venerdì 28 maggio 2010

Brevi "dritte" di contabilità e bilancio

La riattribuzione delle ritenute residue: aspetti operativi e contabili


"Prologo" id est: "Lo dice la Circolare" !


La Circ. N. 18/IR del 12 maggio 2010 dell’Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti dal titolo: Compensabilità delle eccedenze IRPEF dei soci o associati con i debiti tributari e contributivi di società di persone e associazioni professionali, ci offre lo spunto per trattare un tema di stringente attualità che è quello della riattribuzione delle ritenute alla fonte in acconto che i soci possono effettuare a favore delle società di persone o delle associazioni professionali partecipate, una volta azzerato il carico tributario personale per IRPEF. Anche l’Agenzia delle Entrate, con C.M. 23/12/2009 n. 56, ne aveva riconosciuto la possibilità.






Aspetti generali


Il tema della retrocessione delle ritenute residue IRPEF alla società, non fruibili da parte dei soci per avvenuto azzeramento del proprio carico tributario IRPEF, permette di realizzare, nel comparto delle società di persone e delle associazioni professionali, una sorta di cash pooling fiscale bidirezionale. In altri termini, a fronte dell’obbligo della società di persone e delle associazioni professionali di trasferire ai soci o associati le ritenute subite a titolo di IRPEF, per inesistenza in capo alla società della soggettività passiva ai fini del tributo personale, si introduce la possibilità che per mezzo di apposito atto avente data certa, i soci o associati possano riattribuire alla società ; o associazione, quanto residui a titolo di ritenute IRPEF, dopo l’azzeramento del proprio debito tributario, affinché la società possa compensare i crediti ritrasferiti, con i propri debiti tributari e contributivi.






Aspetti giuridici


Il punto di partenza è una diversa lettura (sistematica ed evolutiva viene definita dal documento interpretativo dell’IRDCEC citato in precedenza) dell’art. 22, comma 1, lettera c) ultimo periodo del TUIR stabilisce che “Le ritenute operate sui redditi delle società, associazioni e imprese indicate nell’articolo 5 si scomputano, nella proporzione ivi stabilita, dalle imposte dovute dai singoli soci, associati o partecipanti”. La disposizione, se letta singolarmente, non lascerebbe spazi di manovra al contribuente; in tal senso, pertanto, prima della diffusione delle conclusioni raggiunte con la circ. n. 56/E del 23 dicembre 2009, la prassi ne aveva decretato l’esclusivo utilizzo da parte del socio o associato, escludendo qualsivoglia forma di riattribuzione alla societ&ag rave; o associazione delle ritenute non utilizzate. Questa impostazione si è tuttavia rivelata penalizzante in tutta una serie di circostanze in cui l’impatto dei componenti negativi rispetto a quelli positivi sia risultata particolarmente elevata, situazioni in cui, a seguito del trasferimento delle ritenute connesso all’applicazione del regime di trasparenza fiscale da parte, ad esempio, di associazioni professionali, maturano importi a credito in capo all’associato destinati ad essere riportati a nuovo in dichiarazione o a essere richiesti a rimborso, a dispetto della possibilità per l’associazione di compensare sin da subito il credito IRPEF rimasto inutilizzato in capo all’associato, ad esempio al momento di versare gli importi dovuti all’Erario a titolo di IVA o di IRAP. Analoghe situazioni possono verificarsi nel caso di società di persone o comunque di soggetti “trasparenti” sul piano fiscale che effettuano prestazioni inerenti a rapporti di commissione, di agenzia, di mediazione, di rappresentanza di commercio e di procacciamento di affari, in quanto anche su tali provvigioni viene ad essere applicata una ritenuta a titolo di acconto.


Nel merito, secondo l’Amministrazione finanziaria, la riportata previsione recata dall’art. 22 del TUIR richiede all’interprete una necessaria operazione di coordinamento con quanto previsto riguardo alla facoltà di compensare imposte e contributi, riconosciuta dall’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, a tutti i contribuenti che effettuano versamenti diretti. Da un lato, siamo infatti in presenza di una disposizione il cui tenore letterale depone per lo scomputo delle ritenute esclusivamente dalle imposte dovute dai soci o associati, mentre dall’altro è stata prevista, alla luce della facoltà introdotta dall’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, la generalizzata possibilità di compensazione tra imposte e contributi di natura diversa. Detto articolo, in particolare, al comma s econdo, elenca i crediti e i debiti che possono formare oggetto di compensazione, menzionando espressamente, al numero 1), quelli relativi alle imposte sui redditi.


Si rende necessario, dunque, adottare una chiave di lettura “evolutiva e sistematica”, che non può trascurare, a parere dell’Amministrazione finanziaria, che la predetta posizione creditoria, essendo relativa alla sfera dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, rientra da un punto di vista oggettivo tra i crediti che possono essere utilizzati in compensazione, ai sensi del già citato art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997. Inoltre, va considerato che la disposizione attualmente recata dall’art. 22 del TUIR rappresentava, in origine, una norma necessitata in quanto consentiva lo scomputo delle ritenute a un soggetto diverso da quello che le aveva subite (società o associazione) soltanto perché quest’ultimo, in virtù del principio di trasparenza, non costituiva (così come ancora attualmente) il soggetto passivo ai fini delle imposte sui redditi. Tale norma, dunque, nelle intenzioni originarie del Legislatore, non conteneva alcun divieto nei confronti della società o associazione, ma sanciva soltanto un diritto a favore dei soci o associati.


In definitiva, secondo l’Amministrazione finanziaria, i soci o associati di società e associazioni di cui all’art. 5 del TUIR possono accordare espressamente il proprio consenso all’utilizzo da parte della società o associazione delle ritenute che residuano una volta operato lo scomputo dal proprio debito IRPEF, con la conseguenza che il credito ad esse relativo potrà essere utilizzato dalle prime in compensazione per i pagamenti di altre imposte e contributi attraverso il modello F24.


È chiaro, peraltro, che questa maggiore elasticità nei riguardi delle esigenze di carattere finanziario del contribuente non può tramutarsi in un vero e proprio arbitrio in relazione alla gestione di poste creditorie nei confronti dell’Erario. Conseguentemente, l’Agenzia delle Entrate, nella circ. n. 56/E del 2009, ha posto l’accento sul fatto che non sono ammessi ripensamenti in ordine alla scelta effettuata, nel senso che una volta che le ritenute residue siano state riattribuite alla società o associazione e tale credito sia stato da queste utilizzato in compensazione con i propri debiti tributari e previdenziali, eventuali ulteriori importi residui di credito non potranno più essere ritrasferiti ai soci medesimi.


Tornando alla procedura di riattribuzione delle ritenute residue, tale scelta deve essere manifestata, secondo la C.M. 23/12/2009 n. 56, con un apposito atto avente data certa, che potrà essere costituito da:


a) una scrittura privata autenticata;


b) una clausola inserita nell’atto costitutivo;

Brevi "dritte" di contabilità e bilancio

La riattribuzione delle ritenute residue: aspetti operativi e contabili

"Prologo" id est: "Lo dice la Circolare" !

La Circ. N. 18/IR del 12 maggio 2010 dell’Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti dal titolo: Compensabilità delle eccedenze IRPEF dei soci o associati con i debiti tributari e contributivi di società di persone e associazioni professionali, ci offre lo spunto per trattare un tema di stringente attualità che è quello della riattribuzione delle ritenute alla fonte in acconto che i soci possono effettuare a favore delle società di persone o delle associazioni professionali partecipate, una volta azzerato il carico tributario personale per IRPEF. Anche l’Agenzia delle Entrate, con C.M. 23/12/2009 n. 56, ne aveva riconosciuto la possibilità.



