ed il fatto che, nell’attuale disciplina, il giudice deve necessariamente disporre la riunione, ove i procedimenti si trovino nella medesima fase processuale, anche se la stessa possa rendere troppo gravoso o comunque ritardare eccessivamente il processo
E infatti, se tra le finalità cui è indirizzata la norma oggi vigente, vi è quella di raggiungere un sensibile decremento del numero delle cause seriali, essa finalità verrebbe sostanzialmente vulnerata e vanificata ove i giudici di pace e del lavoro, in ossequio all’indirizzo interpretativo espresso dalla succitata sentenza della Suprema Corte nella vigenza della vecchia formulazione dell’art. 151 disp. att. c.p.c., decidessero di non disporre la riunione, limitandosi ad ordinare la trattazione nella medesima udienza, davanti allo stesso giudice, di più cause riunibili, in quanto, in siffatte evenienze, il numero di procedimenti in corso rimarrebbe del tutto invariato e non si raggiungerebbe affatto l’obiettivo di produrre una sensibile deflazione delle cause seriali.
V’è da dire, inoltre, che il forte restringimento dell’area discrezionale a disposizione dei giudici nelle decisioni riguardanti le riunioni dei procedimenti, e l’obbligatorietà della motivazione (“gravi e motivate ragioni”) in caso di provvedimenti denegativi assunti pur sussistendo il requisito previsto della identità della fase processuale, potrebbero determinare la sottoponibilità delle statuizioni dei giudici di merito (anche d’appello, in base alla novella) a censure dinanzi alla Corte di Cassazione.






L’art. 151 disp. att. c.p.c. e la riunibilità delle “cause seriali”