Aspetti generali

Il tema della retrocessione delle ritenute residue IRPEF alla società, non fruibili da parte dei soci per avvenuto azzeramento del proprio carico tributario IRPEF, permette di realizzare, nel comparto delle società di persone e delle associazioni professionali, una sorta di cash pooling fiscale bidirezionale. In altri termini, a fronte dell’obbligo della società di persone e delle associazioni professionali di trasferire ai soci o associati le ritenute subite a titolo di IRPEF, per inesistenza in capo alla società della soggettività passiva ai fini del tributo personale, si introduce la possibilità che per mezzo di apposito atto avente data certa, i soci o associati possano riattribuire alla società ; o associazione, quanto residui a titolo di ritenute IRPEF, dopo l’azzeramento del proprio debito tributario, affinché la società possa compensare i crediti ritrasferiti, con i propri debiti tributari e contributivi.



Aspetti giuridici

Il punto di partenza è una diversa lettura (sistematica ed evolutiva viene definita dal documento interpretativo dell’IRDCEC citato in precedenza) dell’art. 22, comma 1, lettera c) ultimo periodo del TUIR stabilisce che “Le ritenute operate sui redditi delle società, associazioni e imprese indicate nell’articolo 5 si scomputano, nella proporzione ivi stabilita, dalle imposte dovute dai singoli soci, associati o partecipanti”. La disposizione, se letta singolarmente, non lascerebbe spazi di manovra al contribuente; in tal senso, pertanto, prima della diffusione delle conclusioni raggiunte con la circ. n. 56/E del 23 dicembre 2009, la prassi ne aveva decretato l’esclusivo utilizzo da parte del socio o associato, escludendo qualsivoglia forma di riattribuzione alla societ&ag rave; o associazione delle ritenute non utilizzate. Questa impostazione si è tuttavia rivelata penalizzante in tutta una serie di circostanze in cui l’impatto dei componenti negativi rispetto a quelli positivi sia risultata particolarmente elevata, situazioni in cui, a seguito del trasferimento delle ritenute connesso all’applicazione del regime di trasparenza fiscale da parte, ad esempio, di associazioni professionali, maturano importi a credito in capo all’associato destinati ad essere riportati a nuovo in dichiarazione o a essere richiesti a rimborso, a dispetto della possibilità per l’associazione di compensare sin da subito il credito IRPEF rimasto inutilizzato in capo all’associato, ad esempio al momento di versare gli importi dovuti all’Erario a titolo di IVA o di IRAP. Analoghe situazioni possono verificarsi nel caso di società di persone o comunque di soggetti “trasparenti” sul piano fiscale che effettuano prestazioni inerenti a rapporti di commissione, di agenzia, di mediazione, di rappresentanza di commercio e di procacciamento di affari, in quanto anche su tali provvigioni viene ad essere applicata una ritenuta a titolo di acconto.

Nel merito, secondo l’Amministrazione finanziaria, la riportata previsione recata dall’art. 22 del TUIR richiede all’interprete una necessaria operazione di coordinamento con quanto previsto riguardo alla facoltà di compensare imposte e contributi, riconosciuta dall’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, a tutti i contribuenti che effettuano versamenti diretti. Da un lato, siamo infatti in presenza di una disposizione il cui tenore letterale depone per lo scomputo delle ritenute esclusivamente dalle imposte dovute dai soci o associati, mentre dall’altro è stata prevista, alla luce della facoltà introdotta dall’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, la generalizzata possibilità di compensazione tra imposte e contributi di natura diversa. Detto articolo, in particolare, al comma s econdo, elenca i crediti e i debiti che possono formare oggetto di compensazione, menzionando espressamente, al numero 1), quelli relativi alle imposte sui redditi.

Si rende necessario, dunque, adottare una chiave di lettura “evolutiva e sistematica”, che non può trascurare, a parere dell’Amministrazione finanziaria, che la predetta posizione creditoria, essendo relativa alla sfera dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, rientra da un punto di vista oggettivo tra i crediti che possono essere utilizzati in compensazione, ai sensi del già citato art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997. Inoltre, va considerato che la disposizione attualmente recata dall’art. 22 del TUIR rappresentava, in origine, una norma necessitata in quanto consentiva lo scomputo delle ritenute a un soggetto diverso da quello che le aveva subite (società o associazione) soltanto perché quest’ultimo, in virtù del principio di trasparenza, non costituiva (così come ancora attualmente) il soggetto passivo ai fini delle imposte sui redditi. Tale norma, dunque, nelle intenzioni originarie del Legislatore, non conteneva alcun divieto nei confronti della società o associazione, ma sanciva soltanto un diritto a favore dei soci o associati.

In definitiva, secondo l’Amministrazione finanziaria, i soci o associati di società e associazioni di cui all’art. 5 del TUIR possono accordare espressamente il proprio consenso all’utilizzo da parte della società o associazione delle ritenute che residuano una volta operato lo scomputo dal proprio debito IRPEF, con la conseguenza che il credito ad esse relativo potrà essere utilizzato dalle prime in compensazione per i pagamenti di altre imposte e contributi attraverso il modello F24.

È chiaro, peraltro, che questa maggiore elasticità nei riguardi delle esigenze di carattere finanziario del contribuente non può tramutarsi in un vero e proprio arbitrio in relazione alla gestione di poste creditorie nei confronti dell’Erario. Conseguentemente, l’Agenzia delle Entrate, nella circ. n. 56/E del 2009, ha posto l’accento sul fatto che non sono ammessi ripensamenti in ordine alla scelta effettuata, nel senso che una volta che le ritenute residue siano state riattribuite alla società o associazione e tale credito sia stato da queste utilizzato in compensazione con i propri debiti tributari e previdenziali, eventuali ulteriori importi residui di credito non potranno più essere ritrasferiti ai soci medesimi.

Tornando alla procedura di riattribuzione delle ritenute residue, tale scelta deve essere manifestata, secondo la C.M. 23/12/2009 n. 56, con un apposito atto avente data certa, che potrà essere costituito da:

a) una scrittura privata autenticata;

b) una clausola inserita nell’atto costitutivo;

mercoledì 26 maggio 2010

L'estorsione nei rapporti familiari

Estorsione nei confronti di coniuge separato (Cass. pen., n. 15111/2010)


G. Dingeo (Nota a sentenza 25/5/2010)



Cass. pen., sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111

Con questa sentenza la Corte si occupa di un problema particolare. Ci si domanda infatti se può essere accusato del reato di estorsione il coniuge, proprietario della casa coniugale che in sede di separazione e divorzio venga affidata all'altro coniuge, che, con minacce di morte, lo costringa a trasferirsi altrove.

I fatti sono i seguenti. Tizio veniva condannato dal GUP per il reato di estorsione, per aver costretto, con minacce di morte e altre violenze, la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale e a trasferirsi altrove.

Detta casa era di proprietà dei familiari di Tizio.

Tizio ricorreva alla Corte d'appello che confermava la sentenza.

Pertanto, insoddisfatto, adiva il giudice di legittimità con tre distinti motivi di censura.

Col primo, lamentava la mancanza dell'elemento dell'ingiusto profitto, elemento qualificante del reato ascrittogli, perché l'abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l'intenzione di trasferirsi altrove.

Col secondo, sosteneva che le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.

Con l'ultimo, affermava che, tutt' al più, era ravvisabile, nella sua condotta, il reato di cui all'art. 393 c.p. ( ovvero esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) in quanto egli avrebbe potuto adire il giudice per ottenere l'immobile che era, in pratica, di sua proprietà.

Pertanto chiedeva l'annullamento della sentenza d'appello.

In questa sentenza vengono in considerazione i seguenti articoli. Innanzitutto l'art. 393 (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone): Chiunque, al fine indicato nell'articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell'offeso, con la reclusione fino a un anno.

Se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a euro 206.
La pena è aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi.
Viene poi in considerazione l'articolo 629 ( Estorsione): Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad ammettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.

La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.

Il Gup aveva riconosciuto la sussistenza del reato a causa dell'ingiusto profitto tratto dall'imputato Tizio che, con l'uso di violenze e minacce di morte, aveva costretto la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale che il giudice divorzile le aveva affidato, pur essendo, in pratica, di lui la proprietà dell'immobile.

I giudici della corte territoriale, in secondo grado di giudizio, decretavano l'irricevibilità della richiesta di ribaltare la sentenza, confermandola pienamente.

La cassazione respinge il ricorso, qualificandolo manifestamente infondato.

Anzitutto, i giudici di legittimità sgombrano il campo dal primo dubbio sollevato dall'odierno ricorrente, affermando che la sua ex moglie non aveva alcuna intenzione di abbandonare la casa coniugale a lei affidata in sede di separazione e divorzio. Ma vi era stata costretta dalle violenze e minacce di morte di Tizio, come chiaramente emerso anche grazie a diverse prove testimoniali acquisite in primo grado di giudizio.

Né l'odierno ricorrente adduce elementi a suffragio della tesi dell'abbandono volontario dell'immobile da parte della sua ex moglie, limitandosi ad una generica affermazione.

In relazione all'elemento del giusto profitto, esso chiaramente sussiste.

La casa era stata affidata a sua moglie, per quanto di proprietà dei familiari di lui, e dunque non era nella disponibilità dell'uomo.

Tizio, come risultato finale della sua condotta criminosa, cioè estorsiva, ha tratto ingiusto profitto, cagionando, aggiungiamo noi, un grave danno alla sua ex moglie, che, evidentemente, ha dovuto cercare un'altra casa con tutti i costi a ciò connessi (trasloco, locazione di altro immobile), magari aumentati dalla fretta con cui ha dovuto agire per sottrarsi alle violenze dell'ex marito.

Quanto all'ultima doglianza circa l'applicabilità dell'art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l'imputato poteva, in astratto, adire il giudice, ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate. E che, peraltro, possiamo aggiungere, nemmeno ci sono, poiché Tizio non poteva esercitare arbitrariamente le proprie ragioni, in quanto, giuridicamente, egli non ne aveva.

La casa era stata affidata dal giudice del divorzio a sua moglie.

La pretesa del marito di ritornarvi in possesso era del tutto giuridicamente infondata.

Dunque, non aveva ragione alcuna da esercitare, sia pur arbitrariamente (art. 393 c.p.).
Pertanto, correttamente, la sez. II penale della Corte di Cassazione respinge il ricorso, confermando la sentenza impugnata e condannando, altresì, Tizio al pagamento, a favore della Cassa delle ammende, della somma di mille Euro, equitativamente fissata in ragione di chiari profili di colpa del ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
Dott.ssa Giacomina Dingeo


L'estorsione nei rapporti familiari

Estorsione nei confronti di coniuge separato (Cass. pen., n. 15111/2010)

G. Dingeo (Nota a sentenza 25/5/2010)

Cass. pen., sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111
Con questa sentenza la Corte si occupa di un problema particolare. Ci si domanda infatti se può essere accusato del reato di estorsione il coniuge, proprietario della casa coniugale che in sede di separazione e divorzio venga affidata all'altro coniuge, che, con minacce di morte, lo costringa a trasferirsi altrove.
I fatti sono i seguenti. Tizio veniva condannato dal GUP per il reato di estorsione, per aver costretto, con minacce di morte e altre violenze, la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale e a trasferirsi altrove.
Detta casa era di proprietà dei familiari di Tizio.
Tizio ricorreva alla Corte d'appello che confermava la sentenza.
Pertanto, insoddisfatto, adiva il giudice di legittimità con tre distinti motivi di censura.
Col primo, lamentava la mancanza dell'elemento dell'ingiusto profitto, elemento qualificante del reato ascrittogli, perché l'abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l'intenzione di trasferirsi altrove.
Col secondo, sosteneva che le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.
Con l'ultimo, affermava che, tutt' al più, era ravvisabile, nella sua condotta, il reato di cui all'art. 393 c.p. ( ovvero esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) in quanto egli avrebbe potuto adire il giudice per ottenere l'immobile che era, in pratica, di sua proprietà.
Pertanto chiedeva l'annullamento della sentenza d'appello.
In questa sentenza vengono in considerazione i seguenti articoli. Innanzitutto l'art. 393 (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone): Chiunque, al fine indicato nell'articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito, a querela dell'offeso, con la reclusione fino a un anno.
Se il fatto è commesso anche con violenza sulle cose, alla pena della reclusione è aggiunta la multa fino a euro 206.
La pena è aumentata se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi.
Viene poi in considerazione l'articolo 629 ( Estorsione): Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad ammettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.
La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.
Il Gup aveva riconosciuto la sussistenza del reato a causa dell'ingiusto profitto tratto dall'imputato Tizio che, con l'uso di violenze e minacce di morte, aveva costretto la sua ex moglie ad abbandonare la casa coniugale che il giudice divorzile le aveva affidato, pur essendo, in pratica, di lui la proprietà dell'immobile.
I giudici della corte territoriale, in secondo grado di giudizio, decretavano l'irricevibilità della richiesta di ribaltare la sentenza, confermandola pienamente.
La cassazione respinge il ricorso, qualificandolo manifestamente infondato.
Anzitutto, i giudici di legittimità sgombrano il campo dal primo dubbio sollevato dall'odierno ricorrente, affermando che la sua ex moglie non aveva alcuna intenzione di abbandonare la casa coniugale a lei affidata in sede di separazione e divorzio. Ma vi era stata costretta dalle violenze e minacce di morte di Tizio, come chiaramente emerso anche grazie a diverse prove testimoniali acquisite in primo grado di giudizio.
Né l'odierno ricorrente adduce elementi a suffragio della tesi dell'abbandono volontario dell'immobile da parte della sua ex moglie, limitandosi ad una generica affermazione.
In relazione all'elemento del giusto profitto, esso chiaramente sussiste.
La casa era stata affidata a sua moglie, per quanto di proprietà dei familiari di lui, e dunque non era nella disponibilità dell'uomo.
Tizio, come risultato finale della sua condotta criminosa, cioè estorsiva, ha tratto ingiusto profitto, cagionando, aggiungiamo noi, un grave danno alla sua ex moglie, che, evidentemente, ha dovuto cercare un'altra casa con tutti i costi a ciò connessi (trasloco, locazione di altro immobile), magari aumentati dalla fretta con cui ha dovuto agire per sottrarsi alle violenze dell'ex marito.
Quanto all'ultima doglianza circa l'applicabilità dell'art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l'imputato poteva, in astratto, adire il giudice, ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate. E che, peraltro, possiamo aggiungere, nemmeno ci sono, poiché Tizio non poteva esercitare arbitrariamente le proprie ragioni, in quanto, giuridicamente, egli non ne aveva.
La casa era stata affidata dal giudice del divorzio a sua moglie.
La pretesa del marito di ritornarvi in possesso era del tutto giuridicamente infondata.
Dunque, non aveva ragione alcuna da esercitare, sia pur arbitrariamente (art. 393 c.p.).
Pertanto, correttamente, la sez. II penale della Corte di Cassazione respinge il ricorso, confermando la sentenza impugnata e condannando, altresì, Tizio al pagamento, a favore della Cassa delle ammende, della somma di mille Euro, equitativamente fissata in ragione di chiari profili di colpa del ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
Dott.ssa Giacomina Dingeo