Articolo di Cataldo Bevacqua 19.01.2010 
Cataldo Bevacqua
L’art. 151 disp. att. c.p.c. e la riunibilità delle "cause seriali"
di Cataldo Bevacqua
In base all’art. 151 disp. att. c.p.c., per come novellato dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, “la riunione, ai sensi dell'articolo 274 del codice, dei procedimenti relativi a controversie in materia di lavoro e di previdenza e di assistenza e a controversie dinanzi al giudice di pace, connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione, deve essere sempre disposta dal giudice, tranne nelle ipotesi che essa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo. In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e motivate ragioni, è, comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello. Le competenze e gli onorari saranno ridotti in considerazione dell'unitaria trattazione delle controversie riunite”.
La Relazione allo schema del Decreto Legislativo su citato, il quale ha modificato il primo comma dell’articolo in esame, ci offre un interessante indirizzo interpretativo della novellata disposizione codicistica.
“E’ prevista”, afferma la Relazione,” la modifica dell'art. 151, modifica finalizzata ad estendere alle controversie davanti al giudice di pace la previsione che impone oggi al giudice, nelle controversie in materia di lavoro, di previdenza e di assistenza, la riunione dei procedimenti aventi carattere seriale o comunque connessi anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende la decisione”.
”Anche questa innovazione”, continua la Relazione “ha dunque come obiettivo quello di preservare la funzione nomofilattica, nel senso di contenere quantitativamente l'accesso alla Corte. Detta soluzione, sperimentata efficacemente nel processo del lavoro, oltre ad evitare, anche per le cause promosse davanti al giudice di pace, la spesso fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti, consentirà infatti la proposizione di un più ridotto numero di ricorsi per cassazione”.
”L'intervento sull'art. 151 disp. att. c.p.c.”, conclude la Relazione, “è poi completato con altre due nuove previsioni: l'una rende più cogente l'obbligo di riunione, prevedendo che la facoltà del giudice di non disporre la riunione quando essa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo, non possa essere esercitata, salve gravi e motivate ragioni, quando le controversie da riunire si trovino nella medesima fase processuale; l'altra, che estende l'obbligo di riunione al giudizio d'appello”.
La finalità sottesa all’intervento legislativo è, quindi, duplice: contenere “la fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti”, “anche per le cause promosse davanti al giudice di pace”; preservare la funzione nomofilattica della Suprema Corte, limitando numericamente le possibilità di ricorrere in Cassazione.
Al fine di rendere particolarmente penetrante l’obbligo di riunire i procedimenti connessi, il legislatore, inoltre, prevede innovativamente che il giudice di pace (come anche il giudice del lavoro) possa denegare la riunione dei procedimenti seriali che si trovino nella stessa fase processuale solo ove sussistano “gravi e motivate ragioni”, a differenza di quanto avveniva durante la previgente normativa, allorquando (e soltanto per i procedimenti instaurati dinanzi al Tribunale del lavoro) al giudice era offerta la possibilità di non disporre la riunione in tutti quei casi la stessa rendesse troppo gravoso o comunque ritardasse eccessivamente il processo.
Non solo. In base alla novella l’obbligo di riunione è esteso anche al giudizio di appello, di talchè il giudice del gravame, ove si presentino al suo cospetto più cause connesse anche soltanto per identità delle questioni da risolvere preventivamente, è tenuto a disporne la riunione, secondo le condizioni e i limiti, già esaminati, imposti ai giudici di pace ed ai tribunali del lavoro.
Un particolare profilo di interesse per le parti è rappresentato dall’altro precetto contenuto nel citato art. 151 disp. att. c.p.c. (oggi, a seguito della novella, applicabile anche ai giudizi seriali incardinati dinanzi al giudice di pace) secondo il quale, in caso di riunione, le competenze e gli onorari sono ridotti in considerazione dell’unitaria trattazione delle cause. Quindi, mentre - ove i diversi procedimenti restino separati - la parte soccombente va condannata al rimborso delle spese processuali calcolate per intero per ciascuna causa, a seguito della riunione la stessa parte è condannata al pagamento di spese processuali per un ammontare ridotto rispetto a quella che sarebbe la somma delle singole liquidazioni per ogni singola controversia, con un evidente risparmio dei costi.
L’art. 151 disp. att. c.p.c. va necessariamente coordinato con l’art. 274 c.p.c., al quale rimanda.
In base alla generale regola dettata dall’art. 274 c.p.c., se più procedimenti connessi pendono dinanzi allo stesso giudice questi, anche d’ufficio, può disporne la riunione; nel caso in cui, poi, cause connesse pendano davanti a giudici diversi appartenenti allo stesso ufficio giudiziario, il dirigente dell’ufficio - debitamente notiziato -, sentite le parti, può ordinare con decreto che le cause siano chiamate davanti allo stesso giudice per i provvedimenti opportuni (che oggi, quanto meno per i giudizi cd. seriali incardinati dinanzi al giudice di pace ed al giudice del lavoro, non possono che essere rappresentati obbligatoriamente da ordinanze riunitive, tranne che, nell’ipotesi in cui i diversi procedimenti non si situino nella stessa fase processuale, la riunione renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo, oppure ancora, nel caso in cui i procedimenti si trovino nella medesima fase processuale, vi siano gravi e motivate ragioni che ostino all’emanazione di un provvedimento teso a disporne la riunione).