Corte di Cassazione Civile sez. II 10/5/2010 n. 11273


Sono valide le multe fatte con autovelox non sottoposto a taratura periodica (Cass. n. 11273/2010)


Svolgimento del processo - Motivi della decisione


1. Il Ministero dell'Interno e l'Ufficio Territoriale del Governo di Catania impugnano la sentenza del Giudice di Pace di Ramacca n. 61 del 2005 che aveva accolto l'opposizione proposta dall'odierno intimato, M.G., avverso il verbale di contestazione della Polizia stradale di Catania (omissis) per la violazione dell'art. 142 C.d.S., comma 9, accertata mediante apparecchiatura autovelox modello 104/C2. 2. L'opponente, a sostegno del ricorso, deduceva i seguenti profili di censura: a) violazione dell'obbligo di informazione di cui al D.L. n. 121 del 2002, art. 4, comma 2, convertito in L. n. 168 del 2002; b) omessa indicazione nel verbale della velocità rilevata e della tolleranza strumentale; c) mancata indicazione della taratura dell'apparecchio rilevatore della velocità. 3. Il Giudice di Pace accoglieva l'opposizione per mancata prova in ordine alla omologazione dell'apparecchiatura e della sua periodica taratura, richiesta dalla normativa nazionale e comunitaria. Riteneva, quindi, inattendibile lo strumento utilizzato, non essendo sufficiente l'attestazione in ordine alla sua regolare funzionalità resa dagli agenti accertatori.


4. I ricorrenti articolano due complessi motivi di ricorso con i quali deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., dell'art. 115 c.p.c., comma 2, nonchè violazione e falsa applicazione della L. n. 273 del 1991, e dell'art. 45 C.d.S., art. 142 C.d.S., comma 6, e degli artt. 192, 345 e 383 reg. esec. C.d.S., nonchè vizi di motivazione.


5. L'intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

6. Attivata la procedura ex art. 375 c.p.c., la Procura Generale concludeva con richiesta di trattazione del ricorso in pubblica udienza, con specifico riferimento alla questione di costituzionalità sollevata in ordine alla mancata previsione normativa della taratura per lo strumento utilizzato per l'accertamento della violazione ai limiti di velocità di velocità. 7. All'udienza camerale veniva disposta la rinnovazione della notifica all'intimato con rinvio a nuovo ruolo previo nuovo esame preliminare.



8. Parte ricorrente ha regolarmente provveduto a quanto disposto con tale ordinanza.




10. Nelle more della trattazione del ricorso e dopo le conclusioni scritte della Procura Generale, questa sezione ha affrontato (nella trattazione di altro ricorso) anche la questione di costituzionalità sollevata dalla Procura Generale, ritenendola manifestamente infondata (Cass. 2008 n. 29333).


11. Questo Collegio ritiene di dover confermare, in ordine alla questione di costituzionalità sollevata dalla Procura Generale, il proprio orientamento già espresso con tale sentenza e così massimato: "E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, prospettata con riferimento agli artt. 3, 24 e 97 Cost., relativa all'art. 45 C.d.S., comma 6, D.L. n. 121 del 2002, art. 4, comma 3, (conv. in L. n. 168 del 2002), art. 142 C.d.S., comma 6, e art. 345 reg. esec. C.d.S., nella parte in cui non prevedono, per gli strumenti elettronici di misurazione dei limiti di velocità nella circolazione stradale, l'adozione dei sistemi di controllo, preventivi e periodici, previsti dalle relative normative (soprattutto dalla L. n. 273 del 1991), per tutti gli altri sistemi di misurazione (pesi, misure, etc.). Non vi è, infatti, alcuna violazione dell'art. 3 Cost., in quanto l'esistenza di evidenti difformità nei fini e negli oggetti delle discipline prese in considerazione impediscono di istituire un corretto raffronto fra le normative medesime, da cui poter desumere una disparità di trattamento rilevante ai fini della conformità alla norma costituzionale. Inoltre, la previsione, nel sistema normativo, di complessi sistemi di controllo - preventivi, in corso di utilizzazione e successivi - dei misuratori della velocità delle autovetture garantisce pienamente il cittadino, assoggettato all'accertamento, dalle possibili disfunzioni delle apparecchiature medesime ed esclude, quindi, ogni possibile lesione al diritto di difesa dei cittadini (art. 24 Cost.) ed alla legittimità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), non esistendo norme comunitarie vincolanti in materia di misurazione della velocità dei veicoli e di pertinenti apparecchiature". 12. - Il ricorso appare manifestamente fondato. In ordine alla normativa relativa alla necessità della taratura periodica dello strumento, occorre rilevare che la stessa non è richiesta dalla normativa nazionale, nè tantomeno da quella comunitaria direttamente applicabile.

La L. n. 273 del 1991, non è applicabile agli strumenti di misurazione della velocità. Infatti, tra i "campioni" nazionali delle unità di misura indicate in tale normativa non compare quello relativo alla velocità, mentre sono presenti quelli relativi alla lunghezza e al tempo. Patimenti non è applicabile il D.M. n. 182 del 2000. che riguarda le misure la cui utilizzazione è necessaria per la determinazione della quantità e/o del prezzo nelle transazioni commerciali.




Resta quindi applicabile la sola normativa nazionale, contenuta nel nuovo Codice della Strada agli artt. 45,192 e 345 reg. esec. C.d.S..


Tale normativa non contiene un'elencazione tassativa dei tipi di apparecchi elettronici utilizzabili per il rilevamento della velocità dei veicoli, ma si limita a prevedere in via generale una serie di requisiti in presenza dei quali gli strumenti di accertamento possono essere utilizzati. E' richiesto soltanto che l'apparecchio venga preventivamente omologato secondo i requisiti indicati nella legge. E ciò è avvenuto per l'apparecchiatura utilizzata nel caso in questione.


Nè è specificamente indicata la necessità di un controllo periodico finalizzato alla taratura dello strumento di misura, a meno che questa esigenza non venga indicata nel manuale del costruttore. Circostanza questa che non risulta nel caso in questione.


In definitiva le apparecchiature utilizzate per la rilevazione dei limiti di velocità e destinate ad essere impiegate sotto il costante controllo di un operatore tecnico sono dotate di sistemi di autodiagnosi dei guasti che avvisano l'operatore del loro cattivo funzionamento e per tali apparecchiature non è prevista una verifica periodica.


Il Giudice di Pace non si è attenuto a tali principi.


13. Il ricorso va accolto, il provvedimento impugnato cassato, e la causa va rimessa per nuovo esame, residuando altri motivi di opposizione non esaminati, ad altro giudice del merito pari ordinato, che si indica in diverso magistrato dello stesso ufficio, cui è anche demandato, ex art. 385 c.p.c., di pronunziare sulle spese del giudizio di legittimità.


P.Q.M.


LA CORTE accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altro magistrato dello stesso ufficio (Giudice di Pace di Ramacca), che deciderà anche sulle spese.


Per quanto riguarda la normativa comunitaria, precisato che non esistono norme comunitarie vincolanti applicabili alla materia della misurazione della velocità dei veicoli, occorre rilevare che non e vincolante la normativa UNI EN 30012 in assenza di leggi o regolamenti di recepimento. Nè è direttamente applicabile la raccomandazione OILM R91 del 1990 che in ogni caso riguarda apparecchiature radar non utilizzate nel caso in questione.
9. Disposta nuovamente trattazione in camera di consiglio, la Procura Generale ha chiesto nuovamente la trattazione del ricorso in pubblica udienza, proponendo nuovamente la questione di costituzionalità già avanzata ed in subordine l'accoglimento del ricorso.
Corte di Cassazione Civile sez. II 10/5/2010 n. 11273

Sono valide le multe fatte con autovelox non sottoposto a taratura periodica (Cass. n. 11273/2010)

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. Il Ministero dell'Interno e l'Ufficio Territoriale del Governo di Catania impugnano la sentenza del Giudice di Pace di Ramacca n. 61 del 2005 che aveva accolto l'opposizione proposta dall'odierno intimato, M.G., avverso il verbale di contestazione della Polizia stradale di Catania (omissis) per la violazione dell'art. 142 C.d.S., comma 9, accertata mediante apparecchiatura autovelox modello 104/C2. 2. L'opponente, a sostegno del ricorso, deduceva i seguenti profili di censura: a) violazione dell'obbligo di informazione di cui al D.L. n. 121 del 2002, art. 4, comma 2, convertito in L. n. 168 del 2002; b) omessa indicazione nel verbale della velocità rilevata e della tolleranza strumentale; c) mancata indicazione della taratura dell'apparecchio rilevatore della velocità. 3. Il Giudice di Pace accoglieva l'opposizione per mancata prova in ordine alla omologazione dell'apparecchiatura e della sua periodica taratura, richiesta dalla normativa nazionale e comunitaria. Riteneva, quindi, inattendibile lo strumento utilizzato, non essendo sufficiente l'attestazione in ordine alla sua regolare funzionalità resa dagli agenti accertatori.

4. I ricorrenti articolano due complessi motivi di ricorso con i quali deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., dell'art. 115 c.p.c., comma 2, nonchè violazione e falsa applicazione della L. n. 273 del 1991, e dell'art. 45 C.d.S., art. 142 C.d.S., comma 6, e degli artt. 192, 345 e 383 reg. esec. C.d.S., nonchè vizi di motivazione.

5. L'intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.
6. Attivata la procedura ex art. 375 c.p.c., la Procura Generale concludeva con richiesta di trattazione del ricorso in pubblica udienza, con specifico riferimento alla questione di costituzionalità sollevata in ordine alla mancata previsione normativa della taratura per lo strumento utilizzato per l'accertamento della violazione ai limiti di velocità di velocità. 7. All'udienza camerale veniva disposta la rinnovazione della notifica all'intimato con rinvio a nuovo ruolo previo nuovo esame preliminare.

8. Parte ricorrente ha regolarmente provveduto a quanto disposto con tale ordinanza.


10. Nelle more della trattazione del ricorso e dopo le conclusioni scritte della Procura Generale, questa sezione ha affrontato (nella trattazione di altro ricorso) anche la questione di costituzionalità sollevata dalla Procura Generale, ritenendola manifestamente infondata (Cass. 2008 n. 29333).

11. Questo Collegio ritiene di dover confermare, in ordine alla questione di costituzionalità sollevata dalla Procura Generale, il proprio orientamento già espresso con tale sentenza e così massimato: "E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, prospettata con riferimento agli artt. 3, 24 e 97 Cost., relativa all'art. 45 C.d.S., comma 6, D.L. n. 121 del 2002, art. 4, comma 3, (conv. in L. n. 168 del 2002), art. 142 C.d.S., comma 6, e art. 345 reg. esec. C.d.S., nella parte in cui non prevedono, per gli strumenti elettronici di misurazione dei limiti di velocità nella circolazione stradale, l'adozione dei sistemi di controllo, preventivi e periodici, previsti dalle relative normative (soprattutto dalla L. n. 273 del 1991), per tutti gli altri sistemi di misurazione (pesi, misure, etc.). Non vi è, infatti, alcuna violazione dell'art. 3 Cost., in quanto l'esistenza di evidenti difformità nei fini e negli oggetti delle discipline prese in considerazione impediscono di istituire un corretto raffronto fra le normative medesime, da cui poter desumere una disparità di trattamento rilevante ai fini della conformità alla norma costituzionale. Inoltre, la previsione, nel sistema normativo, di complessi sistemi di controllo - preventivi, in corso di utilizzazione e successivi - dei misuratori della velocità delle autovetture garantisce pienamente il cittadino, assoggettato all'accertamento, dalle possibili disfunzioni delle apparecchiature medesime ed esclude, quindi, ogni possibile lesione al diritto di difesa dei cittadini (art. 24 Cost.) ed alla legittimità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), non esistendo norme comunitarie vincolanti in materia di misurazione della velocità dei veicoli e di pertinenti apparecchiature". 12. - Il ricorso appare manifestamente fondato. In ordine alla normativa relativa alla necessità della taratura periodica dello strumento, occorre rilevare che la stessa non è richiesta dalla normativa nazionale, nè tantomeno da quella comunitaria direttamente applicabile.
La L. n. 273 del 1991, non è applicabile agli strumenti di misurazione della velocità. Infatti, tra i "campioni" nazionali delle unità di misura indicate in tale normativa non compare quello relativo alla velocità, mentre sono presenti quelli relativi alla lunghezza e al tempo. Patimenti non è applicabile il D.M. n. 182 del 2000. che riguarda le misure la cui utilizzazione è necessaria per la determinazione della quantità e/o del prezzo nelle transazioni commerciali.


Resta quindi applicabile la sola normativa nazionale, contenuta nel nuovo Codice della Strada agli artt. 45,192 e 345 reg. esec. C.d.S..

Tale normativa non contiene un'elencazione tassativa dei tipi di apparecchi elettronici utilizzabili per il rilevamento della velocità dei veicoli, ma si limita a prevedere in via generale una serie di requisiti in presenza dei quali gli strumenti di accertamento possono essere utilizzati. E' richiesto soltanto che l'apparecchio venga preventivamente omologato secondo i requisiti indicati nella legge. E ciò è avvenuto per l'apparecchiatura utilizzata nel caso in questione.

Nè è specificamente indicata la necessità di un controllo periodico finalizzato alla taratura dello strumento di misura, a meno che questa esigenza non venga indicata nel manuale del costruttore. Circostanza questa che non risulta nel caso in questione.

In definitiva le apparecchiature utilizzate per la rilevazione dei limiti di velocità e destinate ad essere impiegate sotto il costante controllo di un operatore tecnico sono dotate di sistemi di autodiagnosi dei guasti che avvisano l'operatore del loro cattivo funzionamento e per tali apparecchiature non è prevista una verifica periodica.

Il Giudice di Pace non si è attenuto a tali principi.