Appare interessante, in subiecta materia, leggere quanto è scritto nella relazione “Le verifiche e i controlli preliminari della fase introduttiva”, a firma Mauro Criscuolo, presentata in occasione dell’incontro di studi “ Il punto sul rito civile” , organizzato dal C.S.M., Nona Commissione - Tirocinio e Formazione Professionale: “Occorre oggi fare i conti con il novellato art. 151 disp. att. c.p.c., così come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006… E’ evidente che la norma impone la riunione anche in appello degli appelli avverso le sentenze del giudice di pace aventi ad oggetto questioni seriali (si pensi ad esempio al contenzioso in tema di diritto al compenso in favore dei messi comunali per la consegna dei certificati elettorali, ovvero al rimborso dei premi assicurativi, o ancora alla determinazione dell’aliquota IVA per il consumo di gas destinato ad uso promiscuo). Occorre chiedersi se, soprattutto nel caso di contenzioso che veda introdotte cause in numero rilevante, per la riunione occorra avere riguardo alle cause pendenti innanzi ad un singolo giudice ovvero all’ufficio giudiziario nel suo complesso, in quanto sebbene la norma sembri deporre in quest’ultimo senso, ciò potrebbe determinare dei seri problemi circa l’effettiva gestione di una sorta di maxi-processo”.
Un serio ostacolo ad una efficace applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo art. 151 disp. att. c.p.c., è costituito dal fatto che la normativa non prevede (analogamente a quanto succedeva sotto la vigenza del previgente art. 151 disp. att.) sanzioni di nullità processuale degli atti successivi in caso di mancata riunione.
Sul punto, bisogna rifarsi alla costante giurisprudenza in subiecta materia, vigente la vecchia formulazione dell’art. 151 disp. att. c.p.c..
Cassazione civile, sez. lav., sentenza 21 dicembre 2001, n. 16152 così sentenzia: “La mancata riunione di cause in materia di lavoro o previdenza o assistenza obbligatorie connesse anche soltanto per identità delle questioni, a norma dell'art. 151 disp. att. c.p.c., non e' deducibile di per sé in cassazione sia perché la mancata osservanza della disposizione non è prevista dalla legge come causa di nullità processuale estesa agli atti successivi, sia perché la decisione relativa alla riunione implica valutazioni discrezionali relativamente alla prevista esclusione dell'obbligo di riunione nell'ipotesi in cui questa renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo (che, come tale, non richiede espressa e specifica motivazione). D'altra parte va considerato che le finalità cui e' diretta la citata norma - di economia processuale e di uniformità delle decisioni relative a casi identici - possono utilmente essere perseguite anche attraverso la trattazione di più cause riunibili nella medesima udienza e davanti allo stesso giudice, verificandosi in tale evenienza una situazione sostanzialmente assimilabile a quella del simultaneus processus in senso tecnico”.
Vi è, però, che oggi, grazie alla novella legislativa, è radicalmente cambiata la ratio legis sottesa alla disciplina in materia di riunione di procedimenti connessi.
Uno degli obiettivi prioritari cui è indirizzata la normativa ex art. 151 disp. att. c.p.c., appare essere ictu oculi il contenimento del ricorso alle cause seriali, obiettivo che il legislatore vuole pre-posto anche alle esigenze di celerità e di economia processuale.
Suffragano tale interpretazione il riferimento, contenuto nella citata Relazione illustrativa, alla “fittizia e strumentale moltiplicazione dei procedimenti”, chiaramente evocativo del fenomeno delle cause seriali, ed il fatto che, nell’attuale disciplina, il giudice deve necessariamente disporre la riunione, ove i procedimenti si trovino nella medesima fase processuale, anche se la stessa possa rendere troppo gravoso o comunque ritardare eccessivamente il processo
E infatti, se tra le finalità cui è indirizzata la norma oggi vigente, vi è quella di raggiungere un sensibile decremento del numero delle cause seriali, essa finalità verrebbe sostanzialmente vulnerata e vanificata ove i giudici di pace e del lavoro, in ossequio all’indirizzo interpretativo espresso dalla succitata sentenza della Suprema Corte nella vigenza della vecchia formulazione dell’art. 151 disp. att. c.p.c., decidessero di non disporre la riunione, limitandosi ad ordinare la trattazione nella medesima udienza, davanti allo stesso giudice, di più cause riunibili, in quanto, in siffatte evenienze, il numero di procedimenti in corso rimarrebbe del tutto invariato e non si raggiungerebbe affatto l’obiettivo di produrre una sensibile deflazione delle cause seriali.
V’è da dire, inoltre, che il forte restringimento dell’area discrezionale a disposizione dei giudici nelle decisioni riguardanti le riunioni dei procedimenti, e l’obbligatorietà della motivazione (“gravi e motivate ragioni”) in caso di provvedimenti denegativi assunti pur sussistendo il requisito previsto della identità della fase processuale, potrebbero determinare la sottoponibilità delle statuizioni dei giudici di merito (anche d’appello, in base alla novella) a censure dinanzi alla Corte di Cassazione.



E se un cane ti morde x strada .... chi paga ????

Danni da randagismo: anche il Comune è tenuto al risarcimento?


Cassazione civile , sez. III, sentenza 16.03.2010 n° 10190 (Raffaele Plenteda)


La violazione delle norme di legge sul randagismo, che impongono ai Comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone, nelle vie cittadine è fonte dell’obbligo dei Comuni di risarcire i danni che tali animali abbiano causato agli utenti delle strade
Lo ha stabilito la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione nella sentenza 28 aprile 2010, n. 10190 la quale interviene nuovamente, sia pure con un succinto passaggio motivazionale, sulla vexata questio della legittimazione passiva e, quindi, dell’individuazione del soggetto pubblico legittimato a rispondere dei danni causati da animali randagi[1].
La disciplina di riferimento è rappresentata dalla Legge 281/91 recante “Legge-quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”.
L'art. 2, nell’individuare gli strumenti rivolti ad arginare il fenomeno del randagismo, distribuisce le competenze tra i Comuni ed i Servizi veterinari delle ASL.
In particolare, ai Comuni è affidata la costruzione, sistemazione e gestione dei canili e rifugi per cani, alle ASL, invece, incombono le attività di profilassi e controllo igienico-sanitario e di polizia veterinaria.
L'art. 3, infine, attribuisce alle singole Regioni il compito di disciplinare, con legge propria, le misure di attuazione delle funzioni attribuite ai Comuni ed alle ASL e, in attuazione di tale delega, le Regioni hanno adottato proprie leggi in materia, nelle quali – tendenzialmente – affidano le più ampie competenze di controllo e recupero dei cani randagi ai servizi veterinari delle ASL.
Muovendo dal quadro normativo appena descritto, la giurisprudenza di legittimità sembrava, con pronunce anche molto recenti, definitivamente orientata nel senso di affermare la legittimazione passiva esclusiva della ASL nei giudizi risarcitori aventi ad oggetto i danni causati da animali randagi. In tal senso, si era pronunciata la stessa Terza Sezione della Cassazione nella nota sentenza n. 27001/05, il cui indirizzo ha avuto, da ultimo, ulteriore avallo nella sentenza n. 8137/09.
La tesi della legittimazione esclusiva delle ASL, sulla quale pareva attestarsi la Corte di Cassazione, sollevava notevoli dubbi e perplessità espresse non solo dai commentatori[2], ma anche da molta giurisprudenza di merito[3], che continuava a dimostrarsi più propensa a riconoscere una responsabilità solidale di Comune ed ASL.
La sentenza in commento è destinata a riaprire una questione in realtà mai completamente sopita, in quanto la Corte si è discostata dall’orientamento espresso negli ultimi arresti sul tema
Occorre considerare però che, in questa sede, i Giudici di Piazza Cavour si sono limitati ad una affermazione di massima, senza sviluppare ulteriori approfondimenti sul tema e, soprattutto, senza richiamare e rielaborare, eventualmente in chiave critica, i principi espressi nei precedenti interventi sul tema.
Per la definitiva soluzione del problema, allora, occorrerà ancora attendere, per appurare se quanto stabilito in questa sentenza possa consolidarsi e divenire ius receptum o se, al contrario, sia destinato a rimanere pronuncia isolata, espressione di quell’incedere altalenante tipico del diritto di formazione giurisprudenziale.
(Altalex, 12 luglio 2010. Nota di Raffaele Plenteda. Si ringrazia per la segnalazione Simona Pignataro)
_________________
[1] Per una trattazione riepilogativa del tema, vedi G. NUZZO, Responsabilità per danni causati da animali randagi.
[2] Cfr. G. NUZZO, Articolo citato.
[3] Ex multis, vedi Giudice di Pace Fasano, sentenza 7 gennaio 2010, n. 2, edito su Altalex Mese con nota di A. CALALUNA “Legittimazione di Comune e Asl nel giudizio per risarcimento danni per il morso di un cane randagio”.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 16 marzo 2010, n. 10190
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati


Dott. MICHELE VARRÒNE Presidente -


Dott. CAMILLO FILADORO - Consigliere -


Dott. FULVIO UCCELLA - consigliere


Dott. GIANCARLO URBAN - Consigliere


Dott. RAFFAELLA LANZILLO - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 23588-2006 proposto da ****
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/03/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MAURIZIO VELARDI che ha concluso per accoglimento per quanto di ragione
Svolgimento del processo
Con sentenza 10 giugno-5 settembre 2005 n. 2533 la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale dì S. Maria Capua Vetere, ha respinto la domanda proposta da contro il Comune di per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell'aggressione di un cane randagio, lungo una via comunale.
Il Tribunale aveva accolto la domanda, liquidando all'attrice la somma di € 33.915,28.
La Corte di appello ha escluso la responsabilità del Comune per omessa adozione di provvedimenti contro il randagismo, rilevando che la quasi novantenne, è caduta rompendosi il femore non a causa dell'aggressione del cane, ma solo per il timore di venire aggredita.