13. Il ricorso va accolto, il provvedimento impugnato cassato, e la causa va rimessa per nuovo esame, residuando altri motivi di opposizione non esaminati, ad altro giudice del merito pari ordinato, che si indica in diverso magistrato dello stesso ufficio, cui è anche demandato, ex art. 385 c.p.c., di pronunziare sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altro magistrato dello stesso ufficio (Giudice di Pace di Ramacca), che deciderà anche sulle spese.

Per quanto riguarda la normativa comunitaria, precisato che non esistono norme comunitarie vincolanti applicabili alla materia della misurazione della velocità dei veicoli, occorre rilevare che non e vincolante la normativa UNI EN 30012 in assenza di leggi o regolamenti di recepimento. Nè è direttamente applicabile la raccomandazione OILM R91 del 1990 che in ogni caso riguarda apparecchiature radar non utilizzate nel caso in questione.
9. Disposta nuovamente trattazione in camera di consiglio, la Procura Generale ha chiesto nuovamente la trattazione del ricorso in pubblica udienza, proponendo nuovamente la questione di costituzionalità già avanzata ed in subordine l'accoglimento del ricorso.

Pensione di reversibilità: E ... Se ci si risposa solo con rito religioso ???

Diritto alla pensione di reversibilità: cessazione per sopravvenuto matrimonio (Cass. civ., n. 9464/2010)


M. Rinaldi (Nota a sentenza 17/5/2010)



Corte di Cassazione, Sez. Lav., 21 aprile 2010, n. 9464 - Pres. Sciarelli - Rel. D'Agostino



Massima


Nella ipotesi di trascrizione tardiva del matrimonio religioso, il diritto del coniuge superstite e beneficiario della pensione di reversibilità non viene riconosciuto.
Neppure in caso di cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, poiché il sopra citato diritto viene a mancare a causa del sopravvenuto matrimonio.
Pertanto, la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva è che l'eventuale stato vedovile del coniuge viene meno dal momento della celebrazione del matrimonio religioso, di conseguenza la "perdita dello status di vedovo" fa venir meno anche il diritto alla pensione di reversibilità dal momento della celebrazione del matrimonio.



DIRITTO ALLA PENSIONE DI REVERSIBILITA': CESSAZIONE PER SOPRAVVENUTO MATRIMONIO

1. Premessa

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte ha provveduto ad esaminare uno degli argomenti spinosi del diritto del lavoro, in materia previdenziale e assistenziale, "intrecciato" con il diritto di famiglia nei rapporti tra coniugi.

Nella sentenza de quo i giudici di legittimità hanno precisato che la pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile del beneficiario.

Deve, pertanto, restituire quanto percepito la titolare della pensione di reversibilità INPS in seguito a matrimonio trascritto tardivamente (inizialmente non trascritto nei registri dello stato civile), e deve farlo a partire dalla data di celebrazione del matrimonio stesso.

In pratica, come hanno precisato i giudici di legittimità "la trascrizione tardiva del matrimonio religioso e la cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, comporta il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto".

La norma richiamata dai giudici era l'articolo 8, comma 5, della legge n. 121/1985 il quale dispone che "…………La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, …………….".

In base alla sopra citata norma, quindi, è possibile evincere che il matrimonio religioso (a seguito di trascrizione) ha effetti civili a partire dalla data della celebrazione: e un simile principio non può essere certo derogato nella ipotesi di una trascrizione tardiva.

La pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile e, pertanto, appena perduto tale stato, si perde automaticamente anche il diritto alla prestazione stessa a partire dalla data di celebrazione del nuovo matrimonio (non essendo più dovuta da tale momento la pensione).



2. La pensione di reversibilità: i presupposti

Le prestazioni pensionistiche si inseriscono nel quadro generale della previdenza sociale e sono costituite da quattro erogazioni fondamentali:

- la pensione di vecchiaia per i lavoratori autonomi;

- la pensione di vecchiaia per i lavoratori dipendenti;

- la pensione di anzianità;

- la pensione ai superstiti.

La pensione ai superstiti è quella che a noi interessa per l'oggetto della pronuncia in commento.

La pensione ai superstiti può rivestire due forme: indiretta e di reversibilità.

Quest'ultima spetta al defunto il quale fosse già titolare di pensione diretta (vecchiaia, inabilità, anzianità). Essa spetta, altresì, al coniuge separato e divorziato che ha diritto a tale pensione purché ricorrano le seguenti condizioni:

a) sia titolare di assegno di divorzio;

b) non si sia risposato;

c) l'ex coniuge abbia iniziato l'assicurazione presso l'INPS prima della sentenza di scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.

La L. 74/87 prevede, inoltre, che il coniuge divorziato abbia diritto alla pensione anche se il defunto si sia risposato e sia in vita il nuovo coniuge. In questo caso, però, l'INPS non paga automaticamente la pensione ma deve attendere una specifica sentenza del tribunale che divida la pensione tra i due interessati (coniuge ed ex coniuge) in proporzione alla durata del matrimonio di ciascuno (1).



2.1. La normativa di riferimento
Per quanto di interesse nella nostra trattazione, appare opportuno precisare che la questione è disciplinata dal secondo e terzo comma dell'art. 9, L. 898/70, come riformato dalla L. 74/87.

Il secondo comma dell'art. 9 della sopra citata legge dispone che il coniuge divorziato "in caso di morte dell'ex coniuge ed in assenza di un coniuge superstite, avente i requisiti per la pensione di reversibilità, ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza". Il terzo comma dispone, invece, che "qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5........".

I presupposti fondamentali a cui è subordinata la pensione di reversibilità del coniuge divorziato:

a) L'autonomia e la pari concorrenzialità con l'altro coniuge sottraggono alla discrezionalità del giudice la determinazione dell'attribuzione della pensione di reversibilità;

b) La norma non prevede la subordinazione del trattamento allo stato di bisogno del coniuge divorziato. Infatti, pur prevedendo quale requisito fondamentale per il riconoscimento al trattamento la titolarità dell'assegno di cui all'art. 5 (assegno divorzile), svincola la concreta attribuzione ai parametri che fondano il riconoscimento di quell'assegno (appunto lo stato di bisogno); analogo discorso vale per la determinazione del "quantum", attribuito qualunque sia l'ammontare dell'assegno divorzile, anche se minimo o meramente simbolico;

c) Ulteriore requisito consta nell'anteriorità della sentenza di divorzio al rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico (2).

In tema di trascrizione, l'articolo 8, comma 5 della legge n. 121/1985 dispone: il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l'ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto.

Il successivo comma 6 della legge stabilisce: la trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l'opposizione dell'altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente Io stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi"

In conseguenza di ciò si evince che il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione.

Tale principio non "può soffrire" deroga in caso di trascrizione tardiva (oltre i cinque giorni previsti dal terzo comma) restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi.

La retroattività degli effetti civili opera, sia nei confronti dei coniugi che dei terzi, a tutti gli effetti, ma comunque senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquistati dai terzi.


 
3. La vicenda
La vicenda può essere riassunta come segue:

la Cassazione accoglie il ricorso dell'Istituto previdenziale (INPS) proposto nei confronti di una donna che, vedova dal 1967, era passata a nuove nozze con solo rito religioso, nel 1983, usufruendo della pensione di reversibilità del primo marito anche in seguito al "nuovo matrimonio".

Nell'anno 1998 i "nuovi coniugi" provvedono alla trascrizione del matrimonio presso i registri di stato civile.