La propone quattro motivi di ricorso per cassazione.
Il Comune non ha depositato difese.
Motivi della decisione
1. Con i primi tre motivi la ricorrente denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione nelle parti in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che essa non sia venuta a contatto con l'animale; che il nesso causale fra 1'illecito e il danno sia da ritenere interrotto a causa della tarda età della danneggiata, e che l'animale non fosse un cane randagio.
Assume che risulta dalle deposizioni testimoniali che essa è caduta per difendersi dai morsi del cane; che, in mancanza dell'aggressione, non sarebbe caduta e non si sarebbe rotta il femore e che il verbale dei vigili urbani ha accertato che il cane non era di proprietà di alcuno.
4.- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 2043 cod. civ., della legge nazionale n. 281 del 1991, che demanda alle Regioni di emanare proprie leggi per l'istituzione dell'anagrafe canina e per l'adozione di programmi contro il randagismo, nonché della legge della Regione Campania n. 36/1993, che attribuisce ai Comuni il compito di vigilare, tramite le Asl, sul comportamento degli animali.
Assume quindi che va ascritta al Comune, in solido con la ASL, la responsabilità dell'accaduto, in quanto spetta al Comune provvedere alla vigilanza del territorio ed alla cattura, alla custodia ed al mantenimento dei cani randagi; particolarmente in considerazione del fatto che, nel caso di specie, erano pervenute al Comune di numerose segnalazioni della cittadinanza, relative alla presenza sul territorio del cane che ha provocato l'incìdente ed alle molestie che esso arrecava alla popolazione.
5.- I motivi - che possono essere congiuntamente esaminati - sono fondati nei termini che seguono.
La Corte di appello, escludendo la responsabilità del Comune, è incorsa nella violazione delle norme di legge sul randagismo, che impongono ai Comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone, nelle vie cittadine; violazione aggravata dalla circostanza che vi erano state diverse segnalazioni della presenza dell'animale randagio, da parte della cittadinanza.
La Corte ha poi negato la responsabilità del Comune con motivazione intrinsecamente illogica ed antigiuridica, nella parte in cui ha ritenuto che la tarda età della vittima e la piccola taglia del cane valessero a porre a carico della danneggiata l'intera responsabilità dell'incidente. Sussistendo l'illecito, cioè l'indebita presenza sulla strada del cane randagio, la peculiare debolezza e sensibilità della vittima che - in base alla ricostruzione dei fatti che si legge nella sentenza impugnata - si è spaventata ed è caduta, per il timore di essere morsa dall'animale che le abbaiava contro, manifestando intenzioni aggressive, non rende il danno meno grave ed ingiusto.
Anche le persone anziane debbono poter circolare sul territorio pubblico, senza essere esposte a situazioni di pericolo, ed in particolare a quelle che l'ente pubblico è espressamente obbligato a prevenire, quali il randagismo.
Nè l'eventuale debolezza o lo scarso controllo dei propri movimenti da parte della vittima valgono di per sé ad escludere il nesso causale fra 1'illecito e il danno, salvo che si dimostri che tali condizioni fossero di tale gravità da potersi considerare sufficienti da sole a produrre l'evento (art. 40 e 41 cod. pen., su cui cfr. Cass. civ., Sez. Ili, 10 ottobre 2008 n, 25028 e 4 gennaio 2010 n. 4, fra le altre).
La sentenza impugnata non ha preso in alcun modo in esame questo specifico aspetto. Sicché risultano fondate anche le censure di insufficiente motivazione.
6.- In accoglimento del ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, affinché decida la controversia uniformandosi ai principi sopra enunciati e con congrua e logica motivazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, la quale deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 16 marzo 2010.


E se un cane ti morde x strada .... chi paga ????

Danni da randagismo: anche il Comune è tenuto al risarcimento?