A questo punto interviene l'INPS che provvede a comunicare alla donna di aver indebitamente percepito le rate della pensione di reversibilità per 15 anni, e manifestando, ovviamente, la propria intenzione di recuperare il credito vantato.

Si passa al giudice del lavoro al quale la donna ricorre chiedendo che venisse accettata l'illegittimità del recupero del credito dall'INPS; il tribunale accoglie la domanda e la decisione viene confermata anche dai giudici di secondo grado.

I giudici di secondo grado avevano preso la loro decisione basandosi sul fatto che …."la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva del matrimonio canonico, prevista dalla legge di ratifica dell'Accordo tra l'Italia e la Santa sede, riguardava esclusivamente i rapporti dei coniugi tra loro e non aveva alcuna incidenza nei confronti dei terzi, quale doveva ritenersi l'INPS".

La questione a questo punto viene spostata dinanzi all'attenzione della Suprema Corte che accoglie le doglianze dell'INPS affermando nello specifico che "il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione".

Continua ancora il collegio che tale principio "non soffre deroga in caso di trascrizione tardiva, restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi".



4. Conclusioni
Nella pronuncia commentata la Suprema Corte ha avuto modo di mettere un punto fermo su una delle questioni processuali più spinose del nostro ordinamento, precisando una volte per tutte che la conseguenza della trascrizione tardiva del matrimonio religioso e della cessazione dello stato vedovile al momento della celebrazione del matrimonio religioso, è il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto poiché, ai sensi dell'art. 3 del decreto luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 il diritto alla pensione di reversibilità cessa per sopravvenuto matrimonio.

In seguito a quanto pronunciato dai giudici di legittimità, quindi, perde il diritto alla reversibilità il coniuge superstite che contrae nuovo matrimonio (religioso).

Questo accade anche nella ipotesi in cui la trascrizione dello stesso nei registri dello stato civile sia avvenuta in ritardo poiché gli effetti della trascrizione retroagiscono fino dalla data della celebrazione.

Risulta, di conseguenza, illegittima l'eventuale percezione della pensione di reversibilità da parte del coniuge superstite risposatosi il cui nuovo matrimonio sia stato trascritto tardivamente.


 
5. Precedenti giurisprudenziali
In materia si possono segnalare svariati precedenti sui quali la giurisprudenza ha posto la propria attenzione; tra questi meritano di essere segnalate alcune sentenze in particolare, ovvero la Cassazione (sez. I civ. 19.06.2001, n. 8312), che intervenendo in ambito ha tenuto a precisare che "la norma di cui all'articolo 8 Conc. 11.02.1929, con la Santa Sede, comporta l'inefficacia civile del matrimonio concordatario e la conseguente inefficacia riflessa delle eventuali convenzioni patrimoniali tra coniugi inserite nell'atto di matrimonio canonico…. La dichiarazione dei coniugi in ordine alla scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni, che può essere inserita nell'atto di matrimonio canonico, è collegata al matrimonio canonico, nell'ambito del quale essa viene effettuata da un rapporto di accessorietà. Una volta che la dichiarazione venga resa dai coniugi, essa rientrerà negli effetti civili del matrimonio canonico che sono riconosciuti a condizione che l'atto di matrimonio sia trascritto nei registri dello stato civile. Ma, se la trascrizione non può aver luogo, non possono essere riconosciuti effetti civili né al matrimonio né alla dichiarazione in ordine alla separazione dei beni effettuata all'atto della celebrazione dello stesso".

Sempre la Suprema Corte in tema di trascrizione tardiva (cfr. Cass. 4359 del 26 marzo 2001, sez. II), ha stabilito che "La trascrizione "post mortem" del matrimonio canonico non pregiudica i diritti successori personali e patrimoniali anteriormente acquisiti dagli eredi del coniuge defunto, avendo la trascrizione effetto retroattivo soltanto nei confronti dei coniugi, come risulta dalla chiara lettera del terzo comma dell'art. 14 della legge 27 maggio 1929, n. 847".


Manuela Rinaldi


Avvocato - Prof. Diritto del lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, sede dist. Avezzano

________


(1) Così GALLI L., La pensione di reversibilità: il concorso tra coniuge superstite e coniuge divorziato, in www.diritto.it


(2) GALLI, op. cit.


Pensione di reversibilità: E ... Se ci si risposa solo con rito religioso ???

Diritto alla pensione di reversibilità: cessazione per sopravvenuto matrimonio (Cass. civ., n. 9464/2010)

M. Rinaldi (Nota a sentenza 17/5/2010)

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 21 aprile 2010, n. 9464 - Pres. Sciarelli - Rel. D'Agostino

Massima

Nella ipotesi di trascrizione tardiva del matrimonio religioso, il diritto del coniuge superstite e beneficiario della pensione di reversibilità non viene riconosciuto.
Neppure in caso di cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, poiché il sopra citato diritto viene a mancare a causa del sopravvenuto matrimonio.
Pertanto, la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva è che l'eventuale stato vedovile del coniuge viene meno dal momento della celebrazione del matrimonio religioso, di conseguenza la "perdita dello status di vedovo" fa venir meno anche il diritto alla pensione di reversibilità dal momento della celebrazione del matrimonio.

DIRITTO ALLA PENSIONE DI REVERSIBILITA': CESSAZIONE PER SOPRAVVENUTO MATRIMONIO
1. Premessa
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte ha provveduto ad esaminare uno degli argomenti spinosi del diritto del lavoro, in materia previdenziale e assistenziale, "intrecciato" con il diritto di famiglia nei rapporti tra coniugi.
Nella sentenza de quo i giudici di legittimità hanno precisato che la pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile del beneficiario.
Deve, pertanto, restituire quanto percepito la titolare della pensione di reversibilità INPS in seguito a matrimonio trascritto tardivamente (inizialmente non trascritto nei registri dello stato civile), e deve farlo a partire dalla data di celebrazione del matrimonio stesso.
In pratica, come hanno precisato i giudici di legittimità "la trascrizione tardiva del matrimonio religioso e la cessazione dello stato vedovile al momento della sua celebrazione, comporta il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto".
La norma richiamata dai giudici era l'articolo 8, comma 5, della legge n. 121/1985 il quale dispone che "…………La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, …………….".
In base alla sopra citata norma, quindi, è possibile evincere che il matrimonio religioso (a seguito di trascrizione) ha effetti civili a partire dalla data della celebrazione: e un simile principio non può essere certo derogato nella ipotesi di una trascrizione tardiva.
La pensione di reversibilità ha come presupposto quello dello stato vedovile e, pertanto, appena perduto tale stato, si perde automaticamente anche il diritto alla prestazione stessa a partire dalla data di celebrazione del nuovo matrimonio (non essendo più dovuta da tale momento la pensione).

2. La pensione di reversibilità: i presupposti
Le prestazioni pensionistiche si inseriscono nel quadro generale della previdenza sociale e sono costituite da quattro erogazioni fondamentali:
- la pensione di vecchiaia per i lavoratori autonomi;
- la pensione di vecchiaia per i lavoratori dipendenti;
- la pensione di anzianità;
- la pensione ai superstiti.
La pensione ai superstiti è quella che a noi interessa per l'oggetto della pronuncia in commento.
La pensione ai superstiti può rivestire due forme: indiretta e di reversibilità.
Quest'ultima spetta al defunto il quale fosse già titolare di pensione diretta (vecchiaia, inabilità, anzianità). Essa spetta, altresì, al coniuge separato e divorziato che ha diritto a tale pensione purché ricorrano le seguenti condizioni:
a) sia titolare di assegno di divorzio;
b) non si sia risposato;
c) l'ex coniuge abbia iniziato l'assicurazione presso l'INPS prima della sentenza di scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La L. 74/87 prevede, inoltre, che il coniuge divorziato abbia diritto alla pensione anche se il defunto si sia risposato e sia in vita il nuovo coniuge. In questo caso, però, l'INPS non paga automaticamente la pensione ma deve attendere una specifica sentenza del tribunale che divida la pensione tra i due interessati (coniuge ed ex coniuge) in proporzione alla durata del matrimonio di ciascuno (1).

2.1. La normativa di riferimento
Per quanto di interesse nella nostra trattazione, appare opportuno precisare che la questione è disciplinata dal secondo e terzo comma dell'art. 9, L. 898/70, come riformato dalla L. 74/87.
Il secondo comma dell'art. 9 della sopra citata legge dispone che il coniuge divorziato "in caso di morte dell'ex coniuge ed in assenza di un coniuge superstite, avente i requisiti per la pensione di reversibilità, ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza". Il terzo comma dispone, invece, che "qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5........".
I presupposti fondamentali a cui è subordinata la pensione di reversibilità del coniuge divorziato:
a) L'autonomia e la pari concorrenzialità con l'altro coniuge sottraggono alla discrezionalità del giudice la determinazione dell'attribuzione della pensione di reversibilità;
b) La norma non prevede la subordinazione del trattamento allo stato di bisogno del coniuge divorziato. Infatti, pur prevedendo quale requisito fondamentale per il riconoscimento al trattamento la titolarità dell'assegno di cui all'art. 5 (assegno divorzile), svincola la concreta attribuzione ai parametri che fondano il riconoscimento di quell'assegno (appunto lo stato di bisogno); analogo discorso vale per la determinazione del "quantum", attribuito qualunque sia l'ammontare dell'assegno divorzile, anche se minimo o meramente simbolico;
c) Ulteriore requisito consta nell'anteriorità della sentenza di divorzio al rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico (2).
In tema di trascrizione, l'articolo 8, comma 5 della legge n. 121/1985 dispone: il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l'ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto.
Il successivo comma 6 della legge stabilisce: la trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l'opposizione dell'altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente Io stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi"
In conseguenza di ciò si evince che il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione.
Tale principio non "può soffrire" deroga in caso di trascrizione tardiva (oltre i cinque giorni previsti dal terzo comma) restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi.
La retroattività degli effetti civili opera, sia nei confronti dei coniugi che dei terzi, a tutti gli effetti, ma comunque senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquistati dai terzi.

 
3. La vicenda
La vicenda può essere riassunta come segue:
la Cassazione accoglie il ricorso dell'Istituto previdenziale (INPS) proposto nei confronti di una donna che, vedova dal 1967, era passata a nuove nozze con solo rito religioso, nel 1983, usufruendo della pensione di reversibilità del primo marito anche in seguito al "nuovo matrimonio".
Nell'anno 1998 i "nuovi coniugi" provvedono alla trascrizione del matrimonio presso i registri di stato civile.
A questo punto interviene l'INPS che provvede a comunicare alla donna di aver indebitamente percepito le rate della pensione di reversibilità per 15 anni, e manifestando, ovviamente, la propria intenzione di recuperare il credito vantato.
Si passa al giudice del lavoro al quale la donna ricorre chiedendo che venisse accettata l'illegittimità del recupero del credito dall'INPS; il tribunale accoglie la domanda e la decisione viene confermata anche dai giudici di secondo grado.
I giudici di secondo grado avevano preso la loro decisione basandosi sul fatto che …."la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva del matrimonio canonico, prevista dalla legge di ratifica dell'Accordo tra l'Italia e la Santa sede, riguardava esclusivamente i rapporti dei coniugi tra loro e non aveva alcuna incidenza nei confronti dei terzi, quale doveva ritenersi l'INPS".
La questione a questo punto viene spostata dinanzi all'attenzione della Suprema Corte che accoglie le doglianze dell'INPS affermando nello specifico che "il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione".
Continua ancora il collegio che tale principio "non soffre deroga in caso di trascrizione tardiva, restando indifferente che il ritardo sia dipeso da fatto dell'ufficiale di stato civile o da volontà dei coniugi".

4. Conclusioni
Nella pronuncia commentata la Suprema Corte ha avuto modo di mettere un punto fermo su una delle questioni processuali più spinose del nostro ordinamento, precisando una volte per tutte che la conseguenza della trascrizione tardiva del matrimonio religioso e della cessazione dello stato vedovile al momento della celebrazione del matrimonio religioso, è il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto poiché, ai sensi dell'art. 3 del decreto luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 il diritto alla pensione di reversibilità cessa per sopravvenuto matrimonio.
In seguito a quanto pronunciato dai giudici di legittimità, quindi, perde il diritto alla reversibilità il coniuge superstite che contrae nuovo matrimonio (religioso).
Questo accade anche nella ipotesi in cui la trascrizione dello stesso nei registri dello stato civile sia avvenuta in ritardo poiché gli effetti della trascrizione retroagiscono fino dalla data della celebrazione.
Risulta, di conseguenza, illegittima l'eventuale percezione della pensione di reversibilità da parte del coniuge superstite risposatosi il cui nuovo matrimonio sia stato trascritto tardivamente.

 
5. Precedenti giurisprudenziali
In materia si possono segnalare svariati precedenti sui quali la giurisprudenza ha posto la propria attenzione; tra questi meritano di essere segnalate alcune sentenze in particolare, ovvero la Cassazione (sez. I civ. 19.06.2001, n. 8312), che intervenendo in ambito ha tenuto a precisare che "la norma di cui all'articolo 8 Conc. 11.02.1929, con la Santa Sede, comporta l'inefficacia civile del matrimonio concordatario e la conseguente inefficacia riflessa delle eventuali convenzioni patrimoniali tra coniugi inserite nell'atto di matrimonio canonico…. La dichiarazione dei coniugi in ordine alla scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni, che può essere inserita nell'atto di matrimonio canonico, è collegata al matrimonio canonico, nell'ambito del quale essa viene effettuata da un rapporto di accessorietà. Una volta che la dichiarazione venga resa dai coniugi, essa rientrerà negli effetti civili del matrimonio canonico che sono riconosciuti a condizione che l'atto di matrimonio sia trascritto nei registri dello stato civile. Ma, se la trascrizione non può aver luogo, non possono essere riconosciuti effetti civili né al matrimonio né alla dichiarazione in ordine alla separazione dei beni effettuata all'atto della celebrazione dello stesso".
Sempre la Suprema Corte in tema di trascrizione tardiva (cfr. Cass. 4359 del 26 marzo 2001, sez. II), ha stabilito che "La trascrizione "post mortem" del matrimonio canonico non pregiudica i diritti successori personali e patrimoniali anteriormente acquisiti dagli eredi del coniuge defunto, avendo la trascrizione effetto retroattivo soltanto nei confronti dei coniugi, come risulta dalla chiara lettera del terzo comma dell'art. 14 della legge 27 maggio 1929, n. 847".

Manuela Rinaldi

Avvocato - Prof. Diritto del lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, sede dist. Avezzano
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(1) Così GALLI L., La pensione di reversibilità: il concorso tra coniuge superstite e coniuge divorziato, in www.diritto.it

(2) GALLI, op. cit.

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