Cassazione civile , sez. III, sentenza 16.03.2010 n° 10190 (Raffaele Plenteda)

La violazione delle norme di legge sul randagismo, che impongono ai Comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone, nelle vie cittadine è fonte dell’obbligo dei Comuni di risarcire i danni che tali animali abbiano causato agli utenti delle strade
Lo ha stabilito la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione nella sentenza 28 aprile 2010, n. 10190 la quale interviene nuovamente, sia pure con un succinto passaggio motivazionale, sulla vexata questio della legittimazione passiva e, quindi, dell’individuazione del soggetto pubblico legittimato a rispondere dei danni causati da animali randagi[1].
La disciplina di riferimento è rappresentata dalla Legge 281/91 recante “Legge-quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”.
L'art. 2, nell’individuare gli strumenti rivolti ad arginare il fenomeno del randagismo, distribuisce le competenze tra i Comuni ed i Servizi veterinari delle ASL.
In particolare, ai Comuni è affidata la costruzione, sistemazione e gestione dei canili e rifugi per cani, alle ASL, invece, incombono le attività di profilassi e controllo igienico-sanitario e di polizia veterinaria.
L'art. 3, infine, attribuisce alle singole Regioni il compito di disciplinare, con legge propria, le misure di attuazione delle funzioni attribuite ai Comuni ed alle ASL e, in attuazione di tale delega, le Regioni hanno adottato proprie leggi in materia, nelle quali – tendenzialmente – affidano le più ampie competenze di controllo e recupero dei cani randagi ai servizi veterinari delle ASL.
Muovendo dal quadro normativo appena descritto, la giurisprudenza di legittimità sembrava, con pronunce anche molto recenti, definitivamente orientata nel senso di affermare la legittimazione passiva esclusiva della ASL nei giudizi risarcitori aventi ad oggetto i danni causati da animali randagi. In tal senso, si era pronunciata la stessa Terza Sezione della Cassazione nella nota sentenza n. 27001/05, il cui indirizzo ha avuto, da ultimo, ulteriore avallo nella sentenza n. 8137/09.
La tesi della legittimazione esclusiva delle ASL, sulla quale pareva attestarsi la Corte di Cassazione, sollevava notevoli dubbi e perplessità espresse non solo dai commentatori[2], ma anche da molta giurisprudenza di merito[3], che continuava a dimostrarsi più propensa a riconoscere una responsabilità solidale di Comune ed ASL.
La sentenza in commento è destinata a riaprire una questione in realtà mai completamente sopita, in quanto la Corte si è discostata dall’orientamento espresso negli ultimi arresti sul tema
Occorre considerare però che, in questa sede, i Giudici di Piazza Cavour si sono limitati ad una affermazione di massima, senza sviluppare ulteriori approfondimenti sul tema e, soprattutto, senza richiamare e rielaborare, eventualmente in chiave critica, i principi espressi nei precedenti interventi sul tema.
Per la definitiva soluzione del problema, allora, occorrerà ancora attendere, per appurare se quanto stabilito in questa sentenza possa consolidarsi e divenire ius receptum o se, al contrario, sia destinato a rimanere pronuncia isolata, espressione di quell’incedere altalenante tipico del diritto di formazione giurisprudenziale.
(Altalex, 12 luglio 2010. Nota di Raffaele Plenteda. Si ringrazia per la segnalazione Simona Pignataro)
_________________
[1] Per una trattazione riepilogativa del tema, vedi G. NUZZO, Responsabilità per danni causati da animali randagi.
[2] Cfr. G. NUZZO, Articolo citato.
[3] Ex multis, vedi Giudice di Pace Fasano, sentenza 7 gennaio 2010, n. 2, edito su Altalex Mese con nota di A. CALALUNA “Legittimazione di Comune e Asl nel giudizio per risarcimento danni per il morso di un cane randagio”.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 16 marzo 2010, n. 10190
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. MICHELE VARRÒNE Presidente -

Dott. CAMILLO FILADORO - Consigliere -

Dott. FULVIO UCCELLA - consigliere

Dott. GIANCARLO URBAN - Consigliere

Dott. RAFFAELLA LANZILLO - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 23588-2006 proposto da ****
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/03/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MAURIZIO VELARDI che ha concluso per accoglimento per quanto di ragione
Svolgimento del processo
Con sentenza 10 giugno-5 settembre 2005 n. 2533 la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale dì S. Maria Capua Vetere, ha respinto la domanda proposta da contro il Comune di per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell'aggressione di un cane randagio, lungo una via comunale.
Il Tribunale aveva accolto la domanda, liquidando all'attrice la somma di € 33.915,28.
La Corte di appello ha escluso la responsabilità del Comune per omessa adozione di provvedimenti contro il randagismo, rilevando che la quasi novantenne, è caduta rompendosi il femore non a causa dell'aggressione del cane, ma solo per il timore di venire aggredita.



La propone quattro motivi di ricorso per cassazione.
Il Comune non ha depositato difese.
Motivi della decisione
1. Con i primi tre motivi la ricorrente denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione nelle parti in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che essa non sia venuta a contatto con l'animale; che il nesso causale fra 1'illecito e il danno sia da ritenere interrotto a causa della tarda età della danneggiata, e che l'animale non fosse un cane randagio.
Assume che risulta dalle deposizioni testimoniali che essa è caduta per difendersi dai morsi del cane; che, in mancanza dell'aggressione, non sarebbe caduta e non si sarebbe rotta il femore e che il verbale dei vigili urbani ha accertato che il cane non era di proprietà di alcuno.
4.- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 2043 cod. civ., della legge nazionale n. 281 del 1991, che demanda alle Regioni di emanare proprie leggi per l'istituzione dell'anagrafe canina e per l'adozione di programmi contro il randagismo, nonché della legge della Regione Campania n. 36/1993, che attribuisce ai Comuni il compito di vigilare, tramite le Asl, sul comportamento degli animali.
Assume quindi che va ascritta al Comune, in solido con la ASL, la responsabilità dell'accaduto, in quanto spetta al Comune provvedere alla vigilanza del territorio ed alla cattura, alla custodia ed al mantenimento dei cani randagi; particolarmente in considerazione del fatto che, nel caso di specie, erano pervenute al Comune di numerose segnalazioni della cittadinanza, relative alla presenza sul territorio del cane che ha provocato l'incìdente ed alle molestie che esso arrecava alla popolazione.
5.- I motivi - che possono essere congiuntamente esaminati - sono fondati nei termini che seguono.
La Corte di appello, escludendo la responsabilità del Comune, è incorsa nella violazione delle norme di legge sul randagismo, che impongono ai Comuni di assumere provvedimenti per evitare che gli animali randagi arrechino disturbo alle persone, nelle vie cittadine; violazione aggravata dalla circostanza che vi erano state diverse segnalazioni della presenza dell'animale randagio, da parte della cittadinanza.
La Corte ha poi negato la responsabilità del Comune con motivazione intrinsecamente illogica ed antigiuridica, nella parte in cui ha ritenuto che la tarda età della vittima e la piccola taglia del cane valessero a porre a carico della danneggiata l'intera responsabilità dell'incidente. Sussistendo l'illecito, cioè l'indebita presenza sulla strada del cane randagio, la peculiare debolezza e sensibilità della vittima che - in base alla ricostruzione dei fatti che si legge nella sentenza impugnata - si è spaventata ed è caduta, per il timore di essere morsa dall'animale che le abbaiava contro, manifestando intenzioni aggressive, non rende il danno meno grave ed ingiusto.
Anche le persone anziane debbono poter circolare sul territorio pubblico, senza essere esposte a situazioni di pericolo, ed in particolare a quelle che l'ente pubblico è espressamente obbligato a prevenire, quali il randagismo.
Nè l'eventuale debolezza o lo scarso controllo dei propri movimenti da parte della vittima valgono di per sé ad escludere il nesso causale fra 1'illecito e il danno, salvo che si dimostri che tali condizioni fossero di tale gravità da potersi considerare sufficienti da sole a produrre l'evento (art. 40 e 41 cod. pen., su cui cfr. Cass. civ., Sez. Ili, 10 ottobre 2008 n, 25028 e 4 gennaio 2010 n. 4, fra le altre).
La sentenza impugnata non ha preso in alcun modo in esame questo specifico aspetto. Sicché risultano fondate anche le censure di insufficiente motivazione.
6.- In accoglimento del ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, affinché decida la controversia uniformandosi ai principi sopra enunciati e con congrua e logica motivazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, la quale deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 16 marzo 2010.

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